
Premessa
Questa nuova rubrica s’affianca a quella precedente e cioè Critica del pensiero unico. Le parole hanno sempre una grande importanza, ma nei momenti di svolte radicali e tumultuose ne hanno ancora di più. La vecchia rubrica rimarrà con tutti i suoi post già pubblicati, ma il suo titolo non mi sembrava più corrispondere ai mutamenti già avvenuti
A livello della superficie degli eventi il nuovo titolo allude alla fine dell’atlantismo per come lo abbiamo conosciuto dagli accordi del 1947 in poi: istituzione della Nato, Patto Atlantico, Piano Marshall, Guerra fredda.
Il pensiero, invece, non mi sembra più unico perché Trump ne ha messo in discussione alcuni presupposti basilari e cioè l’unione fra democrazia formale liberale e capitalismo. Detto in altre parole, per Trump il capitalismo può essere solo di destra e di destra estrema, i margini delle cosiddette politiche keynesiane del trentennio che va dal 1950 al 1980, con il corollario maturato successivamente dei diritti umani privati di politicità e separati dai diritti sociali, non devono più avere corso: la violenza con cui Vance e Trump si scagliano contro l’Unione Europea sta prima di tutto in questo e viene dopo anni di critiche che le grandi aggregazioni finanziarie come Morgan Stanley e Blackrock rivolgevano alle costituzioni europee perché troppo attente a diritti e garanzie.
Il modello che Trump propone sia a livello simbolico, sia nei suoi provvedimenti concreti e quotidiani mi sembra fondato su alcuni elementi portanti, assai distanti dal modello liberale. Da un lato una pulsione da ancien regime, ma governata dall’high tech, e dall’altro una simbologia religiosa di stampo evangelico. Su quest’ultimo aspetto due immagini mi sembrano molto significative a livello simbolico. La rappresentazione di se stesso come un re, la preghiera nello studio ovale, circondato dai predicatori evangelici che gli fanno da cornice in una sorta di cenacolo vinciano, e la nomina del ministro della giustizia Pam Bondi che vuole “sradicare i pregiudizi anticristiani e la discriminazione all’interno del governo federale”. Per quanto riguarda il secondo aspetto, e cioè il governo dell’high tech e di tutto ciò che ne consegue, Elon Musk basta e avanza.
C’è infine un ulteriore elemento, connesso al primo e cioè una sorta di dottrina Monroe adeguata ai tempi, che si propone addirittura di trasformare l’intero mondo nel cortile di casa statunitense. Queste sono le intenzioni peraltro dichiarate e corredate da altri atti simbolici e minacce: il Golfo del Messico che diventa Golfo d’America, le minacce espansionistiche su Groenlandia e Canada.
Fra le intenzioni e la realtà ci stanno molte cose nel mezzo, ma per capire meglio alcuni passaggi bisognerà avere anche la pazienza di attendere gli eventi. Se, parafrasando Braudel, siamo entrati in una fase di storia superficiale tumultuosa e caotica, credo sia utile ricorrere al concetto di wu wei, che in italiano è di solito tradotto come non agire, espressione che rischia di tradire del tutto l’espressione cinese che invece allude a una forma particolare di azione che si estrinseca in un primo momento di sospensione del tempo e dell’azione, ma solo per collocarsi al di fuori del cono di luce degli eventi e sottrarsi alla tirannia del tempo storico. È, se mai, un atteggiamento che ha qualche somiglianza con il concetto di dialettica in stato di arresto che si trova nelle pieghe di alcuni scritti di Benjamin e in Furio Jesi. Tale atteggiamento, fra l’altro, permette di capire quali scenari di cartapesta cadranno per primi all’urto violento del ciclone che il duo Trump-Musk ha scatenato, senza colludere con loro, ma neppure senza perdere energie per difendere gli stracci che certamente voleranno: se fra questi stracci ci sarà anche l’Unione Europea lo vedremo presto.
A questa premessa allego una prima riflessione per molti aspetti sorprendente, ma che offre un punto di vista laterale rispetto alle analisi correnti. Non conoscevo il suo autore, ma ho controllato tutte le fonti possibili prima di pubblicarlo. Nei prossimi giorni pubblicherò altre riflessioni che offrono punti di vista altrettanto decentrati.
Boris Kagarlitsky analizza le relazioni russo-americane – dalla colonia penale n.4 di Torzhok. Lo studioso marxista, dalla galera, riflette sulla situazione attuale, nonostante il testo sia datato 19 gennaio. La traduzione è di Giovanni Savino.
L’asse Mosca-Washington
Dopo che la televisione ha annunciato che ora saremo amici dell’America contro l’Europa, nel campo di detenzione IK-4 vi è stata una certa confusione: i più scafati si sono precipitati in biblioteca per prendere “1984” di George Orwell e si è formata una fila.
In realtà, non è difficile comprendere la logica degli eventi in corso. Il gruppo al potere in Russia ha disperatamente bisogno del sostegno dell’amministrazione di Donald Trump per uscire dalla situazione di stallo in cui si è cacciato. Il problema è che il prezzo di questo aiuto potrebbe rivelarsi eccessivamente alto.
Come ho già scritto in precedenza, per la prima volta in molti decenni, negli Stati Uniti al potere ci sono persone che non si considerano vincolate da regole e obblighi esistiti nel XX secolo. In passato si è molto discusso sul destino del sistema-mondo descritto da Wallerstein e sull’egemonia degli Stati Uniti: alcuni pensavano che essa fosse minacciata dall’ascesa della Cina, mentre altri vedevano nella politica della Russia un tentativo di cambiare o distruggere l’ordine mondiale. Invece adesso capiamo che l’egemonia americana sta davvero volgendo al termine, ma a distruggerla è proprio l’amministrazione americana: l’egemonia è un fardello di obblighi e responsabilità da cui Trump si sta liberando.
La fine dell’egemonia non significa la fine dell’imperialismo. Al contrario, stiamo assistendo alla sua versione più aggressiva e sfacciata, in cui gli Stati Uniti interagiscono con i loro vicini basandosi sulla “politica del bastone”. Il nuovo orientamento di Washington è rivolto al dominio, non prevede la considerazione degli interessi altrui né il rispetto dei diritti degli altri, e alla Russia viene apertamente offerto il ruolo di aiutante in questa impresa, diretta contro la Cina, l’Europa e, in generale, contro tutto il resto del mondo, compreso il Canada.
Sembra che coloro che governano a Mosca non abbiano altra scelta se non quella di accettare queste condizioni, soprattutto perché Trump sarà accomodante sulla questione ucraina (nella misura in cui ciò non influisca sugli interessi e sulle ambizioni del suo team). Per il resto, non resta che sperare nella fortuna e nella capacità dei diplomatici europei di mantenere la situazione sotto controllo. Ma l’asse Mosca-Washington si sta chiaramente formando.
Il problema è che una tale svolta, essendo impreparata e forzata, entra in conflitto con le tendenze economiche, politiche e culturali, comprese quelle promosse dall’attuale governo. E non si tratta solo di come l’opinione pubblica patriottica, per cui l’antiamericanismo è un elemento centrale dell’ideologia, percepirà ciò che sta accadendo: molto più importante è il fatto che i legami economici della Russia siano orientati proprio verso l’Europa e la Cina, e gli Stati Uniti hanno poco da offrire in cambio. Peggio ancora, l’espulsione dei fornitori russi dai mercati europei continuerà sotto Trump.
Il business russo, che sogna una normalizzazione delle relazioni con l’Occidente, otterrà questa normalizzazione, ma in una forma che peggiorerà solo le cose. Quanto alla politica, l’amministrazione Trump non solo è soddisfatta dell’attuale gestione della Russia, ma la considera ideale. Un partner non vincolato dall’opinione pubblica, che non tiene conto non solo dell’opposizione, ma nemmeno degli interessi economici del proprio paese, è un partner ideale. Per i liberali russi, che ancora credono che gli Stati Uniti siano il fulcro delle forze del bene, questa sarà una spiacevole sorpresa, così come per quei rappresentanti del “Sud globale” che hanno cercato di trovare in Vladimir Putin un alleato contro l’imperialismo americano. Tuttavia, una delusione del genere sarebbe stata inevitabile in ogni caso.
Fortunatamente, ci sono buone ragioni per credere che il processo di avvicinamento tra i due progetti autoritari non sarà privo di problemi. Incontrerà resistenza anche a livello delle élite. Gli Stati europei difficilmente permetteranno di essere completamente esclusi dal processo di regolamentazione e, quindi, manterranno una certa influenza sugli eventi in corso. In Russia stessa, i circoli d’affari interessati ai legami con l’Europa e la Cina saranno costretti a resistere, anche se con metodi lobbistico-burocratici più che politici. E anche negli Stati Uniti, dove le posizioni del trumpismo non sono così solide come potevano sembrare nel novembre 2024, dopo il fallimento dei democratici alle elezioni. Sebbene l’amministrazione trumpista abbia un’immunità sorprendentemente forte all’opinione pubblica, la resistenza crescerà sullo sfondo di una divisione senza precedenti all’interno della classe dirigente.
Penso che, in definitiva, non ci aspetterà un’era oscura di trionfante totalitarismo nello stile del “1984” di Orwell, ma piuttosto un periodo di lotta acuta e talvolta caotica. Dobbiamo semplicemente vedere la minaccia e comprenderne la portata.
Boris Kagarlitsky , 19.01.25

L’egemonia non era forse un dominio più diplomatico? In questo senso gli USA di Trump smascherano il dominio e lo impongono in vesti monarchiche assolute. Può farlo perché Putin ama la medesima narrazione di sé e del suo paese? Resta la domanda se gli USA non pensino invece a una conversione anticinese della Russia.
In ogni caso il cono d’ombra da cui guardare senza la tirannia del presente è per me assolutamentre necessario per non soccombere al chiacchiericcio sulle cose note, tanto per citare il tuo beneamato Benjamin.