
Premessa
Una lunga riflessione dedicata alle Tesi sulla storia di Walter Benjamin fu pubblicata su questo blog nel novembre del 2023 nella rubrica Critica del pensiero unico. Una prima parte dal titolo La speranza possibile si trova anche nella rubrica Dopo il diluvio sulla rivista online Overleft: www.overleft.it.
Mi ritrovo oggi a pensare che gli avvenimenti politici accaduti nel frattempo e culminati nel tentativo in atto di genocidio della popolazione palestinese di Gaza e nell’elezione di Trump, richiedano una revisione di quelle riflessioni. Per certi aspetti l’attualità delle tesi è ancora più cogente rispetto a un anno fa, ma i cambiamenti avvenuti nel frattempo ne hanno pure messo in evidenza alcune parti datate. Mi sembrerebbe di tradire proprio il pensiero di Benjamin il non tenerne conto. Proprio nelle tesi infatti, il suo pensiero antistoricista diventa ancora più radicale di quanto non lo fosse già nei saggi dedicati al teatro di Brecht. Senza entrare troppo nel merito di questo argomento, peraltro ampiamente trattato nei saggi precedenti, basterà dire qui che per Benjamin lo storicismo è una sorta di apologia della storia, acritica e asettica, che tende a porre sul piano orizzontale tutti gli eventi, celebrandoli tutti, ma così facendo si sceglie in definitiva il punto di vista del vincitore. Questo, per Benjamin, vale per tutta la documentazione storica e quindi deve essere applicata anche a lui stesso come produttore a sua volta di storia e di tesi sulla storia. Rivedere tuttavia non significa cancellare e infatti questa nuova riflessione non elimina i saggi precedenti ma neppure li integra. Piuttosto, il tentativo è di cambiare il punto di vista.
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I tragici tempi di guerra che stiamo vivendo sono assai simili a quelli che spinsero Benjamin a scrivere le tesi sulla storia, il suo testamento spirituale. Quello che mi ha sempre colpito e continua colpirmi di tale testo, è la capacità del suo autore di mantenere acceso un lume di pensiero critico, di sapienza del cuore e di speranza, nel momento più buio della storia del ‘900. Rileggere oggi quelle parole e meditarle può forse aiutarci a non cadere del tutto in un senso di impotenza che sembra sovrastarci senza alcuna via d’uscita. Affermare che esiste un’analogia fra gli anni appena precedenti la seconda guerra mondiale e il nostro presente implica però un chiarimento preliminare. L’analogia è un grande strumento di conoscenza, a mio avviso; ma solo se la si tratta con circospezione e nel caso specifico essa è necessaria perché sono proprio gli aspetti che considero datati a indicare la distanza e la differenza con la situazione attuale.
Le tesi sulla storia sono un testo estremo, scritto di getto, eppure in sintonia con una riflessione che viene da lontano, lungamente elaborata e carsica, oscura in alcune parti, di una densità magmatica, i cui prodromi risalgono molto indietro nel tempo e cioè alle discussioni con Ernst Bloch da cui nacque il Frammento teologico politico del 1920. Gli eventi tragici del biennio 1939-40 offrirono a Benjamin il contesto per giungere a una sintesi di quel percorso, perché segnarono la fine alle speranze di un cambiamento radicale che anche Benjamin aveva accolto come possibile. Con la seconda guerra mondiale e le sue conclusioni nascerà il mondo di Yalta e nel 1947 la declinazione atlantica dell’occidente, che proprio l’elezione di Trump e la disperante e bellicosa impotenza dell’unione europea hanno messo in discussione in questi giorni concitati.
Al grado zero della speranza
Dalla decima tesi. (traduzione einaudiana dal libro Angelus novus ndr).
Gli oggetti che la regola dei conventi dava in meditazione ai fratelli, avevano il compito di distoglierli dal mondo e dalle sue faccende. Il pensiero che svolgiamo qui nasce da una determinazione analoga. Esso si propone, nel momento in cui i politici in cui avevano sperato gli avversari del fascismo, giacciono a terra e ribadiscono la disfatta col tradimento della loro causa, […] di dare l’idea di quanto deve costare, al nostro pensiero abituale, una concezione della storia che eviti ogni complicità con quella a cui quei politici continuano ad attenersi.
Dopo aver introdotto in alcune tesi precedenti, improvvisamente Benjamin compie qui una mossa laterale. Veniamo trasportati in una nicchia conventuale e invitati a disfarci del mondo e delle sue faccende; ma dopo aver ribadita tale necessità facendone addirittura il motivo che lo ha spinto a scrivere l’opera, ecco che, nella frase successiva, la storia rientra in scena con tutta la sua brutalità. Le tesi sono state scritte nel 1940, pochi mesi dopo la firma del patto scellerato Ribbentropp Molotov, mentre tutta l’Europa e in particolare la Francia, dove Benjamin si trova, è sconfitta e umiliata dalla nascita del governo di Vichy. Il teatro mondano è dunque sempre presente e incombente quanto mai. Benjamin non ci sta dunque invitando a una fuga dalla realtà, ma a tentare la strada di una sua comprensione più profonda. È un atteggiamento di sospensione del giudizio e un togliersi dalla lettera degli eventi, ma anche un modo per prendere definitivamente le distanze dalle pratiche precedenti, anche quelle che lo stesso Benjamin aveva seguito fino ad allora. Affrancarsi dal proprio pensiero abituale precedente è doloroso e necessario: come sopportare tutto ciò? La regola conventuale suggeriva di farlo con oggetti che hanno il compito di distogliere e distrarre: cose qualunque, che ognuno di noi può trovare anche oggi dove meglio crede. Ciò che distrae aiuta a pagare quel prezzo perché lo rende sopportabile nel tempo e questo crea una nuova abitudine che distoglie dai trucchi del pensiero precedente la cesura, un tempo nel quale anche Benjamin aveva collocato una speranza che si è trasformata in un’illusione. La concezione della storia cui allude la parte finale della tesi e con cui non bisogna colludere è lo storicismo. Nella tesi ottava troviamo una maggiore concretizzazione del significato che Benjamin attribuisce alla parola:
La tradizione degli oppressi c’insegna che lo “stato d’emergenza” in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponde a questo. Allora ci starà davanti, come nostro compito, di suscitare il vero stato d’eccezione […] Lo stupore per le cose che noi viviamo e sono “ancora” possibili nel ventesimo secolo è tutt’altro che filosofico. Non è all’inizio di alcuna conoscenza, se non di quella che l’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi. (traduzione einaudiana ndr)
Il soggetto della frase iniziale – la tradizione degli oppressi – ci permette di capire che lo stato d’emergenza (der ”Ausnahmezustand“) di cui scrive Benjamin non è lo stato d’eccezione (der Ausnahmetatbestand) di Karl Schmitt, di cui si parla molto in quegli anni. È una mutazione linguistica che riveste grande importanza anche per noi. Il linguaggio significa molto e saper evitare la parole di plastica è sempre importante ma diventa decisivo a fronte di cambiamenti storici radicali.1 Per i dannati e le dannate della terra lo stato d’emergenza è regola sociale costante e non ingegneria istituzionale di un momento. La vera eccezione sarebbe, seguendo il ragionamento di Benjamin, il rovesciamento della normalità oppressiva ed è questo l’obiettivo cui dovrebbe tendere chi vuole modificare lo stato di cose presenti. Per poterlo fare, tuttavia, occorre prima di tutto liberarsi di un’idea di storia, quella che possiamo riassumere in una frase tipica che avremo sentito centinaia di volte in momenti diversi delle nostre vite: “Ma come, succedono ancora queste cose nel 2025?”. Tale sgomento, come afferma Benjamin, non apre ad alcuna conoscenza, ma la impedisce. La storia lineare o a spirale che sia, ma sempre orientata secondo la freccia del tempo e sempre in senso progressista è il bersaglio di questa tesi e lo sarà in altre, una in particolare, la settima.
Tesi settima. Traduzione da L’ospite ingrato. Con questa tesi cosa intende Benjamin per storicismo appare in tutta la sua radicalità.
Foustel de Coulange raccomanda, allo storico che vuole rivivere un’epoca, di togliersi dalla testa tutto ciò che sa del corso successivo della storia. Meglio non si potrebbe designare il procedimento con il quale il materialismo storico ha rotto. È un procedimento di immedesimazione emotiva. La sua origine è l’ignavia del cuore, l’acedia, che dispera d’impadronirsi dell’immagine storica autentica, che balena fugacemente. Per i teologi del Medio Evo essa era il fondamento originario della tristezza. Flaubert, che ne aveva conoscenza, scrive: “Poche persone indovinerebbero fino a che punto bisogna essere tristi per resuscitare Cartagine”. La natura di questa tristezza diventa più chiara se ci si chiede con chi poi propriamente s’immedesimi lo storiografo dello storicismo. La risposta suona inevitabilmente: con il vincitore. […] L’immedesimazione con il vincitore torna perciò sempre a vantaggio dei dominatori di turno. Con ciò, per il materialista storico si è detto abbastanza. Chiunque abbia riportato fino ad ora vittoria partecipa al corteo trionfale in cui i dominatori di oggi passano sopra quelli che oggi giacciono a terra. Anche il bottino, come si è sempre usato, viene trasportato nel corteo trionfale. Lo si designa come il patrimonio culturale. Esso dovrà tener conto di avere nel materialista storico un osservatore distaccato. Infatti, tutto quanto egli coglie, con uno sguardo d’insieme, del patrimonio culturale, gli rivela una provenienza che non può considerare senza orrore. Tutto ciò deve la sua esistenza non solo alla fatica dei grandi geni che l’hanno fatta, ma anche al servaggio senza nome dei loro contemporanei. Non è mai un documento della cultura senza essere insieme un documento alla barbarie. E come non è esente da barbarie esso stesso, così non lo è neppure il processo di trasmissione per cui è passato dall’uno all’altro. Il materialista storico quindi, ne prende le distanze da esso nella misura del possibile. Egli considera suo compito spazzolare la storia contropelo.
Il pregio di questa tesi è di essere chiara, oltre ogni dubbio ragionevole; ma tale chiarezza ne aumenta la complessità. Al centro della tesi, c’è quell’autentico cammeo incastonato nel mezzo, la citazione di Flaubert: resuscitare Cartagine! Perché questa citazione così sorprendente? La scelta di Flaubert e di Benjamin cade su una città simbolo di una sconfitta ingiusta, atroce e persino gratuita. Tuttavia, rimane un dubbio: in che cosa possiamo trovare utilità o consolazione nel resuscitare Cartagine nel ventunesimo secolo? Se pensiamo a Gaza, forse riusciamo a comprenderlo meglio. Per avere diritto a una ribellione che sia davvero tale, bisogna arrivare a una tristezza abissale, cioè una tristezza senza scopo e altrettanto gratuita quanto l’amore disinteressato e non orientato al possesso: perché anche nell’ingiustizia della storia esistono gradazioni diverse. Si può essere tristi a metà di fronte a certe situazioni del passato, ma solo se si riesce a provare una tristezza che le comprende tutte le ingiustizie, allora si può voler resuscitare, Cartagine; o forse anche Troia, cioè due entità per le quali è difficile provare un’empatia che serva a uno scopo. Nel nostro presente è il silenzio criminale dell’Unione Europea attuale su Gaza e tutta la Palestina a dirci perché occorre voltarle spalle: quanto alla complicità di Trump essa va data per scontata. Solo rimanendo accanto a chi è ultima fra gli ultimi si ha diritto al riscatto e nella dodicesima tesi questo emerge con chiarezza, anche se la tesi va emendata da alcuni tratti datati:
Il soggetto della conoscenza storica è […] la classe oppressa che lotta […] ma essa si nutre del ricordo dei nostri antenati
L’importanza della tesi sta nel rovesciamento di un luogo comune consolidato: è l’immagine degli antenati oppressi e non quella delle generazioni future e di un futuro di cui nulla sappiamo e possiamo sapere, che può spingere all’indignazione e alla lotta. La tesi è certamente sconcertante, ma Benjamin la riempie di concretezza e di esemplificazioni. Si può ritornare ora alla tesi precedente con ben altra cognizione di causa e possibilità di comprendere quanto sia radicale la critica di Benjamin allo storicismo e come egli intende tale parola, che perde nelle sue riflessioni quelle connotazioni tecniche, che pure ha del tutto legittimamente per uno storico di professione, per assumerne altre. Lo storicismo per Benjamin significa fare propria la finzione di scorporare il cosiddetto patrimonio culturale dalle condizioni materiali e di oppressione che lo hanno reso possibile. Tale finzione si avvale dell’immedesimazione emotiva con il vincitore e dell’acedia, cioè l’ignavia del cuore.2 La sua non è soltanto una critica del modello eroico, cioè della storia rappresentata come una sfilata di eroi, quasi sempre e solo uomini peraltro. Affermare che ogni documento di civiltà è anche un documento di barbarie, rompe qualsiasi sudditanza basata sulla continuità storica e, pur sapendo egli stesso che non è possibile raggiungere questo obiettivo in senso assoluto (Il materialista storico quindi, ne prende le distanze da esso nella misura del possibile), questa è l’unica strada che permette di creare uno spazio mentale vuoto o quasi vuoto, nel quale collocare l’ipotesi di una speranza possibile. Le radici recenti di questo capovolgimento si trovano negli scritti appena precedenti le tesi.3 Ripensando al discorso intorno allo stato di emergenza, ecco come in un passaggio della terza Tesi troviamo una prima e importante implicazione.
Il cronista che racconta gli avvenimenti, senza distinguere fra grandi e piccoli, tiene conto della verità che per la storia nulla di ciò che è avvenuto deve essere mai dato per perso.
In sostanza, nella storia non vi può essere niente che sia minore rispetto ad altro: è solo la selezione fatta dal vincitore che crea tale illusione ottica ed è solo distanziandosi dall’appiattimento storicista che ne deriva, che si colgono invece i rilievi, le increspature, le cesure, le figure considerate minori. Sempre nella terza tesi Benjamin fa un elogio dei cronisti medioevali, proprio perché non distinguevano fra grandi e piccoli eventi, ma registravano – per quanto potevano – tutto.4 Comunque, occorre chiarire subito che tali affermazioni non preludono a una riscrittura consolatoria della storia, dalla parte degli sconfitti o dei perdenti: non è questo che Benjamin intende dire. Decidere di non far parte del coro e di non salire sul carro che accompagna il vincitore, non significa un generico ed empatico stare dalla parte delle vittime. Lo aveva già chiarito in una tesi già citata dove è la classe che lotta – noi diremmo meglio il soggetto o i soggetti che lottano e resistono – ad avere titoli per rileggere la storia contropelo: non basta essere dei generici oppressi che se ne stanno tranquilli nella loro oppressione e resilienza, un termine semplicemente terribile, che celebra semplicemente la capacità di sopportare senza ribellarsi. Benjamin non è un cripto cristiano, tanto meno un cattolico e se la teologia ha uno spazio nella sua riflessione, essa è tutt’altra. Il suo affondo nei confronti della morale protestante e la sua radicale critica a Max Weber li troviamo in un passaggio dell’undicesima tesi che però riguarda anche noi e un certo modo di non prendere atto della realtà:
[…] La vecchia morale protestante del lavoro festeggiava, in forma secolarizzata, la sua resurrezione fra gli operai tedeschi […]
Ciò cui allude Benjamin non è solo una filosofia della storia, ma è lavoro salariato scambiato per lavoro tout court e considerato come appendice allo sviluppo tecnico positivo in sé: la negazione che questo abbia anche un valore politico, cioè di essere una strada verso l’emancipazione, è decisiva per comprendere quanto Benjamin afferma subito dopo.
Nel miglioramento del lavoro sta la ricchezza. Questo concetto volgar marxistico non si sofferma a lungo sulla questione di come il prodotto del lavoro agisca sui lavoratori stessi finché essi non ne possono disporre: vuol dire tener conto solo dei progressi nel dominio della natura, non dei regressi della società. […] Confrontate con questa concezione positivistica le fantasticherie che tanto hanno contribuito alla irrisione di Fourier mostrano di avere un loro senso profondamente sano. Secondo Fourier il lavoro sociale ben organizzato, avrebbe avuto come conseguenza che quattro lune illuminassero la notte terrestre, il ghiaccio si ritirasse ai poli, il mare avrebbe perso la salinità e gli animali feroci al servizio degli uomini. Tutto ciò illustra un lavoro ben lontano dallo sfruttare la natura, ma di sgravarla delle creazioni che, in quanto possibili, sono sopite nel suo grembo. Al concetto corrotto di lavoro appartiene come suo complemento quella natura che, come ha detto Ditzgen: è là gratuitamente”.
L’occhio di Benjamin vede qui davvero lontano: non neutralità della scienza e saccheggio della natura, falso progressismo che si traduce in regresso della società sono i nostri scenari quotidiani, ottant’anni dopo queste parole. L’azione congiunta delle politiche globaliste e della deregulation economica è lo scenario che dalla presidenza di Bill Clinton in poi ha portato al disastro attuale. Trump è il sintomo del fallimento delle politiche globaliste neoliberali piuttosto che una risposta. Quanto all’Europa son stati spesso proprio i governi di centro sinistra o di Grosse Koalition a guidare questi processi, verniciando con la retorica dei diritti umani separati da quelli sociali, la privatizzazione selvaggia, i tagli alla spesa pubblica e al welfare. Ora che Trump sembra intenzionato a chiudere questa fase, l’Unione Europea e le forze maggiormente legate ai democratici statunitensi oscillano fra balbettii e spinte al riarmo.
Seconda parte: l’utopia come speranza.
In questa seconda e ultima parte Benjamin tenta la strada impervia di mantenere viva la debole luce della speranza nel momento più buio della storia europea del secolo scorso: è mutatis mutandi, quello che la storia attuale richiede anche a noi di fare. Nella parte finale della dodicesima tesi e in quella della seconda Benjamin pone il problema in questo modo:
[…] esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra. Allora noi siamo stati attesi sulla terra. Allora a noi, come a ogni altra generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una debole forza messianica, a cui il passato ha diritto. Questo diritto non si può eludere a poco prezzo. Il materialista storico ne sa qualcosa.
Ci sono alcuni nodi importanti in questo passaggio. Il primo lo abbiamo già incontrato: sono le generazioni passate e non quelle future che richiedono di essere riscattate e che affidano a noi e si aspettano da noi che ci adoperiamo in quel senso. La forza che ci hanno affidato con il loro esempio è debole e messianica e su questi due termini sarà necessario ragionare a lungo perché l’ossimoro è assai intrigante. Nel parlare di una forza debole Benjamin prende di nuovo le distanze dal modello eroico: è un tema che compare anche nel saggio del ’39 sul teatro epico. Non vi è alcuna forma di titanismo nell’idea di lotta di cui Benjamin si fa portatore, né nella sua versione romantica e neppure in quella positivista di cui si è già detto. Perché messianica allora? Perché la possibilità di agire ha un limite temporale per qualunque generazione, ma l’orizzonte di tale azione si colloca oltre perché non può che essere orientato a riscattare tutta la storia, come afferma la terza tesi, in parte già citata:
Il cronista che racconta gli avvenimenti, senza distinguere fra grandi e piccoli, tiene conto della verità che per la storia nulla di ciò che è avvenuto deve essere mai dato per perso. Certo, solo a un’umanità redenta, tocca in eredità piena il suo passato. Il che vuol dire: solo a una umanità redenta il passato è divenuto citabile in ciascuno dei suoi momenti. Ognuno dei suoi attimi vissuti diventa una citation a l’ordre du jour – giorno che è appunto il giorno del giudizio.
Dunque l’orizzonte appartiene al messianico perché eccede la storicità, mentre la forza è debole perché può essere adoperata in un tempo che è segnato dal limite. Tuttavia, non si può rinunciare all’orizzonte più lontano, altrimenti ci si accontenta di riscatti parziali. Avrebbe potuto scrivere utopico invece che messianico? In teoria sì, ma se ricostruiamo il pensiero di Benjamin, l’uso del termine appare alla fine necessario. Lo si comprende meglio considerando altre due tesi che ci traghetteranno verso una delle due finali, aggiunte all’ultimo momento.
Tesi quinta, nella traduzione di Einaudi. Nel Manuskript Arendt è la tesi n. 4.5
La vera immagine del passato passa di sfuggita. Solo nell’immagine, che balena una volta per tutte proprio nell’attimo della sua conoscibilità, si lascia fissare il passato. […] Poiché è un’immagine non revocabile del passato quella che rischia di svanire con ogni presente che non si riconosca significato, indicato in esso. (La lieta novella che lo storico del passato porta senza respiro, viene da una bocca che forse, già nel momento in cui si apre, parla nel vuoto).
Il pensiero si fa strada con difficoltà e qualche oscurità che la traduzione einaudiana non aiuta a dissipare e neppure l’altra: mi affido alla lingua originale. Per vera immagine (wahre Bild) egli intende quella che ci rivela qualcosa che rompe il continuum storicista: è l’immagine che colpisce gli occhi (Augenblick) e come tale guizza via (huscht vorbei). Vero, non va dunque assunto qui nel suo significato letterale, ma in quello di esemplare ed emblematico. Tale immagine rischia di scomparire se non trova significato nel presente, cioè se non trova qualcuno che la salvi dall’oblio e ne riconosca il senso nell’oggi. La chiusa fra parentesi ribadisce in altro modo che si tratta di un’immagine appena vista e che scompare, come i sogni al mattino; oppure una voce che parla nel vuoto o nel deserto.
La sesta Tesi ribadisce la quinta aggiungendovi qualcosa in più:
Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo proprio come è stato davvero. Vuole dire impossessarsi di un ricordo così come balena in un attimo di pericolo. Per il materialista storico l’importante è trattenere un’immagine del passato nel modo in cui s’impone imprevisto nell’attimo del pericolo, che minaccia tanto l’esistenza stessa della tradizione quanto i suoi destinatari […] In ogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di soggiogarla. […]
Arriviamo così alla diciassette A, una tesi molto complessa: essa è riportata solo nell’edizione tratta dal quaderno 3 de L’ospite ingrato pubblicata da Quodlibet, che ne ricostruisce anche la storia.
Nell’idea della società senza classi Marx ha secolarizzato l’idea del tempo messianico; ed era giusto così.6
Tale incipit permette di comprendere la necessità di usare il termine messianico e non utopico, poi così prosegue:
In realtà non vi è un solo attimo che non rechi con sé la propria chance rivoluzionaria. Essa richiede soltanto di essere intesa come una chance specifica, ossia come chance di una soluzione del tutto nuova, prescritta da un compito del tutto nuovo. Per il pensatore rivoluzionario la peculiare chance rivoluzionaria trae conferma da una data situazione politica. Ma per lui non trae minor conferma dal potere delle chiavi che un attimo possiede su una … stanza del passato, fino ad allora chiusa. L’ingresso in questa stanza coincide del tutto con l’azione politica: ed è ciò per cui essa, per quanto distruttiva possa essere, si dà come azione messianica.
La novità di questo passaggio sta nel raccogliere un’ipotesi che altri avevano già formulato su Marx, ma dandole un senso completamente diverso. Il Marx di Benjamin ha effettivamente secolarizzato il tempo messianico e per questa ragione non avrebbe potuto usare un termine come utopico. Non solo, ma per il filosofo era giusto così . Mi servirò allora di un’analogia con il cristianesimo. Pensando al tempo messianico, Gesù per i cristiani è colui che afferma: sono io quello che attendevate. Dunque l’incarnazione della divinità e tutto ciò che ne consegue, compresi i rimandi alle scritture che avrebbero profetizzato il suo arrivo. Il Marx di Benjamin risponde in modo categorico a una diversa domanda che si potrebbe formulare così: Quando sarà il tempo dei profeti? Adesso, qui e ora. La tesi B ci permette di capire in tutte le sue sfaccettature il retroterra ebraico di questa soluzione.
Tesi B traduzione da L’ospite ingrato. Nella traduzione di Einaudi è nominata come tesi 18 A e B.
Il tempo che gli indovini interrogavano […] da loro non era certo sperimentato né come omogeneo né come vuoto. Chi tiene presente questo forse giunge a farsi un’idea di come il tempo passato è stato sperimentato nella rammemorazione e cioè proprio così. È noto che agli ebrei era vietato investigare il futuro. La Torah e la preghiera li istruiscono invece alla rammemorazione. Cioè liberava per loro dall’incantesimo il futuro, quel futuro di cui sono succubi quando cercano il responso o di presso gi indovini. Ma non perciò il tempo diventò per gli ebrei un tempo omogeneo e vuoto, perché in esso ogni secondo era la piccola porta attraverso la quale poteva entrare il Messia.
Alcuni spunti conclusivi e qualche fantasticheria
Di fronte a questi esiti della riflessione la critica ha storto il naso rimproverando a Banjamin di non saper scegliere fra una visione laica della storia e una messianico-religiosa: è la stessa critica rivolta a Ernst Bloch. La seconda critica mossa a Benjamin è di avere introdotto una dimensione catastrofica nella sua visione della storia, che è rappresentata in modo così potente e definitivo nell’immagine dell’Angelo di Klee della celeberrima Nona tesi. La prima considerazione, a proposito dell’ultima osservazione, è che tale critica, ancora comprensibile quando fu avanzata, è improponibile oggi. Non vedere che il catastrofico è effettivamente entrato nelle nostre vite quotidiane diventa una forma di cecità. Esso va affrontato e riconosciuto come tale e fra l’altro questo è proprio il solo atteggiamento che permette di criticare invece il catastrofismo, che è cosa assai diversa dal riconoscimento e infatti esso si manifesta in modo assai pernicioso: la ricerca di spiegazioni strane, magiche e antiscientifiche, che sono peraltro tipiche dei momenti della storia in cui il pensiero critico batte in ritirata, lascia campo libero a spiegazioni irrazionali e reazionarie di ogni tipo. Le manifestazioni più estreme del clima, la distruzione dei sistemi sanitari e sociali, la ricorrente esplosione di epidemie (Ebola, Aviaria, Sars, Covid 19), su tempi brevi, l’insostenibilità di sistemi sociali che hanno generato povertà e rivolte in tutto il mondo, infine nel ritorno delle guerre che si susseguono dalla 1991 a oggi con intensità sempre crescenti e oggi rischiano di deflagrare, non sono sufficienti a delineare una deriva catastrofica? Tutto questo non è il risultato di qualche complotto ma è l’esito peraltro prevedibile del fondersi insieme di tre crisi: quella di un patriarcato che ha perso la sua egemonia ma non il suo potere, quella del turbo capitalismo finanziario in preda a continue convulsioni; infine, quella degli assetti geopolitici nati dopo la fine dell’unione sovietica: la declinazione atlantica del potere occidentale e il globalismo senza regola inaugurato dalla presidenza di Bill Clinton. A gettare allarmi e a denunciare la doppia tenaglia patriarcato-capitalismo non erano peraltro Cassandre improvvisate, né millenaristi d’occasione, ma scienziati e commentatori politici che non avevano ancora spento il barlume del pensiero critico dalle teste. Quanto al pensiero femminista nelle sue diverse declinazioni, le sue analisi ormai decennali a partire dagli anni ’70 costituiscono ormai a una consolidata tradizione. Queste voci non appartengono al mondo degli indovini – per citare Benjamin – ma a un bagaglio culturale e politico moderno di cui l’occidente è molto orgoglioso quando si tratta di gettarlo in faccia alle altre culture, con atteggiamenti di superiorità neo coloniale e razzista sostenuta soltanto dagli apparati militari e dal dollaro. Echi di questa mentalità sciovinista li abbiamo ascoltati anche nella recente manifestazione romana indetta da Michele Serra, negli interventi di Scurati, di Vecchioni e altri.
Quanto alla dimensione messianica del discorso di Benjamin credo lo si possa accogliere in questo modo. La sua affermazione Nell’idea della società senza classi Marx ha secolarizzato l’idea del tempo messianicova presa alla lettera. Marx secolarizza effettivamente il tempo messianico e dunque lo riporta nella storia: ma è il tempo ebraico, non quello cristiano – che è sempre un rimando a un secondo tempo, a un dopo che non arriva mai. Affermare che ogni istante può essere la porta in cui entra il Messia, non significa attenderlo, ma soltanto che il giorno del giudizio universale è sempre adesso e quindi sta nella storia e non alla fine dei tempi. Perciò Benjamin può scrivere:
In realtà non vi è un solo attimo che non rechi con sé la propria chance rivoluzionaria. Essa richiede soltanto di essere intesa come una chance specifica, ossia come chance di una soluzione del tutto nuova, prescritta da un compito del tutto nuovo. Per il pensatore rivoluzionario la peculiare chance rivoluzionaria trae conferma da una data situazione politica. Ma per lui non trae minor conferma dal potere delle chiavi che un attimo possiede su una […] stanza del passato, fino ad allora chiusa. L’ingresso in questa stanza coincide del tutto con l’azione politica: ed è ciò per cui essa, per quanto distruttiva possa essere, si dà come azione messianica.
Importante dunque è individuare quale sia la chance specifica del momento storico che si sta vivendo e siamo dunque del tutto nella storia. La parte più oscura di questa citazione lo diventa di meno se gli accostiamo quest’altra, potente e salvifica al tempo stesso:
Il dono di riattizzare nel passato la scintilla della speranza è presente solo in quello storico che è compenetrato dall’idea che neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di vincere.
Se sostituiamo alla parola storico, inteso come specialista, espressioni quali soggetti sociali che resistono e si pongono il problema di un nuovo orizzonte di senso, che il nemico sia il fascismo o un altro dei vincitori di oggi non ha alcuna importanza: è l’idea che neppure i morti sono salvi se non continuiamo a salvarli noi nel nostro presente, nutrendo l’indignazione e la resistenza.
Concludo allora questa nuova riflessione con lo stralcio di un testo poetico tratto da Omeros di Derek Walcott: lo scelgo perché in questa lirica Walcott fa parlare i morti che chiedono di essere ricordati, esprimendo così con un linguaggio diverso da quello di Benjamin e poeticamente potente, lo stesso concetto: proteggere anche i morti dal peso della storia.
Ora udiva l’aedo mormorare il suo canto profetico,
grave del dolore del passato. Era una nota prolungata
e senza fine, che serpeggia come la lingua del fiume scuro:
“Eravamo del color delle ombre quando scendevamo
tintinnanti di ceppi per congiungerci alle catene del mare,
le monete d’argento si moltiplicavano all’orizzonte venduto,
e queste ombre sono ristampate ora sulla sabbia bianca
delle coste agli antipodi, i tuoi antenati di cenere
che venivano dal Golfo di Benin, dove finisce la Guinea.
C’erano sementi nel nostro stomaco, negli incrinati baccelli
del nostro cranio, sopra i ponti brucianti, i tuberi
avvizziti in un lampo. Guardammo gli dei del fiume
da serpenti trasformarsi in correnti. Da vicino
i nostri occhi mostravano fronde secche nelle iridi brune,
e dalla spina dorsale ricurva la cassa toracica s’irradiava
come fronde da un ramo di palma. Poi, quando le palme
morte oscillavano fuoribordo, i cadaveri dalle costole scoperte
fluttuavamo, navigando verso la sabbia bianca e che ricordavano,
fino al Golfo di Benin, dove finisce la Guinea.
Così, quando verdi rami bruciati che solcano la corrente,
cercando di trattenere la risacca tra le dita piegate,
dopo una notte di vento forte in un hotel di pietra bianca,
oltre la scia della bianca vela triangolare dei surfisti,
ricordaci al cameriere negro che porta il conto.”

1 L’espressione parole di plastica mi è stata suggerita da un recente libro di Rocco Ronchi su cui si è soffermato anche Alessandro Carrera in un intervento dedicato all’elezione di Trump e pubblicato su Doppiozero: Rocco Ronchi, Populismo/Sovranismo, una illustre genealogia, Castelvecchi 2025
2 Il concetto di immedesimazione emotiva è assai importante nell’economia del pensiero benjaminiano e le sue premesse si trovano nel saggio Che cosa è il teatro epico, scritto nel 1939. Prendendo come esempio virtuoso il teatro di Brecht, il filosofo mette in evidenza la differenza sostanziale che esiste fra immedesimazione emotiva con l’eroe, che porta alla catarsi aristotelica, con l’immedesimazione con la situazione in cui l’eroe è coinvolto. Quanto all’acedia del cuore, penso che il bersaglio sia l’etica protestante e la sua mancanza di empatia, essendo collocata del tutto nella coscienza individuale e in un rapporto diretto e personale con Dio e la Grazia.
3 Questi saggi sono stati raccolti nell’edizione italiana einaudiana dal titolo L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Anche il sottotitolo è importante: Arte e società di massa. La scelta editoriale può essere giudicata arbitraria sotto molti aspetti, prima di tutto per una questione di datazione, ma permette di osservare da vicino una parte del lavorio che porterà alle Tesi. Il tema di quei saggi assemblati dalla casa editrice e tradotti da Filippini è la cultura di massa. Piccola storia della fotografia è del 1931, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e il saggio su Fuchs sono del 36-37 e sono quelli che affrontano più direttamente il tema principale e cioè la nascita della cultura di massa. Che cosa è il teatro epico è del 1939. Fra le pieghe dei cinque saggi assemblati e specialmente in alcune note al testo è possibile trovare le radici prossime di una critica allo storicismo, che investe prima di tutto i prodotti della cultura e che approderà, nelle Tesi, alla storia.
4 Forse non è del tutto un caso che siano stati proprio degli storici medioevalisti a fondare in pieno ‘900 una scuola come Les Annales che assegna un ruolo prioritario alla storia materiale e alla vita quotidiana. Del resto, anche la ricerca di Gramsci, più o meno negli stessi anni, è orientata alla ricostruzione della cultura popolare, delle strutture materiali dell’esistenza e del folklore.
5 Il Manuskript Arendt si trova facilmente anche in rete
6 Benjamin introdusse questa tesi all’ultimo momento e infatti essa non si trova in tutte le traduzioni e non è presente nel manoscritto tedesco in possesso di Hanna Arendt. Tuttavia non vi è dubbio che l’intenzione fosse chiara: inserirla subito dopo la diciassettesima. La traduzione di cui mi sono avvalso con la nota che ne ricorda la genesi si trova in Walter Benjamin Testi e commenti, Quaderno N. 3 de L’ospite ingrato, Periodico del centro studi Franco Fortini, a cura e commento di Gianfranco Bonola, Quodlibet 2013, pp.97-9.