FIGLIO DI SUO FIGLIO: UNA LETTURA DI PINOCCHIO
Premessa
Anni fa, fui a partecipare a Pisa a un convegno su Pinocchio. Le diverse relazioni furono pubblicate in un libro collettivo edito da Bruno Mondadori e curato da Rossana Dedola e Mario Casari, dal titolo Pinocchio in volo tra immagini e letteratura. Ripropongo nel blog la mia relazione, con qualche modifica e un titolo diverso, che nel tempo mi è parso più appropriato.
Introduzione
Nel preparare questo intervento sono partito da una domanda che mi ero fatto altre volte: perché questo libro affascina così tanto? Rileggendolo per l’ennesima volta mi sono dato più o meno la stessa risposta e cioè che la straordinarietà de Le avventure di Pinocchio sta nel fatto che si tratta di una vera e propria quest, un viaggio iniziatico che però non è classificabile come tale perché il sostrato sapienziale è avvolto in una storia che sembra troppo semplice per reggerlo. Eppure mai come ora questa valenza mi è parsa così evidente. Del resto tale interpretazione è stata ormai fatta propria da molti studiosi appartenenti a culture e sensibilità diverse. Allora mi sono posto un’altra domanda: cosa ci fa un libro simile, così semplice e sapiente, alle porte di un secolo che avrebbe fatto del disincanto, dell’intellettualismo, della complicazione, del virtuosismo, dell’originalità a tutti i costi, della secolarizzazione, il proprio leit motiv?
Se Jung ha qualche ragione nel dire che un grande artista o una grande opera d’arte sono tali perché mettono in evidenza ciò che più manca a un’epoca, forse Le avventure di Pinocchio ci parlano di qualcosa che era stato rimosso o stava per esserlo; è in questa prospettiva che ho di riletto il testo, dividendolo idealmente in tre parti.
Due vecchi e un pezzo di legno
Mastro Ciliegia e Geppetto litigano in modo infantile, sono rissosi e puerili e si comportano come bambini capricciosi. L’effetto è comico e inquietante perché evoca un mondo in cui le età dell’essere umano non sono al loro posto.
Dei due, Mastro Ciliegia si disinteressa subito al pezzo di legno, evitando ogni coinvolgimento; l’altro, che si trova fra le mani questo strano lascito, vuole costruire un figlio-burattino. Il falegname del mito cristiano non si accontenta più di essere padre putativo; vuole sostituirsi al padre celeste, ma si comporta in realtà come un apprendista stregone!
Il burattino, dal canto suo, rifiuta il processo di crescita e i riti di passaggio che la società secolare gli propone: andare a scuola, imparare a leggere e a scrivere. Ad essi contrappone l’onnipotenza infantile: farò tutto quello che voglio dice al grillo parlante; e quando parla fra sé e sé andando a scuola con l’abbecedario, penserà: Oggi imparo a leggere, domani a scrivere ecc. con una fretta che ignora la fatica di una qualsiasi conquista. D’altro canto, però, la legge che dovrebbe seguire s’incarna in esempi assai improbabili, a cominciare da Geppetto che è un padre a metà e non può guidarlo veramente nel mondo. È premuroso con Pinocchio, per esempio nel curargli i piedi bruciati, ma nei suoi slanci è improvvido, come quando vende la giacca per comperare l’abbecedario. Il grillo parlante, d’altro canto, è saccente e moralista, rappresenta una funzione educativa astratta; attualizzandone la figura potremmo dire che si tratta di un superio scisso da altre funzioni psichiche.
Pinocchio in realtà è solo e in balìa di se stesso e della propria natura.
Il segno distintivo del suo comportamento è la coazione a ripetere: egli oscilla fra l’adesione formale alla morale astratta del superio e gli agiti puramente istintivi che lo portano sempre laddove egli dice razionalmente di non volere andare. Ciò che manca sono il senso di realtà e la capacità di ascolto e apprendimento dall’esperienza; l’ultima sirena che suona è quella che lui segue. Crede al Gatto e alla Volpe oltre ogni limite di ragionevolezza ed è l’immagine speculare dell’ambivalenza di Geppetto, da cui paradossalmente impara quello che sarebbe meglio non imparare: quando vende l’abbecedario per andare al teatro dei burattini, si comporta come Geppetto che aveva venduto la giacca per comperare l’abbecedario.
Tuttavia, se questo è il quadro generale del suo comportamento, alcuni scarti dalla norma si manifestano da subito; la coazione a ripetere non è assoluta, forse non lo è veramente mai ed è proprio grazie ai piccoli spostamenti che avvengono i cambiamenti profondi.
Del primo scarto è inconsapevolmente responsabile Mangiafoco che, dopo avere risparmiato a Pinocchio il fuoco, gli rivolge una domanda di buon senso, vedendolo solo in balìa del mondo:
E il tuo babbo e la tua mamma sono sempre vivi?
La risposta di Pinocchio è duplice, ma è sulla seconda parte che sarà bene soffermarsi:
Il babbo sì; quanto alla mamma non l’ho mai conosciuta …
Giorgio Manganelli si è soffermato su questo passaggio, il più importante della prima parte; in esso, afferma il critico, Pinocchio nomina per la prima volta uno dei temi di fondo della sua vicenda. Fino ad ora, infatti, il femminile non è mai apparso nel testo. Ponendo la domanda appropriata al momento giusto Mangiafoco ha svolto meglio di chiunque altro fino ad ora la funzione educativa che un adulto dovrebbe esercitare; ha fatto emergere alla coscienza del burattino il dato più vistoso di questa storia paradossale e cioè che Pinocchio è nato da due mezzi padri ma non ha una madre.
Il secondo importante scarto è la determinazione con cui Pinocchio difende Arlecchino da Mangiafoco che lo vuole bruciare al suo posto. È la prima volta che egli manifesta una volontà orientata al conseguimento di un obiettivo razionale e giusto; ma è anche la prima volta che il burattino si è comportato da essere umano. Pinocchio si è rafforzato: ha vinto la prova del fuoco e ne ha incorporato la forza.
Veniamo ora al momento in cui finisce la prima parte. Pinocchio è inseguito dal Gatto e dalla Volpe e non ha scampo, si è cacciato in un vicolo cieco. In realtà, però, la questione è un po’ più complessa perché i suoi agiti inconsci, si potrebbe anche dire il daimon che lo spinge senza che lui ne abbia ancora una chiara coscienza, lo hanno portato nel luogo della sua origine: Pinocchio è un burattino di legno e torna al bosco. Egli si trova dove il pezzo di legno ha la sua origine; ma per quella strada non c’è sviluppo possibile ma solo la regressione infinita. E proprio nel luogo del materno indistinto, ecco che il femminile si concretizza nella bambina che abita la casetta incantata. Pinocchio chiede aiuto ma lei non lo asseconda. È un passaggio che può apparire crudele. Invece è proprio il suo comportamento che provocherà il primo cambiamento consistente nella vicenda del burattino. Pinocchio deve ricominciare daccapo se vuole diventare umano; ma perché questo avvenga è necessario passare attraverso la sua fine e così da mezzo nato che era ora conosce una mezza morte: con l’impiccagione finisce la storia del burattino e ne comincia un’altra che sembra proporre gli stessi temi della prima; ma è solo un’apparenza superficiale.
Prima di tutto la bambina è diventata una Fata dai capelli turchini. Se Pinocchio, passando attraverso la porta stretta della propria morte come burattino, si è aperto a un’altra vicenda, anche la bambina è uscita dalla sua prigione. Fuor di metafora, non solo il burattino è cambiato, ma anche il femminile, da assente che era, comincia ad essere protagonista di questa storia. Il secondo vistoso cambiamento riguarda Pinocchio stesso. Egli sembra ripercorrere il ciclo della coazione a ripetere, ma in modo sempre più accelerato e con vistosi scarti dalla pura e semplice ripetizione. Rifiuta la medicina amara, ma si rende subito conto che questa volta non può scherzare di fronte ai becchini che vengono a prenderlo. Si fa abbindolare ancora dal Gatto e dalla Volpe, ma per l’ultima volta perché quando li incontrerà di nuovo li saprà riconoscere per quello che sono. Va dal giudice a denunciare il furto degli zecchini d’oro e viene imprigionato. Pinocchio scopre che i giudici non mettono in galera i ladri ma i derubati; si scontra, cioè, con le leggi reali e non scritte del mondo. Tuttavia capisce presto l’antifona perché quando il re della città di Acchiappacitrulli concede un’amnistia lui subito si dichiara malandrino perché capisce che in un mondo rovesciato anche la verità è rovesciata e dunque menzogna e se si dichiarasse innocente non verrebbe liberato.
Vorrei aprire a questo punto una piccola parentesi. Quando si pensa a Pinocchio ciò che tutti ricordano, adulti e bambini, è che gli cresce il naso quando dice le bugie. Questo particolare, però, ne fa dimenticare un altro altrettanto importante e cioè che questo non avviene sempre; per esempio quando si dichiara colpevole, oppure quando inganna le faine e le fa catturare, il naso non gli si allunga affatto. Esso gli cresce quando si verificano due condizioni: in presenza dell’elemento femminile (la Fata turchina) e quando la menzogna gli impedisce di crescere e di evolversi. E l’espediente del naso, intuizione geniale quanto mai per i suoi sensi e sotto sensi molteplici e per l’effetto comico che suscita, sta però a significare anche una presa di coscienza: Pinocchio sa di mentire e se ne vergogna, prima non lo sapeva. Anzi, parole come verità o menzogna non avevano alcun senso riferite a chi vive in balìa dell’ultimo che parla.
Tuttavia il burattino non è ancora maturo per il gran salto e la fata turchina, madre a metà che rimane tale, non può essere una vera guida spirituale come non lo è Geppetto. Quando agisce sul piano razionale suscita in Pinocchio sentimenti di colpa, ma non è per quella via che può educarlo, tanto meno con le sue finte morti che si presentano come ricatti sentimentali destinati a cadere nel vuoto. È lei stessa a sapere questo, anche il suo comportamento è all’insegna della coazione a ripetere. Quando lo aiuta veramente lo fa in modo analogico, oppure perché suscita in lui un sentimento d’identificazione. È il colore azzurro la vera forza dell’elemento femminile in questa storia, il colore che sarà anche della capretta, il colore che apparirà ogni volta che Pinocchio affronterà le prove più dure; quasi fosse una guida, un angelo custode dalle sembianze femminili. Ancora una volta in balìa di adulti dimezzati Pinocchio conosce alla fine della seconda parte la regressione che sembra più disastrosa e definitiva.
Il paese dei balocchi, morte e rinascita
Questa parte del testo di Lorenzini, che non esito a definire profetica, è quella che maggiormente si proietta verso di noi. Sono tutti ragazzi dagli otto ai quattordici anni, cioè adolescenti e preadolescenti maschi. Si tratta dunque di un mondo senza padri e senza madri, un’orda primitiva di fratellini, orizzontale; dove la verticalità è rappresentata soltanto dai gestori occulti del sistema di relazioni esterne, un vero e proprio potere impersonale che si manifesta attraverso figure ridicole e meschine come l’omino di burro. Visto dopo tutto quello che sappiamo dei meccanismi di manipolazione di massa questa parte del libro di Collodi è davvero stupefacente. In essa Lorenzini mette in scena una società istupidita e bambina, preda di ogni potere, dove domina lo spettacolo continuo, il gioco che non finisce mai e qui le analogie con gli apparati propagandistici contemporanei è molto forte. Tuttavia, quando Pinocchio finalmente esce dalla città dei balocchi non è più un burattino ma entra nella vita organica come asino, ma per la prima volta è costretto a sentire su di sé il dolore della propria condizione e la fatica che si fa a sopportarlo.
Dopo essere scampato alla morte per fuoco (Mangiafoco), aver conosciuto la morte per aria con la prima impiccagione, Pinocchio finisce impiccato una seconda volta in fondo al mare e conosce la morte per acqua; grazie alla seconda impiccagione egli ritorna burattino, ma vi ritorna però per l’ultima volta. Nel ventre del pescecane incontra Geppetto; ma specialmente entra finalmente in contatto con quella parte dell’elemento femminile che gli mancava. La pancia del pescecane-balena non è più la regressione al femminile indistinto, ma il luogo della nascita, sebbene anche il femminile si presenti qui altrettanto poco individuato quanto il maschile. Se la fata turchina è un’essenza puramente spirituale e astratta, il ventre del pescecane è un femminile ridotto a puro contenitore riproduttivo, ricambio organico fra vita e morte. È la scissione della cultura occidentale che Lorenzini mette in scena, non l’assenza del femminile nella vicenda; piuttosto una strana forma di sparagmos. Il maschile e il femminile sono presenti in eguale misura in questo testo, ma disseminati e scissi. Nato finalmente da un ventre vero, seppure mostruoso, Pinocchio deve superare l’ultima prova: la morte di Lucignolo, che rappresenta da un punto di vista intra psichico, la parte di sé asinina. Pinocchio tuttavia ne ha pietà e reintegra così quella piccola luce così come reintegrerà alla fine della storia anche il grillo parlante; perché anche quella piccola luce, se metabolizzata e non agita indiscriminatamente, può essere il lume di una creatività che non va del tutto spento.
Pinocchio dunque è finalmente nato, nato insieme a suo padre e questo mi riporta al titolo del mio intervento: Figlio di suo figlio. Due sono stati gli elementi decisivi per farmelo scegliere. Il primo è l’incipit di un romanzo famoso, di cui Carlo Lorenzini è stato grande ammiratore: mi riferisco al Tristram Shandy di Laurence Sterne. Rossana Dedòla, nel suo libro Pinocchio e Collodi ha ricostruito molto bene il rapporto fra l’opera e il suo autore, mettendo bene in evidenza l’importanza che questo romanzo ha avuto per Lorenzini; oltre – naturalmente – quella avuta dalle fiabe del ciclo perraultiano, di cui fu impareggiabile traduttore.
Il secondo elemento decisivo per farmi scegliere il titolo, è proprio questo parto paradossale di un padre e di un figlio insieme.
Partirò da Sterne. L’episodio cui mi riferisco è nella parte introduttiva, la dedica che l’autore indirizza al pubblico. Tristram racconta la sua nascita e come è venuto a sapere della stessa. È un brano così celebre che arrivo in fretta alla sintesi. Dice Tristram che nel momento decisivo, quello in cui lo spermatozoo fuoriesce e va verso la sua sede naturale la moglie di suo padre e dunque sua madre si rivolge al marito con la seguente domanda:
Caro, ti sei ricordato di caricare l’orologio?
Su questo episodio hanno scritto in molti, con osservazioni acutissime e intelligenti; ma se ho capito qualcosa di Lorenzini io penso che lui sia stato attratto da qualcosa di semplice che lo toccava di più nel profondo: perché è sempre andando alla radice ultima del proprio dolore o della propria gioia che si può scoprire la grazia di una parola che non riscatta solo chi la scrive ma tutti. E questo qualcosa ha a che fare con la scoperta che la nascita biologica è un evento bizzarro nel quale s’incrociano il caso e il miracoloso. Quando si scopre questo si è di fronte a due strade: o rimanere ancorati a tale constatazione elaborandola nel segno di un pessimismo nichilista di cui il secolo scorso ha abbondato; oppure declinare questa scoperta nel senso di un’apertura alla possibilità che nel corso della nostra vita noi possiamo conoscere e sperimentare il ciclo nascita-morte-trasformazione e dunque metamorfosi; senza necessariamente ipotizzare favolosi altrove, aldilà, altre vite, ma anche lasciando fluttuare la questione senza occuparsene troppo.
Essere al mondo coscientemente nel senso indicato in precedenza implica un processo di individuazione o iniziazione; cioè una seconda o più nascite. Ma il tempo di queste nascite non è più quello biologico e lineare: è un tempo psichico che arriva quando arriva. Il paradosso di un padre e di un figlio partoriti insieme è allora meno paradossale di quanto non sembri. Geppetto era tanto poco individuato quanto il suo burattino! L’istinto vitale, irriducibile di Pinocchio, che nel momento decisivo spinge se stesso e il padre fuori dal pescecane, azzera il tempo lineare e anche quello biologico.
Le avventure di Pinocchio si possono davvero riassumere in un ciclo di nascita, morte, rinascita e metamorfosi e questo mi porta al confronto con un testo fra i più noti della tradizione antica e classica: L’asino d’oro di Apuleio. Anche Lucio, il protagonista del romanzo, vuole essere iniziato senza passare attraverso la dura fatica che tale percorso comporta; perciò chiede a Fotide, sua amica e amante, di rubare l’unguento magico che lo trasformerà in uccello. Lucio vuole volare alto ma cerca scorciatoie, vuole gabbare gli dei e pensa che basti una formuletta new age dell’epoca sua per raggiungere l’illuminazione; ma si trova trasformato in asino come accade a Pinocchio. Anche per lui, tuttavia, tale condizione è al tempo stesso punizione per la sua stoltezza, ma premessa per la vera iniziazione ai culti di Iside. Ecco allora di nuovo che il Pinocchio di Lorenzini affonda le proprie radici in un vasto territorio che spazia dalla fiaba, al mito, alla tradizione popolare toscana; dove il culto di Iside non si è mai del tutto perduto.
Per concludere
Il finale del libro di Collodi è criticato praticamente da tutti i commentatori più illustri. Si avverte in ognuno di loro una sottile delusione. Non piace alla Von Franz e anche Manganelli lo manifesta in un modo curioso: il suo testo, bellissimo, ha nel finale una sorta di rapido declino, come se egli volesse scappare via. Quale è l’elemento di delusione? Beh alla fin fine questo burattino che diventa finalmente un bambino fa poi le cose più prosaiche: va a scuola, aiuta suo padre, lavora. Insomma, Pinocchio da ribelle senza causa diventerebbe un borghese ordinario, cultore dell’ordine. Magari visto che nel ‘22 ha poco più 40 anni avrà fatto anche la Marcia su Roma e se lo immaginiamo sessantottino oggi sarebbe nel consiglio d’amministrazione di una multinazionale.
Con tutto il rispetto e le cautele del caso io credo invece che il finale di Pinocchio sia del tutto riuscito e coerente sia da un punto di vista letterario, sia da un punto di vista psicologico; il problema è capire in che cosa consiste l’elemento eroico in questo testo; ma anche come esso si colloca in un contesto letterario che sarà dominato dalla figura dell’antieroe. Pinocchio non è né l’uno né l’altro. Non è un antieroe perché è capace di stupirsi, perché il suo solare vitalismo lo tiene lontano dal disincanto, dallo scetticismo, ancor più dal cinismo; ma non è neppure un eroe nel senso della fiaba classica o in quello antico del termine; né in quello delle moderne saghe. Non vi sono né principesse con cui vivere felici e continenti da conquistare, né mirabolanti vittorie militari da conseguire contro imperi del male, il grande nulla di Ende o altro, né ritorni del re come nel Signore degli anelli. C’è invece una declinazione originalissima dell’eroe moderno come colui che cerca se stesso, che sa che nascere biologicamente non basta e che per diventare compiutamente umani occorre un processo di individuazione doloroso e faticoso; un eroe che rovescia il famoso aforisma roussoniano – l’uomo nasce libero e finisce in catene – nel più realistico e saggio: l’essere umano nasce in catene o burattino – se si preferisce – e può diventare libero. Se tutto questo processo di individuazione ha poi anche un risvolto sociale e universale questo si dà come valore aggiunto; altrimenti anche le grandi utopie collettive sono destinate a fallire perché interpretate da burattini coatti piuttosto che da umani consapevoli e capaci di autogestirsi; e chissà che la storia tragica del 900, non ci dica proprio questo e quale sia la voragine o la mancanza che questo libro sapiente indica.