Premessa
Fritz Lang è uno degli autori più grandi e celebrati del cinema espressionista, ma il destino dei registi e delle loro opere è assai più precario di quello di romanzieri e poeti: la carta tutto sommato resiste al tempo molto di più delle pellicole, per cui dimenticare un regista è più facile che non dimenticare un romanziere, anche perché la possibilità di rivedere certi film a decenni di distanza è legata a operazioni di restauro che non sempre riescono. Quando vidi la prima volta Il mostro di Düsseldorf qualche anno fa, il film mi pose gli stessi interrogativi che mi ero posto dopo la lettura di un libro appena pubblicato di Adriano Voltolin dal titolo Il rilievo e lo sfondo, dove l’autore riporta una frase di Hanna Segal, la quale si chiedeva come mai comportamenti individuali che, se messi in atto vengono immediatamente riconosciuti come indici di gravissime patologie, non vengono riconosciuti come tali quando se ne fanno portatori istituzioni o rappresentanti pubblici. La malattia del protagonista del film, come dirò più avanti, può essere considerata come un sintomo di quelle che Freud chiama le nevrosi della comunità, che esploderanno in Germania come un fiume in piena che travolgerà tutto due anni dopo l’uscita del film. 1
1931
La vicenda rappresentata è semplice da riassumere e il farlo non impedisce a chi non ha ancora visto il film di apprezzarlo, dal momento che la vicenda in sé è davvero solo un innesco. Un serial killer adesca e uccide ragazzine preadolescenti. La polizia brancola nel buio, facendo crescere senza volerlo la tensione, anche perché il sistema delle comunicazioni di massa era già sufficientemente sviluppato, tanto da amplificare le gesta dell’uomo, fino alla pubblicazione di una sua lettera da parte di un quotidiano. I delitti continuano finché la grande criminalità cittadina, disturbata dalle continue e cieche retate della polizia, decide di darsi da fare per catturarlo. Arruola i mendicanti della città per un piccolo compenso, assegnando a ciascuno di loro in modo capillare porzioni precise di territorio, dove dovranno tenere d’occhio chiunque avvicini delle bambine. Anche la polizia cerca il serial killer e individua la casa in cui l’uomo vive e da dove ha scritto la lettera inviata ai giornali. L’intelligenza investigativa, però, è lenta, mentre la criminalità, padrona del territorio, arriva prima e lo cattura dopo avere sventato l’ennesimo delitto che l’uomo stava per compiere. Lo portano in una distilleria abbandonata dove lo sottopongono a un singolare processo. Il clima è di linciaggio, nonostante che l’avvocato difensore perori la causa del suo cliente in modo assai intelligente, tanto che molti assentono anche fra la platea di mendicanti che funge da giuria popolare. Il pubblico ministero, cioè il capo dei capi delle organizzazioni criminali, volge però l’assemblea a suo favore, ma, proprio nel momento in cui sta per essere pronunciata la sentenza di morte, la polizia irrompe nell’aula del processo popolare e salva il criminale.
I finali di Fritz Lang sono sempre sorprendenti e problematici: il pensiero è corso subito a un altro suo film, che forse molti ricorderanno nella versione restaurata di alcuni fa. In Metropolis veniva auspicato un compromesso trasparente, seppure incoerente rispetto all’andamento del film: infatti, dopo avere mostrato l’impossibilità della conciliazione fra le classi sociali, il film si concludeva con un embrassons nous fra padroni e operai, mediato dal partito socialdemocratico: sappiamo come è andata finire pochi anni dopo.
Nel Mostro di Düsseldorf il primo elemento che colpisce è il blocco sociale estemporaneo che si forma per catturarlo, costituito dalla grande criminalità e dai mendicanti. I primi sono, secondo una definizione contemporanea applicata alle mafie italiane, l’anti stato oppure uno stato nello stato; i secondi sono la massa di manovra della grande criminalità, ne costituiscono l’esercito di riserva, cui si ricorre per piccoli servizi e manovalanza criminale generica. Insieme, si rivelano garantisti in una misura che parrebbe imprevedibile, ma si tratta di una sorpresa soltanto apparente. Anche la grande criminalità, come qualsiasi aggregato sociale, ha bisogno di regole e ritualità: il processo che celebrano, infatti, ha formalmente tutti i crismi di un processo regolare. Del resto sono noti i rituali delle mafie, le procedure d’iniziazione, la cura a volte maniacale di questi dettagli. Per non parlare dei codici d’onore nelle carceri, della sanzione che i detenuti stessi riservano a chi ha commesso reati particolarmente odiosi. Il meccanismo psicologico che sottostà a tale procedure è semplice da capire: anche il peggiore dei criminali ha bisogno di credere che esiste qualcuno peggiore di lui.
Il secondo protagonista è il serial killer, il terzo è la società civile tedesca, che sembra essere del tutto assente come entità organizzata. C’è una battuta, pronunciata da una delle madri delle bambine, in conclusione del film, quasi un’invocazione che suona tuttavia come un segno di impotenza:
… Avremmo dovuto vigilare …
Non è ben chiaro cosa voglia dire la donna, ma proprio l’inquietante sospensione nell’aria di questa invocazione senza risposta e interlocutori, evoca sinistramente ciò che sarebbe accaduto da lì a due anni.
Pubblico e privato
Quando lo vidi la prima volta, anni fa, considerai questo film una metafora lucidissima della dissoluzione della Repubblica di Weimar, ma lo presi per un film storico; rivedendolo oggi, a parte il bianco e nero e una recitazione teatrale formidabile e scevra da effetti speciali, mi sembrava di assistere a un’opera cinematografica che ci parla drammaticamente dei problemi odierni, ma vorrei subito dire che non mi riferisco all’ondata montante della destra in tutta Europa, perché, pur pericolosa, ritengo si tratti di un problema tutto sommato minore.
Torniamo di nuovo a Metropolis e confrontiamo i due finali.
In entrambi c’è qualcosa che li accomuna e che ha a che fare con un compromesso. Una differenza sostanziale, però, ci fa comprendere molto bene cos’era accaduto nei quattro anni che separano un film dall’altro (Metropolis è del 1927). In quest’ultimo, viene proposto un patto sociale fra capitale e lavoro: le lotte operaie del ‘19 e successivamente del ’23, pur concludendosi con la sconfitta del progetto insurrezionale della Lega Spartachista, cui seguì l’assassinio di Rosa Luxemburg e Karl Liebnecht, avevano comunque conservato intatto il potere e la forza della classe operaia tedesca. Discutibile o meno nella sua ingenuità, il film rappresentava due entità sociali fortemente strutturate, con le loro istituzioni, la capacità di governare, dirigere la società civile e controllare il territorio; entrambe erano portatrici di una visione del mondo e di un progetto di società.
Nel Mostro di Düsseldorf tutto questo non esiste più, in scena vediamo un individuo malato, mentre le madri delle bambine uccise sembrano essere completamente abbandonate a se stesse, così come è solo e atomizzato il killer nella sua follia. Quando le madri si aggregano con altri per protestare e reclamare giustizia, sono solo persone sconosciute le une alle altre, la psicosi cresce anche perché quello che sta loro a fianco non sanno più chi sia. Non esiste più alcun patto, la società civile si richiude in casa e il territorio è ormai diventato il terreno su cui si ritrovano masse impaurite e isteriche che si buttano sul primo che capita e ne fanno il classico capro espiatorio (come accade in una scena iniziale del film quando un uomo viene subito scambiato per il mostro soltanto perché ha risposto a una ragazzina che gli chiedeva l’ora), oppure viene lasciata alle scorribande della polizia e della grande criminalità; il finale, in fondo, vede proprio loro protagonisti della cattura, in una sorta di discordia necessariamente concorde, su cui sarà tuttavia necessario mantenere il silenzio. Il confitto sociale ha ceduto il passo alla guerra di tutti contro tutti. Due anni dopo saranno le milizie delle SA e delle SS a percorrere le stesse strade con altri intenti.
1929
Proprio nel mezzo fra il 1927 e il 1931, si colloca un anno chiave: il 1929, che si era abbattuto sulla società tedesca come un secondo uragano, sconosciuto ad altre società europee che, pur colpite dalla crisi, non ne subirono gli effetti con la stessa devastante violenza. Inflazione dell’ordine di un bilione, licenziamenti di massa, impoverimento verticale delle condizioni di vita, legame sociale dissolto. La classe operaia, che pure aveva resistito all’inflazione degli anni precedenti, espulsa dalle fabbriche e atomizzata, vedeva franare le sue istituzioni di controllo del territorio e della società civile. La voragine che si era aperta fu colmata in pochi mesi dal partito nazista.
La massa che noi vediamo nel Mostro di Düsseldorf è il precipitato sociale della crisi del ‘29: una società atomizzata e impaurita, in preda al panico, in fuga da se stessa, pronta a identificarsi con un capo, che la porti fuori da quella situazione in qualsiasi modo. Hitler e il partito nazionalsocialista seppero coagulare intorno a sé, lo spirito gregario successivo a quel sentimento di totale annientamento della personalità, conseguente la crisi del ’29: sarà tale spirito di massa che permetterà loro di trascinare il popolo tedesco alla guerra e poi alla rovina.
2024
Chiamare in causa la nostra contemporaneità implica subito un chiarimento preliminare: qui finiscono le analogie con il 1929, che riguardano solo il film di Lang e la situazione tedesca degli anni ’30. Diamo per scontato che in tutte le crisi esistono somiglianze e differenze, ma la nostra di oggi è ben più grave di quella del 1929 e stabilire una relazione troppo stringente fra essa e il consenso che la destra neofascista e neonazista ottiene un po’ in tutta Europa può essere addirittura una cortina fumogena che impedisce di vedere le differenze sostanziali.
Questo argomento, tuttavia, esula dagli intenti di questa riflessione che vuole richiamare l’attenzione di chi legge su un film e su un autore. Certo, il film di Lang pone dei problemi attualissimi, specialmente per quanto riguarda l’imbarbarimento in atto di tutti rapporti sociali: come tale è una premessa per ulteriori interventi più direttamente politici.
1 Ho messo fra virgolette ‘nevrosi della comunità’ perché la traduzione italiana corrente del termine tedesco usato da Freud è un’altra: “nevrosi collettive.” Non sono il primo a notare come tale traduzione corrente si presti a troppi equivoci. Per nevrosi collettive in italiano si può anche intendere le nevrosi più frequenti, quelle che il maggior numero di pazienti manifesta nel setting analitico. Inoltre si potrebbe aggiungere che il termine collettivo, rimanda a qualcosa che appartiene a tutti indistintamente, almeno in un certo ambito. Così facendo ci si preclude però la possibilità di cercare di comprendere comportamenti particolarmente pericolosi e inquietanti che non sono affatto quantitativamente rilevanti, ma lo sono da un punto di vista qualitativo, perché tramite loro è possibile intravedere lo sfondo più ampio e profondo dentro il quale tali comportamenti hanno le loro radici. Se un gruppo di adolescenti terrorizza compagni di classe e di quartiere, chiedendo loro denaro per avere protezione (come accaduto recentemente a Padova, e prima in altre località), non posso dedurne che tale comportamento sia collettivo. Un’affermazione del genere incontrerebbe e incontra subito la stessa smentita, ovvia, ma al tempo stesso pericolosa: si tratta di casi isolati. Sul piano del dato empirico questo è certamente vero, anche confrontando le statistiche sui crimini sull’arco di decenni. Se invece si considerano questi atti come emblematici di malesseri più profondi di cui essi sono la spia, la questione cambia. Nelle modalità in cui si sono dati questi fatti di cronaca, indicano per esempio, che il modello mafioso dell’estorsione in cambio di protezione, esercita un’attrazione su strati giovanili della società italiana (ma si potrebbero indicare altri tipi di comportamenti) e questo è certamente il sintomo di una malattia di cui la comunità italiana soffre da tempo e che peraltro trova prima di tutto riscontro nei comportamenti pubblici di istituzioni e cariche dello stato. Fino a poco tempo fa i modelli negativi a livello istituzionale, spingevano alla denuncia, a una politica di opposizione: oggi essi diventano, per alcuni, modelli da imitare. Il venir meno della figura del padre (Luigi Zoia e altri hanno parlato di ‘società senza padre), capace di indicare un modello di legge positiva, porta quasi naturalmente alla identificazione con altre figure che svolgono il ruolo di surrogati ma che, comunque, incarnano una legge pur che sia. Nel caso dei giovani estorsori di Padova si tratta di una legge criminale; in modo non molto diverso da quello che vediamo nel film Il mostro di Düsseldorf. Ebbene la definizione estensiva di ‘nevrosi della comunità’ (che va oltre l’aspetto puramente analitico e individuale del concetto di nevrosi), è molto più utile a una comprensione di questi fenomeni sociali, che non l’aggettivo ‘collettivo’, che in ultima analisi, esprime un dato quantitativo, seppure in termini assoluti.