SULLA FONDAZIONE GIULIA CECCHETTIN E IL DIBATTITO SUL PATRIARCATO

Premessa

L’inaugurazione della Fondazione Giulia Cecchettin ha scatenato molte polemiche. Di alcune come quella del ministro Valditara non vale neppure la pena di occuparsi. Troppo comodo prendersela soltanto con lui e con i vari Vannacci e Salvini di turno o i loro organi di stampa: ma che dire di altri interventi? Sono allora ritornato agli argomenti usati da Cacciari lo scorso anno, poi ad altri interventi e a due miei scritti precedenti di cui uno già pubblicato nel blog. Mi ha colpito la mancanza di fantasia e di argomentazioni, la reiterata riproposizione di argomenti triti e ritriti; oppure, nel caso nel film di Cortellesi C’è ancora domani il vero e proprio fastidio e le critiche che non entravano nel merito del film ma sembravano dei rancorosi rimproveri alla regista per avere osato farlo e in modo così calzante. Ripropongo allora quel testo con alcune modifiche e aggiunte nel finale.

Il dibattito.  

Mi sembra siano tre le mistificazioni più importanti, di cui una nuova particolarmente pericolosa, perché fatta propria anche da intellettuali non reazionari. La riassumo in poche parole così:

Il patriarcato ha delle regole, mentre quello cui stiamo assistendo è un ritorno all’orda primitiva maschile pre patriarcale. La sintesi: meglio il patriarcato che è pur sempre – specialmente in Europa aggiunge qualcuno – un mondo di regole in cui vi è spazio anche per i diritti delle donne.

Questa sintesi contiene un falso e molte mistificazioni. Scambiare per realtà la fiction antropologica di Freud sull’orda primitiva, finisce per destinare a un passato arcaico e originario un processo contemporaneo che ha tutt’altre motivazioni. Quanto alla fiction in sé, le acquisizioni recenti della paleo antropologia dovrebbero consigliare almeno la prudenza quando si fanno certe ipotesi. I processi di imbestiamento (anche linguistico, come si evince leggendo certi articoli della destra più feroce) di una parte del mondo maschile sono un fenomeno modernissimo e rappresentano l’aspetto più appariscente di una reazione ben più vasta, che ha declinazioni diverse in contesti diversi ma una causa comune: reagire con violenza ai processi di liberazione delle donne. Faccio alcuni esempi che sembrano in apparenza lontani da noi. A vedere certe fotografie afgane degli anni ’50 e ’60 c’è da rimanere allibiti: donne che frequentavano l’università, abiti per nulla velati ecc. Com’è possibile? Sono sempre esistite delle minoranze emancipate anche in contesti di regole patriarcali severe, ma a un  patto e cioè che si trattava di privilegi concessi a minoranze. Le cose sono cominciate a cambiare quando la massa delle donne ha rivendicato i propri diritti. Le repressioni di parte islamica più forti sono avvenute laddove le donne erano state protagoniste: le algerine, per esempio, che avevano partecipato in massa alla lotta di liberazione contro la Francia. In sostanza, se non ci si ribella, c’è sempre una minoranza emancipata che può farcela. Mutatis mutandis è quanto avviene oggi in Italia seppure in forme meno efferate ma altrettanto violente. Chi afferma che il patriarcato è un mondo di regole, dice in realtà un’altra cosa: state al vostro posto e qualcosa vi verrà concesso. Oppure ancor meglio – come accade nel film di Paola Cortellesi: devi stare zitta, ripete ossessivamente il personaggio più odioso del film, il nonno.    

La seconda mistificazione mescola insieme elementi psicologici arrivando in qualche caso a definire Filippo Turetta – alternativamente – un malato o un bravo ragazzo. La sintesi è la condanna del delitto ma la negazione del femminicidio. Si punisce al massimo il crimine individuale, ma si negano le ragioni strutturali. Come ha scritto Elena Cecchettin, la sorella di Giulia, Turetta non è un malato ma un figlio sano del patriarcato. La fragilità maschile esiste eccome, ma invocarla in circostanze come queste non significa voler fare i conti con essa, ma cercare delle giustificazioni. In ogni caso, a chi volesse davvero uscire dal modello virilista e confrontarsi seriamente con la propria fragilità, consiglio per l’ennesima volta di leggere il libro di Edoardo Albinati: La scuola cattolica.

La terza mistificazione, di cui sono responsabili prima di tutto le forze di destra, sono i discorsi generici sull’educazione al rispetto, il piano presentato oggi dal Ministro, un guazzabuglio di false buone intenzioni. La versione leghista delle medesime false buone intenzioni consiste nell’affidare tutto alla famiglia. Sappiamo da tempo dalle statistiche che è nelle famiglie che si consumano le violenze di genere più diffuse. La famiglia non è mai stata un luogo idillico, ma non lo è neppure nella versione hollyvoodiana che viene veicolata da fiction statunitensi come Modern family, riverniciate di modernità e di ammiccamenti al mondo LGBTQ. Il familismo italiano, inoltre, ha un bagaglio assai pesante sulle proprie spalle, che non è patrimonio soltanto della cultura di destra, ma deriva anche dalla cesura che negli anni ’70 si produsse fra la sinistra vecchia e nuova e il femminismo. Andare avanti su una strada minimamente consapevole è togliere queste problematiche dall’ambito privato e familista e riportarle nello spazio pubblico, con lotte mirate e determinate per aumentare e sostenere i centri antiviolenza autogestiti, promuovere e consultori presidi territoriali, far funzionare reti di supporto che favoriscano le denunce.

Il film di Cortellesi.

La pellicola di Paola Cortellesi merita un discorso critico importante perché si tratta di un film molto significativo e non solo di un’opera che ha saputo parlare a una platea molto vasta e mi piace pensare che l’ondata di sdegno seguita al femminicidio di Giulia Cecchettin ma anche certi discorsi che si smarcano dai dibattiti più penosi, siano anche il segno che questo film ha seminato una consapevolezza importante in un pubblico vasto, trasversale e non soltanto femminile. Tre mi sembrano i motivi forti della sua narrazione e del montaggio: la capacità di giocare con tutti i cliché che il tema poteva suggerire riuscendo, con alcune mosse spiazzanti, a evitarli tutti ma sempre all’ultimo momento. Dall’uso del bianco e nero, al neorealismo, dalla finzione di far credere a chi vede il film che forse la fuga di Delia sarà con il vecchio amico carrozziere verso il nord mentre invece quando corre per recarsi al voto e passa davanti alla sua autofficina non si volta neppure verso di essa perché ha da fare qualcosa di molto più importante. Il secondo aspetto è il modo in cui le scene di violenza, solo accennate, si coniugano a un linguaggio musicale che scimmiotta quanto di più ipocrita si nasconde dietro il sogno d’amore. Infine, ma senza rivelare cosa accade per non togliere il gusto di vederlo a chi il film non lo ancora visto, il modo geniale in cui Delia manda all’aria il matrimonio della figlia sfruttando la violenza che il mondo maschile esercita su di loro e rivolgendogliela contro. Quanto all’ambientazione del ’46 e dunque nell’Italia della scelta fra monarchia e repubblica, non condivido quelle critiche che ne fanno una scelta poco comprensibile. Non le condivido perché Cortellesi non parla affatto del 1946 e ancora una volta gioca con il cliché per poi smarcarsi dal medesimo. Il film metabolizza il femminismo ma lo fa in modo traslato: una scena come quella in cui Delia affossa il matrimonio della figlia sarebbe impensabile senza gli anni ’70. Il 1946 è il dito che mostra la luna, il suo film non è il sogno di una cosa del passato (il voto alle donne), ma evoca un domani che ancora non c’è.

Un anno dopo

Cosa è cambiato rispetto a un anno fa, ora che il processo a Turetta si è concluso? Aldilà di attestati formali e discorsi imbarazzanti come quello di Valditara, è l’aumentata violenza verbale e non solo della destra di governo e di quella più estrema che il qualche caso ricatta la prima – vedi gli attentati per fortuna falliti contro la magistrata Jolanda Apostolico. Il secondo mutamento è il silenzio degli intellettuali non reazionari e in qualche caso l’arroganza nel pretendere di intervenire senza avere minimamente la cognizione dell’argomento, nell’ignoranza palese di quanto il pensiero femminista ha prodotto dagli anni ’70 a oggi. Naturalmente ci sono le eccezioni, da Maschile plurale di Stefano Ciccone ad altri sporadici interventi e naturalmente il gran libro di Albinati. Eccezioni, appunto in un mare di silenzio o peggio: di malcelato disprezzo nei confronti di Gino e di Elena Cecchettin. Rispetto alla sorella di Giulia le argomentazioni sono le solite tradizionali e cioè la negazione del patriarcato e l’accusa rivoltale di essere ideologica. Quanto a Gino, mi ha colpito in particolare il fastidio, che ho potuto constatare anche di persona, quando si accenna al suo coraggio nel fare della sua tragedia e del suo dolore un momento di sensibilizzazione per tutti e per tutte; coraggio anche per la mitezza che trasmette e un modo di porsi che non ha le astuzie della comunicazione mediatica. A Gino Cecchettin si rimprovera di essere uscito dal gruppo, di rompere le complicità maschili dirette e indirette fondate sul silenzio. Bene ha fatto Geppi Cucciari a intervistarlo nella sua bella trasmissione – Splendida cornice – una delle pochissime che vale la penna di ascoltare. Per quanto mi riguarda ho deciso di aderire alla Fondazione e di essere presente per quanto possibile alle sue iniziative.