QUANDO GLI USA ARRUOLAVANO LA DECIMA MAS

Introduzione

L’articolo che segue in corsivo fu scritto nel 2023 e la sua importanza sta nel fatto che, pur descrivendo una situazione largamente conosciuta da tempo, è pur vero che recentemente e grazie al venir meno della segretezza, documenti statunitensi prima non disponibili oggi lo sono e infatti le fonti citate nell’articolo provengono dai loro archivi.

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Gli americani si fidavano solo di loro. Quelli che odiavano i “rossi”, quelli che volevano cacciarli a qualunque costo dall’altra parte del mondo. Gli americani chiedevano fedeltà e in cambio offrivano impunità. Per il prima e per il dopo. Per sempre. Garantivano le spie. Ogni contatto, ogni manovra, ogni piano veniva comunicato con dispacci a Washington. Messaggi “secret” come questo, datato 16 ottobre 1945: “Immunità garantita agli ex membri della Decima Mas”.

Dagli archivi dell’intelligence USA esce un altro pezzo di storia italiana del dopoguerra, gli accadimenti di un Paese che in quegli anni – svelano gli atti desecretati dalla CIA – è il più grande laboratorio di manipolazione politica clandestina. Ossessionati dal pericolo bolscevico, turbati dall’ apparato e dalla forza del PCI, preoccupati dai tatticismi di De Gasperi, rassicurati dalle diffidenze della Santa Sede verso la Democrazia Cristiana ancora alleata con Togliatti (tra le alte sfere vaticane qualcuno già accarezzava l’idea di far nascere un secondo e più conservatore partito cattolico), i servizi segreti USA avevano costruito nella Penisola una rete spionistica per condizionare i passi della nascente Repubblica. Un esercito di uomini pronti a tutto che, già nella primavera del 1945, nei fatti è quella Gladio che “ufficialmente” nascerà qualche anno più tardi.

I documenti che raccontano cosa avvenne sono tutti conservati nel palazzo di cristallo e cemento degli Archivi Nazionali degli Stati Uniti d’America, tra i boschi di College Park nel Maryland, a una trentina di chilometri da Washington. Erano carte top secret fino a qualche tempo fa, carte provenienti dagli schedari dell’ OSS (Office of Strategic Services), l’antenato della Central Intelligence Agency. Al centro di quella “rete” c’è il giovane James Jesus Angleton, capo del controspionaggio americano a Roma dal ’44 al ’47, nome in codice “Artefice”. E’ lui che, pur di bloccare l’avanzata della sinistra, architetta e pilota da Trieste alla Sicilia tutte le “operazioni speciali”. Il suo Comando riceve il 4 aprile del 1946 un rapporto da una fonte coperta “che sta lavorando clandestinamente a Roma per trovare supporto economico e politico per i neofascisti e per legalizzare la loro posizione”.

L’ analisi che fanno gli ufficiali dell’OSS su queste informazioni:

“La sua posizione (della fonte, ndr) è quella che i comunisti, e quindi la Russia, stanno ottenendo un controllo sull’ Italia, i neofascisti sono un importante baluardo contro il comunismo. Si dovrebbe permettere loro di rientrare nella vita politica italiana per continuare a dare il loro contributo per la sconfitta del comunismo”. Concludeva l’ informativa: “Gli Stati Uniti dovrebbero entrare in trattativa con i neofascisti e sostenerli, in cambio otterrebbero il completo controllo della situazione politica italiana”.

Ma già da tempo, il capitano Angleton aveva intuito che i fascisti sarebbero primi attori della sua strategia. Era stato proprio lui, il 10 maggio del 1945, a strappare dalle mani dei partigiani milanesi il comandante della Decima Mas Junio Valerio Borghese. Travestito da ufficiale americano, il “principe nero” era stato trasportato fino a Roma su una jeep dell’ Esercito USA.

Comincia proprio in quei giorni a svilupparsi la trama del servizio segreto di Washington, in quei giorni si forma un esercito raccattato un po’ ovunque. Addestrato in Italia ma anche oltreoceano.

Ci sono decine di documenti dell’ Office of Strategic Services che testimoniano il “recupero” dei militari della Decima Mas, dei criminali di guerra, di ex collaborazionisti, di agenti dell’ OVRA, di capi e sottocapi del regime fascista.

Il rapporto del 16 ottobre 1945, spedito dal capitano Angleton al colonnello Earle Nichols, sull'”immunità” da assicurare al principe Borghese e ai suoi marò, spiega bene cosa stava accadendo:

“Attraverso il nostro agente JK 1/8…uno specifico gruppo dell’ex personale “gamma” della Decima Mas, al momento utilizzato in un ufficio Alleato sperimentale a Venezia… questi individui devono essere considerati diversamente e resi immuni da qualsiasi imputazione per attività condotte fino a questo punto”.

Sono 20 gli esperti sabotatori, tutti inseriti in una lista. Cinque di loro sono già stati selezionati per l’ “addestramento” negli Stati Uniti. La loro storia e i loro nomi sono in un atto del 29 ottobre del ’45: “…Tadini Camillo, Merighi Giulio, Monti Franco, Freguglia Carlo e Berni Berno sono stati ingaggiati per servizio negli Usa…”.

In un’ altra carta, alla stessa data, si parla di questi uomini della Decima Mas “che vengono impiegati per compiti speciali”. Quali sono quei “compiti speciali” non viene specificato, ma in due lettere che Angleton invia al suo Comando, il 6 novembre del ’45, c’è scritto:

“Alla luce del fatto che Borghese assume un grosso interesse di lungo periodo all’interno del nostro lavoro, suggeriamo che il Dipartimento della Marina intervenga per richiedere la custodia del soggetto, allo scopo di sfruttare al massimo le sue superiori conoscenze sulle armi e sulle tattiche segrete di sabotaggio navale”.

Lo “sfruttamento” del “principe nero” – rivelerà un altro documento, sempre del novembre 1945 – sarà discusso nei dettagli qualche settimana dopo a Washington. Da Angleton in persona. Il principe adesso è nelle mani dell’americano che fa la spia a Roma. Compare e scompare all’ombra dell’ OSS, entra ed esce dal penitenziario di Procida, gli agenti USA lo prelevano ancora nel marzo del ’46 e lo riportano in cella nel giugno successivo. Le missioni di Junio Valerio Borghese resteranno per tanti anni un mistero. Il capo del controspionaggio in Italia è consapevole che la guerra non finirà con la firma del trattato di pace.

Ci sono i comunisti da fermare, c’è un embrione di Stato che è ancora troppo debole per garantire sicurezza all’Occidente antibolscevico. E i fascisti sono ancora tanti, tantissimi in Italia.

La fonte romana che mesi prima aveva consigliato di proteggerli censisce all’OSS le milizie nere:

“A Milano e provincia i neofascisti sono 50 mila ben armati, a Genova 20 mila, per la metà armati. Lo stesso a Venezia e nei dintorni. Anche nei centri di Bergamo e Brescia sono molto forti. Il centro di Roma conta 30 mila uomini, 10 mila dei quali armati. Nel Sud ci sono centri neofascisti a Napoli, Bari, Reggio Calabria e Sicilia…”.

Ma James Angleton sa bene che qualunque cambiamento in Italia non si fa solo con la soldataglia e le operazioni “sporche”, sa perfettamente che senza il via libera dellla Santa Sede non si arriva lontano. I collegamenti tra servizi USA e quelli vaticani ci sono da sempre e si intensificano nella fase bellica quando Allen Dulles (uno dei capi dell’ OSS in Europa) stringe, in Svizzera nel 1942, rapporti con il frate domenicano belga Felix Morlion. Ma è dopo la Liberazione che la partita diventa decisiva.

In un dossier dell’OSS senza data, ma infilato tra i fascicoli dei “rapporti con il Vaticano” – “La guerra segreta in Italia” – gli 007 di Washington scrivono che “…poiché i suoi obiettivi spirituali  (della chiesa cattolica ndr) sono mondiali, il Vaticano è il centro più esaurientemente informato del mondo”. Territorio privilegiato per le spie.

Ecco un atto dell’intelligence USA dell’agosto ‘46 con oggetto: “News from the Vatican”. Il testo:

“…Il Vaticano al giorno d’oggi si rende conto che la prima linea deve essere tenuta ad ogni costo per prevenire l’ avanzata del comunismo”.

Il 23 febbraio del 1946 l’agente dell’OSS JK9/1 intercetta una notizia e la manda a Washintgon per dispaccio:

“De Gasperi ai suoi intimi (quindi c’è una fonte vicina al Presidente del Consiglio che riferisce alle spie USA, ndr) ha detto che sembra sempre più evidente, dall’atteggiamento del Vaticano, che alla segreteria di Stato si cerca di dare vita a un nuovo partito per intimorire la Democrazia Cristiana”.

Ma già quasi due anni prima era stata definita la “linea” della Chiesa per il dopoguerra. Rapporto OSS dell’8 dicembre del 1944: “Direttive vaticane al partito cattolico”. Vi si legge:

“Informiamo che il Vaticano ha inviato categoriche istruzioni a De Gasperi, leader del partito cristiano democratico, come segue:

a) cooperare ad ogni costo con i “partiti dell’ ordine”….

b) temporeggiare a ogni costo con i sei partiti con l’obiettivo di evitare situazioni pericolose ma rompere al momento opportuno con gli elementi di sinistra…”.

Dalla Santa Sede va e viene – nell’inverno tra il 1945 e il 1946 – il capo del governo Alcide Gasperi. Il Presidente cerca di rassicurare il papa, intuisce che con i comunisti ancora al governo la chiesa è inquieta, che le alte gerarchie gli chiedono garanzie ancora più precise. Negli archivi di College Park c’è traccia anche di un giovanissimo Giulio Andreotti. Il cablogramma è proveniente da Roma e porta la data del 20 febbraio 1946. Il delfino di Alcide De Gasperi il giorno prima aveva parlato con un noto giornalista e gli aveva raccontato il contenuto di una conversazione privata del Presidente del Consiglio sulla situazione politica. In realtà quel giornalista è JK-12, una spia che invia il suo cablo a Washintgon: “Andreotti ha informato…”.

Ma Angleton guarda anche oltre il Vaticano e i fascisti di Borghese. Aggancia il controspionaggio del Regio esercito, dei Reali carabinieri e della Marina italiana. La spia è anche attenta a ciò che sta accadendo al Sud dell’Italia, in Sicilia i comunisti hanno alzato la testa con le prime occupazioni dei feudi, i contadini che si prendono le terre. E così il capitano sta pensando di reclutare nei suoi squadroni anche un bel po’ di mafiosi. In America Lucky Luciano già prepara le valigie. Tra poco sbarcherà a Palermo.

La Repubblica, 9 febbraio 2003

di ATTILIO BOLZONI TANO GULLO

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La storia e l’attualità

Non mi risulta che siano molti gli storici italiani di storia contemporanea che si siano premurati di leggere queste documentazioni, ma ci sono altri che per fortuna lo fanno e meritoria è dunque l’opera del sito Perugia antifascista che lo ha rimesso in circolo tempestivamente proprio all’inizio della seconda presidenza Trump: non si tratta solo di ricordare il passato e di fare storia, ma di affrontare il presente ricorrendo anche al passato. Quello che l’articolo del 2023 mette in evidenza, infatti, è la continuità con un modus operandi statunitense che lo riconnette alle origini stesse della loro politica imperiale, che ha caratteristiche peculiari che si allontanano dalla definizione classica di imperialismo, troppo legata al solo aspetto economico e finanziario e si avvicinano invece alla concezione romana della politica imperiale. Questa distanza, a mio avviso, diventa oggi fondamentale per capire cosa Trump potrebbe rappresentare e per comprendere come cercare di contrastare il fronte reazionario che intorno a lui e al suo staff si cerca di costruire. I simboli e il linguaggio, a volte vengono prima della realtà che sembra più concreta, ma non è così. Mettiamo allora in fila le dichiarazioni più roboanti fatte da Trump e da Musk – il solo del suo staff da prendere in considerazione – da un mese a oggi, fino all’ultima di questa mattina e consideriamole per quello che sono senza entrare nel falso dibattito, purtroppo frequente in rete e anche nei dibattiti radiofonici, se si tratta solo di sparate o meno e quanto di tali propositi potranno diventare concreti:

I dazi come arma di ricatto a geometria variabile, Golfo d’America invece di Golfo del Messico, conquista della Groenlandia, Canada come parte degli Stati Uniti, riconquista di Panama, minacce al Sudafrica per la legge di riforma della distribuzione delle terre, gestione di Gaza da parte degli Usa stessi.        

L’insieme di queste dichiarazioni e il tono usato sono una ripresa della dottrina Monroe adeguata ai tempi, diciamo un Monroe 2.0, in cui persino la conquista territoriale manu militari ritorna a tutti gli effetti e che è costitutiva dell’identità statunitense dalle origini insieme allo schiavismo e al genocidio dei nativi statunitensi. La dottrina Monroe era una estensione senza limiti della mitologia della frontiera, che si allargava all’intero continente americano –  il senso dello slogan l’America agli americani era l’America agli Stati Uniti – . Oggi Trump la ripropone estendendola addirittura, con l’accenno alla gestione diretta di Gaza da parte degli Usa, alle zone del mondo in cui la strategia statunitense del caos sostenuta da tutte le presidenze statunitensi senza alcuna distinzione e da Israele, ha creato situazioni simili a quelle della caduta dell’impero ottomano a inizio del ‘900. Infine il linguaggio usato. Se la lingua e i toni stanno a significare l’arroganza imperiale di questa presidenza, il problema linguistico è assai più complesso, perché se la lingua è molto se non proprio tutto, il linguaggio significa in sé, per quello che dice e per ciò che occulta. Nell’inglese degli Stati uniti non esiste un equivalente del termine italiano statunitense o estatunidense come è in lingua spagnola. Il solo aggettivo disponibile se si chiede al dizionario la traduzione di statunitense la parola che esce è american; ma americano è anche un boliviano, un canadese e un argentino, ma non per la lingua imperiale dalle sue origini. Certo, si può usare il termine yankee, ma si tratta di un dispregiativo usato come strumento di difesa di fronte all’arroganza totalitaria della lingua imperiale. Colpisce che nessun movimento della variegata e colorata moltiplicazione delle identità civili statunitensi abbia avvertito la necessità di evidenziare un significato così vistoso.

Per concludere

Poiché alla fine dell’articolo pubblicato da Perugia antifascista si cita Lucky Luciano e il ruolo avuto in quegli anni dal gangster italo statunitense, aggiungo due altri contributi. Il primo è una ricostruzione storica del periodo immediatamente precedente lo sbarco delle truppe anglo statunitensi in Sicilia, con alcuni miei commenti e osservazioni in grassetto; il secondo è uno stralcio dalla relazione del senatore Pellegrino alla commissione stragi, seguita da alcune riflessioni mie sempre in grassetto.

Siamo nel 1941, gli Usa non sono ancora in guerra ma sostengono lo sforzo bellico inglese. Mandano soldi e aiuti, in particolare cargos che dalle coste statunitensi portano merci varie, generi alimentari, forse anche armi. Gli U-Boot tedeschi fanno strage dei convogli anglo-americani e la pur formidabile macchina produttiva statunitense non riesce a rimpiazzare le navi affondate in Atlantico. Si sa che i tedeschi sono bravi, ma nel caso specifico lo sono un po’ troppo e si fa strada il sospetto che qualcuno passi loro le informazioni sulle rotte. Il Nis, l’intelligence della Marina, accerta che la circostanza è vera: sono i lavoratori del porto a informare i nazisti. In un primo tempo si pensa di reprimere, ma un generale ha un’idea migliore: andare a parlare con il sindacato degli scaricatori, controllato dalla mafia siciliana, per bloccare il flusso di informazioni. È l’inizio di una collaborazione tra i servizi segreti americani e cosa nostra, ma c’è bisogno di un mediatore d’eccezione: Charles “Lucky” Luciano, al secolo Salvatore Lucanìa, in carcere dal ’36. La trattativa dura il suo tempo e porta prima al blocco del sabotaggio nel porto di New York e poi prosegue nell’organizzazione dell'”operazione Husky”, cioè lo sbarco in Sicilia. Luciano tratta e chiede in cambio che la mafia ritorni; riattiva i vecchi referenti, Vito Genovese e Calogero Vizzini. Luciano viene estradato in Italia per preparare lo sbarco. Un libro di Mario Consoli dal titolo Stato e mafia andata e ritorno, del 1985 ricostruisce bene il tutto, ma anche Michele Pantaleone e altri sono fonti più che autorevoli. A Luciano e ad altri boss mafiosi furono garantiti molti vantaggi: scarcerazioni, assoluzioni per alcuni processi, la sostituzione della detenzione con l’espulsione in Italia (data la doppia cittadinanza). La Mafia garantì l’appoggio all’esercito Usa nello sbarco in Sicilia. Come da accordi, i mafiosi “in sonno” che erano in Sicilia furono subito contattati e si organizzarono per aiutare e accogliere i militari Usa. Insieme ai vecchi subentrano i nuovi e chi troviamo fra i primi? L’avvocato Guarrasi, Giovanni Ciancimino, il padre di Vito. Fra l’altro è proprio nel trapanese che si stabilì il comando delle operazioni, forse come forma di vendetta nei confronti del prefetto Mori, grande inquisitore antimafia – fino a un certo punto – durante il ventennio fascista. Fra le clausole dell’accordo, le istituzioni in Sicilia sarebbero passate tutte nelle mani della Mafia. E infatti i mafiosi ottennero tutti gli incarichi politici e amministrativi dell’isola: in quasi tutte le città e paesi i podestà furono sostituiti da mafiosi e molti “picciotti” si affiancarono all’esercito statunitense per combattere il Fascismo e agevolare l’avanzata dell’esercito Usa. Tutto questo mentre i soldati Usa si rendevano protagonisti di crimini di guerra contro la popolazione civile a Gela e in altre parti dell’isola dietro esplicito invito del generale Patton. Fatti che Consoli documenta bene. Del resto, alla vigilia dello sbarco, il comandante della squadra americana, l’ammiraglio Kent H. Hewitt, scopre di non avere nemmeno un ufficiale in grado di parlare italiano. Ne raccattano sei in fretta e furia, quattro sono originari di New York, e glieli mandano. Sbarcano tra Gela e Licata, con la prima ondata del primo giorno. Hanno con loro un elenco di persone da contattare, gentilmente messo insieme dai mafiosi di New York: si tratta di malavitosi, per lo più espulsi dagli Stati Uniti. Uno di questi ufficiali, il tenente Paul A. Alfieri, in seguito dichiarerà:

«Furono molto disponibili a cooperare e di grande utilità perché parlavano sia il dialetto della regione sia un po’ d’inglese».

L’amministrazione provvisoria degli Alleati (Amgot) per funzionare ha bisogno di appoggi locali: quando i soldati se ne vanno, i funzionari civili si trovano di fronte a un enorme vuoto che viene subito riempito dagli uomini della mafia. Buona parte degli antifascisti nominati sindaci e prefetti sono in realtà uomini di Cosa Nostra. Don Calò Vizzini viene eletto sindaco di Villalba, a nordovest di Caltanissetta. Pochi giorni dopo la sua nomina, il comandante dei carabinieri viene ritrovato assassinato nella piazza del paese. Villalba diventa così il centro di smistamento dei beni per il mercato nero dell’Italia continentale, caricati a bordo dei camion inconsapevolmente forniti dall’Amgot. E quando gli Alleati si trasferiscono al di là dello Stretto, l’infiltrazione mafiosa si fa subito sentire. L’ex capo della mafia di New York, Vito Genovese, compare a Nola, vicino Napoli, come interprete dei servizi d’informazione dell’esercito statunitense. Era rientrato in Italia nel 1937 per evitare di essere processato a New York per assassinio ed era riuscito a entrare nelle grazie di Mussolini. Ora si ricicla alla grande: fa arrestare alcuni borsari neri legati a Vizzini, con grande soddisfazione degli americani. Soddisfazione che però scompare non appena si rendono contro che, in realtà, li ha sostituiti con uomini suoi. Nel febbraio 1946 Lucky Luciano viene rilasciato sulla parola ed estradato in Italia dallo stesso uomo che l’aveva messo in prigione: Thomas E. Dewey, che da giudice nel frattempo è diventato governatore dello stato di New York. Luciano muore in Italia nel 1962, come famoso boss mafioso senza ormai più potere. Forse.

Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi fanno parte di questo antefatto, seppure in modo asimmetrico. Il famoso patto sancito verbalmente fra i due

Noi non facciamo la rivoluzione voi non ci mettete fuori legge; noi non vi mettiamo fuori legge voi non fate la rivoluzione

vale dal 1944 fino al ‘49, poi comincia un’altra storia, quella che abbiamo visto, cioè la guerra civile asimmetrica a bassa intensità. In mezzo ci sta il viaggio del 1947 negli Usa e l’assegno con cui De Gasperi ritorna; poi le elezioni del 1948. Quel patto permise all’Italia di ricostruirsi in pochissimo tempo: dal 1949 comincia l’opera di demolizione di quello che si era costruito in quei quattro anni e inizia anche la resistenza che a quell’opera di demolizione oppose il movimento operaio. La parte finale, che termina con la sconfitta delle forze democratiche, inizia nel 1988.   

Dalla relazione del senatore Giovanni Pellegrino alla commissione stragi:

Occorre quindi interrogarsi in ordine ad una difficilissima stagione, che negli anni ’90 la coscienza nazionale ha forse colpevolmente rimosso, … attonita davanti all’imprevisto ritorno di fantasmi di un passato, che riteneva ormai definitivamente alle spalle ed in qualche modo passato in giudicato … È quindi, in questa prospettiva che può cogliersi appieno il significato attribuibile a quanto assai di recente riferito ad autorità di polizia giudiziaria dal senatore a vita Paolo Emilio Taviani, quando ha affermato che le ragioni ultime dello stragismo, che ha funestato il paese, devono rinvenirsi nella doppiezza della politica estera italiana. Ciò consente di rimodulare la categoria concettuale della sovranità limitata, ampiamente utilizzata nella proposta di relazione del 1995, atteso che le acquisizioni operate e criticamente esaminate, consentono di cogliere legami non occasionali tra fasi di più acuta tensione interna e i tentativi dei governi italiani di spingere la propria politica estera ai limiti estremi di compatibilità con l’appartenenza al blocco occidentale; e ciò sia nei rapporti con l’URSS, resi possibili dalla anomalia interna costituita dal PCI (frontiera est-ovest), sia nei rapporti con i paesi del Nord-Africa e del Medioriente (frontiera nord-sud)

Il concetto di sovranità limitata era operante nei paesi occidentali, nella forma del terrorismo di stato e della guerra asimmetrica. Questa è la sintesi che si nasconde dietro il linguaggio in parte contorto e burocratico usato da Pellegrino. Il concetto di sovranità limitata, attribuita solo ai paesi del Patto di Varsavia per ragioni di propaganda era attivo nella sostanza anche nei paesi occidentali e chi ha gestito la copertura di tutto quanto è accaduto dal 1969 in poi, è lo stesso che ha gestito anche la fase successiva e questo rende diversa la situazione italiana da quelle delle altre nazioni europee dove la fine della Guerra Fredda ha significato una sostituzione parziale e in qualche caso anche la messa in mora di chi aveva gestito le operazioni più sporche. Da noi non è avvenuto perché c’è stata una continuità con qualche sussulto:una decina di suicidi eccellenti e alcuni processi farsa durante tangentopoli.