UMBERTO BELLINTANI: ANOMALO LOMBARDO
Premessa. Questo saggio fu pubblicato sulla rivista Monte Analogo.
Si comprende meglio la poesia di Bellintani se si parte da un dato estrinseco. Il poeta mantovano studiò all’Istituto d’Arte di Monza, presso la scuola di Marino Marini, dove si diplomò nel 1937 in scultura. Proprio quest’arte fu la sua prima grande passione. Richiamato alle armi nel 1940, quando ritornerà a casa nel 45, l’abbandonerà per dedicarsi alla poesia; ma il gesto dello scolpire entrerà prepotentemente nella sua versificazione. Alcuni suoi testi e a volte semplici versi come questo: /e come alta la giraffa monolito di silenzio/1sono sbalzi poetici che sembrano scritti sulla dura pietra piuttosto che sulla carta, con tutta la forza arcaica di un altro scultore che Bellintani citò in una lirica: Auguste Rodin.2
Come poeta egli esordisce nel 1953 con Forse un viso fra mille, per l’editore Vallecchi. Del 55 è Paria, una plaquette per le edizioni della Meridiana. Nel 1963 approda a Mondadori con E tu che mi ascolti.
È un poeta riconosciuto, dalla voce originalissima e difficile da classificare, ma che sembra avere davanti a sé un futuro editoriale facile. Invece Bellintani compie la mossa del cavallo: decide di non pubblicare più e si chiude in un ostinato isolamento che durerà fino al 1998 quando, sempre per Mondadori, pubblicherà il volume Nella grande pianura, che raccoglie molta della sua opera conosciuta fino al 1992. Un’altra parziale rottura di tale isolamento era già avvenuto nel 1995, grazie al suo inserimento nell’antologia sul secondo ‘900, curata da Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi, sempre per Mondadori.3
È fin troppo evidente che, al di là delle intenzioni dichiarate o meno, la data del 1963 non può essere considerata casuale da chi guarda decenni dopo alla storia della poesia italiana del secondo ‘900.
Bellintani pubblica la sua prima opera nel momento in cui si comincia a discutere sulla necessità di superare l’ermetismo.4
L’ispirazione del poeta mantovano, pur lontana da quella poetica, non poteva però accogliere lo sperimentalismo avanzante e ancor meno, poteva trovare il proprio alveo negli abiti studiatamente dimessi e nei colori tenui della nascente Linea Lombarda, tenuta a battesimo da Luciano Anceschi nel 1952.
Consideriamo due poesie, dalle quali è possibile capire molto del suo modo di procedere; il titolo della prima è Notte incantata:
/Bocca di balena dai centomila denti d’oro/ per ingoiare stanotte la terra,/ io sono un pescatore d’anguille sulla barca/ per lasciarle poi libere ondulare/ nella corrente del fiume sino al mare.// Bocca di balena dai centomila denti d’oro/ il tuo occhio di luna mi ha seguito quando scesi/ a sciogliere la barca questa sera/ dalla riva e abbandonarmi alla corrente/ della vita notturna e poi solare./5
L’ambientazione di questa lirica è riconoscibile: si parla di anguille, di barche da pesca e di un pescatore. Potrebbe trattarsi dei laghi del Mincio intorno a Mantova, oppure del delta del Po. L’immagine iniziale della balena dai denti d’oro e l’occhio di luna, introducono però un elemento magico, addirittura mitologico. Il tempo notturno, vivificato da questa presenza visionaria ed estraniante, crea una tensione fra immaginazione e realtà; il paesaggio così noto della campagna lombarda e del Polesine si trasforma in un ambiente ignoto e misterioso.
Nel secondo testo, Notturno sul mare, tale procedimento si accentua ancora di più. La scena è marina e notturna come la precedente; un personaggio solitario, indicato con il pronome personale Io, è seduto ad ascoltare il rumore del mare. In un crescendo di slittamenti progressivi fra osservazione quasi naturalistica e accenti sempre più espressionisti, accade questo:
/E quando – alle tre di notte – una barca raggiunse un vicino scoglio/ e vi salirono i tre scheletri giganti di una razza sepolta/ e cantando con gli occhi al firmamento si inzupparono di luna/ io vidi non lungi un veliero navigare/ e un uomo si teneva ritto ed estasiato sulla tolda./6
La confluenza di elementi realistici (le tre di notte) ed altri visionari e potentemente evocativi (da Caronte al vascello fantasma, alla Ballata del vecchio marinaio di Coleridge, fino all’accenno alla razza sepolta, tema ricorrente nella poesia di Bellintani, che parla di ominidi e risale spesso a un’immagine arcaica della specie umana), conferiscono al testo una potenza di trasfigurazione che trova pochi altri riscontri nella poesia italiana del ‘900.
Un altro poeta nato in ambiente contadino, Cesare Pavese, aveva cercato molti anni prima di Bellintani una via d’uscita dall’ermetismo che ha qualche somiglianza con il percorso del poeta mantovano. I testi di cui parlo, a cominciare da Mari del sud che risale addirittura al 1930, confluiranno poi in Lavorare stanca.
Li distingue il diverso approccio al mito, che in Pavese è voluto e consapevole; la visionarietà appartiene invece a pieno titolo soltanto a Bellintani. Quest’ultimo più che rifarsi al mito, crea una vera e propria mitologia, nella quale compaiono animali comuni delle terre mantovane o altri esotici per lo più africani; oppure scenari sempre sospesi fra visione e precisione realistica; come accade nella bellissima Oltre l’orizzonte portami.7
In questo modo egli raggiunge effetti di grande suggestione molto vicini a quelli ottenuti da un suo quasi conterraneo: il pittore Antonio Ligabue.
Un punto in comune con Pavese, tuttavia esiste e riguarda l’epica. In alcuni dei maggiori testi di Bellintani, a cominciare da Io cara mi espando nella grande pianura, i principali ingredienti della sua poesia confluiscono in una versificazione epica. Citerò solo alcuni versi del testo, data la sua lunghezza:
/Io cara mi espando nella grande pianura/ ed estasiato l’ammiro e questo vento…/ che qui mi batte sopra il petto è tutto il vento/ che quelle rupi d’alti monti ha valicato/ col suo fragore.// Popoli e popoli di mucche raduno e spingo a un mare/ che lungi alto biancheggia, più lontano/ dell’aldilà dell’aldilà da dove gira/ per il ritorno splendente la cometa./8
Altri momenti forti dell’ispirazione di Bellintani, sono il sacro naturale e una religiosità per nulla convenzionale, sempre pronta all’invettiva, sospesa, come dice bene il curatore dell’opera mondadoriana, fra preghiera e bestemmia;9 come si può cogliere leggendo due testi emblematici come Poi fu una luce luminosa e Ho preso una mosca.10. Questo sentimento religioso, fortemente incline all’indignazione, è il tratto distintivo di un poeta consapevole della presenza del male, a volte descritto in termini crudi, come per esempio in Non solo per un baby:
/Quando il fetore raggiunse il guardiafili/ che poco lungi passava, da quell’orrida/ morte di bimbo riportata dai giornali/ s’alzò un colombo e leggero volò via.// Ma non solo per il Baby rapito e ritrovato/ cadaverino già in sfacelo in quella cava,/ ma pur pel ragno che s’avventa sulla mosca/ per lo sparviero che s’abbatte sul fringuello,/da questo bacio di sole un uomo può/qui farsi schermo con un colpo di coltello./11
Per Bellintani la violenza è intrinseca alla natura, a cominciare dall’istinto a predare. La presenza del male è dunque radicale e non sembra potere essere redenta da un dio antropomorfo.
Non sempre gli esiti della sua ispirazione religiosa sono altrettanto potenti e originali; il Bellintani maggiore è quello capace di farci udire le voci del passato fino all’urlo del dinosauro e altrettanto pronto a lasciarsi confondere nella natura che comprende l’umano e lo travalica; oppure quando si abbandona all’eros, alla presenza femminile, come avviene in testi quali Angela e Antonia; oppure nei rari momenti di contemplazione, come in Sera di Gorgo, e Aprile.12
Percorso originale quello di Bellintani, per il quale è lecito parlare di espressionismo visionario o di realismo magico e di un ritmo della versificazione che passa dalle contrazioni improvvise alle grandiose espansioni del verso, come in una sorta di movimento di sistole e diastole.
Il testo poetico appare a volte slabbrato, irto e segnato da ruvidezze; è ancora una volta la scultura che può aiutarci a capire. Anche nell’opera scultorea più levigata, il materiale non si lascia mai del tutto piegare dalla volontà dell’artefice, ma combatte in un corpo a corpo estenuante con l’autore. Forse si affaccia qui un’altra ipotesi: che la scultura fosse per Bellintani una metafora della irriducibilità stessa della natura alla volontà umana. La forza originaria del gesto dello scultore, che ha in sé qualcosa dell’ominide che dipingeva i suoi graffiti nelle caverne, ritorna nella sua poesia. Tuttavia il poeta mantovano non teorizza né un’attualizzazione del mito, né un primato dell’immagine come aveva tentato di fare Pavese nei suoi scritti teorici e neppure una mitologia del passato o dell’arcaico come avviene in Pasolini.
Bellintani attraversa il suo tempo, non lo ignora; ma sa tenersi a distanza dall’attualità. È per questo che il suo rimane un percorso decisivo, solitario, che ha saputo trovare la propria strada di rinnovamento della poesia italiana al di fuori di percorsi più canonici. In questo senso, egli può essere considerato un difficile ma sicuro maestro.
1 Il verso citato è tratto dalla poesia Lamento d’Africa, in Nella grande pianura, Mondadori, Milano 1998, pag.65. Tutte le citazioni successive di versi poesie intere o altro sono tratte da quest’opera.
2 Il verso che si riferisce allo sculture francese – /e abbarbicata alla vita/ come la mano di Rodin/ al sasso/ si trova nella poesia intitolata Fu quella la mia gente, cit. p. 76.
3 Bellintani si trova sotto la voce Quarta generazione, accanto a Erba, Risi, Cattafi, Orelli, Scotellaro, Spaziani e Merini, in Poeti italiani del secondo Novecento, Meridiani Mondadori, Milano, 1996. La scelta antologia e il saggio introduttivo alla sua poesia sono di Maurizio Cucchi.
4 La rivista Officina, nel 1956, ospitò un dibattito, aperto da Pasolini, sulla necessità di svecchiare la lingua poetica, allontanandola dalle rarefazioni ermetiche in nome della riscoperta del plurilinguismo e della contaminazione fra stili alto e basso. La stessa rivista terrà a battesimo autori che confluiranno nella Neoavanguardia, a cominciare da Sanguineti. Bellintani teneva in quegli anni una fitta corrispondenza con Parronchi. Il gruppo fiorentino (di cui facevano parte anche Luzi, Bigongiari e Betocchi), tuttavia, non giocava un ruolo significativo nelle polemiche in corso.
5 Op.cit.pag.146.
6 Op.cit.pag. 62.
7 Op. cit. pag.19.
8 Op.cit.pag. 111.
9 Tale osservazione del curatore si trova nella quarta di copertina.
10. Op.cit. pp. 63 e 148.
11 Op.cit.pag 105.
12 Le poesie citate si trovano alle pagine 50, 106, 14 e 130.