FIGURE: SECONDA PARTE
IL SEGRETO DI LENIN
Pochi conoscono un episodio minore di quella grande epopea che fu la Rivoluzione d’Ottobre, un evento ormai lontano nel tempo e che verrà presto del tutto dimenticato. Vale la pena di riferirlo perché riguarda nientemeno che Vladimir Ilich Ulianov… Lenin insomma! La ricostruzione di questa vicenda si basa su diverse testimonianze, di cui una è la più importante, in quanto si tratta di una fonte diretta. Fu raccolta molti anni fa a Mosca da alcuni studenti universitari; si era al tempo del disgelo krusceviano, si tentavano nuovi metodi nel fare storia, fra cui quello di raccogliere le testimonianze orali di chi aveva partecipato ai fatti, oppure ne era stato coinvolto in qualche modo. Per dare al lettore maggiori possibilità di comprendere ci soffermeremo un poco sul contesto degli eventi.
La Russia era sconvolta dalla guerra civile. Le battaglie erano ovunque perché non esisteva un vero fronte di guerra. I luoghi nevralgici, tuttavia, erano concentrati nel bacino del Don, lungo la ferrovia Transiberiana e ad ovest di Pietrogrado. Fu proprio su questo fronte che accaddero gli eventi che ci interessano. Agli inizi del 1919, la cittadina di Krasnoye Gorka fu assediata dalle truppe del Generale bianco Judenic. Il pericolo era evidente perché da quella posizione era possibile sferrare un attacco alla capitale baltica e addirittura ricongiungersi con le truppe dei generali Miller ed Ironside, di stanza ad Arcangelo. La cittadina resistette per qualche mese ma fu poi costretta ad arrendersi. Vi furono molti morti e molti prigionieri, quasi tutti condannati alla pena capitale. Fra questi ultimi vi era una donna e quando Lenin ne fu informato fece di tutto per salvarla, cercando persino un contatto con lo stato maggiore bianco, che rifiutò. Poi le cose andarono diversamente da quanto sembrava ineluttabile. I Bianchi, convinti come erano di conquistare Pietrogrado, rinviarono le esecuzioni. L’attacco alla città, però, fallì, la loro rotta fu completa; tanto che il Generale Judenic fu costretto a riparare all’estero. Molti alti ufficiali bianchi furono invece catturati e rinchiusi nella Fortezza di Pietro Paolo, prima di essere fucilati. Uno di loro di cui la testimone non ricordava il nome, forse lo stesso aiutante di campo di Judenic, la sera precedente l’esecuzione chiese di parlare con Lenin. Questi dapprima rifiutò, sospettando l’intenzione di una domanda di grazia; il generale, d’altro canto rinnovò la richiesta respingendo sdegnosamente il
sospetto. Lenin, seppure riluttante, dovette allora accettare, ma chiese di essere accompagnato da un testimone e scelse una giovane compagna. Fu lei a raccontare agli studenti della Facoltà di Storia Moderna dell’Università di Mosca ciò che avvenne quella sera e nei mesi successivi.
Le guardie e il piantone ci guardarono esterrefatti. Non erano molte le donne che entravano nella fortezza e il fatto che accompagnassi lui poi, dovette sorprenderli ancora di più. Lenin riunì il corpo di guardia e spiegò brevemente la ragione della visita. Fummo portati in un lungo corridoio e camminammo per un po’, finché il piantono non si fermò davanti alla porta di una cella. L’alto ufficiale che vi era rinchiuso sapeva del nostro arrivo e anche della mia presenza e ci aspettava in piedi. Ci guardò portandosi una mano alla fronte e schermandosi il viso, tanto che il gesto ci sembrò una specie di saluto militare al quale Lenin rispose con fastidio. Il generale, allora, spostò, il lume e così capimmo che stava semplicemente cercando di vederci meglio: voleva sincerarsi che quell’uomo basso di statura e dimesso che gli stava danti fosse davvero il capo della rivoluzione. Lenin gli domandò in modo perentorio cosa diavolo volesse, se si trattava di qualcosa riguardante la famiglia
…”No, Vladimir Ilich Ulianov! E’ di voi che si tratta!”
Ricordo molto bene le parole del generale perché Lenin, udita la frase, si arrestò immobile come se fosse stato colpito da una frustata. Il generale lo fissò per un istante, poi visto che taceva, proseguì, fatemi ricordare bene le parole che disse:
“Perché insisteste così tanto e in modo così sconveniente per voi (disse proprio così sapete), nel chiedermi la grazia per quella donna?”
Io non sapevo a che cosa alludesse e mi voltai verso Lenin. Non so cosa gli passasse per la testa, ma la sua espressione cambiò almeno tre volte in un minuto. Entrambi continuavano a tacere e Lenin mi parve improvvisamente confuso. Si passò la mano sulla fronte, in quel suo modo così caratteristico, tenendo due dita alle tempie e massaggiandole, così che le altre dita della mano andavano avanti e indietro sulla testa. Si voltò verso di me e mi chiese di uscire, scusandosi che fosse proprio lui a domandarmelo, dopo che mi aveva voluto con sé come testimone.
Trovai del tutto naturale la richiesta, in fondo si trattava di un fatto personale, non politico. Una volta uscita, però, mi sentii inquieta e a disagio; mi sembrava di essere piombata di colpo in una zona d’ombra, pensavo alle spiegazioni che si sarebbero dovute dare una volta usciti. Pensai che in fondo non era affar mio, eppure mi sentivo toccata profondamente, tanto che non seppi resistere alla tentazione di origliare. Appoggiai la testa alla porta e attesi. Lenin aveva cominciato a parlare, ma non riuscivo ad afferrare le parole; mi colpì la sua voce, così diversa dal solito, meno decisa. Parlava con fatica, trascinando l’una dietro l’altra le parole.
Non ricordo quanto durò la conversazione; se conversazione fu! Perché non mi parve di udire la voce del generale.
Quando sentii bussare dall’interno chiamai il piantone e rientrai nella cella insieme a lui. Lenin ci volgeva le spalle, si voltò lentamente e uscì passandomi di fianco. Mi colpì l’espressione esterrefatta del generale, come se si fossero aperte per lui le porte su una realtà del tutto impensata. Fui così colpita da quello sguardo che il piantone dovette chiamarmi per farmi uscire. Percorremmo di nuovo senza parlare i corridoi della fortezza; Lenin camminava a testa bassa, non vedeva nulla, preso come era nei suoi pensieri, serrato in sé e impenetrabile.
Oltre un anno dopo, durante i primi mesi del 1921, quando ormai la Guerra Civile era stata vinta, la testimone s’imbatté in un corteo funebre e riconobbe subito molti compagni famosi, fra i quali alcuni e alcune che incontrava spesso alla scuola di formazione. Domandò chi fosse morto e seppe che si trattava di una compagna straniera che aveva condiviso con Lenin gli anni dell’esilio in Svizzera…
Dentro di me ebbi subito la certezza che quella donna fosse colei di cui aveva parlato il generale. Risalii il corteo e lo vidi in prima fila. Ricordo ancora oggi il suo volto, non lo dimenticherò mai. Vladimir Ilich camminava a stento, sorretto dalla Krupskaja e da un altro che non riconobbi; il berretto era calato sul volto, quasi a schiacciarlo, ma ciò che mi spaventò fu il suo pallore. Fu l’ultima volta che lo vidi; tre giorni dopo il funerale fu colpito dal suo male e la circostanza mi impressionò moltissimo. Domandai ad altri e così seppi che quella donna aveva avuto un ruolo importante nel viaggio di ritorno in Russia; nulla di preciso perché non aveva incarichi politici ufficiali, ma Lenin la stimava più di ogni altro compagno.
Non sapevo cosa pensare, mi sembrava tutto così strano. Era forse stata la sua amante? Continuai le mie indagini (orami avevo conoscenze fra molti compagni e compagne che occupavano ruoli importanti) e venni a conoscenza di particolari che ignoravo. Il viaggio di ritorno sul treno piombato era stato molto burrascoso; il segreto stava proprio in una conversazione che si svolse fra Lenin e la donna mentre il treno stava per arrivare alla stazione di Pietrogrado. Fu una compagna presente a riferirmelo, parola per parola, ma mi pregò sempre di non fare il suo nome. Pare che il colloquio fosse stato concitato e che Lenin le chiedesse ripetutamente di rimanere con loro; le aveva proposto diversi incarichi ma lei rifiutava ostinatamente.
“Perché vuoi che rimanga? Sono malata e poi non sono adatta ai compito che vi aspettano. Voglio sentirmi libera, guardarvi da lontano; non smetterò di aiutarvi e non farò nulla contro di voi, questo lo sai.”
Tutte le volte che Lenin parlava delle sue capacità lei si arrabbiava molto e Lenin ne rimaneva molto sorpreso ogni volta. Insistette anche quella volta e lei allora lo ascoltò di nuovo, quasi rassegnta.
“Tu ne possiedi molte di capacità, ma una in particolare che manca a tutti noi e quello che è accaduto questi giorni in treno mi ha aperto gli occhi. Sappiamo affrontare ogni situazione, anche le più dure, ma quando parli tu, tutti, me compreso, abbiamo la sensazione… Ti ricordi quando ti davo i miei appunti? Tu li annotavi, li cambiavi, acquistavano una forma diversa, sembravano gli stessi concetti e invece risultavano a tutti più chiari e convincenti e condivisi. Anche allora, ricordi, ti chiesi le stesse cose di oggi.”
“Avrai le stesse risposte; non posso.”
“Perché? Perché? Tu sei l’unica capace di risolvere i problemi facendoci rimanere tutti uniti.”
La compagna che aveva udito queste parole le ricordava con precisione, tale fu l’impressione che le fecero; non se le sarebbe mai aspettate da uno come lui! Pare che all’arrivo del treno Lenin non si curasse della concitazione che c’era, poi ne fu travolto e la perse di vista. Una volta sceso, vi ricorderete tutti quella fotografia di lui che si rivolgeva alle masse. I suoi occhi non smisero per qualche attimo ancora di cercarla tra la folla, ma lei se n’era già andata. Era scesa dal treno dalla parte opposta, quella dai scendono i macchinisti e aveva fatto perdere le sue tracce.
IL REDUCE.
Si accorse del panno mentre posava a terra le armi. Stava sulla striscia d’erba fra l’ingresso di casa e la piscina. Non era un pezzo di stoffa qualunque perché la tela era bella e ben lavorata. Entrò in casa e fu assalito da un’ondata di freddo. Il gelo, da tempo rattrappito, era esploso all’apertura della porta, aggredendolo. Si guardò intorno, passò il dito su una madia impolverata, fissò il tavolo in ordine, i tappeti polverosi, il divano ricoperto da un telo bianco…Trovata una coperta si distese e si addormentò. Fu un sonno agitato, pieno di sogni e di incubi. Rivide i luoghi che aveva attraversato e conquistato, poi altri che non ricordava…Sognò una spiaggia bianchissima; i raggi del sole cadevano con tale violenza su di essa che la luce riflessa dalla sabbia si espandeva ovunque, abbacinante ed irreale. Insieme ai suoi compagni stava marciando in direzione di alcuni capanni, ma voltandosi verso il mare si erano accorti che la distanza che li separava dall’acqua non era mutata. Si erano guardati increduli, poi preoccupati, infine terrorizzati. Allora avevano cominciato a correre ma il mare era sempre vicino, come se fili invisibili trattenessero i loro piedi, trasformandoli in creste urlanti di onde protese verso la terra. Accaldato e pieno di tremiti si guardò intorno mentre le immagini del sogno, cozzando le une contro le altre nella sua testa, si dissolvevano lasciandosi dietro una scia di angoscia che si tramutò presto in senso di vertigine. Gli oggetti della stanza avevano forme diverse da prima, più inquietanti. Infine tutto sembrò ritornare alla normalità e la scia si trasformò in odore pungente. Aveva la bocca impastata; si passò la lingua sulle labbra me avvertì un gusto amaro. Cercò dell’acqua e si bagnò la testa ma non ne ricavò alcun sollievo. Uscì fuori e si ricordò del panno che aveva visto: era ancora dove l’aveva lasciato. Lo raccolse e lo guardò; cercò di distenderlo, ma era più grande dell’apertura delle braccia e così lo dispose di nuovo sul prato. Era un pezzo di tela, in verità, filata da mani esperte; ma non apparteneva a un abito e neppure a uno scialle. Assomigliava piuttosto alla mappa di un territorio immaginario, o a lui sconosciuto. Ne seguì i confini ben tagliati, le insenature, le protuberanze, le nervature che portavano all’interno … Quanto volte le dita sue e dei suoi compagni avevano percorso le stesse linee, cercato negli stessi punti un approdo, oppure un luogo dove accamparsi. Valutò le distanze, percorse quel territorio in ogni direzione, lo misurò, lo accarezzò…Aveva combattuto ovunque, conquistato terre e bottini; alla fine della battaglia avevano sempre trovato donne e vino ad attenderli, figli lasciati in fasce che li attendevano cinti di armi…Eppure quel territorio non lo conosceva, lo sentiva remoto eppure somigliante ai molti che aveva esplorato: forse esisteva, forse attendeva una nuova impresa…Scacciò il pensiero: non poteva essere. Chi aveva tessuto quella tela voleva soltanto giocare con la propria fantasia divertendosi ad inseguire la mente ed a provare l’abilità delle mani. Un passatempo, dunque, non il cimento con la dura concretezza delle terre vere. Un gioco. Eppure chi l’aveva tessuta sapeva cosa sono gli spazi ed i deserti, le spiagge e le montagne: sapeva…Aveva di nuovo freddo. Doveva ripartire. Non aveva altro tempo. Si alzò barcollando. Gli parve di vedere qualcuno vicino alla macchia. I riflessi che uscivano dalla piscina guizzavano come serpenti sulla superficie del lago e andavano a conficcarsi in lui come tante piccole spade. Il colore dell’acqua si confondeva con quello della terra. Sentì un dolore al petto. Era la terra a gettargli addosso il manto che lo opprimeva. Il mare, che per incanto sentiva vicino, gli offriva il sogno di un abbraccio. Forse i suoi compagni l’avrebbero raggiunto. Prese le armi ed il sacco. Per poco non cadde sotto il loro peso. Riuscì a raggiungere il bordo della piscina e vide le navi allineate, in attesa. Raccolse un sasso e lo gettò nell’acqua. Il rumore gli diede un brivido ed il sangue gli affluì alla testa; gli sembrò di sentirlo scorrere fra le mani, di toccarlo…Si voltò per un ultimo cenno di saluto, ma la sagoma della casa era lontana e irriconoscibile. Nessuno era sulla porta. L’acqua risvegliò la pelle; la sentì salire per le gambe, come una carezza per troppo tempo rinviata. In lontananza si udì un cane latrare, poi un rumore sordo che si avvicinava, sempre più forte; finché diventò un rombo, vicinissimo. Un bagliore illuminò la radura…All’orizzonte vide ergersi, sopra i riflessi dell’acqua, due altissime statue di pietra che racchiudevano un enorme portale. Il grido gli salì irresistibile alle labbra: “Le colonne!” ma dopo un attimo non vide più nulla. Le aveva viste…ed anche le voci, ora, rispondevano al suo grido. Forse erano i suoi compagni, forse uomini sconosciuti che lo attendevano al di là della porta. Protese le mani in avanti e mentre la forza immensa lo cullava e lo inghiottiva gli parve che altre dita sfiorassero le sue.
RENDEZ-VOUS.
Una donna e un uomo se ne stanno seduti sulla spiaggia di Ostia; in lontananza, Roma sta bruciando. Sordi scoppi e boati giungono, a intervalli regolari, dal centro della città; il fumo di eleva alto sopra le fiamme che di tanto in tanto, quasi fossero braccia protese al cielo, forano la densa nube. Non è una Roma soltanto ad ardere, ma tutte le Rome.
Lui, sdraiato sul fianco con il gomito appoggiato a terra il palmo della mano a sorreggere il viso, guarda distrattamente la scena. Il sole, nonostante il fumo incombente, è ancora alto in cielo, tanto da costringerlo a indossare un cappello da giocatore di baseball per proteggersi.
Lei, appoggiata a una piccola pietra e con le spalle rivolte alla città che brucia, è immersa nella lettura di un romanzo di Christa Wolf.
D’improvviso l’uomo si scuote, si alza, si stiracchia; poi si volta verso di lei:
“Vedi Cassandra, se tu allora fossi partita insieme a me, forse avremmo fondato una città diversa.”
Lei sembra non ascoltarlo, poi lentamente alza il capo e lo guarda con u sorriso di compatimento; infine, scuotendo la testa:
“Non dire sciocchezze Aeneas; come puoi pensarlo! Questi tuoi discendenti hanno causato danni mille volte più grandi di quelli per cui patimmo noi e tu mi vieni a dire che forse, no mio caro, avrei moltiplicato inutilmente le mie urla, inascoltata come sempre; ecco come sarebbe andata.”
“Ti sbagli, i miei discendenti – come li chiami tu – non sono i soli responsabili; furono quei due a raccontare la storia, marchiando le mie imprese future con il sigillo della vendetta; ma io, e tu lo sai, non ero partito con quell’intenzione. Cosa posso farci se un poetucolo di corte, per compiacere l’imperatore Augusto ha raccontato le cose come voleva lui, inventandosele di sana pianta! E gli hanno creduto anche! Avrei avuto bisogno di un altro narratore, anzi di una narratrice. Tu avresti dovuto raccontare quel che era accaduto e non lasciarlo fare soltanto a quelli! E poi, se sei così scettica, perché diavolo sei tornata proprio oggi?”
“Curiosità, dopo tanti anni qualche frivolezza me la posso anche concedere, no?”
Aeneas la guarda perplesso, poi comincia a radunare le sue cose, sparse per la spiaggia intorno a loro; le ripone tutte in uno zaino.
“Che farai ora?”
“Parto, me ne vado a Poona, in Nuova Zelanda e poi su qualche isola della Polinesia, gli atolli; mi hanno detto che sono luoghi tranquilli. Perché non vieni anche tu?”
“Come! Parti un’altra volta? Oh Aeneas, non cambi mai! No mio caro, io resto.”
“Un’altra volta?”
MITI.
“Siamo qui.” Si voltò e vide una bambina; si avvicino a lei e lo prese per mano.
“Ti stavamo aspettando Amleto…”
“Scusate il ritardo, ma, non sapevo, non so cosa fare.”
Un altro che portava sul capo un elmo a due punte, si portò al loro fianco; insieme a lui vi era un cane bellissimo, dal pelo folto e dallo sguardo quasi umano.
“Vieni fratello.”
Andarono sopra un’altura dalla quale si poteva dominare una vasta distesa pianeggiante. Dapprima gli sembrò uniforme ma poi, guardando bene, scorse due luoghi distinti, separate da una sottile striscia di nebbia e in ognuno di essi gli sembrò che qualcuno si stesse muovendo. A lato di entrambi quegli spazi, scorse qualcosa, ma la poca luce impediva di vedere bene. Si voltò perplesso e un altro, che nel frattempo si era avvicinato, si rivolse a lui:
“Sono esseri umani, se guardi attentamente, là in fondo, vedrai un re che dovresti conoscere molto bene ed il vecchio cieco, appoggiato a quel masso, fu un famoso re di Tebe.”
“E quella sono io.”, ma osservando nella direzione indicata dalla bambina, vide una vecchia.
“Non mi riconosci?”
Risero tutti e fu allora che Amleto si accorse di loro.
“Sono confuso; perché noi ci troviamo in mezzo a loro? E io,…, qual è il mio posto?”
“Non in mezzo a loro, ma più in alto e più lontano, ma non tanto da non riuscire a vederli e non così in alto da sembrare dei, come volli diventare io.”, aggiunse parlando fra sé quello che gli aveva indicato il re di Tebe.
Amleto li osservò uno ad uno, poi, parlando fra sé:
“Ma voi non avete vissuto, mentre io…” ma non continuò la frase e allora un altro si rivolse a lui:
“Attribuisci troppo valore a quello che gli uomini chiamano storia. Prendi il mio caso; la figura che vedi là nell’angolo, vicina al re di Tebe, porta il mio stesso nome, Enea. Compì grandi imprese, fondò una città famosa (almeno così si dice); eppure nessuno può affermare con certezza chi di noi due sia il più vivo e il più vero nel ricordo degli umani.”
“Pensa a quel re di Tebe che sta laggiù” gli fece eco un altro dagli occhi incavati, accalorandosi come non mai! E continuò dicendo: “O se preferisci pensa al principe Hamlet! Che hanno fato d’importante tutti questi uomini? Del primo si sa che regnò, quanto al secondo non vi è certezza neppure di questo.” Poi si voltò, indicando un’ombra dietro di lui e proseguì:
“Guarda costui che sempre mi segue e che forse tu riconoscerai; credi che preferisca essere ricordato come il conte di Southampton, oppure come il Grande Narratore?”
Amleto lo guardò turbato, poi chinò il capo e aggiunse sotto voce: “Dici bene, come se fosse facile.”
L’ombra, che fino a quel momento non aveva mostrato alcun segno d’interesse per loro, alzò il capo e guardò Amleto negli occhi, poi in tono mesto disse:
“Accade talvolta a chi scrive, che una voce rifiutata nel testo ci prenda per mano nelle nostre vite e ci guidi come un demone cieco, trascinandoci nelle tragedie di un testo immaginario. Il pianto, allora, invece di liberarsi in parole, imprigiona i nostri gesti quotidiani, diventa rabbia, si dirige su chi ci è più vicino, colpisce e divide come una spada, spesso ci annienta. Altre volte sono i gesti, le risa, il pianto a muoversi da soli, senza che noi stessi sappiamo dove andranno infine a depositarsi.”
Così detto chinò il capo. Amleto, che lo aveva ascoltato piangendo, si rivolse a lui:
“Sei stato tu a crearmi, oppure è a quel re che sta laggiù, fra gli umani, a cui mi devo rivolgere? Di chi sono figlio? Chi di voi due può sciogliere il mio enigma?”
L’ombra non rispose e gli altri si avvicinarono e lo portarono via di lì; poi uno di loro gli cinse le spalle con il braccio:
“Furono pur sempre esseri umani a crearci, siamo schiavi di condizioni umane, viviamo in eterno, sia pure, ma solo passando fugacemente, generazione dopo generazione, nelle menti dei pochi che ci accolgono, sempre in balìa del caso, fino a che la stoltezza dei molti non porrà fine a tutto quanto.”
“Questo varrà per voi, ma non per me! Io, Cassandra, non fu mai accolta, mai! In nessuna epoca e da nessuno!”
“Ma perché tutti insieme?” chiese Amleto dopo averle rivolto uno sguardo distratto; poi continuò: “Cosa ci si aspetta da noi? Ditemi almeno questo se volete che io scelga.”
Nessuno gli rispose, sebbene la frase li avesse colpiti. Anche Amleto tacque; si guardò intorno e si avvide che si trovavano più in basso di prima e che l’altura su cui erano saliti si trovava alla loro sinistra. Vide muoversi qualcuno a pochi passi da loro e pensò si trattasse delle schiere degli umani, poi presto si avvide che non era così; notò infatti che i loro corpi erano diversi da quelli degli altri, perché una parte di essi era oscurata. Fu Cassandra ad avvicinarsi a lui:
“Sono gli utopisti, i riformatori sociali e i rivoluzionari; di loro possiamo vedere solo la parte che assomiglia a noi, mentre gli umani – che da qui non riesci a scorgere – possono vedere la parte che a loro assomiglia. Potranno scegliere con chi stare ma dovranno rinunciare a una parte di sé; solo allora potranno mostrarsi con l’intero corpo a coloro che avranno scelto.”
Amleto l’ascoltò in silenzio, poi volse di nuovo lo sguardo verso quegli strani individui. Un o di essi, in particolare, l’attirò; di lui si vedevano soltanto gli occhi socchiusi e sottilissimi. Il suo sguardo era di straordinaria acutezza e da quelle piccole aperture sembravano uscir fuori tanti piccoli raggi di luce che finivano per catturare l’attenzione di ognuno. Tutta l’energia di quel corpo si era trasferita in essi e Amleto vi sentì vibrare una gamma così vasta di sentimenti che ne fu colpito. Poi vide un altro avvicinarsi a lui. Aveva soltanto il volto; un volto da ragazzo, quasi un bambino sorridente e aperto. I suoi occhi, però, erano fissi, come se qualcosa avesse spezzato il suo sguardo in tenera età. Quando però incontrò gli occhi dell’altro si animò, mentre il primo dei due – dal canto suo – trovò in essi sollievo alla propria inquietudine.
“Sono arrivati da poco” disse Cassandra e aggiunse: “si cercano sempre; se vuoi, avvicinandoti udrai la loro storia; forse ti potrà servire.”
Amleto si avvicinò ai due, voltandosi ogni tanto per vedere se Cassandra lo stesse seguendo; ma lei preferiva tenersi a distanza. Si sedette quando gli parve di essere abbastanza vicino, senza che i due si accorgessero della sua presenza. Dopo essersi abbracciati, almeno così gli sembrò dal movimento di entrambi, cominciarono a parlare.
“Ti ho atteso fratello mio e ora che sei qui potrò finalmente udire dalla tua voce cosa è successo dopo che i miei occhi furono spenti proprio quando vedevo davanti a me la luce di una speranza futura.”
“Lo so, lo so Sacha carissimo, fui io a dire a nostra madre che ti avevano impiccato, anch’io vidi la tua stessa luce, ho proseguito il cammino e credevo così di avere emendato il tuo errore e il mio errore anche.”
“Avrai tempo per raccontarmi di nuovo anche questo, la tua fama mi ha già raggiunto, so cosa hai fatto, è altro che vorrei spere; ero ansioso di rivederti, certo, eppure non ti aspettavo così presto.”
“E non sai invece quanto volte mi sono augurato di raggiungerti prima!! Volevo andarmene, ma il peso che avevo reso sulle spalle fu condiviso da milioni di umani che videro come noi quella luce e così invece di schiacciarmi, esso mi buttava continuamente in alto nonostante il mio corpo si trascinasse come uno straccio zuppo di sofferenza. Non mi lasciavano andare via; poi, quando finalmente il mio corpo si è fermato mi hanno rinchiuso per settant’anni in uno stupido mausoleo e come se non bastasse uno scienziato indegno di questo nome si è tenuto il mio cervello; voleva scoprire, pensa un po’, come è fatta la mente di un genio! Come se in quell’ammasso di fili consumati, ci potesse essere qualcosa di più dei segni della mia malattia.”
“Perché dici questo? Volevi venire prima? Non riesco a capire, avevi appena raggiunto la soglia del mondo che sognavamo. Ho cercato spesso di vedere con i tuoi occhi; non appena arrivato qui, capii il mio errore ma ero certo che tu saresti andato più in là.”
“E così avvenne, ma anch’io fui spezzato come te, ma la mano che lo fece era più sottile di quella del boia, assomigliava alle nostre Sasha, era fatta come le nostre,. Spostava la luce che vedevamo allontanandola sempre di più e chiedendoci di seguirla e mentre noi eseguivamo i suoi ordini la mano colpiva spitatamente alle nostre spalle.”
“Un tradimento allora!”
“E così non c’era luce dietro di noi, ma soltanto un’ombra che cresceva sempre di più; quando me ne avvidi era troppo tardi. Mi ritrovai solo ai margini di un labirinto.”
“Fosti tradito allora!”
“No, non fu così.”
“Un altro errore allora…”
“Mi sono ingannato. Ho creduto che le mie opere nascessero dalla volontà e dalla comprensione di quello che tu chiami ancora il tuo errore. Pensai così che fosse la passione da lasciare da parte e la mia mente agì con la freddezza necessaria per lasciarla fuori di me. In realtà a spingermi su quella strada fu un sentimento per me impronunciabile quando ero in vita. Cercavo di restituirti qualcosa che ti era stato tolto; ed eri stato proprio tu a farmi vedere per primo quella luce. Pensai che fosse stata la tua generosità ad averti tradito. E invece agivo io stesso in nome di un impulso generoso che non volevo riconoscere come mio.”
“E quando te ne accorgesti?”
“Poco dopo aver varcato la soglia. Avevo sognato quel momento; il mio libro più bello, sai, lo scrissi allora. Fu una liberazione e quando di notte, alla luce del lume, le parole sembravano uscire dalla mia mano come schiere trionfanti, mi accorsi che accanto ad esse c’era anche la tua Sasha, la tua mano di ragazzo, la tua mano con tutta la tua passione e la tua giovinezza impiccata. E le parole volavano, volavano fuori, sembrava non avessero confini, salivano sulla fortezza di Pietro Paolo che intravedevo dalla finestra e sembravano sgretolarla un poco ogni notte. E scrivendolo sentivo che in quelle parole tornava a risplendere la luce, come l’avevamo vista la prima volta!”
“E poi che accadde?”
“Durante il giorno quelle parole le dimenticavo; non me ne accorsi subito. Esse si allontanavano dalle mie opere diurne ed esse crescevano senz’anima. Di notte erano le mie parole a crescere e sgretolavano fortezze, ma erano fortezze immaginarie; dalla finestra la intravedevo nell’ombra, la fortezza era sempre là ed ora vi erano rinchiusi i tuoi aguzzini, ma era nera e minacciosa come quando vi fosti impiccato tu.”
“Replicati il mio errore dunque, sognasti troppo e troppo in fretta.”
“No Sasha, perché capivo ogni giorno di più che senza le parole del libro che stavamo scrivendo insieme, era la luce ad andarsene. Ma il giorno successivo la mano continuava a distruggere quanto era stato scritto la notte, ma essa era del tutto simile alla mia, era la mia Sasha! E così ricominciavo daccapo la notte successiva e le altre ancora ed ogni giorno ed ogni notte misuravo ciò che era rimasto come saldo. Finché non crollai io stesso e tutto cominciò a dissolversi; ti allontanasti di nuovo nelle tenebre e la mia mente si consumò, le lacrime che mai volli mostrare divennero un acido che cominciò a scavare e a corrodere dentro di me e allora decisi di andarmene.”
“Eppure incontrarti mi ha fatto tornare la speranza e quando ti guardo quella luce io continuo a vederla.”
“Anch’io la vedo e mi tormenta, sapessi almeno perché mai continuiamo a vederla!”
“Forse perché c’è un’altra soglia che dovremo attraversare, ma dovremo farlo insieme.”
I due tacquero di colpo e gli occhi del primo cominciarono a rivolgersi di nuovo in tutte le direzioni, mentre il volto dell’altro tornava alla sua fissità.
Amleto allora ritornò verso Cassandra, che l’attendeva.
“Perché hanno taciuto così bruscamente?”
“Perché non capiscono che manca loro qualcosa. Anche insieme non troveranno la soglia che cercano e così ogni volta sonocostretti a ripetere daccapo la loro storia e dovranno farlo molte altre volte e non solo qui fra noi; ma capiranno prima o poi, non esser così triste.”
Anche gli altri si erano avvicinati e tutti insieme si diressero di nuovo verso l’altura, in cima alla quale li attendeva il cane, insieme ad una figura che prima non aveva visto. La luce era cambiata e le schiere degli umani erano ora ben visibili. La striscia di nebbia che li separava, si assottigliava talmente in alcuni punti, che le due colonne si sfioravano senza tuttavia vedersi e neppure immaginare la presenza dell’altra. E mentre una schiera si trascinava un fardello di atroci sofferenze, l’altra – con gli occhi rivolti verso l’alto – si trascinava il fardello altrettanto pesante di una felicità ebete e incantata. Amleto scosse il capo e osservando lo spazio ai lati delle due schiere, vide agitarsi altre figure.
“Chi sono quelli?”
“Sono i personaggi minori, oppure molto recenti o appartenenti a opere di scarso valore; attendono che noi li chiamiamo, ma non possiamo. Continueranno a oscillare sulle loro piccole barche in attesa che qualcuno più grande di loro li traghetti da qualche parte.”
“E non potrebbero proprio loro mostrarci che viviamo un’attesa? Un tempo risparmiato e tenuto in serbo per qualcosa che non sappiamo?”
“Non è un tempo, fratelli e sorelle, ma una scelta, sta a noi prendere nelle nostre mani il nostro destino; a noi che vediamo quello di cui gli umani vedono soltanto un lato perché da tempo hanno distolto lo sguardo dalla sola parte di loro che vive.”
Si voltarono tutti.
“Non è forse questa la promessa che fece sperare le genti nel corso dei millenni? Se liberi finalmente, dai nostri creatori, fossimo proprio noi, i personaggi che essi hanno creato a far vivere le nostre storie e dunque anche la parte migliore di loro? Smettetela di guardarli e di cercare nelle loro imprese tutte le risposte e tu Amleto, rimani con noi, non tornare nel mezzo di altri principi e re.”
Si avvicinarono e si sedettero in cerchio accanto a lei.
“E da che cosa cominceresti regina e da quando?”
Allora Sherazade si sedette, incrociò le gambe e parlò.
FIGURE
Figure è il titolo di una raccolta di racconti che pubblicai nel 1995 per l’ editore ticinese Il gatto dell’Ulivo. Lo ripropongo qui in due diverse parti: la prima.
IL DUBBIO DI ENEA
La figura gli si parò dinanzi; Enea la guardò sbigottito:
“E tu chi sei?”
“Io non sono, di me non rimarrà traccia; avrei dovuto raccontare la pace fra Greci e Troiani e celebrare la virtù dell’amicizia fra gli uomini…Apollo stesso mi aveva assicurato che tutto sarebbe finito bene. Sai meglio di me come sono andate le cose ed ora l’intera vicenda è stata affidata ad un altro narratore.”
Enea adagiò il padre Anchise su una stuoia e si sedette.
“Che ne sarà di te! Parti con noi, racconta di me e di mio padre.”
“Non posso, non possiedo le parole per poterlo fare; i miei occhi non vi possono vedere, sono fissi su un mondo che non esiste più. Voi andrete verso la luce, il bagliore delle armi e della gloria illuminerà la tua strada e quella dei tuoi discendenti.”
Enea ebbe appena il tempo di stupirsi che la figura si allontanò; cercò allora di riavvicinarla, ma essa era irraggiungibile.
Senza accorgersene, si ritrovò a bordo dell’imbarcazione, le vele già issate, pronte ad accogliere il vento. Voltandosi verso la terra gli parve che qualcosa fosse sul punto di materializzarsi: non era un’ombra e neppure il fantasma di un guerriero troiano, ma un addensarsi di polveri, il battito di un’ala, forse il trasalire di qualcuno. Mentre lo sguardo inquieto interrogava quei segni senza averne risposta, Enea cominciò a sciogliere le funi; ma in un angolo nascosto di sé sentì smuoversi. Barcollò, si aggrappò all’albero e tutto parve rovesciarsi. Proprio in quel mentre un bagliore illuminò la radura, mentre un raggio più luminoso degli altri gli indicava la via da seguire. Enea riconobbe in quel prodigio la mano degli dei e volse lo sguardo verso il mare.
IL SOGNO DELLA PIZIA
I militi ammiccarono sorridendo. Era uscita dal vestibolo a passi lenti e mentre passava al loro fianco senza neppure guardarli aveva mormorato la solita frase:
“Se viene qualcuno sono alla locanda.”
Erano trascorsi due anni da quando l’ultimo postulante aveva varcato le porte dell’oracolo e da allora la Pizia aveva preso l’abitudine di uscire sempre più spesso.
Seduta al tavolo meditava sul fatto che ogni cosa in quel luogo andava lentamente verso una fine oscura…
Forse mi trattano sempre peggio per convincermi ad andarmene, anche loro non sapranno che fare, con la poca gente che passa i guadagni saranno diminuiti; se è in difficoltà l’oracolo figurarsi la locanda…
I sacerdoti mormoravano che lei, la Pizia, non voleva chiudere solo per comodo suo. Era stata più volte sul punto di farlo, ma nel momento di compiere il passo decisivo si era sempre tirata indietro, sfidando le chiacchiere che correvano su di lei; alle quali, per altro, opponeva un fiero silenzio e il rifiuto sdegnoso di dare spiegazioni. Non era lei la Pizia? Non era forse lei la custode di tutti i segreti? Non spettava dunque a lei dire l’ultima parola? Ma tale parola non risuonava mai chiara alle sue orecchie. Alle volte era un balbettio, altre volte un labirinto di parole in cui perdersi e lei, puntualmente, vi si perdeva. C’era in quel rifiuto a prendere atto della realtà qualcosa d’irragionevole; in fondo non era la prima volta che un oracolo chiudeva e ciò non aveva alcun significato particolare; forse i traffici avevano preso altre vie e Delfi non era più al centro del mondo come un tempo. Ammone, l’oracolo del grande Alessandro, non aveva forse chiuso? Ora toccava la suo, ma altri avrebbero preso il posto di Delfi; così va il mondo… o meglio: così va nei discorsi piani, quando i nodi sembrano sciogliersi da soli. Quel nodo, però, non si scioglieva proprio; anzi, si complicava sempre più e lei – testarda com’era – non voleva cedere agli umori, neppure ai suoi; figurarsi a quelli degli altri! Voleva trovare una soluzione che fosse semplice e chiara, cercava una spiegazione definitiva e sapeva che nessuno avrebbe potuto aiutarla. L’ultima volta era stata un sogno a fermarla dopo che aveva già radunato i sacerdoti, ma quando aveva cercato di raccontarlo non vi era riuscita e nessuno e aveva creduto.
“La Pizia gioca con noi”, mormoravano tutti; alla vicina locanda si rideva.
Era immersa in questi pensieri quando un rumore la distolse; una delle guardie era entrata correndo e si stava avvicinando al tavolo e quando le fu vicino:
“Presto, presto, venite Pizia, venite!”
I sacerdoti l’attendevano nella grande sala; li interrogò con lo sguardo e loro, senza dire una parola, le indicarono lo spioncino. Nella sala delle tavolette un giovane uomo era intento a scrivere qualcosa su una di esse.
“Chi è?” chiese la Pizia sottovoce.
“Un romano.” Risposero i sacerdoti.
“Un romano?” esclamò incredula e li guardò per sincerarsi che dicessero il vero.
Un romano, un romano… non viene nessuno per due anni e poi arriva addirittura un romano, con tutto quello che c’è a Roma! Mah…
Scuotendo la testa si avvicinò di nuovo allo spioncino. L’uomo, nonostante fosse molto giovane, incuteva rispetto e soggezione; il profilo era gentile, i lineamenti forti e delicati. La colpì il naso pronunciato, che dava al volto il profilo intenso di una vela trascinata verso una meta. La testa era alta sulle spalle, ritta, regale, ma non incuteva timore; il suo aspetto, piuttosto, rivelava l’ansia di guardare lontano, di esplorare il futuro. La barba era ancora corta, era quella di un ragazzo più che di un uomo e questo contrastava con la figura e dava al giovane un tocco di tenerezza che fece spuntare un sorriso sul volto della Pizia.
L’uomo, che sapeva di essere osservato ma non poteva vedere chi lo stesse guardando, cominciò a maneggiare la tavoletta e quando si voltò per posarla sul ripiano di pietra, la Pizia lo guardò, incantata dalla sua bellezza.
Si ricompose immediatamente e rivolse ai sacerdoti uno sguardo di sarcastica commiserazione:
“Un romano, un romano e voi lo chiamate un romano quello… ”
I sacerdoti si guardavano imbarazzati e lei continuava a ripetere quelle parole come parlando fra sé e sé, ma facendo in modo che anche loro sentissero… e ad ogni pausa successiva alla parola li fulminava con i suoi occhietti pieni di ironia.
Chiese i paramenti e mise sul fuoco l’acqua per l’infuso di erbe, poi ordinò la vestizione e, man mano che la cerimonia procedeva, riacquistava tutta la sua autorità. Quando tutto fu pronto si avvicinò alla porta del trono, il sacerdote raccolse la tavoletta su cui il giovane aveva scritto e la porse alla Pizia, che si ritirò. Le sembrò che scottasse e avvertì un brivido di emozione posandola, ma decise di fare le cose con calma e di trattenere la curiosità. Bevve l’infuso e si sistemò bene sullo scranno, poi prese la tavoletta e la guardò. Non credé ai propri occhi; la voltò e la rivoltò da tutte le parti, ma vi era soltanto una frase scritta su di essa:
“Vaticinate per voi.”
Niente altro, non un interrogativo, una richiesta, nulla! Due anni di attesa e poi anche un matto mi doveva capitare …speriamo almeno che l’obolo sia congruo… Ma ripensandoci non riusciva a credere che quel giovane volesse prendersi gioco di lei. Vaticinate per voi, vaticinate per voi… Un brivido la scosse; l’infuso cominciava a fare il suo effetto, presto il delirio avrebbe raggiunto l’apice ed in quel momento avrebbe dovuto emettere il vaticinio. Sudava e aveva la sensazione che una forza la tendesse, quasi fosse un arco rivolto verso l’interno del suo corpo, pronto a scoccare la freccia verso un centro misterioso fatto di cerchi d’acqua che inghiottivano le sue viscere. Il volo, il volo, ecco che cosa aveva sognato! Era il sogno di un volo che l’aveva distolta dal chiudere l’oracolo; poi delle parole, un ordine che doveva eseguire o qualcosa che doveva dire; ma erano parole rovesciate, che non riusciva a leggere.
Il corpo sembrò ripiegarsi nello sforzo estremo della massima tensione, ma subito dopo avvertì un vuoto desolante, incolore, assoluto. In esso nuotava senza trovare appigli, abbandonata a se stessa. Solo allora si accorse che il giovane era entrato: seduto davanti a lei, la stava osservando. Cominciò a tremare e a oscillare avanti e indietro, finché le labbra non cominciarono a muoversi da sole, ma senza parlare. Il grido saliva dentro di lei, saliva sempre più, ma interno al suo cadere; così che sembrava allontanarsi dalle labbra, come se anch’esso fosse risucchiato dentro il vuoto. Poi, invece, la sua voce risuonò nella stanza, cristallina e limpidissima; mentre pronunciava le parole del vaticinio smise di cadere. Il sogno ritornò a lei nella stessa forma e la frase le apparve chiara e semplice.
Il giovane, nel frattempo, si era alzato e le stava sorridendo; lentamente si avviò verso la porta, ma prima di uscire le rivolse la parola:
“Vi sono grato, ho avuto da voi ciò che speravo e che a un grande uomo prima di me fu negato. Ora so che mi avete ceduto il futuro.”
Quella notte la Pizia dormì più profondamente del solito e si alzò il mattino dopo con la sensazione di avere fatto sogni piacevoli. Radunò i sacerdoti e li informò senza preamboli che l’oracolo avrebbe chiuso di lì a tre giorni. Si guardarono stupefatti: che il momento tanto atteso giungesse proprio il giorno successivo a una visita, parve loro una di quelle stranezze cui le Pizie erano solite abbandonarsi. Tuttavia, passato lo sconcerto, subentrò la rilassatezza e pesino la gioia; erano liberi, potevano pensare a se stessi.
Quanto a lei si guardò bene dal dire cosa fosse accaduto il giorno prima e quando qualche avventore curioso l’avvicinava nella locanda per domandarle del giovane e della difficoltà del vaticinio, rispondeva con calma e fermezza che si era trattato di un responso come tanti altri.
LA SCOPERTA DELLE AMERICHE
Harald il Vichingo intravide qualcosa e fu incerto se avvertire i compagni. Da tre giorni il mare non li aveva lasciati dormire e quella, finalmente, era una notte tranquilla. Decise di attendere e fu saggio perché all’alba vide la terra.
Gli occhi scrutarono fra le rocce brulle ed i pochi arbusti e le narici fiutarono l’aria e gli odori così differenti; il suo corpo tutto era proteso, attratto da quella terra che avevano tanto cercato e di cui più volte, negli ultimi giorni di navigazione, avvertito la presenza. Ammainò la vela e poco dopo la piccola nave si fermò; era tempo di remare.
Allora Odino si manifestò con un grande tuono. Atterrito Harald s’inginocchiò nascondendo il volto fra le mani:
“Non destare i tuoi compagni, Harald, ma issa di nuovo le vele, prima che il sole vi abbagli…Su questa terra cui non darete il nome verranno uomini dei mari caldi, semineranno morte e distruzione e saranno odiati dalle genti. Nulla potrò contro il loro dio se vi troverete fuori dalle vostre terre, ma ti prometto che se le amerete ed in esse vivrete in pace e senza brama di conquista, sarete sempre invincibili… Ed ora di ordino di salpare e di serbare per te il segreto di ciò che hai visto.”
Si alzò il marinaio e vide un corvo volare contro il sole; allora abbandonò la lancia per la vela e afferrato il ramo di frassino lo gettò lontano, lontano verso la riva.
LE ESTRANEITA’ ELETTIVE: PRIMA PARTE
Charles Lutwidge Dodgson, alias Lewis Carroll, spedì ben 90.000 lettere alle amiche bambine ed intrattenne con la stessa Alice Liddell Heargraves una discreta corrispondenza, per altro ben nota. Recentemente, tuttavia, è stata ritrovata fra le carte del reverendo, una missiva indirizzata proprio ad Alice; tale, lettera, che porta la data del 1 gennaio 1898, non fu mai spedita.
Alice carissima, ho davanti a me le fotografie che ti feci e ho qui alla mia destra il libro che porta il tuo nome: in quale di questi vi è più verità? Dimenticai per lungo tempo le fotografie in un cassetto e ritrovandole compresi che nascondevano un segreto. Io ti amavo, Alice, senza esserne consapevole. Ora lo sono, ma la mia vita ha raggiunto da tempo quel punto più alto da cui s’intravede soltanto la discesa e le mie stesse parole ed emozioni hanno assunto quelle forme consolidate e sicure che mi impediscono di parlarti come si conviene a una donna di cui si è innamorati. Fu soltanto un equivoco, dunque, a spingermi a scrivere i racconti che tu certo ricorderai, ma sapiente fu la mano che guidò la mia perché – se mi perdoni l’immodestia – il libro è degno dell’attenzione di cui comincia, finalmente, ad essere circondato.
Come sono ingenue, invece, queste fotografie! E quanto mi sbagliai pensando che in esse vi fosse dell’arte! Sono state scattate da un dilettante che ti costrinse ad assumere pose ridicole e un poco imbarazzanti, il cui significato recondito – peraltro – era allora ignoto a entrambi. Esse si sono vendicate di me a mia insaputa e ora mi stanno davanti come la prova ridicola di una colpa che non ebbi il tempo né la cognizione di commettere.
La vita mi ha lasciato, in cambio dell’auto inganno, agi e promesse di fama imperitura, seppure offuscata da sospetti infamanti; spero non abbia riservato a te l’altra metà dell’inganno ma che tu possa, invece, aver trovato quello che a me fu dato di scoprire troppo tardi.
Tuo affezionatissimo Charles Lutwidge Dodgson.
LE ESTRANEITÀ ELETTIVE: SECONDA PARTE.
Alice Liddell tenne un diario di cui solo recentemente si è venuti in possesso. Per gentile concessione dell’editore che ne sta curando la pubblicazione, anticipiamo una pagina di questo sorprendente documento.
10 Aprile 1902. Caro Lewis Carroll, dal giorno in cui lasciaste la nostra casa, ho pensato assiduamente a voi. Mia madre, allontanandovi da me, pensò di mettermi al riparo da chissà quali abissi di perdizione. In realtà fece di voi un gigante che crebbe tanto da occupare uno spazio considerevole nella mia vita interiore. Molto tempo è passato, ma soltanto ora (e me ne vergogno un po’), ho trovato la determinazione necessaria per rivolgermi a voi e svelarvi qualche segreto della mia vita.
Viaggio molto e sono diventata quella che agli occhi dei benpensanti pare una creatura inquietante e vagamente mostruosa: una donna emancipata. Mio marito non ha retto e così sono stata costretta a lasciare la famiglia: non è stato facile per una donna di 50 anni ricominciare tutto daccapo! Dopo essermi dedicata allo studio della matematica la mia vita ha subito una svolta decisiva nel 1899. Da allora, infatti, seguo le teorie del Dott. Freud e dopo essere stata sua allieva, mi sono trasferita a Vienna dove ho iniziato a praticare io stessa la psicanalisi; disciplina che sono decisa ad introdurre anche nella nostra disgraziata Inghilterra. Dicono che abbia un talento particolare per questa professione; un poco – credo – lo devo anche a voi. Foste per me un secondo padre e forse fu proprio per avere sopportato un peso doppio rispetto alla generalità degli esseri umani, che si sviluppò in me una capacità quasi istintiva di penetrare i segreti pensieri e le angosce altrui. Tuttavia, ora che la mia vita volge verso la seconda metà e avverto l’urgenza di fare qualche bilancio, esso mi soddisfa ben poco. La mia ricchezza ed i miei agi crescono insieme alla folla di coloro che mi sono grati, ma sul risvolto di questa pagina dorata vedo precipitare la mia vita nella solitudine e la capacità di comprendere me stessa decrescere proporzionalmente ai miei successi. E così il saldo finisce per essere un numero negativo che si scompone in cifre sempre più piccole come se, un pezzo dopo l’altro, parti di me si staccassero dal mio stesso corpo disperdendosi sull’uno o l’altro dei miei pazienti. Sento dire in giro che la capacità di comprendere tutto degli altri e nulla di se stessi e di coloro che sono più vicini, sia la malattia professionale degli psicanalisti. Ho letto Alice nel paese delle meraviglie, ma non mi ha fatto una grande impressione; questo, però, è un segreto fra me ed il diario che non turberà la fama crescente di cui il libro è circondato. Sono troppo vivide in me le immagini di voi che inventavate e raccontavate quelle storie! Al confronto, il romanzo mi sembra una pallida e sfocata trasposizione; tuttavia, a mia figlia piacque molto.
Apprendo dai giornali che mi scattaste altre fotografie oltre a quelle che già possiedo. Francamente non le ricordo e mi sembra alquanto strano; perché mai me le avreste fatte, poi? Non sarà l’ennesima invenzione giornalistica?
Vostra aff.ma Alice
LA BEFFA
Faust si avvicinò al bancone: aveva appena concluso il patto e si sentiva su di giri:
“Mi dia un Glenn Grant” gridò al cameriere.
Sorseggiando il suo whiskey pensava a Margherita. Al suo fianco, un uomo rideva e parlava fra sé dicendo frasi sconnesse. A prima vista Faust lo scambiò per un ubriaco, ma guardandolo bene in volto vide nei suoi occhi la luce di una felicità che sentiva essere molto simile alla sua. Gli sorrise e l’altro ricambiò:
“Non mi prenda per matto, sono soltanto felice; sto aspettando una dea.”
“Oh, ma se si tratta di questo la capisco benissimo; anch’io ho un appuntamento.”
“Davvero? Ma allora è una sera fortunata, perché non festeggiamo insieme?”
E in men che non si dica ordinarono altri due whiskey. Nella concitazione del momento dalla tasca dello sconosciuto cadde un foglio di carta, piegato a metà. Accortosene, Faust si chinò per raccoglierlo e vide che nel mezzo c’era una minuscola fotografia …
”Ma questa è Margherita!” esclamò con voce strozzata e tolta dalla sua tasca la stessa fotografia la mostrò all’altro.
“Ma io gli ho venduto l’anima a quel diavolo di un Mefistofele!”
“Se è per questo anch’io!” mormorò Faust con un filo di voce.
“Macché anima, avete perso solo un po’ di soldi.”
I due si voltarono esterrefatti verso l’uomo che aveva parlato, che continuò:
“Scusate la mia intromissione, ma urlavate tanto!..”
“Scusateci voi, ma come fate …”
“Non vi ha forse detto che l’avrebbe portata qui in taxi? E non vi ha forse chiesto di
pagare in anticipo le spese di trasporto?”
“Sì” risposero i due, imbarazzati e confusi.
“Ma quello era Mefistofele, come potevamo sapere?”
“E quali credenziali vi ha dato? L’avete mai visto un diavolo? Che aspetto ha un demonio? Un tempo riconoscerlo era facile, ma oggi, cari miei, più guardinghi bisogna essere! Occorre discernimento, sapere porre le domande appropriate e se non se ne è capaci …” e così dicendo scosse il capo ed allargò le braccia.
I due, imbarazzati e contrariati, non sapevano che dire; guardavano lo sconosciuto e ogni tanto si gettavano occhiate perplesse.
“Invece di inseguire dee e margherite, demoni e fantasmi, dovreste liberarvi dell’unico dio che avete: la solitudine! Guardatevi intorno, ci sono giovani donne, volti felici! E voi passate la sera a specchiarvi nei vostri bicchieri. Avanti, siate più attenti a ciò che esiste!”
I due si strinsero nelle spalle, rassegnati alla piega che aveva preso la loro avventura; poi si avvicinarono a un tavolo dove sedevano due giovani donne. Sorrisero un po’ impacciati, ma le due ricambiarono allegre; allora si fecero coraggio e le invitarono a ballare. Prima che musica iniziasse Faust cercò con lo sguardo lo sconosciuto con cui avevano parlato, ma non lo vide più.
https://francoromano230470411.wordpress.com/
Sulla rivista Overleft: www.overleft.itScorzedi Adriana Perrotta RabissiScorza : rivestimento esterno di piante, pelle di frutti, pelle di animali, soprattutto rettili, apparenza, aspetto esteriore di personeScorzaL’aveva conosciuta durante una gita scolastica al Museo del Deserto a Tucson, due ore di viaggio in autobus, una breve sosta all’ingresso e poi via tra sentieri costeggiati da jumping cholla, grande il divertimento di fronte agli sforzi di turisti imprudenti alle prese con i ciuffi spinosi e dispettosi, all’inizio ridevano, dopo un po’ rimanevano sconcertati dal fatto di non riuscire a scuoterli via dalla stoffa, più si agitavano e più si riempivano, infine spazientiti e allarmati si guardavano le mani doloranti, piene di invisibile spini.L’unico momento noioso della mattinata era previsto fosse la conferenza sui rettili nella sala grande del Teatro del Museo, tappa obbligata del viaggio di istruzione, invece il Mostro di Gila l’aveva incantato.Appoggiato sul banco, molestato dal bastone brandito dall’erpetologa, che sollecitava i suoi lenti movimenti, lo rivoltava, lo pungolava per mostrare a un pubblico per metà affascinato e per metà disgustato la potenza delle mascelle, la lunghezza degli artigli arcuati, le squame della scorza dai brillanti colori aposematici, nero e giallo, con sfumature arancio.Il Mostro così inerme di fronte a chi sghignazzava, chi mostrava orrore, chi lo irrideva, gli aveva fatto pena.Gli risuonarono nelle orecchie per giorni le parole della donna che aveva illustrato la pericolosità del veleno, la presa dei denti incurvati, che si incastrano nella carne della vittima, senza che si riesca a allentare il morso, che aveva elencato, con un po’ di enfasi, a suo giudizio, il numero di persone morte per il veleno e quelle sopravvissute perché curate in tempo, ma a lungo in preda a atroci dolori.Ne aveva parlato in casa, l’unico che l’aveva ascoltato con attenzione era stato il nonno, che ricordava i racconti sentiti da bambino dai vecchi della riserva nella quale era nato e cresciuto, storie popolate da Mostri di Gila che sputavano veleno contro i malcapitati che li incontravano, che uccidevano con il respiro chi passava accanto a loro senza accorgersi della presenza su un albero, sotto un cespuglio, dietro un cactus.Ne aveva studiato sull’Enciclopedia il nome scientifico, Heloderma suspectum, l’habitat, le abitudini di vita, aveva scoperto con quante esagerazioni e inesattezze fosse stato presentato al Museo un animale timido, che sta spesso nascosto, difficile da incontrare se non di notte o di mattina presto. Non risultavano neppure persone morte a causa del suo veleno, unica verità il dolore acutissimo che provoca e lo stato di intossicazione che richiede terapie tempestive e intensive in ospedale.Negli anni si era convinto che il Mostro del Museo fosse un esemplare femmina, qualche volta immaginava che fosse fuggita dall’orrida erpetologa e si fosse rifugiata nel deserto circostante.Leggi tutto…OVERLEFT.ITwww.overleft.it
Questo racconto lo scrissi nel 2007 fu pubblicato nel 2009 nell’Antologia Milano per le strade a cura dell’Editore Azimut di Roma.
ANNALI.
Protocollo 16.200IIICI: testimonianza 2017.
Non me n’accorsi subito caro Esteban. Sai, io non amo il buio e lascio sempre una luce accesa da qualche parte, la notte … Anche ora che sono un anziano con i suoi acciacchi, non ho tende alle finestre e il mattino il sole o la pioggia mi entrano in casa senza filtri, come invasori spietati.
Tuttavia non me n’accorsi subito. Ero abituato al chiarore che diventa sempre più netto: prima l’aurora, poi l’alba, infine i rumori del traffico e … lì finiva la magia, il lento risveglio sfociava nel caos della giornata. Si ritorna verticali, tutto ricomincia a correre e io non so mai se sono gazzella o leone, come dice quel proverbio africano, e così mi metto a correre anch’io.
Quella mattina no; perché poco prima che si udissero i rumori della città mi accorsi che il cielo era completamente giallo. Aprii subito la finestra e il vento di scirocco mi colpì a ondate. È facile riconoscerlo; la mia casa in Via Meda è orientata secondo l’asse est ovest e così è un gioco da ragazzi mettere fuori la testa e sentire la rasoiata che arriva da sud o da sud ovest: il vento che viene da quella direzione, a dire il vero, è più frastagliato perché deve superare il Turchino e non arriva compatto come da sud. Era scirocco quel mattino e, portata dal vento, arrivava la sabbia del deserto: il colore giallo del cielo era un tappeto di pulviscolo disteso sopra l’azzurro e lo copriva tutto, non c’era angolo che riuscisse a scampare e in lontananza la coltre s’abbassava ancora di più sopra le case, le chiese, i capannoni; tutto, ma proprio tutto, ingialliva.
Mi attardai incantato alla finestra, incredulo, poi mi accorsi che altri erano stupefatti come me. Fu del tutto naturale guardarsi e sorridersi a distanza, ma ancora più stupefacente fu riconoscersi in strada e nei negozi ore dopo. Il cielo era sempre giallo, anzi, con il sole alto, la declinazione opaca del colore si era trasformata, impregnandosi di luce: Milano era diventata un immenso Van Gogh.
Due giorni dopo tutto era ancora più giallo e agli angoli delle strade, specialmente in corrispondenza del semaforo all’incrocio fra via Meda e Viale Tibaldi, crocchi di uomini di provenienza magrebina si radunavano in un numero maggiore del solito e nelle lavanderie a gettone non si parlava d’altro; il deserto stava risalendo verso di noi, quelle nubi di polvere e sabbia erano un annuncio.
Durò una settimana, poi la città ritornò normale, lo scirocco si calmò, il cielo quello di sempre; a volte azzurro, altre più numerose volte bianchiccio e slavato come un malato terminale. Tuttavia quelle nubi di sabbia non erano passate invano, avevano lasciato tracce evidenti, la città non era più la stessa; ogni mattina tutti guardavano il cielo in modo diverso da prima, come se stessero attendendo un presagio.
Nessuno si stupì quando, annunciato da alcune folate d’avvertimento, lo scirocco ricominciò a soffiare più impetuoso che mai. Il cielo era percorso da ondate di sabbia, dune che si trasformavano in cammelli, oppure assumevano le forme più strane, diverse dalle nuvole lombardi. Ricominciammo a sorriderci dai balconi, da un palazzo all’altro; gli stessi della prima volta e altri e … altre.
Fu così che conobbi tua nonna, caro Esteban; alla finestra come avveniva secoli prima nei cortili. A quel tempo, molti giovani si fidanzavano già al video telefono, per posta elettronica, scambiandosi fotografie che correvano su fibre ottiche, o semplicemente con un sms. Ti verrà da sorridere leggendo queste mie parole: tu ormai a tutto questo ci sei abituato, ma per noi non era proprio così, eravamo nel mezzo, un po’ d’antico e un po’ di moderno. Noi, la nonna e io intendo, abbiamo fatto tutto all’antica, comprese le rose che le portai la sera stessa del nostro primo incontro. Così cominciò tutto; dopo due anni nacque tuo padre e dopo tanto tempo sei arrivato anche tu. Che il tuo dio sia con te e con i tuoi sedici anni! Ti abbraccio mio caro Esteban. Tuo nonno Achille.
Protocollo 16201IIICI: Testimonianza 2018.
Non so proprio cosa diavolo stia succedendo a questa benedetta città. Si alzano tutti il mattino prima del solito e spiano il cielo in attesa di chissà che cosa. Nei blog non si parla d’altro, nei siti dedicati alle questioni scientifiche pure; ora, anche all’università, siamo invasi da ogni genere di sciocchezze e adesso ti ci metti anche tu a chiedermi cosa sta succedendo! Ma nulla, semplicemente da tre giorni c’è lo scirocco, cosa vuoi che sia! Sì, il cielo è giallo, è sabbia del deserto. Certo! Che arrivi fino a Milano in quantità così elevata è anomalo; ma da qui a tutto l’allarmismo che c’è in giro ce ne corre. Casa vuoi che c’entri tutto questo con il dibattito scientifico sul clima! È che ormai tutti discutono di tutto, come se fossero al bar. Che si parli di fisica nucleare o di calcio non cambia nulla … Ieri sera sai cosa mi ha chiesto mia figlia? Mamma! È vero che questa sabbia viene soffiata dagli arabi con grandi turbine per spaventarci e poi invaderci? Sono letteralmente allibita! Come si fa a rispondere a una domanda del genere? Chi mette in giro queste bufale? Persino per confutarla, una domanda così, sei costretta a prenderla in qualche modo sul serio e io vedo in ciò una corruzione ben più seria che non quella provocata dalla sabbia che s’infila dappertutto! Di quella prima o poi ci libereremo, di queste sciocchezze mai e mi preoccupa che anche nei nostri ambienti si parli di questo fenomeno con superficialità salottiera e anche un po’ razzista. La sabbia nelle nostre teste mi fa paura, il tarlo che corrode giorno dopo giorno, il lento scivolare dei modi di pensare e di agire. È tutto assurdo mia cara, c’è qualcosa di diabolico in questo e noi che crediamo ancora nella possibilità di ragionare (ma ci crediamo ancora?) sembriamo ormai una specie in via di estinzione. Scusami il tono allarmato, ma non pensavo davvero che lo scirocco spaventasse anche te. Cerchiamo di dormire e di pensare al nostro convegno di domani; a proposito, ci vediamo lì un quarto d’ora prima per un caffè? Alessadra.
Protocollo 16202: testimonianza 2019.
Caro Alberto, la tua mail mi ha sorpreso: ma davvero il telegiornale spagnolo ha dedicato un servizio di tre minuti allo scirocco che soffia su Milano da quattro giorni? Lì per lì ho pensato che mi stessi prendendo in giro ma poi navigando un po’ in rete ho visto che avevi ragione. Che dire? Sì la città è diventata tutta gialla, non è più soltanto il cielo, la sabbia s’incista ovunque, crea delle nicchie, aprire le finestre è diventato un problema; però noi dovremmo sapere che si tratta di un fenomeno previsto. Che il deserto si stia espandendo verso nord, dopo la quasi completa distruzione della foresta amazzonica, è una conseguenza ovvia. Sta accadendo, tutto qui; in compenso la foresta africana avanza verso sud ricreando in quel contesto ciò che è stato perduto. Tutto ciò mi fa sorridere, con tenerezza. Abbiamo ancora la capacità di stupirci, nonostante l’esattezza delle nostre previsioni e questo è un bene! Vuol dire che infondo non siamo vittime della tecnologia più di tanto, come troppo spesso si dice in modo assai superficiale: continuiamo a dire cose assurde e romantiche del tipo il sole tramonta e altre sciocchezze del genere … e va bene! Vuol dire che continuiamo a essere umani nonostante tutto! Al contempo però pensiamo di essere più forti della natura organica e abbiamo paura che i nostri comportamenti possano sconvolgerla in modo irreversibile. E ci sbagliamo su questo! Forse non crediamo del tutto alle previsioni e quando l’effetto di una causa si manifesta davvero cadiamo ancora dalle nuvole: vedrai che qualcuno tirerà fuori la fine del mondo! Invece, dovremmo convincerci, una volta per tutte, che la natura ritrova sempre il suo equilibrio globale, attraverso catastrofi e aggiustamenti che possono anche farci del male, ma certo! Alla fine, tuttavia, tutto ritrova il suo assetto, perché, come diceva il buon Leopardi tre secoli fa, la natura di noi se ne impipa, non sa che farsene e perciò non la disturbiamo neppure più di tanto. Il deserto, così come la giungla, si sta spostando. L’Antartide, poi, chi l’avrebbe mai detto? Tutti, anche noi scienziati, talvolta, c’eravamo dimenticati che si tratta di un continente rivestito dai ghiacci. Ebbene, lentamente, si sta spogliando dei suoi abiti, mostra le sue forme sinuose appena uscite da un letargo millenario, come se sotto il sudario vivessero in attesa del sole una magnifica giovane donna e un Apollo greco improvvisamente rinati, che ci mostrano ora tutto un rigoglio fatto di foreste, grotte sinuose, tundra, picchi montuosi e massicci che sembrano ciclopi di roccia!
Milano diventerà tutta gialla? E allora? Dove sta il problema? Farà più caldo? Probabilmente sì, anzi caldissimo. A me non dispiace; pensa che ormai le nuove case vengono costruite senza apparecchi di riscaldamento e in quelle vecchie si accende un mese all’anno, non di più. Pensa a quanto risparmio di soldi e al minore inquinamento. Si respira più di prima a Milano. Mio caro tutto muta perché tutto si conservi, soltanto si sposta un po’ per il mondo, come gli esseri umani. Siamo tutti un po’ nomadi; anche la sabbia del deserto che è fatta di granelli di polvere, individui come noi. Corriamo tutti, trascinati sui binari paralleli del vento e della storia. Abbiamo accolto i lanzichenecchi, Napoleone e anche i leghisti a Milano! Accoglieremo anche lui, il deserto! E gli daremo il benvenuto! Franco.
Chan Hue Liang finì di leggere e si stirò, allungando le gambe sotto la sedia. Poi s’alzò a s’avvicinò alla grande vetrata. Dall’alto del ventesimo piano del grattacielo rotante dove si trovava il suo ufficio, poteva dominare la città intera: sotto di lui, dove un tempo si trovava la stazione di Porta Garibaldi, correva la ferrovia sopraelevata in direzione del nord Europa. Sorrise fra sé e tornò al computer: 2019 testimonianze potevano bastare. In quanto addetto culturale dell’Impero Indo-Cinese accreditato nella capitale della Padania, aveva ricevuto l’incarico di raccogliere testimonianze sulla desertificazione della penisola italica, un lungo processo che, a ondate successive, si era protratto per circa un trentennio: finalmente aveva concluso il lavoro. La mole imponente di quegli scritti riversati in minuscoli microchips, era a sua volta un fenomeno del tutto particolare che era stato bene documentare. Infatti, all’inizio del secondo millennio, si era diffusa in quella che allora era ancora l’Italia, la passione per la cosiddetta microstoria; nascevano gruppi spontanei che si dedicavano alla scrittura delle proprie biografie, veniva riscoperta l’importanza della testimonianza orale, del valore dell’esperienza delle persone comuni. Dopo un centinaio d’anni anche quel fervore era passato di moda, ma per una di quelle coincidenze del destino, proprio l’esistenza di queste biografie, o semplici messaggi di posta elettronica, avevano permesso di ricostruire non solo da un punto di vista strettamente scientifico, le prime avvisaglie della desertificazione. Si era divertito a leggere tutto, ma ora i suoi superiori gli facevano fretta: doveva chiudere il dossier.
Mise tutto in una piccola borsa che portava al collo e uscì in fretta; doveva sbrigarsi se voleva concedersi una cenetta al ristorantino milanese poco lontano dall’ufficio, in Via Carlo Farini, prima di raggiungere l’aeroporto; ma lo attendeva una sorpresa poco gradita. Il suo amato locale aveva cambiato gestione, le lanterne rosse esposte sopra la porta d’ingresso non lasciavano dubbi in proposito. Chan sospirò e si convinse dopo una breve esitazione, a chiamare un taxi. Niente risotto allo zafferano, niente rustin negà e rane come l’ultima volta disse fra sé sconsolato; ma che poteva farci? Poi ebbe un sussulto, aggrottò la fronte e si ricordò: non era a Milano quando aveva cenato l’ultima volta alla meneghina! Era successo a Canton, la sera prima di partire per l’Europa.
Tredici
Nonostante fosse estate piena pioveva a scrosci intensi e la massa d’acqua fine e leggera cambiava direzione seguendo le bizzarrie del vento, come uno sciame d’api senza guida: sembrava di essere a marzo, ma si sa che le stagioni non ci sono più…Alla fermata del tram c’era una sola figura umana in attesa, come in certe sere di novembre. L’avevo scorta da lontano, sbirciando da sotto l’ombrello leggermente piegato in avanti. Quando fui più vicino riuscii a inquadrarla meglio: era una giovane donna bionda, che indossava una camicia dai colori smaglianti…
Una folata di vento mi costrinse a piegarmi ancora di più; la persi di vista per un attimo, ma quando finalmente raggiunsi la fermata la scena mi parve subito più chiara: vidi che non aveva ombrello, o altro, per ripararsi. Mi arrestai a distanza e mi sembrò che tutto si annebbiasse, ma non capivo se tale sensazione dipendesse dalla polvere bagnata che si alzava dal suolo come una coperta umida e pesante, oppure dalla mia confusione interiore: o forse, da entrambe le cose… Dissi a me stesso che potevo aver visto male da quella distanza e in quelle condizioni atmosferiche, ma non appena mi voltai ancora verso di lei, capii di non essermi sbagliato: era là, sola, statuaria sotto la pioggia insistente.
Mi domandai come dovessi comportarmi: potevo, per esempio, avvicinarmi e dirle signorina, lei si sta bagnando…vuole venire sotto il mio ombrello? ma il pensiero di una frase come questa mi disturbò perché avvertii subito in essa qualcosa di ambiguo e persino di ridicolo.
Mi ripresi con un sospiro e mi guardai intorno sperando nell’arrivo del tram, poi accarezzai l’idea che la pioggia stesse calando e per provarlo a me stesso spensi l’ombrello: le gocce cominciarono a picchettarmi sul collo come il tasto di un pianoforte che strappa allo strumento un suono sadico e ripetitivo. Pioveva proprio…e forte anche! E del tram, neppure l’ombra.
Ho sempre odiato avvicinarmi a una donna con una scusa qualunque: non mi piace il maschio furbetto, ammiccante, un po’ pelosetto che sa approfittare delle situazioni e segue con istinto animalesco ogni traccia. Un grande seduttore non si piega a uno stato di necessità. Sedurre, intendiamoci, può essere una scelta di vita, tanto profonda ed estrema da divenire modo di vestire e camminare, tratto dell’essere, stile…Sì, il seduttore così inteso potrebbe persino divenire il mio modello…potrebbe…
Tutto questo, però, allora non serviva a nulla e d’altro canto, potevo avvicinarmi a lei in modo non ambiguo? Sanno troppo le donne di oggi perché si possa offrire loro una protezione così antica: un ombrello, un oggetto così ridicolo, una protesi, un tetto scricchiolante gravato come è da secoli di romanticherie…
Pioveva, pioveva maledettamente e il tram non ne voleva sapere di arrivare…Ma accidenti a lei – pensai – cosa le era venuto in mente di uscire senza ombrello in una sera come quella!
Mentre ero immerso in quelle amare riflessioni un’altra folata di vento piegò le asticelle del mio ombrello, così che dovetti armeggiare goffamente per rimetterle a posto. Quando alzai lo sguardo la giovane donna era quasi davanti a me, lucida e smagliante per la pioggia… ma i suoi capelli erano immobili, nonostante il vento e la sua testa una corolla che si era chiusa nell’indifferenza mia e di tutti…
“Mi scusi signore, posso approfittare del suo ombrello?”