
Premessa
È il tema del momento, non passa giorno che non se ne parli: l’accelerazione è evidente e corrisponde sia ai passi avanti tecnologici che prima erano soltanto ipotizzati, sia ai timori che suscita anche fra gli scienziati. Pensando a tutto questo e alle conferenze cui recentemente ho assistito fra cui quella del professor Pietro Montani un anno fa alla Casa della cultura di Milano, mi sono ricordato di alcune riflessioni che anni fa facemmo sulla rivista Overleft. Diversi interventi e qualche dibattito redazionale intorno a tematiche come la cura, i corpi e il cyborg. 1
Nel rileggerli alla luce della vertiginosa velocità in cui questa nuova potente macchina si sta imponendo, mi sono chiesto se quelle riflessioni siano ancora attuali. Questa nuova ne riprende alcune parti, dialoga con altre e ne trascura qualcuna.
Alcune domande
Il dibattito intorno alla macchina artificiale mi sembra abbia al fondo un interrogativo fuorviante: sarà davvero in grado questo nuovo aggeggio di superare l’umano? La domanda più importante a me pare invece un’altra: a cosa serve un progetto che programmaticamente vuole disfarsi dell’umano – almeno nella versione che di questa macchina sembra prevalente nel mondo europeo e statunitense – a prescindere se ci riuscirà o meno? A quali logiche di potere risponde?
La mia risposta è radicale e sotto molti aspetti irricevibile – me ne rendo conto – ma lo dico lo stesso, come provocazione: sarebbe un progetto da respingere in sé. Non ignoro che discorsi simili sulla tecnologia si sono fatti fin dalle origini della storia scritta, ma credo che dopo il secolo di Oppenheimer e ora del tentativo di costruire una versione di ancien regime in chiave high tech, la distinzione fra uso buono e uso cattivo delle tecnologie sia una litania se non proprio fuori corso almeno da problematizzare ulteriormente e aggiornare.
Prima di tutto perché non parliamo più di scienza, ma di una tecnologia che si rende sempre più autonoma dalla scienza intesa come conoscenza del mondo fisico e biologico; altrettanto lontana lo è dai fondamenti filosofici che da sempre si sono accompagnati alla scienza degna di questo nome.
Quest’ultima presuppone una libertà relativa – ma pur sempre libertà – dello scienziato, il potersi muovere con un margine di creatività senza scopo, di seguire ipotesi senza preoccuparsi immediatamente delle sue ricadute utilitariste, pur senza escluderle: questa è la modalità con cui l’ente generico umano ha esplorato il mondo.
Oggi tutto questo può ancora avvenire, faticosamente e nonostante la Big Science, ma ancora avviene. Se però la tecnologia, molto più di prima, non risponde più ad alcun criterio etico legato al bene comune, ma semplicemente alla possibilità di fare qualsiasi cosa in nome della sua ricaduta utilitaria immediata, non siamo più dentro un progetto di scienza.
Ciò che ispira il programma di macchina artificiale a me sembra, per usare un’espressione di Rocco Ronchi in un suo recente libro, una metafisica della libertà.2 È la medesima logica che ispira l’azione di Trump e anche dei leader israeliani, che usano proprio questa macchina per portare al massimo delle possibilità la loro pulsione criminale e genocida: posso fare tutto quello che voglio a mio piacimento perché la mia libertà è sovrana e se ho la forza di imporre ciò che voglio lo faccio. Che poi ci riescano davvero e fino a che punto è un altro discorso.
Prima di affrontare tale tematica, però, mi sembra opportuno fare un passo indietro e tornare alle origini di un discorso critico radicale nei confronti della tecnologia. Poiché almeno in un caso si può risalire molto indietro nel tempo, vale la pena di farlo. L’obiezione che Platone mosse al sorgere della scrittura era che la nuova tecnologia avrebbe compromesso la capacità di utilizzare la memoria e inflitto un colpo mortale alla trasmissione orale delle esperienze di vita di una comunità. Bene, possiamo forse negare del tutto che questo sia avvenuto?
Considerare i vantaggi che la scrittura ha apportato all’umanità ma accantonando completamente il discorso su ciò che si è perduto, rimuove dalla consapevolezza il fatto che la tecnologia in quanto tale, se distaccata dal piacere dell’esplorazione, è sempre a somma zero su tempi medio/lunghi, perché l’evoluzione di qualcosa s’accompagna sempre alla perdita di capacità precedenti che di solito vengono poi riscoperte in momenti di acutissima crisi, quando – spesso proprio a causa degli effetti distruttivi di qualche tecnologia, specialmente bellica – gli esseri umani si ritrovano rigettati in condizioni di vita precedenti che si pensavano, erroneamente, superate. Sta avvenendo anche oggi: a Gaza, prima di tutto, nel Darfur e nei diversi altri scenari orrendi; ma è avvenuto anche in mezza Europa con il blackout che ha coinvolto Spagna, Portogallo e il sud della Francia. Mi ha colpito in particolare una parte dell’appello rivolto dal primo ministro Sanchez alla nazione nel momento più critico dell’oscuramento: dopo avere invitato tutti a non usare l’automobile ha suggerito di munirsi di candele. Questo accenno mi ha riportato a un ricordo personale 3 Anni fa partecipai con moglie e figli a un campo di lavoro in Lesotho e ci rendemmo subito conto dell’importanza che avevano le candele e le capacità di usarle da parte dei lesothiani, per molti scopi diversi e sorprendenti, per esempio come fonte di calore. Naturalmente non ci volle molto tempo neppure per noi a riusare una tecnologia che peraltro era ancora molto in uso negli anni ’50 nel paese di mio nonno paterno, ma la sorpresa fu comunque molto grande.
Riconoscere i benefici di una nuova tecnologia non può prescindere dal considerare il rapporto che c’è fra l’umano come ente generico e la tecnologia medesima, che per sua natura è sempre una forma di specializzazione che inibisce un segmento di quella genericità che è la fonte primaria di ogni trasformazione. Con la macchina solo artificiale siamo a questo, al tentativo di cancellazione dell’ente umano generico. Non ha alcuna importanza, allora, domandarsi se sarà davvero possibile arrivarci oppure no, anche se penso che alla fine non ci si riuscirà per l’intrinseca megalomania del progetto, che probabilmente collasserà sotto il proprio peso, anche a causa dei costi fisici che richiede e dello spreco di risorse energetiche che saranno la causa prima dei prossimi blackout; ma questo difficilmente porterà di per sé a un ripensamento del rapporto fra scienza, tecnologia ed etica.
A questo proposito mi sembra quanto mai utile rileggere oggi un intervento di Francesco Centineo, pubblicato su Sinistra in rete nell’ottobre del 2023, dal titolo Inferno digitale. In questo articolo si citano le inchieste di Guillaume Pitron, un girnalista e documentarista che collabora fra l’altro con Le monde diplomatique. L’articolo mette in evidenza come in tanti processi iper tecnologici, il consumo spropositato di energia è l’altra faccia della apparente smaterilizzazione che viene venduta in modo propagandistico come trasformazione green dell’economia.
Preciso infine che questo mio ragionamento vale nel contesto europeo e statunitense. Non so nulla dei presupposti filosofici che ispirano le modalità cinesi di utilizzo della macchina artificiale. La sola cosa che se ne sa qui oscilla fra propaganda e paura: il tema è senz’altro da approfondire, anche se non credo possa modificare la situazione più di tanto.
La metafisica transumana
Alcuni anni fa, il gruppo statunitense Critical Art Ensemble, formato da allievi di Marshall McLuhan, aveva ipotizzato un futuro in cui:
L’esplicarsi totale delle relazioni all’interno del circuito nomadico virtuale da parte di Corpi senza Organi, sarebbe possibile solo se noi fossimo davvero corpi senza organi.
Afferma ancora il Critical Art Ensemble:
… Il corpo elettronico è il corpo senza organi. Esso domina la scena e ha ri-centrato il teatro intorno all’identità vuota e al desiderio vuoto. Il corpo senza organi è il corpo perfetto per sempre riproducibile. Nessuna riduzione al biologico. Duecento cloni di Elvis appaiono sullo schermo … Gli orifizi del corpo senza organi sono cuciti strettamente. Nessun consumo, nessuna escrezione, nessuna interruzione … Il teatro della strada e i detriti culturali associati collassano. La civiltà è stata ripulita, il progresso è stato completato – la merda, la spazzatura, il marcio sono stati messi fuori dallo schermo e cancellati dal mondo perfetto del corpo elettronico. Il corpo elettronico, libero dalla carne, libero dall’economia del desiderio, ha sfuggito il dolore del divenire.”
Il cumulo di rifiuti, l’inquinamento atmosferico e quello delle acque, per non parlare dei cibi spazzatura, non sono altro che i prodotti esternalizzati del Corpo senza Organi.
I rapporti sociali violenti che stanno alla base della volontà di dominio occidentale e del suo delirio di onnipotenza riversa i suoi costi laddove la riproduzione della vita si compie. L’eccesso sempre più evidente e non più gestibile di rifiuti organici è il corpo deforme della virtualità; occupa lo spazio fisico, finché ogni circolazione diventa impossibile, le reti possono continuare a funzionare, ordinare, selezionare, indicare indici di produzione ma anche gli esseri umani dell’universo virtuale dovranno continuare a riprodurre ogni giorno le condizioni (materiali e spirituali) della loro esistenza, come gli esseri umani di ventimila o trentamila anni fa. Il Just in time delivery, per esempio, presuppone pur sempre, la rapidità di consegna e cioè l’efficienza delle infrastrutture fisiche della logistica; altrimenti non può funzionare. Il venir meno di molte abilità di base, causato dalla delega sempre più marcata a sistemi di controllo automatici, rende e renderà sempre più inefficiente il sistema globale. Fra l’altro il gruppo statunitense notava spesso come il linguaggio informatico fosse assai simile ad affermazioni filosofiche antiche che permettono un parallelismo assai ardito. La costruzione del bunker nomadico virtuale appare come la realizzazione moderna di una vecchia distopia che risale agli albori della filosofia stessa: espellere il corpo, l’eros, il femminile, il sacro, dal logos.
L’intento del Critical art ensemble era critico, era una messa in guardia del tutto ragionevole.
Finché gli esseri umani saranno dotati di corpo fisico vivente, di una vita biologica e di una vita emotiva, le reti che costituiscono i rapporti sociali non potranno mai prescindere da questo dato, qualunque sia la forma virtuale e simbolica che dette reti assumano. Prima di tutto gli esseri umani si muovono in un tempo biologico finito e si spostano nello spazio fisico: entro questi binari essi danno vita a una rete di relazioni sociali. Accanto a essa la rete virtuale costituisce, nella nostra epoca, il tessuto invisibile della trama del potere nomadico e del controllo sociale. Con la macchina artificiale ci avviciniamo ancora di più a questo esito estremo e infatti non è un caso che i guru di questa trasformazione come Bezos e Musk dedichino molta della loro propaganda a ipotizzare la possibilità di vincere la morte, grazie a ibernazione, sostituzione di cellule, organi e altro. Al tempo stesso vaneggiano di viaggi su astronavi che permetterebbero a un’ultra elite di ex umani maschi e femmine, di sopravvivere come esemplari della specie in altri mondi, lasciando dietro di sé solo morte e distruzione per tutti gli altri. Propaganda, certo, però quanto mai distruttiva.
Non credo esista nella parte occidentale e post occidentale e atlantica del mondo un pensiero di transizione democratica al transumano o post umano che dir si voglia – ammesso che questo sia davvero possibile, cosa che tendo a non credere – perché la logica intrinseca del modello è quella ipotizzata di Elon Musk e dei suoi sodali della Silicon Valley.
La critica di parte femminista
Il mondo femminista è assai variegato. Per quanta mi riguarda, sono le voci critiche nei confronti del transumano quelle che mi convincono.
Angela Balzano, rifacendosi anche a Cooper (Biocapitale e potenza generativa della vita) sintetizza il lungo percorso che porta alle più recenti tendenze del capitalismo affermando che:
… il bersaglio dell’espropriazione non è più rappresentato solo dal tempo di lavoro dell’uomo, del cittadino astratto. Genetica, microbiologia, medicina umana riproduttiva, nuove tecnologie dell’informazione, facilitano l’espropriazione, senza limiti, di ogni tipo di corpi e corpuscoli, dagli embrioni agli estremofili, rendendo fonte di plusvalore in primo luogo i poteri riproduttivi di tutte le specie. Il nodo fondamentale per divenire oggetto di controllo e valorizzazione non è più la classica appartenenza alla specie umana: il biocapitale ha il volto postumano delle femmine della specie, di qualsiasi specie si tratti. Nei mercati globali dei futures, e nelle agende politiche attuali, conta molto più la potenza rigenerativa della cellula staminale, la sua totipotenza, che la specie del corpo da cui essa viene estratta …
A tale citazione se ne può affiancare una seconda:
L’evoluzione, la forza dinamica della moderna comprensione della storia naturale, non è più il contesto comunemente accettato dell’origine della specie; anzi, è oggi possibile sospendere il tempo naturale, il tempo della discendenza genealogica, la specificazione individuale e l’adattamento della specie. Al suo posto vi è ora un nuovo tempo, il tempo del laboratorio, dove la riproduzione è ristrutturata come produzione, dove non ci sono originali e dove l’ibrido è biologicamente, letteralmente, il suo stesso ambiente di riproduzione [Franklin, Lury & Stacey, 2000, 92].
Concludendo questa parte del discorso cito ancora Angela Balzano:
… al centro della governance neoliberista contemporanea vi è il controllo della vita tutta, della nostra vita come soggettività e specie, e della vita non umana. Per questo la descrizione delle moderne scienze biologiche, mediche, genetiche, in termini di rapporti tra sapere e potere, alla maniera foucaultiana, è ancora opportuna, ma a patto che essa sia integrata dalla nuova consapevolezza neomaterialista e femminista che il biocapitale, nell’era postumana dell’antropocene, e al contempo zoe potere e biopolitica di rapporti tra sapere e potere.”
Il contributo che il neomaterialismo femminista apporta all’analisi delle forme attuali del capitalismo, sta nel mutare il punto di vista da cui guardare a tale processo, che se fosse colto solo nelle sue dimensioni economiche, in realtà non sarebbe affatto nuovo. Lo mettono in evidenza anche loro e infatti sia Balzano sia Braidotti in La camera blu, affermano che la tensione naturale del sistema capitalistico a superare ogni barriera etica e politica essendo nel suo intimo, volto al caos entropico, era già stata ben descritta da Marx.
Anche le riflessioni di Ina Pretorius su cura e reddito di cittadinanza, completano un orizzonte analitico di tipo nuovo, in cui non è più l’economia al centro. Tuttavia, secondo Braidotti e le altre studiose citate in precedenza, neppure questo basta più perché dal bios occorre passare alla zoe e cioè a quel campo che va all’animalità comune con le altre specie, dalle quali l’anthropos ha cercato nel corso della storia di distinguersi dando di sé definizioni varie di cui la più antica, nella porzione di mondo che definiamo occidentale, è forse proprio quella di Aristotele: animale politico. Questo passaggio che coinvolge la zoe pone subito dei problemi, non essendo (per quanto ne sappiamo oggi), bidirezionale. In altre parole noi possiamo constatare che le nostre azioni socialmente organizzate nelle forme attuali portano a una invasione anche della sua sfera, ma una volta constatato questo non possiamo delegare ai gatti la soluzione del problema, ma esso ci ritorna indietro come responsabilità e scelte da compiere sul piano etico e politico che, sempre per quanto ne sappiamo, non sono condivisibili per definizione con ciò che appartiene alla zoe, perché se anche ipotizzassimo che esiste un transito bidirezionale nella forma di segni linguistici o altro, temo che non saremmo in grado di riconoscerlo e quindi di instaurare un dialogo. Né possiamo pensare di risolvere il problema dicendo che tuttavia possiamo imparare dai gatti e dalle altre specie animali; il che in una certa misura può essere vero e per limitati aspetti avviene già, (gli esperimenti cui accenna Frans de Waal nei suoi libri sono assai interessanti), ma non risolve il problema. Mi riferisco in particolare a due testi: Il bonobo e l’ateo, Diversi, L’ultimo abbraccio, facilmente reperibili anche in rete.
Il paradigma della cura e quello del riconoscimento possono indicare un orizzonte di soluzione, tenendo conto tuttavia che un’altra tensione si profila. La critica allo specismo, esplicita e implicita in tutto il discorso del postumano, se portata all’estremo arriva a negare non solo la superiorità della specie umana su tutte le altre, cosa di per sé condivisibile (a questo proposito la migliore – perché minimalista – definizione di differenza fra quella umana e le altre l’ha fornita secondo me Levi-Strauss: “La specie umana si distingue dalle altre perché cucina il cibo che mangia.”) – ma attacca con argomenti assai discutibili qualsiasi discorso di limite e di prerogative di ciascuna specie, compresa quella umana. La ricchezza della natura è basata proprio sulla biodiversità e la varietà, il riconoscimento della diversità è il presupposto per un allargamento dell’autocoscienza umana alla zoe, che è per noi un cattivo infinito inaccessibile (in questo caso uso il termine di cattiva infinità in senso hegeliano), oppure più poeticamente quel mare in cui il naufragar m’è dolce.
Postumano e cyborg.
Postumano ha una seconda specificazione, da tenere ben distinta dalla prima sul piano analitico, pur essendo consapevoli che gli intrecci esistono e indicano altri punti di frattura o tensione. Paolo Rabissi, sull’abbrivio delle affermazioni di Braidotti la riassume bene così:
“Siamo già postumani, sostiene Braidotti, più di quanto immaginiamo, nella nostra esistenza costellata di protesi, dispositivi, macchine, tecnologie riproduttive, cibi geneticamente modificati, trasporti sempre più veloci, e poi di seconde e terze vite digitali sui social: il che ha eroso la dicotomia classica tra natura e cultura aprendo spazi prima inimmaginabili di libertà e producendo nuove possibilità di soggettivazione. Con un ottimismo nella vitalità della materia capace di riorganizzarsi in mille modalità.”
Vero, ma questo ragionamento vale ancora con la macchina artificiale? Credo sia una riflessione da fare.
Riporto infine un altro brano citato da Braidotti:
…la fede illimitata nella ragione, intesa come motore dell’evoluzione umana, e strettamente connessa alla prospettiva di un progresso dell’umanità teleologicamente ordinato e razionale: oggi questa nozione nella sua forma più accesa e adottata dai trans-umanisti di Oxford che insistono sul potenziamento umano tecnologicamente mediato e quasi senza vincoli tramite l’interfaccia cervello-computer. Essi propongono una tale espansione attraverso un programma dal titolo significativo di “super intelligenza” come il modo più efficace per realizzare le potenzialità dell’evoluzione umana (Bostrom, 2005).
“Le filosofe critiche postumaniste si permettono di dissentire” aggiunge Braidotti.
Concordo anch’io.
All’esaltazione della tecnologia in tempi storici recenti (dal 1700 in poi) dedico poche parole solo per richiamare che la sua origine sta nell’empirismo anglosassone e poi statunitense e che tale origine viene ancora oggi ben poco problematizzata.
Forme di resistenza
Pensare a forme di resistenza e non di utilizzo virtuoso della macchina artificiale, implica una mossa laterale ma anche porsi il problema di una salvaguardia di tecnologie precedenti e del loro uso come parte della resistenza stessa. Tutto il circuito del riuso, riciclo e cura, il problema se lo pone in questi termini e fa benissimo a farlo e anche pensare a forme di tecnologia dolce, seppure molto sofisticate. Quanto più i processi distruttivi che la macchina artificiale innescherà sono destinati a continuare, tanto più sarà necessario proteggere saperi e modi di vivere precedenti, innervandoli anche su un processo che miri a costruire una catena di enunciati che possano portare a un pensiero strategico di riorganizzazione della vita sociale.

1I testi e il dibattito cui faccio riferimento si trovano in due diverse rubriche della rivista: dopo il Diluvio e Dibattito redazionale. Per quest’ultimo cito per primo I motivi di una riflessione sulla cura, del 2015. Della rubrica con Marx oltre il marxismo, segnalo Di che cosa parliamo quando parliamo di cura di Adriana Perrotta, sempre nel 2015, Sulla Cura di Romanò, Beni comuni di Paolo Rabissi nel 2012. In Dopo il diluvio, I corpi e il network di Romanò, 2016. Il tema è toccato indirettamente anche in altri saggi di Rabissi sulle fabbriche della Exxon e altri.
2 Rocco Ronchi: Populismo/Sovranismo, una illustre genealogia, Castelvecchi, Roma 2024, capitolo primo. L’uso che faccio della espressione usata da Ronchi nel suo libro è di mia responsabilità. Il contesto in cui lui la usa è diverso ma credo che sia trasportabile in quest’altro. Mi sembra però opportuno dirlo espressamente.
3 Peraltro, le più recenti acquisizioni della paleo antropologia, dimostrano ampiamente come, comunità che vivevano decine di migliaia di anni fa erano in grado di sviluppare abilità, sistemi di conto, tecniche agricole, ben prima che si imponesse la comunicazione scritta. A questo proposito è fondamentale un libro come L’alba di tutto di Graeber e Wengrow.