NARRAZIONI FRA STORIA E MEMORIA: PORTOGALLO
Premessa
Ho ritrovato quasi per caso questa breve narrazione scritta molti anni fa, subito dopo il ritorno dal Portogallo. Me la ricordavo, ma per ragioni che stanno a metà strada fra casualità e rimozione, si era persa nei meandri di chiavette e computer. Le ragioni per un eventuale oblio ci sono tutte. Quel viaggio, insieme a Laura, era nientemeno che il nostro viaggio di nozze, ma la scelta del Portogallo aveva una forte componente di militanza politica, espressione che oggi non userei più, ma che nel 1975 era ancora pane quotidiano. I capitani d’aprile, nel 1974, avevano posto fine alla dittatura di Caetano, l’erede di Salazar; l’esplosione di rivolta sociale che ne seguì fu accolta con entusiasmo in Italia e si formarono anche delle piccole brigate internazionali, fra cui quella italiana, composta da attivisti di diverse organizzazioni: questo gruppo italiano era stato molto presente nella caserma autogestita di Tancos a Lisbona.
La nostra partenza era prevista per il 12 dicembre, avevamo tutti i contatti giusti con le diverse formazioni politiche più formali come i partiti, ma anche informali e nate in pochi mesi. Tutte avevano appoggiato i capitani d’aprile, seppur con modalità diverse.
Pochi giorni prima della nostra partenza lo scontro divenne convulso e alla fine fu rovesciato il governo in carica presieduto da Vasco Gonçalves da parte di un gruppo di militari moderati capeggiati da Melo Antunes. Dal fervore estremo che ci aspettavamo di vedere in città, si passò nel giro di pochi giorni a un clima spettrale nel quale ci trovammo di colpo catapultati. Capimmo subito che non avremmo rischiato niente da un punto di vista personale perché non eravamo stati sottoposti ad alcun controllo particolare alla frontiera e quindi decidemmo lo stesso di avviare i nostri contatti. Fummo ricevuti da tutti, seppure nel mezzo di misure di sicurezza e luoghi improbabili degli incontri; a parte il solo che avvenne in una sede ufficiale, quella del partito comunista portoghese. Due persone, uomini per l’esattezza, coinvolti in tutte le fasi del processo iniziato nel 1974, ci fecero da guida in città, ma quando capimmo che continuare con i contatti poteva essere pericoloso per loro, prendemmo accordi su come gestire le comunicazioni dall’Italia e decidemmo che, dopo un’ultima visita a casa di un operaio – un incontro di cui vi è traccia nello scritto di allora – ci saremmo dedicati unicamente al nostro viaggio di nozze e così fu. Quella parte del viaggio però è fatto di ricordi solo nostri e nel testo di allora non c’è traccia.
A pensarci bene ad anni di distanza, tutta la vicenda è molto portoghese. Solo lì poteva accadere che dei militari ponessero fine a una dittatura e si presentassero con i fiori nei loro cannoni per le strade di Lisbona e poi decidessero di porre fine al loro tentativo rivoluzionario ritornando nella caserme ma – cosa da non dimenticare – Melo Antunes si oppose sempre alla messa fuori legge del partito comunista e altre organizzazioni. Uno solo pagò per tutti: Othelo Sarajva de Carvalho, un uomo generoso ma assai confuso.
Detto questo, il testo che segue ha degli aspetti che sono anche datati ma ho deciso di non toccare nulla, perché lo spirito profondo di quello che mi è parso di cogliere in quella surreale esperienza di viaggio è del tutto attuale. Sono pure contento di avere ritrovato questo scritto dopo la pubblicazione di Frattali, perché forse mi sarebbe venuta la tentazione di inserirlo nel libro. Invece la sua collocazione è proprio un’altra: una narrazione che è un piccolo frammento di memoria storica, di un evento fra i più rimossi dalla scena politica europea contemporanea.
Lisbona
Le immagini che conservo di Lisbona si ripetono e si rinnovano in continuazione, nutrite da molteplici sorgenti; tanto che i ricordi sono una parte minore di quest’anfora preziosa. Le une e gli altri si confondono e si sovrappongono, facendo così venire meno quel confine sottile fra realtà e immaginazione che nel caso di Lisbona sembra ancor più rarefarsi e sciogliersi in un impasto di colori che ricordano quelli dei suoi cieli, oppure la mescolanza amorosa delle sue acque.
Forse era vera quella passeggiata lungo l’Avenida Pombal alla ricerca di un ristorante dal nome altisonante: La cocina del rey; o forse me l’ero inventata dopo avere letto che in quel locale si tenevano cene sontuose… E poi il traghetto che attraversa il Tago per approdare al Barreiro, il quartiere più popoloso della città.
Il Tago a Lisbona non è un fiume, ma un braccio di oceano con cui l’acqua dolce lotta instancabilmente, dando luogo a un miscuglio allargato di liquidi e umori che si distendono fino ad assumere le sembianze di un lago; o di più corpi sfiniti e calmi dopo un’orgia.
Al Barreiro si respirava un’aria di antica e nobile povertà, fatta di storia, di abitudini, di fierezza proletaria scolpita sui volti scavati dei suoi operai; oppure l’opulenza sformata delle donne, la magrezza dei troppi figli e figlie. Portane una in Italia ci aveva chiesto Vazco; sulle prime abbiamo finto di non capire, poi rifiutato mostrando tutto il nostro imbarazzo. La cosa era finita lì, poi venimmo a sapere che un altro figlio in Italia c’era già venuto e che lavorava presso un elettricista di Milano; l’invitai a lasciarmi un messaggio per lui. Fu la madre a scrivere il biglietto per Manuel, così si chiamava il ragazzo; lo fece lentamente, con il tracciato incerto di chi non padroneggia la scrittura.
Dopo pranzo, mentre ascoltavamo musica ad altissimo volume, Vazco ci mostrò orgoglioso i suoi cimeli: la bandiera rossa custodita segretamente durante gli anni della dittatura salazarista e poi esposta ogni domenica sul cancello di casa, le fotografie di alcuni incontri politici clandestini, poi quelle più distese e piene di sguardi sorridenti delle prime assemblee popolari seguite alla Rivoluzione dei garofani.
Rientrando a Lisbona, la sera, me ne stavo da solo sul ponte della nave, Laura aveva preferito non uscire fuori a causa del vento forte. Nel buio che calava e immerso nei miei pensieri, improvvisamente udii fischiare un canto rivoluzionario che conoscevo benissimo, perché era italiano, nato nel pieno del ‘68. Non capii subito da dove provenisse quel suono acuto e teso come un filo d’acciaio: poi vidi l’uomo. Era un giovane marinaio che indossava il berretto tipico di tutti i marinai, con la tesa un po’ abbassata e curva; teneva le mani nelle tasche di una giacca a vento leggera. Era solo e si aggrappava a quel canto come ci si aggrappa al vestito di una donna che ci ha lasciato. Il suo fischio era così forte da superare il rumore delle acque e si ergeva da solo contro la logica ferrea della pagina pesante che si era abbattuta con tutta la ragionevolezza della storia sulla fervida passione di quei pochi mesi.
Lui non si era accorto di me e nessuno poteva udirlo, quel ricordo era soltanto suo; ma c’era, nel gesto di regalare quel fischio alla notte, tutta la grazia e la forza della gratuità. Forse per questo a Lisbona mai nulla finisce veramente; perché c’è sempre qualcuno che conserva il lembo di ogni cosa, così che tutto si stratifica dando alla città quel tono barocco che soltanto in essa, tuttavia, mantiene una sorprendente leggerezza.
Al tempo di quel viaggio non conoscevo Pessoa, per me era soltanto un nome; del resto, tutto del Portogallo e di Lisbona era poco più che un nome.
M’imbattei in lui una volta tornato in Italia e compresi subito che alla nostra vista era sfuggito molto della magia del luogo.
Il caffè dove lui scriveva, per esempio, l’avevamo visitato diverse volte durante quel soggiorno, avevamo visto pure qualche sua fotografia, ma tutto era finito lì. Ricordo delle vetrate eleganti, un clima decrepito da nobiltà decaduta, un’eleganza sobria e fuori moda; intorno al locale le stradine strette e scoscese che portavano al mare o risalivano ancora di più verso la cima della collina, fra ampie case a terrazza e tetti piani.
Eppure quel caffè e quelle strade si sono veramente materializzate per me solo dopo essere rimasto a lungo in compagnia di Bernardo Soares e di Fernando stesso. Perché soltanto nelle loro parole e nei loro sguardi mi fu possibile vedere e sentire di nuovo l’atmosfera che avevamo solo sfiorato. Lisbona colpisce a distanza, come una ferita leggera che non guarisce mai; ma forse anche questo è un sogno, forse anche sulla città si sarà abbattuta la monotonia omologante di cui non vi era traccia, allora. Anche per questo non tornerò mai più a Lisbona, ma continuerò a soggiornarvi nelle parole di Fernando, in quelle di Ricardo Reis o di Álvaro de Campos.
Le terra e l’oceano
Dall’alto delle scogliere di Estoril lo sguardo si perde verso il mare e non solo in direzione delle lontane Americhe, perché a destra come a sinistra la terra sfuma verso l’interno: sembra di essere in groppa a un’aquila immensa dalle grandi ali di sabbia.
Il promontorio di Estoril è il punto più occidentale del continente europeo e le onde dell’oceano sembrano, guardandole dall’alto, oscillanti e contraddittori pensieri, sospesi fra due estremi: il desiderio di partire, quello di restare.
Considerando la storia dei viaggi europei verso altri continenti e culture non si colgono solo le tracce lasciate dai conquistadores spagnoli o inglesi, ma anche quelle più incerte e meditabonde degli esploratori portoghesi. Essi sentirono per primi il fascino della smisurata grandezza che il Tago trascina fin dentro Lisbona e per primi partirono. Tuttavia le loro navi oscillarono sempre, incerte se approdare o salpare, tanto diffidenti verso il mare aperto quanto verso l’entroterra. Perciò le rovine che i portoghesi hanno lasciato sono segni enigmatici, quasi dei vuoti sulla cartina storica: di tutti gli imperi, quello portoghese sembra essere l’unico costruito per gioco. Portogallo! Anche nel nome si nasconde la tua magia. Portogalli si chiamano le arance per le popolazioni del sud e l’immagine del sole sull’albero evoca colori smaglianti, sorrisi di amanti, cieli trasparenti e diafani; ma Portogallo è pure un nome duplice. Il porto, luogo del distacco e del ricongiungimento, e il gallo, l’animale che più di ogni altro evoca l’immagine della veglia, ma anche quella di un tradimento. Nella complessità del nome sembra nascondersi qualcosa, come se fra il potente richiamo del mare e i nostalgici canti dell’Algarve, qualcosa nel mezzo si sia dissolto o cancellato. Questo gioco rimanda ad altri giochi; prima di tutto a quelli della lingua portoghese.
Il periodo ipotetico, il congiuntivo e l’infinito personale la segnano in modo indelebile, producendo effetti sconosciuti alle altre lingue neolatine.
Il congiuntivo è il tempo e il modo dell’eventualità, dell’incertezza, dell’irrealtà, mentre l’infinito personale indica un’azione compiuta da un soggetto ma spogliata di ogni concretezza; pura potenzialità infinita nel tempo e nello spazio, simile a una formula matematica che attende d’incontrarsi con una realtà fisica inesistente, al momento, ma non del tutto impossibile. Non è forse ancora al gioco e alle sue trame gratuite che tutto questo rimanda?
La corrida portoghese si presenta del tutto simile a quella spagnola, identica nella ritualità e nell’intenzione finale. Arrivati però alla soglia della consumazione del rito, il toro è risparmiato: se lo spagnolo vuole dominio e sacrificio, il portoghese vuole attesa e rinvio. Dietro queste trame giocose, dietro gli arabeschi della lingua e la ripetizione del rito, è la sospensione del tempo a farsi strada, quella stessa che è nel gioco del bambino, nella festa, nella poesia, in tutto ciò che rompe la continuità seriale del quotidiano.
I portoghesi erano sulle terre di Estoril molto prima che Inglesi, Spagnoli e Francesi li travolgessero passando loro innanzi. Tutti videro soltanto ciò che stava oltre Estoril, mentre essi attesero, finsero di agire, si mossero, ma in fondo non lo fecero e le loro navi continuano a oscillare davanti alle coste di tutti i mondi che hanno toccato. Il tempo li ha risparmiati, restituendoceli nella loro immobilità malinconica e incantata, quasi fossero dei sogni che attendono un mattino. Non potrebbero proprio per questo suggerirci una strada? L’insonne cavaliere portoghese non attende forse l’alba del nostro risveglio e il ritorno a casa delle nostre navi?