
Premessa
Quella che segue è la mia postfazione al libro di Paolo di cui vedete la copertina. Purtroppo è un libro introvabile, ma mi auguro che prima o poi una nuova edizione possa uscire. Borzi è già presente in questo blog, ma ho pensato che le rocambolesche vicende raccontate in questo libro singolare siano quanto mai attuali.
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Ci sono, nella letteratura italiana, tradizioni appartate e canoni laterali (nel senso che quelli codificati come maggiori sono altri), ma che tuttavia hanno continuato a resistere nei secoli e non solo negli anni: da Pulci, a Ruzante, all’Aretino, a Teofilo Folengo, per passare poi alla Commedia dell’Arte, a un certo Goldoni, per arrivare fino a Dario Fo, c’è un robusto filone di poesia e prosa che si fa sentire periodicamente, scoccando felicemente le sue frecce, alle volte con uno stile popolaresco, altre volte più colto, nelle terga dell’accademia letteraria.
Paolo Borzi, sia come prosatore, sia, come in questo caso, poeta – ma autore di un testo che attraversa i generi e li ricompone mescolandoli – appartiene di diritto a questa schiera illustre e noncurante, popolare e aristocratica insieme. Si aggiunga, nel caso specifico di quest’opera, che Borzi attinge anche all’unica rimasta – così almeno mi sembra – fra le tradizioni orali nostrane, quella degli stornellatori toscani, che l’autore ben conosce, bazzicando egli stesso quei luoghi. L’uso dell’ottava rima incatenata viene da questa tradizione e Borzi vi aggiunge un ancor più robusto retroterra di cultura orale, che si avverte costantemente anche nella sua prosa. Non mi sembra esistano, anche in passato, esempi d’uso così esteso dell’ottava rima incatenata, se non in una versione popolare e anonima della storia di Pia dei Tolomei. Quanto alla contemporaneità, si potrebbe stabilire qualche assonanza nel modo di trattare la lingua letteraria, con un testo teatrale di Tiziano Scarpa: Groppi d’amore nella scuraglia.
NovoStilVecchio o Della metamorfosi delle pipe (omaggio ai sec. XIII-XVII) è un’opera assolutamente singolare nel panorama della poesia e della prosa italiana contemporanee. Si potrebbe definire una ballata, ma la sua lunghezza è quella di un poema, anche tenendo conto degli aspetti squisitamente narrativi dell’opera.
La vicenda è introdotta da un brano in prosa con una forte valenza ritmica; a questa parte seguono le stanze, introdotte da brevi note di presentazione più didascaliche. Seguono capitoli, riflessioni a margine, divagazioni, commenti: sembra di assistere a un’opera dei pupi messa però su carta, verso dopo verso, riga dopo riga, con la pazienza di un miniaturista.
Tuttavia, come vedremo, questo canovaccio nasconde altri e più profondi riferimenti, in primis la Commedia dantesca (oltre ovviamente la Vita Nova, sia per molti temi sia per l’impostazione prosimètrica del lavoro) di cui qui e là riecheggiano le atmosfere e talvolta citazioni quasi letterali, senza però tracimare nella parodìa. Del grande libro del poeta fiorentino, Borzi accoglie a modo suo tutte e tre le Cantiche, ma sconvolge l’ordine delle stesse; è l’Inferno, però, la parte che maggiormente lo suggestiona.
Alcuni dei personaggi principali del poema sono gli stessi che abbiamo conosciuto anche con il romanzo Le sciamanicomiche. Riassumere i temi e l’andamento di questo poema è assai complesso, tuttavia qualche accenno aiuterà il lettore ad addentrarsi meglio in questa selva.
L’ambientazione è duplice: si comincia con un prologo e un primo epilogo in terra, ma il prosieguo della vicenda avviene nella nebulosa zq5 (dove il narratore Gaetano Pollastri viene mandato in ispirito), contenente
… la Stella-Occhio Monocòl e un pianeta, Saturnario, impistricciato nell’Età dell’Olio e avente un Calamaro gigante che vi sorge e vi tramonta al posto del citato Monocòl.
Questa prima parte porta come titolo Sovrumanar (Fatti non foste), parola che ricorda per assonanza il titolo di un libro di Pasolini, nonché un verso della Commedia, ma ha un significato ulteriore che diventerà più chiaro quando arriveremo alla conclusione del poema.
In teoria la nebulosa dovrebbe essere governata da Monocòl, divinità che ricorda Polifemo, ma anche il grande occhio orwelliano. Tuttavia, chi governa realmente è il Calamaro gigante, che non è altro che una metamorfosi di Monocòl stesso o un suo alter ego. Quanto a Gaetano Pollastri, ottantenne, già presente nel romanzo Le sciamanicomiche, viene definito:
… poeta vaticinale, tutto repleno di decrepitezza folle, catarroso càtaro psichicamente fluidificato nella catarsi di grappa valtellinese …).
Un altro protagonista è Gordini Ferdinando, un mistico stilita che, una volta approdato sul pianeta Saturnario, constata con stizza che la metamorfosi della divinità da buona in malvagia, non era prevista dalle Sacre Scritture. Prima di salire sulla superficie del pianeta, Gordini aveva vissuto una specie di tirocinio monastico sotterraneo, di cui pure viene narrato.
È Monocòl a salvare Gordini, facendolo rinascere più volte fino alla reincarnazione finale. In sostanza il bene e il male governano insieme su pianeti diversi, in una concordanza discorde, ma impossibile da sciogliere come appare evidente anche dalle caratteristiche fisiche del pianeta Saturnario, descritto in questi termini:
IV
Pensate a un mare d’olio per frittelle:
così trovai il pianeta Saturnario,
con parti emerse ancora meno belle,
fatte di corpi, un ampio campionario
di bestie e antropomorfi; e questi e quelle
dal flutto untuoso e basso, involontario
prendevan cibo, ottusamente liete.
L’Età dell’Olio è quella, e non più sete
V
e fame si patisce; e ben sapete
come pure da noi sia l’olio d’oro.
L’età dell’olio è appunto quella in cui tutto si attacca a tutto, dove ogni distinzione viene meno. Se dall’ambientazione si passa alla descrizione di questo regno su cui governa il Calamaro gigante, ecco che ritroviamo in chiave allegorica uno scenario che affonda nella storia e anche nella storia letteraria, con una ricchezza di citazioni e rimandi che potrebbero occupare un intero saggio, ben più lungo e articolato di quanto una prefazione possa fare e dire: non dimentichiamoci, tuttavia, che il Calamaro gigante regna in una dimensione sovra umana, e cioè nei cieli!
E veniamo alla seconda parte, dal titolo Umanar (Spaventapasserarsignificarlo), parola che, senza considerare il sottotitolo, sembrerebbe suggerirci una discesa dai cieli in terra. Invece accade qualcosa di sorprendente perché l’umano diventa, nell’opera di Borzi, una sospensione del tempo e anche della vicenda principale, un regno dove trovano spazio il desiderio e l’utopia. Prende così corpo un’ampia digressione che consta di molti momenti e si sviluppa in ampi testi prosastici e lungi testi poetici. I momenti fondamentali di questa parte sono tre, a mio giudizio. Il primo è La metamorfosi delle pipe, un’allegoria della vita stessa e, nel momento medesimo, meditazione su di essa:
/Cucchiaio è la mia pipa: come pala/
per bocca, scava il cibo e lo depone
/nell’uomo; e mentre il minestrone esala
/d’olio e legume il fumo, si dispone
/la pace fra gli oggetti della sala.
/Similarmente la mia Pipa pone
/vapori nella mente, inebrianti/
quel tanto perché il cuore o taccia o canti./
Il secondo è il Canto dei Beatrice, che comprende undici brevi prose ritmiche. In questa sequenza la protagonista illustre si oppone alla degradazione della figura femminile e dei rapporti fra i sessi che occupa una larga sezione della terza parte. Anche per Borzi sono gli occhi di Beatrice, le due lune, a rappresentarla meglio e a costituire quel faro d’elevazione che è anche nel dettato dantesco. La citazione che segue è la prima delle dieci che costituiscono il canto.
Due lune ha il Sole: satelliti d’oro bianco, gemmati da un’eclissi ferma: un’oasi d’ombra ove s’inombra un foro in cui rampolla sotto un’acqua eterna. Ero assetato, un pellegrino moro; solo un presagio avevo per lanterna…mi impresepiai in quegli Occhi, del Signore lune. E in quelle dune zampillò l’Amore!
Il terzo momento è costituito da un lungo testo in versi intitolato Spaventasserarsignificarlo. Il protagonista è uno spaventapasseri, visto come un Gesù Cristo in croce.
Veniamo infine alla terza parte dell’opera, dal titolo Disumanar (Per me si va). Eravamo partiti da una dimensione sovra umana, siamo passati attraverso un mondo umano e ora ritorniamo a una realtà disumanata. Siamo nel 1984, dopo Cristo, dunque nel nostro tempo. Ecco come Borzi ci presenta il luogo dove tutta la vicenda narrata va a concludersi:
Era Zebràs nel Grande Obbrobrio sita
di Settentrione: il posto più inquinato
tra quelli visti in questa od altra vita.
Dentro alle mura non rideva prato;
nemmeno una speranza è mai fiorita.
Ma mai nessuno lì s’è suicidato
dacché comparve il dio Polifotone:
Bestia a metà, e metà televisione.
Zebràs è dunque il luogo dove tutto confluisce ed è il nostro presente. Monòcol, divinità positiva delle origini è scomparsa, mentre il Calamaro gigante ha subìto una nuova metamorfosi: il dio del male, ora, racchiude in sé la fattezze della Bestia e la potenza della Tecnologia. Rimane l’occhio, che non è più quello animale del Calamaro o dello stesso Monocòl, ma è diventato impersonale come il Grande Fratello orwelliano. Zebràs, il mondo disumano, viene attraversato mettendone a fuoco alcune caratteristiche salienti, che costituiscono altrettanti titoli di lunghi testi in prosa e in poesia come sempre. Il primo dei testi poetici s’intitola Bordello fluviale e Polifotone.
In esso si delinea il luogo in cui si svolgerà tutta la parte finale, un vero inferno dove domina ogni genere di corruzione e dove il Dio Polifotone:
…/Demonio egli era, in forma in sé rappresa
di maxivideo: il volto suo nefando
in dodici visori era diviso
ognun dei quali t’accecava il viso/
L’immagine della Medusa, che paralizza chi la guarda direttamente negli occhi, è quella che sintetizza la natura di tale divinità. In questo luogo incantato e mortifero ai nati di entrambi i sessi è riservato un luogo specifico, Il Dedaludo, che è anche il titolo del secondo testo. La parola ricorda da vicino il paese dei balocchi, anche se nel testo di Borzi vengono accentuate le tinte fosche ed espressioniste. Nel Dedaludo, tutti vivono in bolge a seconda delle età e ad ogni bolgia corrisponde il venir meno di un aspetto vitale. Chi sopravvive al Dedaludo e ne supera le prove è pronto per la Formazione civile dei sessi.
Il tirocinio prevede regole precise cui maschi e femmine devono conformarsi: la fine di ogni vero desiderio è lo scopo di questa educazione e chi non vi soggiace del tutto viene di nuovo riportato dentro il Dedaludo. La formazione civile dei sessi consiste essenzialmente nella riproduzione coatta e senza eros. Maschi e femmine, infatti, sono destinati a vivere separati: le donne nel bordello fluviale, i maschi in un urbe dove vi sono delle strane macchine. Urbe dei maschi e macchine ematofaghe è il titolo del testo in questione.
Agli uomini bastava vivacchiare
nel proprio cuore: fondo ed inumano
isolamento, sperso nel gran mare
di sogni indotti; e sempre sottomano
avevan droghe e schermi da guardare.
Il cibo è fornito loro da macchine ematofaghe, con le quali succhiano il nutrimento proveniente da entità viventi che sono per metà animali e per metà robot. La scena in cui viene descritto il modo di nutrirsi ha anche aspetti comico grotteschi, che alleggeriscono l’atmosfera mortifera del luogo.
In questa specie d’inferno animal-tecnologico, oltre al dio Polifotone ci sono anche i governanti (gli Arconti), personaggi che conosciamo benissimo, seppure nella maschera che li trasfigura: l’Arconte metafisico, L’Arconte del Dedaludo, L’Arconte ambientalista, L’Arconte del bordello, l’Arconte della Moda, L’Arconte diplomatico, L’Arconte generale Il luogo in cui essi vivono è una specie d’alveare:
L’Arco d’Arconti andava a collocarsi
su un lato della piazza, il Maxischermo
dirimpettando, fra gli alloggi sparsi
pur’essi arcuati e ognuno avente un ermo
fatto di celle esagonali a intarsi.
Più stretto ed alto sotto l’aere fermo
il Favo del Governo aveva in punta
il buco con il Capo della Giunta.
In questo luogo fiorisce tuttavia anche una specie di storia d’amore fra Ninetta e Novello, che altri non è se non l’ennesima reincarnazione del mistico Gordini Ferdinando. I due sono riusciti a mantenere un aspetto quasi umano perché si sono nutriti di “alimenti noti” come “polli arrosto e pasta.”
Con la conclusione della loro storia d’amore, che lascio al lettore di scoprire, finisce anche il poema.
Fra allegoria e sberleffo
La teatralità intrinseca dei personaggi e della vicenda, fanno di quest’opera un testo che va oltre la pagina stampata e che richiede quasi imperiosamente la scena; anche se la lettura silenziosa da tavolo permette forse meglio di catturare i riferimenti colti che innervano la scrittura. L’alternanza di comico, grottesco e tragico non è soltanto un omaggio al canone della Commedia dell’Arte, ma ha un preciso riscontro di senso nel modo in cui la realtà viene filtrata in quest’opera generosa e volutamente esagerata. Si potrebbe dire che Borzi sposi, con un’inventiva straordinaria nel modo in cui allestisce la trama del tutto, una definizione famosa di Ennio Flaiano: “la situazione è tragica ma non seria.” Il lettore, infatti, riconosce benissimo le maschere che popolano questo testo fluviale e barocco: compaiono quotidianamente sugli schermi televisivi, dentro i giornali, l’incontriamo persino per strada e al mercato. Borzi, tuttavia, mostrandoceli nei loro lati più grotteschi, distorcendoli per renderli più reali come avviene nelle tele di un Arcimboldo, nelle memorabili caricature di Honeré Daumier, oppure in certi quadri di Otto Dix, li spoglia della loro forza, si comporta come il bambino della famosa favola, che svela la nudità del re con la sua frase innocente, con il suo sberleffo ben riuscito.
Rimane la cifra allegorica e, sullo sfondo, questo inferno fatto di divinità clownesche, nani dello spirito e ballerine. Opera sulla decadenza e la fine dell’impero, questa di Borzi! Dal momento che accade ai poeti di essere profetici, talvolta, al piacere della lettura accompagno il mio sincero augurio che abbia visto giusto.
