Questo riflessione critica fu pubblicata anni fa sulla rivista Il Cavallo di Cavalcanti quando il libro era da poco uscito. Vicenzo Pardini continua a essere per me un autore importante nella narrativa italiana contemporanea.
Amare gli animali può fare soffrire. Persiste in loro quanto noi abbiamo perduto di sacro. Tanto più allorché si tratta di animali che ci sono alleati e che, insieme a noi, [1]hanno contribuito alla storia dell’umanità1.
È un mulo il protagonista di questo racconto, l’ultimo di un libro affascinante, con il quale Vincenzo Pardini si conferma autore forte e appartato, come appartati e forti sono i luoghi nei quali ambienta le sue opere: l’Appennino toscano dall’Abetone alla Garfagnana, una zona d’Italia che non fa notizia in senso mediatico.
I protagonisti sono pastori d’altura, greggi, cani di varia natura, lupi, contadini che sembrano venire da un tempo arcaico anche se possiedono il cellulare e sono pienamente immersi nel nostro presente, donne inquiete, ubriachi da vecchia osteria e balordi come il Nandaccio (protagonista del racconto omonimo), insieme a qualche extracomunitario dell’ultima ora.
Su tutto questo però dominano gli animali, sempre presenti anche quando non sono in primo piano.
In questo mondo di fatica e forti emozioni, Pardini mette in scena quello che definirei un teatro dell’analogia. I protagonisti che si muovono su questo ideale palcoscenico sono alcune specie viventi, fra cui quella umana, ma i racconti di Pardini non si ricollegano alle tradizioni illustri dei bestiari in narrativa o nella cinematografia: Esopo e La Fontaine sono lontani, e ancora di più lo è Walt Disney.
Gli animali di Pardini, infatti, non sono antropomorfi, non rappresentano per mimetismo i vizi umani, né vengono presi a prestito per intenti moraleggianti. In che cosa consiste allora la differenza e il fascino di questi racconti? Prima di tutto nel fatto che lo scrittore toscano sa cogliere come pochi la traccia animale, a volte inquietante a volte imbarazzante, a volte commovente, che ci fa, in alcuni momenti e per alcuni tratti, simili a loro. Il gioco messo in scena è dunque quello della somiglianza e del rispecchiamento, che tuttavia rimane parziale: loro non sono noi e noi non siamo loro, perché questi animali solo in alcuni casi sono davvero e completamente domestici. Tuttavia, appartenendo a un’unica natura, a volte accade che ci si sfiori e quando ciò avviene e riguarda un animale come il mulo, così fratello nella fatica che accompagna dal millenni l’agricoltore e la sua terra, ecco che sembra quasi di potersi scambiare i ruoli, di sentire fino in fondo la sofferenza dell’altro come nostra e di potere immaginare che accada la stessa cosa anche a lui. Oppure succede che ci si capisca o ci si scontri su questioni di vita quotidiana. È ciò che succede anche con il cane Lotar, in Ritratto di cane.
L’animale viene rimproverato dal padrone perché, pur essendo adulto, si comporta in modo strano: trancia il nailon che ricopre delle travi in cantina, oppure le funi. L’uomo attribuisce il comportamento alla solitudine, dal momento che la sua compagna Lusca è morta di vecchiaia da poco tempo. Solo dopo qualche giorno l’uomo si rende conto che i suoi gesti sono dovuti ad altro. In cantina, infatti, si sente un olezzo molto forte, proprio dietro le travi su cui Lotar richiamava l’attenzione proprio lacerando i rivestimenti che le ricoprono. Dopo una breve indagine salta fuori la carogna di una gatta che era scomparsa da qualche tempo e che era andata proprio lì a nascondersi per morire.
Era andata a morire nella stanza di Lotar, a farsi vegliare e assistere da lui. Che adesso, venutomi accanto, m’interrogava e mi rimproverava con gli occhi: uno sguardo fermo e vivido che mi fissava incessante. Chi di noi – chiedeva – aveva ragione? Lo accarezzai, ma non scodinzolò. Aveva parlato e non voleva aggiungere spiegazioni. I veri duri non sono molto loquaci2.
In altri casi l’animale riacquista in pieno la sua valenza misteriosa e magica che aveva per gli antichi, incarnando il presagio di un destino di cui diviene messaggero. È così per Il ghigno della lupa.
Fin dall’inizio aleggia su questa storia un fato che incatena i personaggi, a cominciare da Ginesia, la figlia bellissima e inquieta di Ovidio Calmassi e della moglie Almira. La ragazza subisce tutti i richiami e le contraddizioni di una generazione di cui anche lei fa parte, nonostante l’isolamento delle montagne in cui vive; fa la pettinatrice in una cittadina della vallata, dove spesso pernotta presso Graziana, la quale a sua volta è pesantemente corteggiata da Alì, un marocchino che vende prodotti nella zona. I genitori di Ginesia, d’altro canto, soffrono delle stesse incertezze e sensi di colpa di quelli che abitano la grande città. Temono di non averla saputa educare, s’interrogano, ma lo fanno con amore, senza pregiudizio, capaci di accettare la vita raminga e assai trasgressiva di Ginesia che condivide con Graziana un rapporto che sconfina dalla semplice amicizia, per quanto intensa.
La vita della famiglia di pastori è stata difficile negli ultimi tempi, a causa delle continue aggressioni da parte dei lupi: i cani hanno il loro daffare a custodire le pecore e talvolta ne escono malconci. Un giorno si sono tutti allontanati, hanno fiutato il branco e così Ovidio li va a cercare. S’imbatte poco dopo nei lupi che hanno già fatto qualche preda e in particolare in una lupa con tre cuccioli, che non si accorge di lui finché non suona il cellulare dell’uomo: è la moglie Almira che lo avvisa che Ginesia è venuta a trovarli e che i cani sono tornati. Allo squillo, la lupa s’accorge dell’uomo e ghigna verso di lui in modo sinistro, senza tuttavia fare altro.
Ovidio ritorna e sollecitato dalla continue domande delle due donne racconta la sua avventura, nonostante non gli andasse di parlarne perché
L’incontro coi selvatici l’aveva lasciato di malumore 3.
Il racconto, sempre più incalzante, suscita un interesse crescente in Ginesia:
“Quanti erano?” incalzò Ginesia.
Una lupa e tre cuccioli, disse sedendosi davanti il televisore.
E i cuccioli com’erano? chiese compiaciuta.
Erano animaletti di tre, quattro mesi non diversi dai piccoli di cane, spiegò lui.
Mi sarebbe piaciuto vederli, aggiunse, con tono fintamente turbato, la ragazza.
Gli si era seduta davanti. Indossava l’accappatoio, aveva le gambe nude e i capelli neri splendenti come la madre … Sembrava una pellerossa, con un che di misterioso e selvaggio, come quando sorrideva e mostrava i denti bianchi, tra labbra carnose e mascelle un poco pesanti … Chissà perché ebbe la sensazione che, fra lei e la lupa del Circasso, ci fosse qualche analogia” 4.
L’analogia si presenta a Ovidio come un lampo improvviso, il selvaggio ricompare inquietante in ciò che è umano e vicinissimo, una figlia addirittura: non la lupa di Verga, ma piuttosto il Perturbante, che era già comparso, tuttavia, nello sguardo ambiguo del padre sulla figlia.
La vita sembra proseguire normalmente finché una sera, mentre Ovidio è seduto davanti al televisore, sul quale scorrono le immagini dell’Italia di oggi, la moglie è in cucina e Ginesia e Graziana se ne stanno in camera loro, l’ululato della lupa fa trasalire l’uomo un’altra volta; fuori però non vi è nulla ma la casa è come circondata dagli animali. Infatti, al risveglio avvertono un tramestio e trovano Graziana e Ginesia con un cucciolo di lupo trovato al bordo della strada, ferito. Le due donne decidono di tenerlo, nonostante la legge imponga di denunciarlo alla forestale, non intendono ragione. Ginesia reagisce con violenza alle rimostranze del padre, minacciandolo in modo molto grave:
In polizia ho un’amica molto intima. Se tu fai scappare il cucciolo, ti denuncio. Dico che hai abusato di me. Le donne, come saprai, in questo sono credute. Hai capito? 5
La frase della ragazza è del tutto sproporzionata, oppure apre uno scenario nuovo ambiguo, inquietante. Il padre Ovidio reagisce con disperazione all’accusa infamante ma non sa cosa fare; la sua debolezza di reazione, tuttavia, non sembra quella di un imbelle, ma piuttosto la resa a un destino immutabile, tragico nel senso greco del termine.
La vita sembra proseguire come sempre, con il suo tran tran quotidiano, ma la catena che stringe tutti i personaggi in un ingranaggio implacabile continua a muovere il suo ingranaggio: il corteggiamento sempre più insistente di Alì nei confronti di Graziana, l’attenzione che le due donne e in particolare Ginesia rivolgono al cucciolo di lupo, la presenza della lupa che ogni giorno viene a reclamare il suo cucciolo senza mai assumere però atteggiamenti aggressivi nei confronti di Ginesia, come se fra le due femmine si fosse instaurata una sorta di complicità sottile che esclude però tutti gli altri. L’improvvisa scomparsa di Graziana accelera fino al tragico epilogo il ritmo incalzante della vicenda, che si chiude con la liberazione del cucciolo e l’ennesimo ghigno della lupa, una specie di coro greco in forma animale che commenta i fatti accaduti senza alcun giudizio.
In Costagrande i protagonisti sono un gruppo di uomini e donne di paese, lo scenario d’apertura è un giorno di festa e di chiacchiere al bar. Gli animali entrano presto in scena sia nella conversazione degli uomini (un gallo da combattimento ferito), sia concretamente quando dalla strada arriva un mulo montato da Casimirro, che si trascina dietro un becco e cioè un caprone da monta di nome Costagrande, che segue e si trascina per la strada, abbacchiato come se fosse un prigioniero. Da un’osservazione ironica all’altra il discorso scivola sulle somiglianze fra esseri umani e animale. Al becco di Casimirro, oltre che possedere un istinto sessuale molto forte, piace lottare con gli uomini e li sfida. Un giorno il protagonista e narratore in prima persona del racconto, si batte con lui e lo atterra attirandosi la simpatia degli amici da bar con i quali va poi a brindare, scherzando insieme agli altri sulla somiglianza fra lui stesso e il caprone. L’uomo, però, si rende anche conto che l’odore forte dell’animale gli è rimasto addosso, anche sui vestiti. Cerca di lavarli in continuazione finché sembra essere scomparso, anche se:
L’odore scomparve in apparenza insinuandosi nel sottocute. Non sapevo più di pesce crudo e vivo, appena sventrato, bensì di sesso giovane e umido 6.
La vita dell’uomo e quella del caprone proseguono parallelamente: Costangrande, nonostante fosse stato portato alla monta delle capre in estro, è sempre più insofferente alle regole, cerca di scappare dai recinti per andarsene nel bosco e inseguirne altre, tanto che spesso il suo padrone o altri paesani devono intervenire per contenerlo e non suscitare l’ira di altri proprietari. Capita di nuovo anche a lui di doverlo fare, uscendone questa volta sconfitto e atterrato dall’animale; e a ogni nuova lotta di nuovo l’odore gli si attaccava addosso.
Una sera in cui s’incontra con una giovane ragazza che da tempo corteggia inutilmente, l’uomo si rende conto che qualcosa sta improvvisamente cambiando e che l’attrazione che da tempo prova per lei sta per essere ricambiata. S’allontanano in auto e fanno l’amore sul greto del fiume in modo selvaggio e a cose fatte lei si rivolge all’uomo con queste parole:
Quanto sei fico. E che buon odore ha la tua pelle!7
L’uomo trasale perché comprende che l’odore non può che essere quello del becco, ma non se ne sente turbato più di tanto. I loro incontri proseguono anche se la donna sta per sposarsi con un altro, ma ciò che accade a loro due non è altro che il prodromo a una serie di altri corteggiamenti amorosi. In una girandola quasi shakespeariana che ricorda i giochi e gli equivoci divertenti e imbarazzanti del Sogno di una notte di mezza restate, la girandola di walzer amorosi coinvolge molti altri in paese:
Fu un’estate insolita. In fatto di sesso, esseri umani e capre sembravano contagiarsi a vicenda8.
La girandola di relazioni clandestine crea risse tragicomiche, addirittura il ricorso ai carabinieri. Quanto al becco, aveva ripreso le sue scorrerie nei boschi, lottando con gli altri maschi per inseguire le capre selvatiche, dandosi sempre più alla macchia fino alla scomparsa. Casimirro e altri uomini, fra cui il protagonista-narratore decidono, fucile in spalla e insieme ai cani, di andarlo a cercare. Guardinghi per non farsi trovare armati dalla guardie forestali, ingannavano il tempo con il racconto di eventi trascorsi: primo fra tutti il ricordo del colera del 1854, che aveva funestato quelle terre, fino al lucchese. Finalmente scorgono il becco in lontananza, il muso fra due rocce; decidono che non è il caso di abbatterlo, né di cercare di raggiungerlo. Con l’inverno di lui si perdono le tracce, Casimirro pensa che con le prime nevi se ne tornerà all’ovile e invece non accade e tutti lo danno per morto. Invece l’animale si fa vedere sempre in lontananza, irraggiungibile; ritorna persino all’ovile ma non vi entra, con il suo belato particolare che assomiglia a un flauto, attira le capre che gli vanno incontro e fugge di nuovo nella macchia. Tutto il paese ne parla e sul caprone cominciano a fiorire le leggende, nutrite anche dai racconti di qualcuno che sa leggere i classici antichi e ricorda che i caproni possono essere la reincarnazione di un dio pagano … Passa un’altra estate e i pastori che tengono i greggi solo in altura si rendono conto che le loro capre danno alla luce cuccioli ben più resistenti, che assomigliano a Costagrande. Il povero Casimirro, che aveva comperato l’animale per migliorare la sua razza di capre, scopre così di avere lavorato per il re di Prussia; è il becco a guidare il gioco misterioso e a prendersi gioco degli uomini e al tempo stesso attirandoli a sé come fa con le capre. Finché un giorno d’estate il narratore s’imbatte improvvisamente in lui che se ne sta tranquillamente pascolando. Lo chiama e il caprone lo guarda e si lascia avvicinare; è ormai abbastanza vecchio e dal belato che cerca di emettere l’uomo si rende conto che anche per lui il tempo sta passando. Tuttavia si muove e l’uomo decide di seguirlo:
Zoppicando si volse e, con la leggerezza di un’ombra, s’inerpicò nell’erta di sassi e sterpi. Lo tallonai fino alla cima, ossia al valico del più impraticabile degli scoscendimenti rupestri che mi sia mai capitato di vedere. Un precipizio. Lo discese candeggiando fra rocce avvolte d’azzurro. Tornai indietro spaventato. M’era parso d’avere attraversato il confine di un sogno 9.
1 Vincenzo Pardini, Tra uomini e lupi, peQuod, Ancona 2005, pag.174.
2 Op. cit. pag.131.
3 Op. cit. pag. 54.
4 Op. cit. pag. 54.
5 Op. cit. pag. 61.
6 Op. cit. pag.156.
7 Op. cit. pag.159
8 Op cit. pag. 160.
9 Op. cit. Pag. 169.