GLI USA E NOI DOPO LE ELEZIONI
Premessa
Le elezioni Usa sono alle nostre spalle e alcune delle conseguenze si sono già manifestate, prima fra tutte l’accelerazione della crisi nel governo tedesco, architrave del disastro europeo in corso; ma anche le difficoltà crescenti nella nomina della nuova commissione europea. Quanto agli Stati Uniti, lo sgomento attonito degli sconfitti è l’indice di un disorientamento che viene da molto lontano. Tuttavia, negli Usa molte altre cose succedono in campo sociale e persino sindacale: è proprio a queste realtà che mi sembra utile dare la priorità anche perché il dibattito politico italiano è talmente angusto che certe informazioni non arrivano; non per censura, ma perché non ci si rende conto della loro importanza. Dei due articoli che seguono, il primo è stato pubblicato – prima delle elezioni – su Officina Primo Maggio una testata assai meritevole per il lavoro d’inchiesta che svolge. L’articolo mi sembra importante per tirare una prima conclusione e cioè che se reazione ci sarà, come tutti auspichiamo, negli USA dopo l’elezione di Trump, è alla società civile e ai suoi fermenti che occorre guardare, e non alle nomenclature decotte del progressismo. Il secondo è invece il comunicato rilasciato dal Working Families Party subito dopo le elezioni, che lascio in lingua originale.
Dare la priorità a questi due articoli non significa eludere la necessità di un’analisi puntuale dei primi provvedimenti presi da Trump, del ruolo di Musk nel nuovo governo, nonché delle ragioni della débâcle democratica, ma mettere tale necessità in secondo piano: ci sarà tempo anche per capire meglio come si evolveranno le dinamiche interne al governo che sta nascendo e al mondo democratico statunitense e in Europa .
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STATI UNITI: SOGGETTI E STRATEGIE DI LOTTA NEL MONDO DEL LAVORO
2 Novembre 2024
Di Bruno Cartosio
Ieri e oggi
L’ultimo mezzo secolo di neoliberismo ha deindustrializzato gli Stati Uniti e polverizzato il movimento operaio. Negli ultimi 25 anni il numero delle fabbriche si è ridotto di un terzo. La classe operaia e le comunità operaie, nel loro insieme una forza fino a tre quarti del Novecento, sono state annichilite. Le vecchie città industriali hanno perso da un terzo a metà dei loro residenti. Nel 2021 soltanto poco più di 3900 fabbriche avevano più di 500 dipendenti (e 846 più di 1000), con oltre il 93% delle restanti che ne avevano meno di 100 e il 75% meno di 20. La crescita della produttività si è praticamente fermata negli ultimi vent’anni. Nello stesso 2021 i dipendenti nel settore manifatturiero erano 12,2 milioni, lo stesso numero che nel 1945, nel contesto di una popolazione passata da 140 a 340 milioni. Non è un caso che il massimo di occupazione sia stato registrato nel 1979 (19,3 milioni), un anno prima dell’elezione di Ronald Reagan e dell’inizio dell’offensiva antioperaia e antisindacale di potere politico e grande capitale. L’anno scorso la percentuale nazionale di sindacalizzazione nel settore manifatturiero era del 7,9 per cento e nell’intero settore privato non agricolo era del 6%. Nel settore pubblico era al 33% e la media generale nazionale era pari al 10%, la metà rispetto al 1983.
Eppure, nel mondo del lavoro, da questa bassura si riesce a guardare allo stato odierno delle cose con una dose di cauto ottimismo. L’aumento della conflittualità e la nuova qualità delle strategie organizzative, rivendicative e di lotta dei lavoratori sono reali. All’inizio del 2024 l’Economic Policy Institute, organizzazione per la ricerca sociale vicina al mondo del lavoro, scriveva di rinascita, resurgence, del movimento sindacale. E pochi mesi più tardi un autorevole giornale della sinistra, In These Times, si poneva una domanda ambiziosa: “Sono in grado i sindacati di ricostruire la nostra democrazia?” Con realismo, la risposta era molto prudente. Ma fino a pochissimi anni fa sarebbe stato impensabile anche solo immaginare di porsi una domanda del genere. Oggi l’organized labor è l’unica componente sociale di portata nazionale da cui vengono segnali che rendano possibile pensare a un futuro meno degradato, a una società meno sfilacciata e diseguale in cui trovi spazio quella ricerca di uguaglianza che dovrebbe essere intrinseca a una democrazia. I segnali vengono dalla richiesta di redditi che permettano una cittadinanza dignitosa, dall’affermazione del valore del lavoro e dagli sforzi per concretizzare mobilitazioni sociali solidali. Alcuni di questi tentativi hanno preso corpo nelle comunità afroamericane con Black Lives Matter e con le mobilitazioni di protesta antirazzista, altri con le manifestazioni delle donne contro l’oscurantismo antiabortista e altri ancora in esperienze di “raccordo” tra mondo del lavoro, domanda di giustizia sociale e politica di riforma di formazioni partitiche come il Working Families Party, che si esplica sia in iniziative proprie, sia nel sostegno, anche sul piano elettorale, alle posizioni più avanzate dei democratici.
Conflitti e solidarietà
Nel 2023, la United Auto Workers ha gestito in modi nuovi gli scioperi per il rinnovo contrattuale del settore auto. Non solo scioperando contro GM, Ford e Stellantis – tutt’e tre insieme e contemporaneamente – ma dislocando strategicamente i blocchi della produzione in modo da interrompere i flussi in punti nodali, creando il massimo di problemi per l’azienda con il minimo di lavoratori impegnati; e si allarga, anche: organizza i laureati–lavoratori nelle loro lotte rivendicative nelle università. La SEIU continua nel suo attivismo nei servizi e, ora, contribuisce ai tentativi di organizzazione dei gig workers;ancora la SEIU ha imposto il contratto con uno sciopero di tre giorni all’azienda sanitaria Kaiser Permanente, mettendosi alla testa di una coalizione di sigle sindacali nazionali e locali distribuite su tutto il territorio nazionale. La SAG-AFTRA e la Writers Guild (WGA) hanno organizzato gli scioperi di lunghissima durata dei lavoratori di cinema e televisione bloccando produzione e diffusione di programmi per le aziende di Hollywood e contestando l’utilizzo dell’intelligenza artificiale a danno dei lavoratori. I Teamsters affiliano la Amazon Workers Union e portano al contratto gli aeroportuali di Cincinnati. La Communication Workers (CWA) ha chiuso a metà settembre 2024 un mese di sciopero contro la AT&T e sostiene la Alphabet Workers Union dei lavoratori di Google; poi, lavoratori stabili e precari di industria, servizi, sanità, logistica, comunicazione e spettacolo e infine i risultati ottenuti con la semplice minaccia dello sciopero alla UPS e alla Daimler e le organizzazioni di base che stanno seminando sindacalismo nella Silicon Valley: questa mobilitazione intersettoriale, ricca di decine o centinaia di mobilitazioni locali e di spunti organizzativi e rivendicativi dal basso è stata il nuovo e inatteso di questi ultimi mesi.
Il 13 settembre 2024 sono scese in sciopero alcune decine di migliaia di lavoratori dei due stabilimenti storici della Boeing nell’area di Seattle. Era dal 2008 che alla Boeing non succedeva. La decisione di scioperare è stata votata dal 96% dei lavoratori interessati, che hanno rigettato la proposta di accordo che azienda e sindacato avevano provvisoriamente raggiunto. E un mese più tardi hanno nuovamente respinto le nuove proposte di contratto. Alcuni altri aspetti significativi sono emersi fin dai primi giorni. Anzitutto la International Association of Machinists and Aerospace Workers (IAM), il sindacato che rappresenta la maggior parte dei dipendenti ed è il direttamente interessato, ha accettato le contestazioni dei lavoratori alle proprie ipotesi di contratto e ha aperto la vertenza sulla base delle rivendicazioni di aumenti salariati del 40% (invece del 25% proposto), del recupero dei versamenti per la previdenza pensionistica (cancellati anni fa e che l’azienda rifiuta di ri-istituire). Un secondo aspetto è quello della solidarietà: i membri della seconda maggiore union presente nell’azienda, la Society of Professional Engineering Employees in Aerospace (SPEEA), per contratto sono tenuti a supplire nella produzione in caso di necessità, ma hanno trovato tutti i modi possibili per rifiutarsi di prendere il posto dei loro colleghi e anzi si sono uniti a loro nei picchetti. A loro volta i Teamsters, che lo scorso maggio erano stati solidali con gli iscritti al sindacato dei pompieri (IAFF) licenziati, ora si rifiutano di fare le consegne attraversando i picchetti degli scioperanti. Se da una parte risalta la “storica” frammentazione in sindacati di mestiere ancora presente anche in molte grandi aziende, dall’altra emerge anche la crescente solidarietà – informale, perché gli “scioperi di solidarietà” tra unions diverse sono vietati per legge – che supera le singole appartenenze nella ricerca di fronti comuni.
Diverso è stato lo sciopero di decine di migliaia di portuali della International Longshoremen’s Association (ILA) che il 1° ottobre, appena scaduto il contratto, hanno bloccato i porti della costa est dal Maine al Texas controllati dalla U.S. Maritime Alliance. Era dal 1977 che non succedeva. La loro azione ha messo in grande agitazione i media di tutto il paese, che hanno versato lacrime sulle prevedibili sofferenze per i consumatori e per l’economia del paese prima delle spese natalizie. E Biden ha premuto perché lo sciopero non giocasse contro i democratici il 5 novembre. Hanno fatto i loro conti anche gli imprenditori, e lo sciopero è stato sospeso dopo tre giorni, esattamente come quello dei 45.000 dipendenti di Kaiser Permanente, e la proposta di aumento dei salari è stata del 62%, da scaglionare nei sei anni del contratto. Ma i portuali hanno messo al centro della contrattazione e dello sciopero anche la presenza e il ruolo dell’automazione nei porti; se ne riparlerà a partire dal 15 gennaio. Anche in questo caso la ILA ha avuto sia la solidarietà “sul campo” dei colleghi della UAW e dei Teamsters, sia l’appoggio simbolico dei colleghi della costa ovest (che appartengono a un’altra union).
Invece alla AT&T gli installatori e manutentori telefonici della Communication Workers (CWA) hanno dovuto scioperare per un mese in otto stati del Sudest, prima di piegare l’azienda al rinnovo del contratto a metà settembre. Anche loro hanno sperimentato la solidarietà materiale di altri gruppi di lavoratori, come quelli della UPS, di alcuni Labor Councils, le strutture sindacali territoriali, e di altri sindacati, tra cui i Machinists (IAM) e i Teamsters. Prima di cedere, l’azienda ha tenuto duro più a lungo di Kaiser e Maritime Alliance, forse perché nell’era del digitale si può anche stare un mese senza telefono, ma non senza le merci e la sanità. Ma alla fine anche la AT&T ha ceduto.
Strategie: il potere di incidere
La UAW è anche alla testa del rinnovamento organizzativo. I suoi delegati non sono più scelti dei vertici, ma votati dalla base – echi di “nostre” dinamiche di cinquant’anni fa? – e tanto le decisioni di scioperare, quanto come e dove farlo, e le proposte di contratto devono essere approvate dagli iscritti. Alla Boeing la proposta iniziale è stata respinta dalla base, il sindacato ha ridefinito la piattaforma ma le ulteriori resistenze dell’azienda hanno portato i lavoratori a respingere per due volte le proposte di contratto. La SEIU ha coordinato una coalizione di unions contro la Kaiser. La ILA ha chiuso i canali di entrata e uscita delle merci, i nodi che collegano e rendono interdipendenti le reti interne e internazionali dell’economia. La decisione di bloccare i porti di tutta la costa est – possibilità di cui si era persa memoria – non è stata solo insolita. È stata strategicamente dirompente. La UAW aveva individuato le località “migliori” in cui scioperare: luoghi in cui la fabbrica è centrale e la comunità è solidale, fabbriche la cui fermata provoca fermate a cascata nella filiera produttiva. Da molte parti, inoltre, si cominciano a contestare gli utilizzi del digitale al servizio della precarizzazione, degli algoritmi le cui matrici sono definite negli uffici aziendali e dell’intelligenza artificiale funzionale a ulteriori eliminazioni di manodopera nei luoghi di lavoro. Nelle parole della lotta di classe: individuare dove è maggiore il danno all’avversario impegnando al minimo le proprie forze.
La storia dei movimenti operai fornisce i modelli di comportamento, diversi a seconda delle epoche e dei settori, ma analoghi nelle intenzioni. Ma, a volte, anche da fatti di cronaca di altra natura provengono suggestioni o conferme. Il 19 luglio, un problema con un aggiornamento di Falcon – un software antivirus prodotto dall’azienda CrowdStrike e usato anche dalla piattaforma di cloud computing Microsoft Azure – ha provocato un oscuramento informatico che si è ramificato nel mondo intero: blocco di voli negli aeroporti, disservizi in ospedali e nei sistemi sanitari, caos nelle banche e nelle Borse, nei media e nelle comunicazioni telematiche, disagi nelle attività dei singoli. Anche se il crash non è stato letteralmente totale, esso è stato globale attraverso le interconnessioni che collegano tra loro i vari sistemi attraverso i confini. Nella sintesi offerta da la Repubblica il giorno dopo: «Aziende e privati sono sempre più dipendenti dai dati e dai servizi ospitati dalle infrastrutture tecnologiche delle big tech. Non solo da quella di Microsoft. Anche Google offre servizi simili, attraverso Google Cloud. E Amazon fa lo stesso, tramite Amazon Web Services. Ma quando qualcosa nella nuvola va storto, gli effetti possono essere devastanti». Infatti il giorno prima lo erano stati, momentaneamente, ed erano stati recuperabili. Resta la domanda: quanto è grande la vulnerabilità delle reti o della Rete?
Già due mesi prima che il blackout avesse luogo, considerando l’insieme delle connessioni digitali e logistiche, lo studioso e giornalista di Labor Notes Kim Moody sottolineava che i nodi e gli snodi strategici delle reti sono relativamente fragili e potenzialmente vulnerabili: ogni singolo punto delle grandi reti produttive-commerciali attuali e del reticolo in cui le grandi aziende dell’economia digitale avvolgono i territori metropolitani può essere «vulnerabile all’azione dei lavoratori». Moody prende a esempio Amazon, dove una lotta organizzata potrebbe interferire con le comunicazioni e le connessioni digitali da cui dipendono tanto l’organizzazione interna del lavoro e i rapporti con i clienti, quanto i processi della grande distribuzione e delle consegne spicciole sul territorio. Questa sarebbe la novità di questi tempi, ma la logica che la giustifica è interamente nella scia del passato.
Moody cita lo studioso John Womack, il quale – in Labor Power and Strategy, del 2023 – guarda alla storia della conflittualità operaia nel Novecento, sottolineando la perenne necessità di «rendere efficace la lotta […] esercitando il potere di intaccare i profitti del capitalista». Questo tipo di considerazioni fanno la loro comparsa in questa fase di crescita della combattività nell’intero mondo del lavoro e da parte di molte delle organizzazioni sindacali in ripresa. Gli storici del lavoro hanno sempre messo in evidenza come i lavoratori in lotta abbiano interrotto il lavoro sia con scioperi di massa “tradizionali”, sia con picchetti ai cancelli, sia con rallentamenti o blocchi nei punti critici costringendo il processo produttivo a ingolfarsi o fermarsi. (Non solo in America, naturalmente.)
Negli Stati Uniti, nella fabbrica fordista tutte le organizzazioni sindacali, di mestiere o d’industria, rivoluzionarie (come l’IWW) o moderate (come l’AFL), hanno praticato più meno apertamente forme diverse di direct action o di soldiering, il rallentamento deliberato della produzione, o di sabotaggio contro lo shit work della catena. Anche con azioni clamorose: dall’inedita occupazione delle fabbriche negli anni Trenta alla rottura unilaterale del no-strike pledge, l’impegno a non scioperare nel corso della Seconda guerra mondiale, alla lotta guidata dal sindacato dei farmworkers di Cesar Chavez nell’agribusiness californiano, che non solo bloccarono raccolta e distribuzione di frutta e verdura ma chiamarono i consumatori di Stati Uniti e Canada al boicottaggio dell’uva raccolta dai crumiri. Ora, nell’ultimo sciopero contrattuale, la UAW ha rifatto quello che avevano fatto gli scioperanti di Detroit quasi cent’anni fa. La ILA ha rifatto quello che aveva fatto l’ultima volta sessant’anni fa, e i portuali di Seattle che hanno bloccato insieme ai pacifisti le navi con le armi per Israele, hanno fatto quello che i loro padri avevano fatto – certo, per più tempo e con diversa efficacia – con le navi e le armi destinate a Saigon. Altri tempi e diverse forze in campo, ma nelle “nuove” strategie torna a esserci la memoria di sé in quanto classe per sè.
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Working Families Party Statement on the Presidential Election Results
November 6th, 2024
In response to the results of last night’s presidential election, Maurice Mitchell, National Director of the Working Families Party, has issued the following statement:
“It may not seem like it, but today is the beginning of the end for the Trump era and the MAGA movement. Donald Trump has no solutions to address the needs of working-class people in this country. And we know that when he tries to implement his agenda of more tax cuts for billionaires, gutting health care, deporting millions, and supporting war crimes with public dollars, people will rise up.
“Make no mistake, we have a lot of urgent work to do. Not just to protect each other in the face of a right-wing authoritarian government, though we must do that. It’s clear from last night’s results that we’ll only get to victory by building a coalition of working-class people of all races.
“The exit of working-class voters from the Democratic Party didn’t start this election cycle. It’s been going on for years. Now, that realignment has put the authoritarian right in power.
“This is an all-hands-on-deck moment. We need to join together to build the largest pro-democracy coalition in history and block Trump at every turn. The solution to Trump’s politics of division is a politics of solidarity. We also need to build independent political power, because both major parties have failed to prioritize working people. It’s time to get to work.”