ARTI E LETTERE NEL ‘900 ITALIANO: FRA RIVOLUZIONE E INDUSTRIA. Parte prima
PREMESSA.
Nel ‘900 italiano ci sono delle peculiarità interessanti nei rapporti fra arti e industria, da un lato, arte e movimento operaio dall’altro. Si può parlare addirittura di una tradizione plurima che si è nutrita di ideali socialisti e utopie capitaliste, come quella dei Crespi, una famiglia di cotonieri di fine ‘800. Una tradizione esaurita, che ebbe notorietà fino alla fine degli anni ’70 e che fra l’altro ha diffuso anche in Italia l’interesse per l’archeologia industriale, assai più sviluppata in altri paesi europei.1 Gli esempi sono molti e distribuiti sull’intero secolo. Ne ho scelti alcuni perché meno noti di altri.
1 I cotonieri Crespi fondarono fra le altre cose anche il famoso villaggio che porta il loro nome e si trova a Trezzo d’Adda, a pochi chilometri da Milano. Furono i primi a incarnare una forma di utopia industriale fondata sul rapporto organico, seppure gerarchicamente definito, fra imprenditori, classe operaia e territorio: il villaggio ne è l’espressione emblematica, sia per la concezione architettonica che lo ispira, sia per l’ideologia che veicola e cioè l’idea di un corporativismo illuminato, con al centro la fabbrica, i quartieri operai vicino ad essa e dotati di servizi essenziali; nel punto più alto del villaggio l’abitazione della famiglia degli imprenditori e la chiesa. In rete sono facilmente disponibili siti che ne ricostruiscono la storia. La tradizione della famiglia continua in pieno ‘900 con Giulia Maria Crespi, proprietaria del Corriere della Sera e poi fondatrice del FAI.
PARTE PRIMA
Il centro Italia, fra artigianato e industria
La prima testimonianza nasce, in modo del tutto casuale, da una visita compiuta anni fa al Museo della Ceramica di Civita Castellana. La storia di questa cittadina laziale è emblematica per molte ragioni ed è piena di sorprese, legate all’artigianato e alla nascita delle prime fabbriche negli ultimi decenni del diciannovesimo secolo, tanto da costituire un piccolo ed eccellente polo industriale e artigianale che si è spento lentamente solo pochi decenni fa. Il Museo costituisce oggi la maggiore ricchezza della città, un esempio di cura dell’archeologia industriale e un prezioso concentrato, denso di storie che ne richiamano altre. Il Museo si trova all’interno della ex chiesa di san Giorgio, dove nel 1915-16 Ulderico Midossi aprì la Regia Scuola Professionale per l’Arte Ceramica. La tradizione falisca e civitonica, però, risale alla fine del diciottesimo secolo, quando fu fondata la fabbrica Treja per la produzione di vasellame e stoviglie. Dall’artigianato all’industria, il proliferare di piccole entità produttive continuò a crescere nel tempo. Il tornio divenne il cardine della produzione e un esemplare assai bello è conservato nella sala centrale del Museo: un manufatto degli anni ’50 che apparteneva a Osvaldo Cirioni, fondatore della ceramica MAISC. Il passaggio dalla manifattura alla fabbrica portò con sé anche un ulteriore salto di qualità verso la ceramica d’arte. Tale scelta, di cui fu sempre promotore Ulderico Midossi, diede nuovo impulso alla nascita di altre realtà produttive nei primi decenni del’900; tanto che la produzione evolse sempre più in quel senso. Artisti di fama internazionale come Duilio Cambellotti, Basilio Cascella e Assen Peikov furono coinvolti in diversi progetti; fino agli anni ’70 quando cominciò il declino e si tornò in parte a una produzione più legata all’arredamento domestico, per esempio con la produzione di sanitari. Proprio fra questi mi aggiro nella parte finale del Museo e l’occhio si sofferma sulla tazza del water closet di un colore rosso scuro, intenso e bellissimo. Il pensiero corre all’orinatoio di Duchamp e a tutto l’infinito dibattito sull’arte moderna, il design, il post moderno. Il gesto di Duchamp fu provocatorio perché a compierlo fu lui e con quel gesto iniziò il rovesciamento di valore fra l’opera e l’artista, a vantaggio del secondo: un rovesciamento che trasformò l’autore in un performer e anticipò la società narcisista o postmoderna di cui vediamo oggi gli esiti più nefasti. Un gesto come quello, infatti, non poteva che aprire la stura alla reiterazione di gesti analoghi che, nel loro essere prima di tutto delle trovate, finivano per diventare dei significanti senza più significati e senso. Fino al gesto più estremo e più intelligente di tutti: la merda d’artista di Manzoni che ebbe il merito d’indicare dove doveva per forza finire quel poderoso movimento dissacratore che ebbe in Duchamps un maestro – almeno in parte – involontario e in Andy Warhol il più grande di cattivi maestri del ‘900. Il gesto che sostituisce l’opera e che mette al primo posto il suo autore è forse il marchio distintivo dell’arte novecentesca in occidente, più dedita alla contemplazione della propria morte, ma che trova la sua origine anche nella mitologia dell’originalità ad ogni costo, che ha pure nel Romanticismo una delle sue lontane radici. La ricerca di un gesto o di una trovata che sia sempre più stupefacente del precedente, porta infatti a una nevrotica serialità e quindi alla pornografia; niente più di quest’ultima è tanto seriale da un lato, quanto sempre protesa a promettere qualcosa di nuovo ai suoi fruitori, dall’altro. Si tratta però di un nuovo impossibile, dal momento che essa non può che proporre una sequenza di pochi gesti identici a se stessi, spogliati di ogni magia e ridotti allo scheletro: come se si venisse invitati a un meraviglioso concerto e scoprire invece che si tratta della ripetizione ossessiva e senza soluzione di continuità della scala delle note musicali. Invece, quanta bellezza e quanta ironia nel bellissimo manufatto di Civita Castellana. Forse nessuno, per via del suo colore così volutamente vistoso, si metterebbe in casa un oggetto che infondo deve solo raccogliere le deiezioni di un corpo umano; ma anche se così fosse, la tazza del water al Museo della ceramica di Civita Castellana si mostra e si offre nella sua gratuità, che è sempre un dono. L’oggetto di Duchamp, invece, visto nella sua proiezione storica e alla luce di quanto è accaduto dopo di esso (o di lui come sarebbe meglio dire) appare come un oggetto inutile.
Il secondo esempio di rapporto virtuoso fra lavoro artigiano, arte e impresa, lo troviamo nell’esperienza di Luisa Sargentini Spagnoli, che fu una straordinaria protagonista dell’utopia industriale italiana. La sua storia particolarissima si presta a molte riflessioni, se non altro per l’epoca in cui è vissuta e anche perché se si facesse una domanda generica chiedendo a cento persone chi fosse Luisa Spagnoli, a quasi tutti verrebbe in mente la casa di moda e niente altro; tanto meno si ricorderebbero del suo cognome da ragazza. Invece, la famosa e prestigiosa casa fu fondata dai figli quando lei era già morta. La sua vera impresa fu precedente. Luisa Sargentini nacque a Perugia il 30 ottobre del 1877 e morì a Parigi nel 1935. Figlia di un pescivendolo e di una casalinga era una ragazza vivacissima e indipendente. Nel 1898 sposa Annibale Spagnoli e insieme rilevano la vecchia drogheria di un anziano negoziante con cui la giovane Luisa, fin da ragazzina, s’intratteneva durante le sue scorribande per la città, fra gli scherzi e le ragazzate che combinava insieme a un’amica cui rimarrà vicina per tutta la sua vita. Fu proprio questo anziano droghiere – in un certo senso un nonno acquisito – a spingerla a rilevare il negozio dopo la sua morte. L’anziano uomo si era reso ben conto delle sue capacità! Insieme al marito avviò un’attività dolciaria, la produzione di confetti. Il successo fu immediato. La mente imprenditoriale era la sua, ma ciò che più conta fu che Luisa Sargentini non dimenticò le proprie origini sociali. S’interrogò per esempio sul motivo per cui le donne non potessero accedere al lavoro e si diede delle risposte ovvie per noi, ma che a quel tempo erano rivoluzionarie: non lavoravano perché non sapevano come conciliare la maternità con la professione e nessuno offriva loro soluzioni. Dalla produzione di confetti i coniugi Spagnoli passarono ad altri generi dolciari, ma la storia della drogheria cambiò radicalmente quando Luisa propose a Francesco Buitoni, produttore della famosa pasta, quella che oggi si chiamerebbe una joint venture: unificare in una sola azienda i loro prodotti. L’imprenditore si recò personalmente al negozio di Sargentini e del marito e da anziano fondatore d’imprese fu subito ammirato dall’efficienza e dalle sue capacità imprenditoriali. Accettò la proposta, non senza qualche resistenza da parte dei suoi figli, il maggiore in particolare. Insieme fondarono la Perugina che all’inizio della Prima Guerra Mondiale poteva contare su 15 dipendenti. Alla fine della Guerra i dipendenti saranno addirittura un centinaio ed è a questo punto che Luisa Sargentini Spagnoli convinse l’azienda a introdurre le innovazioni più rivoluzionarie nel rapporto con i dipendenti: l’asilo nido interno all’azienda e l’allattamento sul lavoro senza diminuzione di salario. Come aveva pensato, l’occupazione femminile aumentò e a queste misure se ne aggiungeranno altre di natura sociale, che riguarderanno i figli delle dipendenti. La guerra mutò radicalmente la sua vita e quella della famiglia. Il marito ritornò devastato dal fronte; inoltre, non avendo alcuno spirito imprenditoriale e un temperamento piuttosto da sognatore, (era un discreto musicista), si ritrovò ai margini dell’impresa, finché nel 1923 decise di ritirarsi anche perché nel frattempo era accaduto altro e cioè l’inizio della storia d’amore fra Luisa Sargentini e Giovanni Buitoni, il minore dei figli di Francesco e di lei assai più giovane. Oltre che essere un uomo brillante, Giovanni aveva uno spirito imprenditoriale simile a quello di Luisa. Sotto il loro impulso l’azienda crebbe ulteriormente, tanto da estendere il proprio raggio d’azione all’intero mercato nazionale, facendo concorrenza all’industria dolciaria torinese. Intorno all’azienda, tuttavia, fu creato anche un ambiente sociale che faceva della fabbrica un centro di aggregazione, d’iniziative culturali e ricreative che coinvolgevano la cittadinanza perugina ben oltre i confini della fabbrica. Fu Luisa Sargentini a inventare il Bacio e l’uovo pasquale con la sorpresa e altri gadgets di cui Giovanni Buitoni aveva studiato l’importanza, grazie ad alcune esperienze all’estero. L’immagine dei due innamorati dei Baci Perugina fu opera di Federico Seneca, che peraltro aveva già collaborato con Buitoni prima della joint venture del pastificio con Luisa Sargentini. Egli s’ispirò al quadro di Hayez Il Bacio. La storia d’amore fra i due è un capitolo a parte di tutta questa vicenda e merita a sua volta qualche attenzione. Quello che è straordinario nella loro relazione è che tutti gli uomini delle due famiglie, superato lo sgomento iniziale, accettarono la situazione e loro due furono molto determinati a proteggere la loro storia d’amore, ben nota alle stesse dipendenti, ma che non suscitò mai un vero scandalo. Luisa Sargentini Spagnoli morì nel 1935 per un tumore alla gola, probabilmente dovuto all’eccesso di consumo di dolci e assaggi (non c’era un solo prodotto che uscisse dall’azienda senza passare dal suo vaglio). L’idea della casa di moda nacque ancora una volta per caso e per una sua intuizione, sebbene Luisa coltivasse l’idea fin da ragazza.
Si rese conto che i conigli d’angora che aveva ricevuto come regalo di natale, non erano solo animali da compagnia ma ancor più da curare amorevolmente e pettinare. Fu ancora una volta lei ad avere l’idea della tosatura per produrre lana d’angora e quindi maglioni e scialli di pregio. Fu una scelta virale, si direbbe oggi, tanto che a metà degli anni ’30 erano ben 8.000 gli allevatori che mandavano i loro conigli per la tosatura all’Angora Spagnoli, ormai sul punto di diventare una grande azienda. Luisa Sargentini morrà prima di vederla nascere, quasi all’inizio della Seconda Guerra Mondiale. Sarà il figlio Mario a guidarla ma con l’aiuto dello stesso Giovanni Buitoni e degli altri famigliari. Nel ’47 nascerà La città dell’angora a Perugia. Va ricordato, infine, che l’influenza delle sue idee non venne mai meno nella gestione dell’azienda, successive alla morte di lei. Nel periodo più duro della guerra gli Spagnoli regalarono ai loro dipendenti generi di vestiario per cifre ingenti per quell’epoca. Infine Giovanni Buitoni, pur ancora giovane, non si sposò e visse, come peraltro tutti gli altri uomini della famiglia, nel culto di Luisa Sargentini Spagnoli e delle sue imprese.2 Pur nella consapevolezza che stiamo parlando di un modello paternalista ma gestito al femminile anche dopo di lei – rimane comunque giusto rilevare come le lavoratrici italiane abbiamo goduto di diritti simili e neppure tutti, solo durante la stagione degli anni ’70, grazie prima di tutto alle loro lotte e anche a quelle di quegli anni.
2 Anche Umberto Boccioni ebbe un passato da cartellonista, eseguendo diversi lavori in merito. Uno degli artisti simbolo dell’Art Nouveau, Alfons Mucha, operò ampiamente in campo pubblicitario per diverse aziende, ma anche per il cinema, ad esempio. Era la routine per molti al tempo che si affermo ancora di più alla fine degli anni ’20 e poi ’30. Un’esperienza a parte, anche per la sua durata nel tempo, fu il sodalizio di Fortunato Depero con la Campari, che si manifestò sia nelle campagne pubblicitarie negli anni ’20 e ’30, sia del disegno della bottiglietta del Campari soda nel 1932.