
Introduzione
Intervistai Derek Walcott nel 2000, a favorire l’incontro con lui fu Claudio Pozzani, direttore artistico del Festival internazionale di poesia di Genova. Ci sedemmo nel bar nell’hotel dove alloggiava, proprio a fianco alla stazione di Principe. Il suo volto burbero e lo sguardo severo mettevano soggezione, ma quando cominciammo a parlare l’atmosfera cambiò subito, emerse la sua cordialità e nel corso del tempo e poi ancora di più successivamente quando riordinai gli appunti a casa mi resi conto che da un certo momento in poi la conversazione era diventata un dialogo. L’intervista è stata pubblicata più volte: sulla rivista Poiesis nel 2001 e poi nella rivista online Overleft, nella rubrica Dopo il diluvio. Altre riflessioni su Walcott, si trovano anche nel blog Diepicanuova, fondato nel 2009 insieme a Paolo Rabissi e ora diventato anche un libro pubblicato con Youcanprint. Sia nel blog sia nel libro sono pubblicati anche alcuni testi di Walcott da Omeros Nel riproporre l’intervista anche nel mio blog ho raggruppato in un unico file anche un breve intervento in memoria di Walcott, pubblicato sempre su Diepicanuova.
L’intervista
Franco Romanò:
Signor Walcott, in un’intervista rilasciata al quotidiano ‘II sole 24 ore’ lei affermava che solo gli artisti mediocri hanno paura di avere dei maestri. Vorrei cominciare da questo perché il Novecento europeo è stato il secolo dell’originalità tutti i costi…
Derek Walcott:
Può precisare meglio a quale periodo e a quali autori si riferisce?
FR
Penso a tutto ciò che è avvenuto negli ultimi dieci anni dell’800 e i primi venti del ‘900 in Francia, in Italia, in Gran Bretagna e poi penso a movimenti come ‘Dada’ e a quello che ne seguì anche in termini di imitazione…
DW
Sì, capisco… Vorrei cominciare da una frase di Joseph Brodskji, quando disse: “Perché è necessario avere un ventesimo secolo quando c’è già stato il diciannovesimo?” E’ un’osservazione molto brillante perché in termini di intelligenza dei tempi e di arguzia gli scrittori del diciannovesimo secolo che avevano concepito l’idea dell’emergere della città (nel senso mercantile, borghese o artigiano del termine) come soggetto in sé, avevano raggiunto una scala di valore molto elevata; parlo dello spirito cittadino che esiste in Balzac o in Dickens. Questa consapevolezza della città raggiunse le sue punte più elevate con la fine del secolo e questo ci dà la misura della solidità del diciannovesimo secolo. Forse quanto sto dicendo potrà sembrare il discorso di un uomo anziano, ma io credo che molti dei movimenti venuti dopo siano stati vittime di una certa petulanza, dell’invidia e dell’ambizione rispetto a questa grandezza. Si può anche comprendere perché se si è coscienti del valore degli autori che ho citato in precedenza, oppure della forza dell’architettura compositiva di un Baudelaire, uno scrittore o un gruppo di scrittori che danno vita a un movimento capiranno che è un po’ arduo competere con lui, avranno la tentazione di dire non facciamo questo non è importante, facciamo altro…E’ cosi che cominciano le avanguardie. Prendiamo ‘dada’ per esempio. Se io li accusassi di essere un movimento ingenuo, infantile e naif, che crede nel senso del nonsenso, loro sarebbero stati i primi a darmi ragione; ma anche ammettendolo questo non fa venire meno il fatto che infantili erano e restano. Nel dire ciò, però, non intendo affermare che l’artista sia un essere sublime; anzi, sono questi movimenti che pure affermando esattamente l’opposto portano alla stessa conclusione perché anche l’idiozia in un certo senso è sublime. C’è una bella differenza fra l’idiozia di una certa avanguardia e la semplicità, prendiamo, di un Blake, oppure la semplicità e persino la chiarezza di un Verlaine.
Insomma l’avanguardia ha tutti i difetti di qualcosa di giovanile, di non maturo, un esperimento, anche se va detto che parole come sperimentare o esperimento non si possono circoscrivere a quei movimenti. Perciò quello che dico è che molti dei grandi poeti del novecento hanno un’eredità, guai a non riconoscere l’eredità dei grandi maestri, essa esiste eccome se esiste! Ma questo è stato ritenuto ridicolo, fuori moda, vecchio.
A questo proposito vorrei parlarle della mia esperienza di docente. Io insegno negli Stati Uniti e il concetto di insegnare la tradizione negli Usa non è un vero concetto e le assicuro che è molto complicato insegnare in una cultura che pensa che tutto ciò che esiste sia stato fatto ieri o l’altro ieri. Non hanno un’idea della storia … L’idea che bisogna avere cura dei maestri nel processo di apprendimento nelle arti, è stato molto minacciato durante il secolo scorso da molti fattori, anche molto lontani fra loro, incluso il cinema che insieme ad altro ha contribuito a trasformare l’artista in un performer, poesia inclusa. Insieme all’idea della performance è venuta avanti anche quella della competizione.
FR
A questo proposito le chiedo: il poeta a fronte di queste trasformazioni e insidie deve cercare di assecondarle o di resistervi secondo lei?
DW:
Resistere? Vede è difficile farlo, gli scrittori, i romanzieri in particolare negli USA seguono quest’idea, si comportano come le star del cinema, lo scrittore è una persona pubblica. Si tratta di un’idea molto forte che però ha un’influenza negativa sul talento individuale dell’artista. Di buono c’è che, sebbene alcuni poeti siano inclini a seguire questo modello, la poesia è più difficile da corrompere perché tende a espellere il poeta corrotto.
FR
Ciò che trovo sorprendente nella sua poesia è la mescolanza fra uno scenario tipicamente caraibico e il continuo riferimento alla tradizione classica europea, greca, latina e non: Lucrezio, Dante, John Donne, tanto per fare alcuni nomi. Ho notato però che quanto più ci avviciniamo al secolo precedente, al ‘900, i vostri riferimenti sono quasi esclusivamente concentrati sui grandi russi: Achmatova, MandeI’stam. Come mai questa scelta e più in generale cosa rappresenta per lei il patrimonio classico della letteratura europea?
DW
Se leggo un libro di Pastemak, oppure, poniamo una traduzione dell’Odissea, la domanda terribile per me è: dove sono mentre leggo questo libro? Sono ai Caraibi, su una piccola isola, non c’è nulla intorno a me che possa evocare la storia: non ci sono rovine, non ci sono castelli, acquedotti ecc. Perciò, in quanto lettore, io mi trovo in una condizione molto elementare perché ho a che fare con gli elementi primari: il mare, l’aria, la natura, il vento. Questo è il mio contesto. La stampa non ha nulla a che vedere con il paesaggio che mi sta intorno.
Ma il senso della lettura è fortemente rafforzato dal fatto che mi trovo in una situazione dove dominano gli elementi. Per questa ragione non posso leggere con un senso della temporalità. Se si legge la stessa cosa in Italia, o a New York, essa entra immediatamente in un contesto, è un po’ come la parte di un ampio dizionario.
La condizione in cui mi trovo è quella dell’innocenza, che non è naturalmente ignoranza. Mi dico che sono fortunato per questo, perché ritengo che la lettura innocente, anche per un uomo della mia età, sia importante. In un certo senso leggere in questo modo porta molto vicino al processo stesso di formazione della poesia. In questo senso per innocenza non intendo il vuoto, il nulla, ma una disposizione a lasciarsi rinfrescare da ciò che si legge. Venendo più direttamente alla sua domanda, essere debitori verso i grandi autori del passato è per me naturale, mentre penso che per un artista europeo significhi anche portarsi sulle spalle un grande fardello; essere un pittore in Italia, per esempio, vuole dire portarsi un gran peso sulle spalle.
FR
Ciò che mi sorprese quando mi avvicinai le prime volte alla sua poesia era una certa mancanza di riferimenti ad altri autori del continente americano, sia del Nord sia del Sud. Per esempio, trovo che la natura sia molto importante nella vostra poesia e mi sono domandato spesso quale sia il suo rapporto, come lettore e anche come poeta, con Neruda, per esempio.
DW
Ovviamente quello che lei dice ha a che fare con la lingua. Se io fossi nato in una parte dei Caraibi di lingua spagnola, avrei certamente avuto un rapporto con quella letteratura. Il problema dei Caraibi è che le origini coloniali sono differenti; danesi, francesi, inglesi, spagnoli… Il temperamento delle diverse zone è molto diverso e questo è un valore grande; le Barbados sono molto inglesi, Guadalupe è molto francese. Quando sono entrato in contatto con scrittori latino-americani come Neruda oppure Gallego e altri ho riscontrato subito un’identità per quanto riguarda la storia, nel senso che abbiamo condiviso alcune esperienze: le grandi piantagioni, la schiavitù, per esempio. Per un certo periodo di tempo io sono passato attraverso la loro esperienza, posso dire di essere stato anche influenzato da Neruda, ma poi ho abbandonato quella strada perché c’era qualcosa di temperamentale che non mi si addice… Neruda per esempio può essere molto eccitante in un modo sbagliato per chi scrive in inglese perché l’enfasi nella pronuncia delle vocali spagnole non si addice alla lingua che uso come scrittore. Ci sono aspetti dello spagnolo che non mi piacciono: non amo per esempio il Lorca surrealista, così come il Gallego surrealista. Ecco, quando sento troppo la ridondanza dello spagnolo io divento molto inglese, non mi piace una certa pomposità. E’ una tipica reazione coloniale allo spagnolo e all’italiano. Naturalmente gli aspetti più duri di Lorca o di un Montale sono formidabili. ‘ .
Per quanto riguarda il perché manchino riferimenti anche ai nord americani nella mia poesia, diciamo che non ho amato mai troppo il verso lungo, o diciamo troppo lungo, alla Whitman per intenderci, o anche alla Ginsberg; il metro è troppo spinto. Anche le teorie di coloro che sostengono l’espansione del verso facendola dipendere dal respiro, incluso lo stesso William Carlos Williams, mi sembra introducano una forzatura. C’è troppa teoria in questo modo di fare e non mi piace neppure l’opposto e cioè la contrazione eccessiva: volere a tutti i costi evitare il pentametro, coscientemente, mi sembra un esperimento: credo che i due estremi del verso troppo lungo o troppo corto vadano evitati.
FR:
Probabilmente per lei Whitman è stato importante per il tono epico ed epico lirico della sua poesia….
DW
Sì, questo sì, mentre sono sospettoso della deliberata espansione del verso.
FR
L’attenzione per la metrica è costante nella sua poesia. Significa che siete riluttante e sospettoso nei confronti del verso libero?
DW
Ho scritto anche versi sillabici… In generale penso sia un problema che riguarda la personalità del poeta, però credo che ci debba essere il rispetto per certi limiti. Pensare, come le dicevo, di potere espandere o contrarre il verso artificialmente è un po’ egocentrico. Credo che occorra essere umili nei riguardi del verso. Quello che le dico può sembrare molto personale e persino privato ma proprio perché so di essere una persona ambiziosa, allora cerco di essere molto rispettoso dei limiti.
FR
Leggendo i suoi versi non vi è traccia, almeno superficialmente, di un’attenzione per la filosofia o la psicanalisi che per la cultura europea del secolo scorso sono stati due riferimenti quasi obbligati, anche per i poeti, insieme alle nuove scienze del linguaggio. Quale è il vostro atteggiamento nei confronti di queste discipline.
DW
Bene, lei mi scuserà se farò un paragone osceno nel rispondere a questa domanda. Fare poesia vuole dire entrare volontariamente in una prigione. In questa prigione si aggirano un sacco di teorie accademiche, c’è la semiotica e altro, la prima cosa da fare è preoccuparsi di non farsi inculare. Lei mi perdonerà, ma quello che voglio dire è che se uno sceglie di spendere la propria vita da poeta deve stare bene attento a non lasciarsi invadere e deviare da teorie, da giudizi competitivi, da invidie e ambizioni, ma deve piuttosto cercare di pensare sempre che ciò che sta facendo non è per se stesso, ma per cercare qualcosa che il poeta crede esista e che si chiama poesia. E’ una strada lunga e bisogna stare attenti a non lasciarsi corrompere, vuol dire che bisogna credere nella moralità che il poema esprime direttamente in sé. In questo senso si può dire che vi è una forte approssimazione con l’umiltà del sentimento religioso, in altre parole in un certo modo il poeta è vicino al sacerdote, al prete, al monaco; in un altro senso il poeta deve rifiutare la pura conoscenza, l’eccessiva confidenza con le persone e le teorie sulla poesia. In ultima analisi quello che il poeta fa è creare il poema, questo è il suo compito ed è un compito arduo, prima di riuscire ad arrivare a questo occorre superare molti ostacoli terrificanti. Fare i conti con l’ibrido, con il maturare lento dell’opera nella testa… bisogna tornare al non sapere, all’ignoranza e questo è molto difficile da fare nel contesto contemporaneo dove ci sono molte teorie, molte reputazioni… vede quello che sta succedendo alla letteratura francese, per esempio…lì danno troppo ascolto ai critici, ai dibattiti universitari, alle parole dei dotti. Bisogna tornare a dire che la poesia è una sorta di miracolo cui si deve una devozione quasi religiosa.
FR
Voi avete usato le parole sacerdote, religione; ma si possono sostituire queste parole con altre, tipo sciamano, divinità, sacro ecc?
DW
Vede, la parola sacerdote va per me usata in riferimento a William Wordsworth; a me piace dire sacerdote della natura perciò la devozione nei confronti della natura è ciò che io intendo quando uso la parola sacerdote e mi riferisco in primo luogo alla natura organica perché senza di essa nulla potrebbe esistere, l’ossigeno l’abbiamo dalla natura organica. Non importa quanto siano abili o famosi, ma ci sono scrittori che tendono a diventare cinici, è questo che rischiano quando si siedono alla scrivania e cominciano a scrivere poesie. Invece bisogna tornare a una innocenza radicale. Molti poeti sono complicati e sofisticati, ma proviamo ad andare al nocciolo della loro opera… Donne, Rimbaud, Auden, Eliot, Montale, quando arrivo al nucleo radiante della loro poesia io un po’ mi preoccupo.
FR
Voi avete detto sacerdote della natura e nella vostra poesia il rapporto con la natura è davvero essenziale. Ecco, cosa ne pensate di questo continuo forzare, da parte della scienza, i limiti naturali e di creare sempre più una seconda natura artificiale. Mi riferisco a tutto il problema delle biotecnologie, del transgenico ecc.
DW
Penso che si tratti di un’attitudine faustiana. Credo che occorra ritornare a provare la paura primordiale. Dobbiamo in un certo senso ritornare al rapporto con la divinità, con dio, accettare che vi sono dei limiti alla conoscenza umana. Le idee prometeiche o ulissiche, ciò che spinge a ripartire ancora una volta da casa per raggiungere altre mete… tutto questo è stato vero, fa parte della nostra storia, non può essere negato ma occorre avere la consapevolezza che quanto più si prosegue su questa strada tanto più tutto diventa più pericoloso. Si può andare avanti solo accettando il compiersi di un tragico destino…Tornando alla paura, tutto questo che le dico è vecchio quanto il mondo, l’ammonimento a non superare certi limiti è antico, ma si tratta di un atteggiamento opposto a quello della ricerca scientifica che richiede di andare sempre avanti, di superare le barriere. Andare avanti significa scoprire che nulla è intimo.
L’esplorazione della scienza in sé va bene, ma solo se si ha un’idea tragica di questo destino. Quello che voglio dire, in sostanza, è che se decido di compiere un certo passo devo assumermi la responsabilità di sapere che cosi facendo qualcosa di tragico potrebbe accadermi; se invece si va avanti senza assunzione di responsabilità, neppure nei confronti di se stessi, allora non va bene. E’ un atteggiamento antico anche questo… si dovrebbe sapere che non si diventa dio grazie a quella conoscenza: questo è un concetto basilare del mondo greco, ma anche del Medio Evo. Purtroppo siamo andati così avanti che stiamo perdendo quest’idea fondamentale e il potere dei poeti sta nella capacità di indicare questo destino tragico cui si va incontro. Questo non significa bloccare la ricerca scientifica ma fornire o tornare a fornire quel pensiero fondamentale che le dicevo, che l’idea di hybris, che è parte dell’idea di tragedia, dovrebbe essere investigata essa stessa.
FR
Mi sembra che piuttosto che la ricerca scientifica in sé voi siete preoccupato dell’ideologia di tipo ottimistico che si accompagna alla ricerca. E’ cosi?
DW
Quello che voi dite è forse un po’ forzato. L’esperimento scientifico in sé non può essere giudicato in termini di moralità esterna a esso: da questo però scaturisce anche l’idea di potere fare qualsiasi cosa in nome della scienza. Quello che io affermo è che bisogna ritornare a una specie di formula medioevale che sappia contemplare la conservazione di certi aspetti dell’umanità. Il ruolo del poeta è proprio quello di rendere consapevoli del destino tragico. Quello che mi stupisce è che non c’è scrittura tragica intorno a questi temi, ciò che abbiamo è una specie di esaltazione superficiale, specialmente in opere teatrali o cinematogratìche: ciò che ci manca è la dimensione del tragico nel suo senso più alto. La scienza non può avere nessuna idea del tragico. E’ chiaro che se tutto viene misurato come esperimento diventa un bene clonare le pecore o addirittura gli esseri umani, ma io non sono affatto sicuro che la direzione della scienza debba essere questa… Capisco che dire ciò possa suonare ingenuo e persino stupido, ma è quel genere di stupidità che ci può salvare, quella paura che ti fa dire no, là non andarci, non fare questo ecc. I grandi poeti tragici in fondo hanno fatto ciò e io sono stupito che nonostante tutti gli orrori del ventesimo secolo noi abbiamo una mancanza di grandi scrittori tragici, non è forse strano questo?
FR
Sì, è strano, questo ha a che fare con il positivismo… con questa idea del progresso indefinito che è tipico della cultura occidentale…Torniamo a quello che lei diceva sul ritorno a una attitudine medioevale… A quei tempi era il sacerdote, uso anch’io questa parola nel senso in cui lei l’ha usata, a rappresentare questa idea del tragico, insieme ai grandi poeti. Il problema nostro è di domandarci chi possa farlo oggi: ancora i poeti voi dite, diciamo gli artisti in generale…
DW
Sulla parola arte e artisti non saprei, prenda la musica, è ottimistica in sé… Vediamo, le propongo un gioco accademico. Chi pensa lei abbia convogliato su di sé il senso del tragico nel 900; non dell’assurdo, non sto pensando a Beckett che trasforma il tragico in assurdo, così come altri del pensiero negativo, lonescu… Forse qualcuno c’è, Mandel’stam… e poi?
FR
Celan forse…
DW
Sì però per Celan bisogna considerare che il suo punto di vista tragico dipende strettamente dalla sua esperienza… Domandiamoci per esempio perché non ci sono grandi tragici negli Stati Uniti: secondo me dipende dalla tecnica. Quando si pensa a un grande poeta americano si pensa subito a Whitman, che era un grande ottimista. Venendo a tempi più vicini, anche un Frost a me non pare rappresenti una forte idea del tragico. Questa del tragico è una questione che ossessionava anche Yeats. Il tragico, fra l’altro, ha a che fare con il suo opposto: nei grandi poeti tragici, al fondo c’è un nucleo di gioia. Bene, forse in questo senso la letteratura dei Caraibi ha qualcosa da dire, perché il senso del tragico ha al fondo qualcosa di gioioso, solo che questo si è trasformato spesso in una sorta di protesta nera e non stiamo parlando di questo ma di qualcosa che sa elevarsi a livello del terrifico e del sublime.
FR
E Kafka?
DW
Credo ci sia una differenza con quello che davvero raggiunge la sublimità della tragedia. Kafka, almeno quello che ho letto io, si è fermato anche lui a un certo punto.
FR
Nella Grecia antica a un certo punto la tragedia fu guardata con sospetto perché non suggeriva soluzioni. Forse sta accadendo o è accaduto qualcosa di simile anche nel mondo contemporaneo occidentale.
DW
Sì, nei sistemi dittatoriali il cosiddetto bene comune detta delle regole molto restrittive, dice alle persone cosa è bene e cosa è male, mentre nella tragedia tutto fluttua, non c’è stasi. Sì forse c’è qualcosa di tragico nella legge dello stato, nella regola statuale. Il problema è che la legge dello stato viene obbedita, mentre non esiste più un potere diverso. Fra un dittatore e un buon papa scelgo quest’ultimo, sempre che non diventi un dittatore anche lui, perché se una religione diventa a sua volta autoritaria allora non va…
FR
Voi state dicendo che fra sentimento religioso e governo laico dello stato ci deve essere un certo bilanciamento di poteri… questo ai nostri tempi avviene forse soltanto nel mondo islamico, forse è in quel mondo che troviamo oggi un senso del tragico che qui manca.
DW
Sì, quello che lei tocca è un punto molto interessante.
In memoria di Derek Walcott
Derek Walcott ci ha lasciati, ma la sua generosità di autore e di uomo ci consegna una cornucopia di testi e di emozioni che non smetteranno di accompagnarci nel tempo; ma anche di lavoro critico da intraprendere. Quando creammo questo blog pensammo subito a lui come a un poeta imprescindibile e citavamo dall’introduzione di Andrea Molesini a Omeros questa frase:
“Molti hanno detto, senza tema di smentita, che i nostri tempi non sono adatti alla forma del poema epico. Poi un giorno è arrivato Derek Walcott…”
La ripetiamo oggi come omaggio e punto di partenza per un ulteriore approfondimento e riflessione, ponendoci un interrogativo: quale impresa notevole c’è al centro dell’opera del poeta caraibico? La domanda ci porta anche nel vivo di un dibattito contemporaneo e non storicistico sulla vitalità dell’epica come genere. Al centro della poetica di Walcott c’è un nucleo densissimo e lacerante da cui tutto si muove e si estende a macchia d’olio in diverse direzioni e rami collaterali: la natura sontuosa dei Caraibi come bellezza assoluta e silente da un lato, il dominio coloniale, che è però al tempo stesso il solo portatore di cultura, dall’altro. L’assenza di mediazione culturale rispetto a quella natura sontuosa dovette apparirgli come un inganno e la possibilità di abbandonarsi semplicemente ad essa un modo di scivolare dall’innocenza all’ingenuità. Peso e ricchezza della tradizione divennero così per lui i due volti di Giano, la lingua il terreno naturale di scontro: lingua anch’essa dei dominatori, sebbene il patois svolga un ruolo assai importante nella poesia di Walcott, nonostante le poche volte che vi compare. Naturalmente, ai suoi occhi, il rifiuto della tradizione, così di moda nel ‘900 occidentale, era un lusso che non poteva permettersi e questo ci riporta a noi stessi, perché Walcott, nel suo vertiginoso viaggio, ci restituisce anche un’immagine della nostra cultura, vista da un luogo remoto ma non periferico: con tale immagine, che ha molto da insegnarci, dovremo fare i conti anche in futuro.
A riprova di quanto affermato, proponiamo qui alcuni testi tratti da Prima Luce: la traduzione è di Andrea Molesini.
Da Il dono (The bounty):V.
Tutte queste onde crepitano dalla cultura dio Ovidio,/le sue sibilanti e consonanti; un metro universale/accumula queste firme come iscrizioni di alghe//che si seccano nel sole pungente,versi governati da mitra/e lauro, o ramoscello fiorito che svelto inghirlanda la fronte/(e spero che questo sistemi la questione//delle presenze). Nessuna anima fui mai inventata,eppure ogni presenza è trasparente; se l’incontrassi/(in camicia da notte, scalza, che canticchia alle secche),//dovrei definire La sua ombra un modello inventato/da un disegno greco-romano, colonne di ombre/proiettate dal Foro, prospettive augustee -/pioppi, colonnati di casuarine, la traforata luce dei mandorli/tratta dall’originale latino, nessuna foglia se non dell’ulivo?/ Problemi di intonazione al cospetto dello splendore serafico/…
Da Manet in Martinica.
La pianta del tek era rigida come gomma vicino alla grata/di ferro della veranda rosa al cui centro un’arcata/immetteva in un tenebroso salotto strapieno,con la solita nave/ a vele spiegate tra onde di legni, tra veli inamidati,/e introno, in dolenti foto ritoccate, una famiglia francese: /grandpa barbuto e grand-mère dalla crocchia nera,/cuscini con nappe, porcellane, souvenir come prosa/che avesse perso il suo bouquet, Lafcadio Hearn, il solito Flaubert,/ancora memoir di viaggio,un vaso giapponese, una rosa bianca,/di cera perenne. Il padrone di casa uscì per una telefonata./Provai una incommensurabile tristezza per le vele della nave,/per il silenzio stagnante delle cose,il muto passato che trasportano,/la fugace vista del porto di Fort de France oltre la grata/«Notre ame est un trois-mats cherchant son Icarie -»/Baudelaire dall’anima vagabonda. Tutto questo nella falsa metro polle/della Martinica. La ventola rimescolava una storia di Maupassant./Dov’era l’anima della casa? Qualche cliché per occhi carichi/ di bistro, per labbra come petali di buganvillea in Manet./ Sentivo che il salotto, finestre chiuse, voleva richiamare,/se possibile, Parigi; girai le spalle al muro e vidi,/vuoto di desiderio come sul muro il clipper nella cornice dorata,/accanto a rigide foglie di gomma nell’aria greve del pomeriggio,/sfilata dal suo piede di marmo, una rossa pianella di raso./
