Orfeo: Parte seconda
Premessa
In questa seconda parte, la riflessione sarà focalizzata sul mito di Orfeo in quanto tale, ma senza dimenticare il testo rilkiano e il saggio di Brodskj cui è dedicata la prima parte del saggio che trovate nella stessa rubrica con il titolo Rilke – Brodskj – Orfeo.
Il mito è assai complesso perché – più di altri – è in realtà un intreccio fra miti diversi e la stessa definizione mito di Orfeo si presta a molti fraintendimenti, prima di tutto perché il suo nome è sempre associato a quello di Euridice; ma al tempo stesso, come vedremo, proprio quest’ultima, più ci si addentra nel labirinto e più sfuma in una nebbia che la nasconde sempre di più. Del mito nella sua interezza esistono peraltro versioni diverse. La mia scelta va a quella di Robert Graves, che ritengo l’autorità più affidabile del ‘900 in campo mitografico, il cui pregio più grande è proprio quello di raccogliere nella sua opera proprio le diverse e a volte contrastanti versioni dei miti, citando le fonti antiche e dando conto delle diverse interpretazioni di alcuni passaggi della vicenda. In nota ho riprodotto il suo testo preso dal capitolo eponimo, con poche modifiche irrilevanti in passaggi che erano ripetitivi e non aggiungevano nulla a quanto detto in precedenza.1 Accanto a Graves, però mi sono avvalso anche del racconto di Virgilio, che nella parte finale delle Georgiche, inserisce la favola dal titolo Aristeo e le api, per poi stabilire una relazione assai originale e suggestiva fra la favola e il mito di Orfeo.
Un labirinto di miti
La mia rilettura parte da un libro di Alessandro Carrera. Egli vede in Orfeo ed Euridice due figure simboliche di cui la seconda, il principio femminile, rappresenta l’ispirazione poetica, che svanisce nel momento in cui l’opera è compiuta. Orfeo, dal canto suo, per creare qualcosa deve rinunciare al proprio delirio di onnipotenza giovanile che pretende di tenere presso di sé sia l’opera sia l’ispirazione. Fin qui Carrera.2 Nel momento in cui Orfeo permette all’opera di esistere, perde Euridice.3 Nel mito classico, dunque, i due sono una coppia indissolubile, nonostante il loro diverso destino. Naturalmente il fatto che l’ispirazione debba avere sembianze femminili mentre l’opera sia compiuta da un agente maschile non è affatto neutra: si tratta di un’idea platonica e patriarcale. Il non detto (o detto a metà) è che l’ispirazione deve essere per forza un principio femminile perché il femminile è in rapporto diretto con la divinità (e la poesia è ispirata dagli dei secondo gli antichi), mentre il maschile – pur limitato – è il solo produttore di cultura.4 I momenti topici del mito sono l’iniziazione alla sua arte da parte di Orfeo – che ha diverse tappe – e la morte di Euridice. Nella prima fase della narrazione la relazione del poeta con quest’ultima appare del tutto separata dalle vicende della sua vita. Dal testo, si capisce che a Orfeo guardavano in molte e anche in molti, ma che lui aveva occhi e orecchi solo per Euridice. Di lei, tuttavia, non sappiamo molto, a parte il fatto di essere sposa di Orfeo, ma qualche fonte suggerisce che fossero solo fidanzati per dirla in termini a noi consueti. Quanto a Orfeo, egli è decritto secondo i canoni del mondo classico: il viaggio con gli Argonauti sulla nave Argo alla ricerca del Vello d’Oro fu un’impresa eroica, anche se nel caso specifico è strano che egli non ci abbia raccontato nulla di quel viaggio e il mito ci dice semplicemente che egli andò con loro e che con la sua cetra, cui aveva apportato delle modifiche, li aiutò a superare molte difficoltà. Vita e arte, impresa eroica e relazione matrimoniale s’incontrano in un momento tragico: un tentativo di stupro, a causa del quale e per cercare di sfuggirvi, Euridice muore morsa da una serpe. Entra così in scena Aristeo che è la causa prima, seppure indiretta, della morte di lei, ma è anche un figura importante per molto altro nel Pantheon greco. Apicoltore e pastore di greggi, a lui dobbiamo, secondo il mito, la lavorazione del miele. La storia di Aristeo s’incrocia solo in quel momento con l’altra narrazione, tanto che in certe versioni il suo stesso nome viene riportato di sfuggita. Andando alle fonti, ci s’imbatte subito in alcune sorprese. Per esempio che di Euridice ne esistono tre e che molte righe vengono dedicate alle altre due prima che gli estensori delle note ricordino che “la più famosa è la ninfa che fu sposa del poeta Orfeo.” Cito la frase fra virgolette perché è un ritornello che si ritrova in più definizioni e specialmente nel libro di Graves. Detto ciò, le note passano a narrare in modo più o meno completo la discesa nell’Ade da parte di lui e tutto quello che già sappiamo. La seconda sorpresa può essere il constatare che fosse una ninfa, cioè una creatura non proprio del tutto umana. Come abbiamo visto Rilke non se ne cura e tanto meno lo rileva Brodskj, ma questo secondo aspetto rende ancor più impalpabile la sua figura. Le ninfe appartengono alle forze ctonie della terra, sono entità che sfuggono alla nostra piena comprensione e anche il ricorso alle definizioni canoniche mette fra noi e loro una distanza difficilmente colmabile. Se andiamo un po’ avanti nel tempo e arriviamo a Virgilio, a noi più vicino come sensibilità, forse troviamo un’altra chiave d’accesso alla complessità di questa narrazione. Il poeta latino, mettendo in parallelo la vicenda di Orfeo con quella di Aristeo e riferendosi a sua volta ad altre fonti, afferma che le due narrazioni vanno poste in contrapposizione per fare risaltare la differenza di comportamento fra i due uomini. A che cosa si riferisce Virgilio? Al fatto che l’apicoltore, ritenuto dagli dei il responsabile indiretto della morte di Euridice, viene punito con la sottrazione delle api, cioè viene privato non solo del suo lavoro ma anche della sua identità. Disperato, egli ammette la sua responsabilità, compie un atto di umiltà e chiede cosa possa fare in riparazione. Gli dei gli impongono un sacrificio e gli restituiscono le api. Orfeo, invece, a fronte della perdita di Euridice, sfida gli dei, viola il confine fra vita e morte, si preclude la strada della riparazione e infatti la parte finale del suo mito ci racconta di un cambiamento radicale di vita, su cui ritorneremo perché è in quella trasformazione che si nasconde molto del fascino che dal romanticismo in poi il mito ha attirato di nuovo su di sé. In sostanza, se si sta al testo di Virgilio, Euridice nella dinamica relazionale fra le due narrazioni occupa nel suo mito di appartenenza lo stesso spazio che hanno le api in quello di Aristeo! Vuoi vedere che il tutto non è altro che una storia fra uomini in cui lei viene messa in mezzo come puro pretesto? Lasciamo parlare allora l’autorità maggiore in questo campo: cosa dice Graves a proposito della ninfa? Ebbene, sulla nostra Euridice Graves non dice nulla, nel senso che non vi è alcuna voce autonoma nella sua mitografia, che porti il suo nome come invece avviene per Orfeo e per altri! La ninfa esiste solo nella narrazione del mito e in alcune note, due in particolare. La sua presenza è un puro pretesto per significare altro, un simbolo e niente più. Quanto ad Aristeo, egli rappresenta l’agricoltore, colui che compie delle opere le quali, oltre che gratificare chi le compie, sono utili alla comunità. Virgilio fra i due eroi sposa senza dubbio il secondo, che si sottopone al giudizio degli dei e ne esce con un gesto riparatore, che non solo gli restituisce la sua identità, ma lo riporta all’interno della comunità da cui era stato bandito. Veniamo ora alle due note che riporto nelle loro parti essenziali e si trovano sempre in Graves. La prima la troviamo nel capitolo dal titolo I Figli del mare, nel quale il mito di Orfeo non è neppure citato:
“Pare che l’appellativo della dea-Luna la proclamasse onnipotente nel cielo e nella terra (si riferisce alla ninfa Doride ndr); l’appellativo Euribia … signora del mare; Euridice (ampia giustizia), signora dell’Oltretomba, che essa stringeva nelle spire di serpente. Sacrifici umani maschili erano offerti alla dea come Euridice e le vittime morivano per il morso di una vipera. La morte di Echidna per mano di Argo, si ricollega probabilmente alla soppressione del culto argivo della dea-sperpente. Suo fratello Adone è il serpente oracolare che alberga in ogni paradiso, le cui spire sono avvolte nell’albero di mele.“
La seconda la troviamo nel capitolo dal titolo Orfeo. Nella prima parte, che riassumo, Graves cita le fonti antiche dove si dice che la morte di Euridice per il morso del serpente si trova soltanto nella versione tarda del mito e come essa sia basata su un certo numero di equivoci. La parte finale, che si riferisce alla citazione riportata in precedenza, si conclude in questo modo:
“Erano le vittime di Euridice e non Euridice stessa che dovevano morire per il morso del serpente.”5
Ce n’è quanto basta per rivedere tutta la faccenda in ben altro modo!
Non mi occuperò delle assonanze con il mito biblico della cacciata dal paradiso terrestre presenti nella prima citazione (il serpente avvolto nei rami dell’albero di mele), che mi sembra un problema decisamente minore rispetto agli altri. Ripartiamo dall’inizio e dagli appellativi con cui si designa la ninfa Doride: sono tre e uno di questi è proprio Euridice che significa Signora dell’oltretomba. La cosa più sorprendente però è che Doride, nel mito orfico, viene indicata come la madre di Euridice. Dunque, si crea un’evidente e paradossale sovrapposizione di funzioni. La sposa di Orfeo sfuma in una sempre più rarefatta indeterminatezza e questo spiega il motivo per cui Graves non le dedica una voce autonoma. Chi è Euridice in sostanza? La sua identità, quanto più ci addentriamo nel dedalo degli intrecci fra miti diversi, tanto più si allontana da noi, fino a diventare un appellativo di sua madre. L’elemento veramente dirompente, tuttavia, è quello che segue immediatamente: Euridice viene descritta come colei che stringe l’Oltretomba nelle spire di un serpente. Per comprendere bene l’importanza di questo passaggio dobbiamo fare una piccola digressione che ci porta in un grande museo e poi a una statuetta.
Il museo è il Pergamon di Berlino, giustamente famoso per l’altare della città in dimensioni naturali. In esso, tuttavia, si trova anche un altro gioiello archeologico meno noto: la riproduzione della porta che a Babilonia si apriva sulla via processionaria. Tale reperto viene indicato anche con l’appellativo di Porta di Ishtar, la dea babilonese più importante del Pantheon arcaico. Di lei esistono poche riproduzioni, ma una assai famosa è una statuetta che la ritrae in posizione eretta, le gambe leggermente divaricate così da conferire all’immagine, maggiore potenza e solennità. Le braccia della dea sono leggermente piegate ai gomiti e le mani, all’altezza delle spalle, stringono fortemente due serpenti. Gli animali sono il simbolo della potenza femminile che trova la sue radici nelle forze ctonie della terra, o anche dell’acqua in misura minore: il serpente le rappresenta benissimo entrambe. Se ora passiamo alla seconda nota e precisamente alla sua parte finale citata, ecco che il cerchio si chiude. In tempi antichissimi, i sacrifici umani erano sempre maschili. Una traccia importante di questo si trova, per esempio, nella ricchissima analisi che Frazer (Il ramo d’oro) fa dei miti e delle leggende legate al lago di Nemi e al culto di Diana. Il Re dei boschi era un uomo molto anziano (probabilmente uno schiavo) che durava in carica un anno e che veniva sacrificato ritualmente alla fine del medesimo. Diana, come Ishtar, era dea protettrice della natura nel suo aspetto più selvaggio, con i loro simboli già ricordati. Quando Graves ricorda che non era Euridice (cioè le donne) a essere sacrificata, ma i maschi, ci rimanda a un’epoca precedente. Come mai allora quello che era il simbolo della potenza femminile – il serpente – diventa nel mito di Orfeo la causa efficiente della morte di Euridice? Per trovare una risposta possibile dobbiamo tornare ancora una alla preziosa indicazione che ci ha fornito Virgilio e cioè che il mito di Orfeo va letto in parallelo a quello di Aristeo. Azzardo allora un sintesi. I due miti, se letti insieme, alludono al passaggio da una società precedente a una società patriarcale. Che tali società precedenti si possano definire matriarcali o matrilineari oppure no è questione troppo controversa per affrontarla qui.6 Quello che mi sembra certo, invece, è il significato simbolico che assume la morte di Euridice per il morso di una serpe. Lo potremmo definire in questo modo, secondo un’interpretazione libera della legge del contrappasso: quello che era un tempo il simbolo del potere femminile diviene ora la causa efficiente della sua morte. Se stupro vi è stato, è quello di un’intera cultura, vinta dal nascente patriarcato e infatti la prima delle note lo dice esplicitamente quando parla di una soppressione del culto argivo della donna-serpente.
Un mito romantico
Orfeo ritorna in auge con il romanticismo ed è l’ultima parte della narrazione che può aiutarci a capire perché. Il fallimento della sua impresa provoca un radicale cambiamento nella sua vita. Così lo racconta il mito nella versione di Graves:
“Si rifugiò allora Orfeo sul monte Rodope, in Tracia trascorrendo il tempo in solitudine e nella disperazione. Rifiutava le donne e riceveva solo ragazzi e adolescenti maschi che istruiva all’astinenza e sull’origine del mondo e degli dei.“
Alcuni commenti si soffermano sull’implicito richiamo all’omosessualità in questo passaggio, ma non credo si tratti dell’aspetto più importante perché lo è di più il fatto che istruisse i ragazzi all’astinenza delle pratiche sessuali e che rifiutasse le donne, un comportamento radicalmente diverso rispetto alla sua vita precedente. Orfeo si ritira in una sorta di eremo e l’accento va posto proprio su questo e sull’astinenza (che sia etero od omo poco importa). Proprio intorno a tale scelta rinasce il mito di una funzione sacerdotale del poeta, che diventa una figura sciamanica; nella tradizione a noi più prossima, tale narrazione mitica trova le sue traduzioni moderne nel titanismo di Worsdsworth e Coleridge, per esempio, oppure in una concezione della libertà sottratta a qualsiasi vincolo (il poeta come figura che si colloca al di là del bene e del male) e in tempi a noi ancora più prossimi nell’immagine della torre d’avorio tanto cara a Rilke. Quanto sia aderente alla lettera del mito tale interpretazione è assai discutibile: ovviamente, come si è già detto, tutte le interpretazioni sono legittime purché motivate, ma alcune si offrono più di altre alle critiche. Torniamo allora per un’ultima volta al mito e alla sua conclusione. Dopo avere detto del ritiro eremitico di Orfeo ecco cosa accade:
“Quando Dioniso invase la Tracia Orfeo trascurò di onorarlo, iniziando i suoi fedeli ad altri misteri e condannando i sacrifici umani.“
Da tale accenno possiamo trarre una conferma di quanto detto in precedenza e cioè che Orfeo rappresenta una figura molto arcaica, legata a una società precedente a quella in cui si afferma e si consolida il patriarcato. Quello che avviene successivamente, tuttavia, ci mostra quanto fosse feroce la lotta fra due (diremmo oggi) visioni del mondo. Dioniso incarica:
“le Menadi di far vendetta. Arrivato il momento stabilito, si scagliarono contro di lui con furia selvaggia, lo fecero a pezzi e sparsero le sue membra per la campagna gettando la testa nel fiume Ebro, ma la testa che galleggiò sempre cantando fino al mare, fu portata dalle onde all’isola di Lesbo.“
Da questo capiamo ancora una volta che Orfeo è una figura chiave di quelle società precedenti il consolidarsi del patriarcato, ma ci fa anche comprendere quanto sia discutibile l’idea che tali società si potessero definire pacifiche. Tuttavia, alla vendetta delle Menadi segue puntualmente la punizione degli dei.
“Ogni essere del creato pianse la sua morte, le ninfe indossarono una veste nera in segno di lutto e i fiumi si ingrossarono per il troppo pianto. Le Muse recuperarono le membra di Orfeo e le seppellirono ai piedi del monte Olimpo e ancor oggi, in quel luogo, il canto degli usignoli è il più soave che in qualunque parte della terra. Ma gli dei che tutto vedevano e giudicavano, decisero di inviare una tremenda pestilenza in tutta la Tracia per punire il delitto delle Baccanti.“
Infine la conclusione.
“La popolazione allo stremo delle forze consultò l’oracolo per sapere come far cessare quella disgrazia e questi sentenziò che per porre fine a tanto dolore era necessario cercare la testa di Orfeo e rendergli gli onori funebri. Fu così che la sua testa venne ritrovata da un pescatore nei pressi della foce del fiume Melete e fu deposta nella grotta di Antissa, sacra a Dioniso. In quel luogo la testa di Orfeo iniziò a profetizzare finché Apollo, vedendo che i suoi oracoli di Delfi, Grinio e Claro non erano più ascoltati, si recò alla grotta e gridò alla testa di Orfeo di smettere di interferire con il suo culto. Da quel giorno la testa tacque per sempre. Fu recuperata anche la sua lira che fu portata a Lesbo nel tempio di Apollo che però decise di porla nel cielo in modo che tutti potessero vederla a ricordo del fascino della poesia e delle melodie dello sfortunato Orfeo, alle quali anche la natura si arrendeva, creando la costellazione della Lira.“
Quello che si può intravedere nella conclusione è che gli dei impongono che anche Orfeo venga reintegrato nella comunità, nonostante la violazione del divieto divino ed è probabile che questo avvenisse perché resistevano, all’interno di una società ormai patriarcale, le culture e i culti precedenti. La sua testa ritrovata pone fine alla contesa, ma l’ingiunzione di tacere, cioè di non profetizzare più e la successiva giubilazione nella costellazione della lira, lo riducono a puro simbolo museale: sono altri ormai i paradigmi su cui si muove la società greca, Orfeo può continuare a piangere in eterno la perdita di Euridice, ma può farlo in cielo, non più sulla terra.
1 Robert Graves, I miti greci, traduzione di Elisa Morpurgo, presentazione Umberto Albini, Milano 1995, pp.99-102
“Orfeo, il più famoso poeta e musicista che la storia abbia mai avuto, era figlio di Eagro, re della Tracia e della musa Calliope (o secondo altri di Apollo e di Calliope). Il Dio Apollo un giorno gli donò una lira e le muse gli insegnarono a usarla e acquistò una tale padronanza dello strumento che aggiunse anche altre due corde portando a nove il loro numero per avere una melodia più soave. Come prima grande impresa Orfeo partecipò alla spedizione degli Argonauti e con la sua cetra li aiutò a superare molte difficoltà. Ogni creatura amava Orfeo ed era incantata dalla sua musica e dalla sua poesia ma lui aveva occhi solo per una donna: Euridice, figlia di Nereo e di Doride che divenne sua sposa. Un giorno, nei pressi di Tempe, Euridice s’imbatté in Aristeo, che cercò di usarle violenza. La fanciulla per sfuggire alle sue insistenze si mise a correre ma ebbe la sfortuna di calpestare un serpente nascosto nell’erba, che la morsicò, provocandone la morte istantanea. Orfeo, impazzito dal dolore e non riuscendo a concepire la propria vita senza la sua sposa decise di scendere nell’Ade per cercare di strapparla dal regno dei morti. Convinse con la sua musica Caronte a traghettarlo sull’altra riva dello Stige; il cane Cerbero e i giudici dei morti a farlo passare e nonostante fosse circondato da anime dannate che tentavano in tutti i modi di ghermirlo, riuscì a giungere alla presenza di Ade e Persefone. Una volta giunto al loro cospetto, Orfeo iniziò a suonare e a cantare la sua disperazione e solitudine e le sue melodie erano così piene di dolore e di disperazione che gli stessi signori degli inferi si commossero; le Erinni piansero, la ruota di Issione si fermò e i perfidi avvoltoi che divoravano il fegato di Tizio non ebbero il coraggio di continuare nel loro macabro compito. Ade gli concesse di ricondurre Euridice nel regno dei vivi a condizione che durante il viaggio verso la terra la precedesse e non si voltasse a guardarla fino a quando non fossero giunti alla luce del sole. Orfeo, presa così per mano la sua sposa iniziò il suo cammino verso la luce, ma appena sorse la luce del sole Orfeo si volse per vedere se Euridice era con lui e così la perdette per sempre. Si rifugiò allora Orfeo sul monte Rodope, in Tracia trascorrendo il tempo in solitudine e nella disperazione. Rifiutava le donne e riceveva solo ragazzi e adolescenti maschi che istruiva all’astinenza e sull’origine del mondo e degli dei. Quando Dioniso invase la tracia Orfeo trascurò di onorarlo, iniziando i suoi fedeli ad altri misteri e condannando i sacrifici umani. Ogni mattina egli si alzava per salutare l’alba sulla sommità del monte Pangeo e affermava che Elio, che lui chiamava Apollo, era il più grande di tutti gli dei. Irritato, Dioniso incaricò le Menadi di far vendetta. Arrivato il momento stabilito, si scagliarono contro di lui con furia selvaggia, lo fecero a pezzi e sparsero le sue membra per la campagna gettando la testa nel fiume Ebro, ma la testa che galleggiò sempre cantando fino al mare, fu portata dalle onde all’isola di Lesbo.. Ogni essere del creato pianse la sua morte, le ninfe indossarono una veste nera in segno di lutto e i fiumi si ingrossarono per il troppo pianto. Le Muse recuperarono le membra di Orfeo e le seppellirono ai piedi del monte Olimpo e ancor oggi, in quel luogo, il canto degli usignoli è il più soave che in qualunque parte della terra. Ma gli dei che tutto vedevano e giudicavano, decisero di inviare una tremenda pestilenza in tutta la Tracia per punire il delitto delle Baccanti. La popolazione allo stremo delle forze consultò l’oracolo per sapere come far cessare quella disgrazia e questi sentenziò che per porre fine a tanto dolore era necessario cercare la testa di Orfeo e rendergli gli onori funebri. Fu così che la sua testa venne ritrovata da un pescatore nei pressi della foce del fiume Melete e fu deposta nella grotta di Antissa, sacra a Dioniso. In quel luogo la testa di Orfeo iniziò a profetizzare finché Apollo, vedendo che i suoi oracoli di Delfi, Grinio e Claro non erano più ascoltati, si recò alla grotta e gridò alla testa di Orfeo di smettere di interferire con il suo culto. Da quel giorno la testa tacque per sempre. Fu recuperata anche la sua lira che fu portata a Lesbo nel tempio di Apollo che però decise di porla nel cielo in modo che tutti potessero vederla a ricordo del fascino della poesia e delle melodie dello sfortunato Orfeo, alle quali anche la natura si arrendeva, creando la costellazione della Lira.“Orfeo, il più famoso poeta e musicista che la storia abbia mai avuto, era figlio di Eagro, re della Tracia e della musa Calliope (o secondo altri di Apollo e di Calliope). Il Dio Apollo un giorno gli donò una lira e le muse gli insegnarono a usarla e acquistò una tale padronanza dello strumento che aggiunse anche altre due corde portando a nove il loro numero per avere una melodia più soave. Come prima grande impresa Orfeo partecipò alla spedizione degli Argonauti e con la sua cetra li aiutò a superare molte difficoltà. Ogni creature amava Orfeo ed era incantata dalla sua musica e dalla sua poesia ma lui aveva occhi solo per una donna: Euridice, figlia di Nereo e di Doride che divenne sua sposa. Un giorno, nei pressi di Tempe, Euridice s’imbatté in Aristeo, che cercò di usarle violenza. La fanciulla per sfuggire alle sue insistenze si mise a correre ma ebbe la sfortuna di calpestare un serpente nascosto nell’erba, che la morsicò, provocandone la morte istantanea. Orfeo, impazzito dal dolore e non riuscendo a concepire la propria vita senza la sua sposa decise di scendere nell’Ade per cercare di strapparla dal regno dei morti. Convinse con la sua musica Caronte a traghettarlo sull’altra riva dello Stige; il cane Cerbero e i giudici dei morti a farlo passare e nonostante fosse circondato da anime dannate che tentavano in tutti i modi di ghermirlo, riuscì a giungere alla presenza di Ade e Persefone. Una volta giunto al loro cospetto, Orfeo iniziò a suonare e a cantare la sua disperazione e solitudine e le sue melodie erano così piene di dolore e di disperazione che gli stessi signori degli inferi si commossero; le Erinni piansero, la ruota di Issione si fermò e i perfidi avvoltoi che divoravano il fegato di Tizio non ebbero il coraggio di continuare nel loro macabro compito. Ade gli concesse di ricondurre Euridice nel regno dei vivi a condizione che durante il viaggio verso la terra la precedesse e non si voltasse a guardarla fino a quando non fossero giunti alla luce del sole. Orfeo, presa così per mano la sua sposa iniziò il suo cammino verso la luce, ma appena sorse la luce del sole Orfeo si volse per vedere se Euridice era con lui e così la perdette per sempre. ” Si rifugiò allora Orfeo sul monte Rodope, in Tracia trascorrendo il tempo in solitudine e nella disperazione. Rifiutava le donne e riceveva solo ragazzi e adolescenti maschi che istruiva all’astinenza e sull’origine del mondo e degli dei. Quando Dioniso invase la tracia Orfeo trascurò di onorarlo, iniziando i suoi fedeli ad altri misteri e condannando i sacrifici umani. Ogni mattina egli si alzava per salutare l’alba sulla sommità del monte Pangeo e affermava che Elio, che lui chiamava Apollo, era il più grande di tutti gli dei. Irritato, Dioniso incaricò le Menadi di far vendetta. Arrivato il momento stabilito, si scagliarono contro di lui con furia selvaggia, lo fecero a pezzi e sparsero le sue membra per la campagna gettando la testa nel fiume Ebro, ma la testa che galleggiò sempre cantando fino al mare, fu portata dalle onde all’isola di Lesbo.. Ogni essere del creato pianse la sua morte, le ninfe indossarono una veste nera in segno di lutto e i fiumi si ingrossarono per il troppo pianto. Le Muse recuperarono le membra di Orfeo e le seppellirono ai piedi del monte Olimpo e ancor oggi, in quel luogo, il canto degli usignoli è il più soave che in qualunque parte della terra. Ma gli dei che tutto vedevano e giudicavano, decisero di inviare una tremenda pestilenza in tutta la Tracia per punire il delitto delle Baccanti. La popolazione allo stremo delle forze consultò l’oracolo per sapere come far cessare quella disgrazia e questi sentenziò che per porre fine a tanto dolore era necessario cercare la testa di Orfeo e rendergli gli onori funebri. Fu così che la sua testa venne ritrovata da un pescatore nei pressi della foce del fiume Melete e fu deposta nella grotta di Antissa, sacra a Dioniso. In quel luogo la testa di Orfeo iniziò a profetizzare finché Apollo, vedendo che i suoi oracoli di Delfi, Grinio e Claro non erano più ascoltati, si recò alla grotta e gridò alla testa di Orfeo di smettere di interferire con il suo culto. Da quel giorno la testa tacque per sempre. Fu recuperata anche la sua lira che fu portata a Lesbo nel tempio di Apollo che però decise di porla nel cielo in modo che tutti potessero vederla a ricordo del fascino della poesia e delle melodie dello sfortunato Orfeo, alle quali anche la natura si arrendeva, creando la costellazione della Lira.“
2 Alessandro Carrera, La distanza del cielo, Edizioni Medusa, Milano 2011, capitolo V pp. 159-202. Il libro di Carrera è assai importante per ricostruirne il suo percorso di poeta e critico ed è un lungo excursus su alcuni momenti chiave della poesia europea, da Dante a Leopardi. Di altri capitolo di questo testo mi sono occupato in un lungo saggio dedicato al mito di Amore e Psiche, anch’esso oggetto dell’analisi di Carrera.
3 Una suggestiva testimonianza su questo passaggio dal desiderio all’opera ci è stato offerto nella contemporaneità da Marcel Proust. Riferendosi a Jean Santeuil egli afferma a un certo punto che quella scrittura fu anche un modo di non far nascere la Recherche, un modo di girare intorno al tema e al problema senza risolverlo. Per definire tale situazione usa la parola paresse che ha un significato più articolato di pigrizia e allude all’accidia ma anche agli ignavi danteschi perché in definitiva decidere di far nascere l’opera è anche prendersi la responsabilità di una scelta. La recherche nacque dopo quando il suo autore decise di obbligarsi in una sorta di clausura. Pur sfrondata da elementi suggestivamente narrativi delle proprie vicende personali, questa testimonianza rimane importante per comprendere quel doloroso passaggio che dal desiderio porta alla sua realizzazione.
4 La critica femminista alla filosofia classica greca, al platonismo in particolare e poi alla filosofia classica tedesca ha prodotto numerosissimi libri e studi a partire dalla prime riviste degli anni ’70. Mi rifaccio a questi e ad alcuni testi Sputiamo su Hegel di Carla Lonzi e il Manifesto di Rivolta femminile. A queste aggiungo le opere di Ida Magli. Sul tema specifico del rapporto fra cultura, maschile e femminile, in particolare, lo ha affrontato in Viaggio intorno all’uomo bianco.
5 Robert Graves I miti greci, cit., pag 114- 1 e pag. 102-4.
6 In una semplice nota non è possibile affrontare una tematica tanto complessa e su cui lo stesso femminismo è diviso. Mi limito perciò ad alcuni suggerimenti di lettura.
Chi afferma con decisione l’esistenza dei società matrifocali e matrilineari e matriarcali precedenti il patriarcato si rifà prima di tutto all’opera del teologo protestante Bachofen, che trovò l’entusiastico consenso da parte di Engels. L’opera di Bachofen è stata poi ripresa da esponenti di primo piano del femminismo internazionale come Marjia Gimbutas, Mary Daly, Heide Goettner-Abendroth, la cui opera è stata pubblicata recentemente da Mimesis; infine Riane Eisler. In Italia sono importanti gli studi di Momolina Marconi, Luciana Percovich, Gabriella Galzio, Luisella Veroli. Una ricostruzione attenta di tutto il dibattito a partire dai miti arcaici delle Amazzoni si trova alla voce Matriarcato, a cura di Eva Cantarella nell’enciclopedia Treccani. Dello scritto di Cantarella riporto le sue conclusioni che personalmente condivido:
“Come emerge da quanto visto nel precedente capitolo, il potere femminile, oggi, non è più solo un sogno femminista: è diventato un modello pacifista ed ecologista. E per chi desideri leggerlo in questa chiave è ovviamente più che legittimo trovare in esso conforto e speranza. Ma non senza aver chiarito un equivoco: quello di chi sembra ritenere che per essere pacifisti, ecologisti o femministi sia necessario credere nella storicità del matriarcato, della gilania, o di un qualsivoglia scomparso potere femminile. Pensare che chi dubita della storicità del potere femminile sia antifemminista, antipacifista o antiecologista significa confondere pericolosamente il piano delle ideologie e quello della ricostruzione storica. E se è vero che operare una totale separazione tra questi settori è tutt’altro che semplice, è anche vero che essi non possono essere appiattiti al punto da essere sovrapposti, come è quasi sempre accaduto quando si è discusso e si discute di matriarcato. La breve rassegna della storiografia sul potere femminile sin qui tracciata sembra fornirne una chiara dimostrazione, ponendosi al tempo stesso come ammaestramento. La diversa valenza politica che nel corso di poco più di un secolo è stata attribuita al matriarcato (di volta in volta marxista, razzista, femminista, pacifista ed ecologista) sta a indicare quanto possa essere grave il pericolo di pensare che il compito della ricerca storica sia quello di mandare messaggi. A seconda dei momenti, delle situazioni, e soprattutto di chi li invia, questi messaggi possono cambiare e assumere segni non solo diversi ma addirittura opposti. Il che non toglie, peraltro, che il dibattito sul matriarcato abbia avuto risultati molto importanti. Grazie alle caratteristiche che il preteso potere femminile avrebbe avuto (soprattutto, come già detto, nella formulazione bachofeniana), esso ha fornito lo spunto a una serie di indagini di grande attualità e interesse sull’opposizione tra virilità e femminilità nelle strutture psichiche. Sul piano storiografico, mettendo in discussione la naturalità e quindi l’inevitabilità della dominanza maschile, ha stimolato indagini, sia storiche sia antropologiche, che hanno consentito di cogliere la varietà e l’eterogeneità delle organizzazioni familiari e sociali nello spazio e nel tempo, individuando l’esistenza di organizzazioni matrilocali e matrilineari tanto nel passato quanto nel presente delle società di interesse etnografico. E questo, certo, non è merito da poco.“
Infine un libro recente di grande importanza è l’Alba di tutto scritto da David Graeber e David Wengrow e pubblicato da Rizzoli.