“Si sente il bisogno di una propria evoluzione sganciata dalle regole comuni, da questa falsa personalità Segnali di vita nei cortili e nelle case all’imbrunire, le luci fanno ricordare le meccaniche celesti” Franco Battiato
Che cos’hanno in comune un oleandro e una drag queen? Che cosa significa queer – e perché mai dovrebbe interessarti scoprirlo? È possibile trasformare la vita di una città piantando dei semi?
Attraverso quattro laboratori, uno spettacolo itinerante e una balera in piazza, il progetto intende stimolare una riflessione sul rapporto tra diversità di genere, ecologia e riqualificazione del territorio. Il progetto, realizzato in partenariato con Teatro Fontana, si sviluppa in tre quartieri di Milano – Baggio, Chiesa Rossa e Gallaratese – alla ricerca delle Regine di Periferia… siano esse piante o sgargianti drag queen!
Tutti i laboratori del progetto sono gratuiti, aperti a persone di ogni età, genere e esperienza. In ogni quartiere, verranno modulati per incontrare le esigenze del territorio e si può seguire più di un laboratorio. Per iscriversi, inviare una mail a teatroscuola@teatrofontana.it
Ecco il dettaglio dei quattro laboratori:
NATURA E TRASFORMAZIONE laboratorio di pratiche ecologiche a cura di Associazione Argot
Un percorso sviluppato su due moduli che vuole sia osservare che sperimentare nella pratica il potere trasformativo della Natura e le sue interconnessioni con l’esperienza queer. Il laboratorio metterà a confronto reti ecologiche e tessuti sociali, l’adattamento della natura in contesti apparentemente ostili e il fiorire in contesti di discriminazione. Proporrà pratiche di cura e riappropriazione dello spazio pubblico ma anche del corpo, dell’individuo e della comunità.
due moduli, 15 posti disponibili
CHE COS’E’ QUESTO QUEER? laboratorio su corpo, genere e identità a cura delle Nina’s Drag Queens
Che cosa significa queer, e perché mi riguarda? Che relazione c’è fra il queer e la vita nel mio quartiere?
Le persone della comunità LGBTQIA+ spesso non sono a loro agio nelle zone periferiche, apparentemente non preparate a ricevere un’espressione di genere non standardizzata. Ma è davvero così? Il laboratorio mira a costruire una riflessione che tenga insieme tematiche di genere e qualità di vita nelle città, attraverso gli strumenti del teatro e della partecipazione attiva.
un modulo, 20 posti disponibili
SPAZIO PUBBLICO PLURALE laboratorio di design partecipato a cura di Polimi Desis Lab
Quante vite diverse, anche non umane, convivono negli spazi di questo quartiere? Come sarebbero gli spazi pubblici se fossero progettati in maniera collaborativa e tenendo in considerazione necessità e desideri di tutt3?
Il laboratorio intende agire in questa direzione, immaginando e progettando insieme degli elementi per modificare uno spazio del quartiere, abbracciando una varietà di prospettive. Si esplorerà lo scenario urbano camminando nelle scarpe (o zampette) di vari abitanti del quartiere, dando vita ad un viaggio di co-progettazione in cui le visioni uniche di chi partecipa sono fondamentali per il futuro degli spazi pubblici del quartiere.
due moduli, 15 posti disponibili
REGINE DELLA FESTA laboratorio intensivo di teatro drag a cura delle Nina’s Drag Queens
Diventa Drag in un pomeriggio! Un flash lab per dare un assaggio della poetica Nina’s, creare un momento di divertimento e gioco, e realizzare una performance corale. Attraverso improvvisazioni, playback e facili coreografie scopriremo la divina che c’è in noi e costruiremo anche un’azione collettiva drag, che verrà presentata la sera stessa del laboratorio per aprire le danze della Balera.
un modulo, 20 posti disponibili
BOTANICA QUEER
In ogni quartiere, si svolgeranno quattro repliche di Botanica Queer, con un percorso rimodulato sul territorio. Sono disponibili 35 posti per ciascuna replica. Per iscriversi, inviare una mail a teatroscuola@teatrofontana.it
Botanica Queer è uno spettacolo-passeggiata alla scoperta delle aree verdi della città. Fra odi alla fisiologia vegetale, canti per stimolare l’apparato radicale degli alberi, affondi eco-femministi e coreografie collettive, Demetra condurrà le spettatrici di una realtà semplice e scottante: le piante sono queer!
BAGGIO
NATURA E TRASFORMAZIONE (2 moduli) sabato 11 e sabato 18 maggio, luogo e orario da definire
CHE COS’E’ QUESTO QUEER? (1 modulo) domenica 26 maggio, ore 15-18, luogo da definire
SPAZIO PUBBLICO PLURALE (2 moduli) martedì 21 maggio e martedì 18 giugno, ore 18.30-20.30 Biblioteca di Baggio, via Pistoia 10, Milano
REGINE DELLA FESTA (1 modulo) sabato 22 giugno, luogo e orario da definire
BOTANICA QUEER (4 repliche) da giovedì 20 a domenica 23 giugno, pomeriggio Il punto di ritrovo per Botanica Queer sarà segnalato al momento dell’iscrizione
BALERA sabato 22 giugno, orario serale
Tutti i laboratori e gli eventi sono gratuiti, previa iscrizione a teatroscuola@teatrofontana.it Vai al calendario generale
Nina’s Drag Queen Aparte Soc. Coop. Via A. Soffredini, 77 20126 Milano – ITALY P. IVA IT06211350969 Inviaci una email
Ricevo dalle Nina’s Drag Queen il programma della nuova edizione di Fuori Asse, che si tiene, come quella scorso anno, in Triennale. Gli scambi fra teatro e arte circense sono relativamente nuovi e promettono assai bene. L’edizione dello scorso anno fu un indubbio successo, che mi auguro sia ripetuto in questa nuova edizione di cui di seguito vedete il programma.
Fuori Asse Focus 2024 | AI CONFINI DEL CIRCO presenta una selezione di quattro spettacoli di circo contemporaneo a cura degli amici di Quattrox4 programmati all’interno di Triennale Milano Teatro.
Per Quattrox4 il circo è creazione, in transizione tra generi e stili, capace di superare il virtuosismo per aprire a nuovi scenari. Gli spettacoli in programma sono consigliati dagli 8 anni in su.
Giunto alla sua terza edizione, Fuori Asse Focus 2024 | AI CONFINI DEL CIRCO è un format di visione con accompagnamento critico curato da Quattrox4 all’interno di Triennale Milano Teatro: quattro spettacoli di circo contemporaneo, due incontri con gli artist*, una tavola rotonda per operatrici e operatori interessati alle nuove funzioni della critica nel circo contemporaneo. Gli spettacoli in programma esprimono una visione audace del circo contemporaneo come arte di creazione, in transizione tra generi e stili, capace di superare il virtuosismo per aprire a nuovi scenari della performance tra sperimentazione e forme ibride site-specific, muovendosi sul margine tra danza, teatro, installazione e performance art.
PROGRAMMA
Venerdì 19 Gennaio 2024 20:00 LONTANO + INSTANTE di Marica Marinoni e Juan Ignacio Tula (30’+ 30’)
Sabato 20 Gennaio 2024 17:00 ONLY BONES v1.6 di Marina Cherry (30’) 18:00 Incontro con Juan Ignacio Tula e Marica Marinoni (60’) 20:00 C’EST L’HIVER, LE CIEL EST BLEU di Amanda Homa e Idriss Roca (60’)
Domenica 21 Gennaio 2024 11:30 TAVOLA ROTONDA sulla critica nel circo contemporaneo (120′) 15:30 C’EST L’HIVER, LE CIEL EST BLEU di Amanda Homa e Idriss Roca (60’) 17:00 ONLY BONES v1.6 di Marina Cherry (30’) 18:00 Incontro con Amanda Homa, Idriss Roca e Marina Cherry (60’) 19:30 LONTANO + INSTANTE di Marica Marinoni e Juan Ignacio Tula (30’+ 30’)
Il vecchio e il cane sono seduti nello stesso posto e vicino a loro si portano due figure entrambe maschili: una si siede a apre un giornale, l’altra è in piedi, di fronte a quella seduta. Si parlano senza guardarsi; ogni volta che pronunciano una battuta chi parla si gira per vedere in faccia l’altro e l’altro si gira a sua volta, così che non si vedono mai.
C.: Eh su dai, dimmelo! Non perdóno il tuo gesto, perché non riesco a spiegarmelo, ma lo potrei capire se tu avessi l’umiltà di parlarmene con sincerità una volta per tutte!
E. M.: Ma che vuoi sapere e poi parli in un modo; perdóno, ma che parola è, cosa vuole dire perdóno?
C: Lo sai cosa voglio sapere, te l’ho detto: perché l’hai fatto? La conoscenza, il sapere sono sempre positivi. Con il tuo gesto hai bestemmiato contro ciò che è più nobile in un essere umano: il desiderio di conoscenza.
E.M: Ma chi ti capisce a te. Lo sai che cos’è un carrubo?
C: Un che?
E.M: Un carrubo: è un albero che cresce nella mia terra, in Sicilia, un carrubo ne sa più di me e di te messi insieme.
C: Vuoi dirmi che la natura è saggia, che le sue leggi sono chiare e comprensibili e meravigliose: sono d’accordo, è quello che penso anch’io e quanto più le conosciamo e quanti di più sono coloro che le conoscono, queste leggi, tanto meglio vivremo tutti.
E. M. La natura non ha leggi, e noi niente sappiamo. Siamo soltanto asini che scalano la montagna; se alziamo la testa cadiamo in un fosso, se la teniamo bassa vediamo i nostri piedi.
C: Tu neghi l’evidenza, non è vero che non sappiamo nulla, pensa a quella meraviglia che è il moto dei gravi.
E. M: Stanno in cielo i gravi e noi siamo qui, li guardiamo i gravi, niente facciamo ai gravi e quando facciamo noi qualcosa è nel piccolo. E sai che cosa? Distruggiamo. Sì, noi distruggiamo, distruggiamo e basta!
C: A cosa stai pensando?
L’altro si volta e lo guarda un attimo, sorpreso, come se si accorgesse di lui per la prima volta … Sorride mestamente e distoglie di nuovo lo sguardo dall’interlocutore
E. M.: Tu sei buono, lo so, tu vuoi il bene.
C: Sì, ora ti capisco. Il bene! Sì, io voglio il bene e il bene è la ragione, la capacità di dare un ordine razionale alle cose.
E. M: l’ordine è come la palla di mercurio che schizza via con traiettorie perfette, disegna mappe d’incredibile bellezza, si divide e si riunisce, affascina, diventi pazzo a seguirla; ma se cerchi di capire il senso di tutto quel suo muoversi non ne ricavi nulla, ogni riga è diritta e precisa ma tutte le righe insieme fanno un gomitolo di niente.
C: Ma di quel gomitolo ne capiremo sempre di più e se insegniamo a molti ciò che abbiamo capito aumenteremo le conoscenze globali che un popolo possiede e se da questo popolo il sapere si diffonde agli altri ecco che l’umanità intera ne avrà gran beneficio. L’ignoranza è relativa, ma la conoscenza è assoluta!
E. M: D’assoluto c’è soltanto la morte.
C: E dai, è facile rispondermi così, non sono sciocco e incolto come credi, anch’io li conosco i filosofi. Hai usato un sofisma. Perché vuoi dare di te questa immagine? Anche ora, anche qui?
E. M: Ma che sofisma, non siamo forse morti qui? E tu continui come se ancora fossi di là, la ragione, la ragione, ma quale ragione! Ma che t’importa di quello che ho fatto. Niente ho fatto, niente facciamo che lasci tracce durature e se qualche segno lasciamo, sarebbe stato meglio non farlo: guarda i fisici che hanno voluto andare avanti con quelle ricerche. Che cosa hanno trovato? Li vedi gli effetti della loro scienza, della loro ragione? Cumuli di morti: non si muore più uno per uno e nemmeno a migliaia, si muore per grandi numeri, tutto qui.
C: Perché si è smarrita la ragione, non perché la si applica. I tuoi argomenti vengono in mio soccorso, tu sei dominato dall’orgoglio, dal piacere di seguire la tua intelligenza corrosiva, dissolvi tutto come un agente chimico, ma lo dissolvi nel pensiero e tutto si ferma lì: sei un sofista, che si diverte a giocare con le parole e i concetti. L’intelligenza verbale è un belletto, un travestimento che s’indossa a carnevale; e allora diverte, è piacevole a vedersi, può addirittura insegnare qualcosa. Se lo s’indossa tutti i giorni, allora mio caro diventa una maschera mortale. Ritirarti non ha impedito alla scienza di andare avanti, il tuo gesto non ha frenato il progresso perché nulla può farlo. Ti darei ragione se tu fossi riuscito a impedire il male, ma esso è andato avanti per la sua strada senza di te e tu sei rimasto indietro.
E. M: Indietro, avanti, concetti relativi. Noi guardiamo avanti ma gli effetti di ciò che fa la nostra mano stanno dietro di noi perché l’intelligenza arriva prima di tutti gli effetti, che sono lenti, più lenti del pensiero. E così ciò che il nostro occhio d’aquila vede davanti a sé, la mano lo taglia dietro di noi subito dopo che i nostri progetti si realizzano e noi precipitiamo come quel contadino delle mie parti che segava i rami degli alberi standoci a cavallo e finiva per terra senza capire il perché. Ecco chi siamo, con tutta la tua ragione questo siamo e continuiamo ad essere, nei secoli dei secoli.
C.: E amen, adesso non ti accontenti più della tua fede e ti metti anche a fare il prete. Guarda che quando si va un po’ troppo lontano da una parte si finisce per trovarsi dall’altra. Il pensiero è rotondo come la terra che abitiamo e se non stai attento ti trovi alle spalle quello che avevi pensato di allontanare da te per sempre. Tu non credi negli assoluti e va bene, neppure io. La Rivoluzione combatté contro gli assolutismi di ogni genere, ma tu alla fine di assoluto riconosci soltanto il tuo. Tutto è relativo, tranne le tue convinzioni. Ti sei messo al posto di dio.
E.M: Ahhh, addirittura, al posto di dio! Io mi sentivo un sasso chiamato verso il fondo di una materia oscura che diventava sempre più chiara, troppo chiara. In fondo a quella catena di atomi che si scioglievano davanti al mio sguardo, davanti alle mie formule, che come un libro aperto mi mostravano quella potenza abissale e smisurata, in fondo a tutto quello io vedevo il demonio, non dio! Per questo mi fermai, distrussi tutto, ma non bastava. Volevo sottrarmi alla tentazione, non ero così ingenuo come tu credi. Sapevo benissimo che avrebbero continuato, vuoi che non ne trovassero almeno uno? Ce n’erano migliaia pronti a farlo, che bussavano alle porte, pur di inebriarsi a quella fonte così potente! Loro volevano essere dei, non io! Mi arresi quando capii che per fare il male ne basta uno solo; per il bene bisogna che lo vogliano molti, se non proprio tutti.
C: E per arrivare a tutti occorre la pazienza del pedagogo, il tempo lungo della storia, la forza calma del piccolo passo, del piccolo gesto, tutte virtù che tu non avevi.
E.M: Chi va troppo in là in una direzione non può andare nell’altra. Quelli come te camminano in pianura, portano il peso sulle spalle come i viandanti, distribuiscono i doni del sapere, come tu li chiami, a tutti. Chi come me va troppo a fondo non crede più di poterlo fare. Siamo su due assi cartesiani asimmetrici.
C.: Ma c’è sempre un punto in cui i valori dei due assi s’incontrano! Non sarai proprio tu a negarlo.
E.M.: No, non lo nego di certo, ho usato un paradosso; ma questo punto che tu dici è sempre più vicino al grado zero. Non te ne accorgi? Non li senti quelli che arrivano ora? Sanno tutto, conoscono la media aritmetica di ogni verità, sono dei collezionisti. Tutti sanno qualcosa in più, ma quello che sanno non serve più a nulla. La verità quando si consolida è più ingannevole del peggiore degli errori, che almeno in teoria può essere corretto; ma chi può correggere una verità divenuta inservibile per l’abuso che se n’è fatto? Il sapere esteso a tutti non è altro che il museo delle verità passate di moda.
C.: Ma ci sarà sempre qualcuno che ne porterà di nuove, che sarà andato in fondo come dici tu, nel cuore della miniera; questo non è contrario alla ragione. Abbiamo compiti diversi: quelli come te devono potere scendere in pace perché siete gli esploratori. Noi abbiamo un compito più modesto: divulgare, estendere, dare a tutti i mezzi per potere imparare. Per questo la Rivoluzione mi affidò l’incarico più delicato: insegnare a tutti la ragione. Fui io a inventare la pubblica istruzione e grazie a me milioni e milioni di esseri umani sono stati strappati all’oscurità dell’ignoranza. Ora che tutto è precipitato nella mancanza di senso, o sembra che così sia, io mantengo alto il mio pensiero.
L’uomo smette di colpo di parlare, sospira e allarga le braccia, poi riprende.
É il sapere che si è corrotto, non l’idea rivoluzionaria di dare a tutti il sapere; ma non so perché ciò stia accadendo.
E.M.: Perché chi scende nella miniera, se ritorna, lo fa troppo tardi e chi è rimasto non può capire la primizia che l’altro gli porta, tanto meno utilizzarla perché si trova invischiato in verità più modeste che lo avviluppano e lo rendono cieco. È questa la disparità che vidi. Quando compresi, grazie ad Albert, che il tempo era il più grande inganno, allora ebbi la certezza dell’ineluttabilità del male. A questo volli sottrarmi, perché non potevo più combattere. Accettai il mio limite, ma non riuscivo a restare fra i molti che attendono passivamente il disperdersi della verità in una nuvola di polvere! Scelsi di essere l’uno irriducibile. Non dio, ma l’uno. Fui il primo a capire che la nuova fisica avrebbe portato alla costruzione di armi orribili. Non mi ritirai clandestinamente in convento, come fu detto; quella è letteratura. Ridicolo! Attendere una vita intera con la paura di essere scoperto! Gli uomini non sono mai così forti come s’immaginano di essere, ma solo in certi momenti ed è in quelli e solo in quelli che diventano veramente uomini; perché sanno andare fino in fondo. Io, forte, lo fui soltanto la notte in cui decisi di scomparire per sempre; quello fu il mio gesto, se ti accontenti della mia spiegazione. Se non puoi accoglierlo cerca da solo un’altra soluzione; io qui ti lascio.
Si aprono le porte e una delle due figure esce, insieme a molti altri. Il convoglio è quasi vuoto, poi cominciano a salire altre figure. Due di esse si siedono accanto al vecchio e al cane. Una delle due si accomoda sul sedile e distende comodamente le gambe. L’altro, invece, se ne sta rannicchiato in una posizione goffa, con il capo piegato di lato in una posa contorta. Subito dopo entrambi si materializzano come reali.
I TESTI PUBBLICATI IN QUESTO BLOG SONO DI MIA PROPRIETA’: CONSENTO LA LORO STAMPA IN FORMA CARTACEA PER SOLA LETTURA E LA CITAZIONE DEL MIO NOME IN CASO DI UTILIZZO IN VOSTRI SCRITTI.
Dramma in quattro atti, un prologo e un epilogo scritto da Franco Romanò.
Questo testo teatrale è stato scritto molti anni fa e proposto per la rappresentazione a diverse compagnie e registi. Da molti giudicato valido da un punto di vista letterario ma pressoché non rappresentabile per la staticità delle scene e l’eccessiva densità di personaggi, se ne è rimasto acquattato fra i miei file per lungo tempo. Decisi a proporlo anche in forma di lettura scenica a Giacomo Guidetti e Barbara Gabotto. Con l’aiuto prezioso di Francesco Orlando, con cui ho discusso una parte del testo e la disponibilità altrettanto preziosa del compianto Roberto Carusi, la lettura scenica si fece 7 maggio 2008 allo Spazio Scopricoop via Arona 15. In scena: Roberto Carusi (Caronte), Ulisse Romanò (Leone Trotzskj), Irene Burratti (Malinche). Regia di Giacomo Guidetti Contributi scenici di Barbara Gabotto.
Nel 2016, uno stralcio del testo e precisamente il monologo di Picasso, ribattezzato Il Minotauro e la scimmia fu pubblicato sul magazine del Wall Street Journal Italia, diretto da Nathalie Dodd. Il testo fu rappresentato a Milano per la regia di Stefano Tenconi. Una seconda e libera versione tratta dal medesimo testo e intitolata Pablo, è stata messa in scena da Fabrizia Fazi a Massa Carrara e a La Spezia.
Ora ho deciso di proporre l’intero testo qui. Continuo a pensare che un testo teatrale debba trovare in scena la sua morte; tuttavia credo che nel blog possa fare la sua figura anche come testo letterario. Poiché le diverse parti – sono tutti dialoghi a due – godono di una loro autonomia, la pubblicazione avverrà atto per atto a cominciare dal prologo per finire con l’epilogo. Qui di seguito però riporto tutti i personaggi in ordine di apparizione per dare a chi legge un’idea del testo nella sua interezza.
PERSONAGGI IN ORDINE DI APPARIZIONE.
Caronte e Cerbero.
Leone Trotzsky e Malinche (il suo nome è incerto perché appare con diversi nomi negli annali: si sa comunque che fu l’interprete e traduttrice fra Fernando Cortez e Montezuma).
Jean-Antoine Condorcet ed Ettore Majorana. Condorcet si può considerare il primo ministro dell’istruzione pubblica.
Bach e Picasso.
Moana Pozzi e Sigmund Freud.
PROLOGO
La scena è in penombra, leggermente nebbiosa: è una banchina, s’intravede la sagoma di una grande imbarcazione. Giungono dei rumori attutiti, in un alternarsi caotico. Suoni, voci che a volte sembrano di gioia, poi diventano strazianti, poi battute scherzose o spot pubblicitari. In scena c’è soltanto un vecchio con una folta barba, seduto su una roccia. Si alza inquieto, tende l’orecchio e scuote la testa, portandosi le mani alle orecchie. I rumori cessano di colpo, il vecchio distende le braccia, guarda verso il pubblico rimanendo ancora in silenzio per qualche secondo, poi si alza in piedi e inizia a urlare stringendosi la testa fra le mani. Il personaggio di Caronte usa diverse lingue e dialetti; la soluzione migliore per quest’ultimo sia di inserire espressioni dialettali dei luoghi in cui il testo venga rappresentato, a sostituire le espressioni che nello scritto sono in dialetto milanese.
Caronte: Enough, enough! I’m tired! Anche prima li sentivo ridere, piangere, vusà me’ i matt, solitari o in tanti. A volte era la pugna, oppure lo strazio di una madre, sempre lì a strepenare. Idioti! A cercare di capire, a capire cosa, what!
Scuote la testa e si siede di nuovo, la scena si illumina leggermente di più e per pochi secondi si sentono ancora i rumori. Il vecchio sembra non accorgersene più; è di nuovo silenzio, ricomincia a parlare in modo concitato ma senza urlare come prima.
Tutti passavano di qui. Pero no voy a fahlar de los muertos, ma dei vivi … alive. Si tuffavano e andavano giù, io li avvertivo, be careful! Guardate che ben pochi ci sono riusciti. A loro non facevo pagare le due monete, ai vivi dico. Tornavano diversi, tenìan una luz en lo ojos, ademàs la tristeza che volevano cancellare scendendo, risalendo la portavano doppia. Come il musico, Orfeo, poor boy, lui ci credeva e non è vero che si è voltato io ho visto tutto. Lui pensava di andare giù e invece andava su se l’è trovata davanti, de bótt, una maschera di ghiaccio. Non l’ha nemmeno visto lei e quando quello con le ali glielo ha detto che lui si era voltato lei gli ha risposto Who? Chi? Non si ricordava più di lui!
Lunghi sospiri, irrompono di nuovo i suoni, poi di nuovo silenzio. Il vecchiosi mette a impastare del pane con l’acqua e continua a parlare.
Li ricordavo tutti quando tornavano la seconda volta, quelli che erano scesi anche da vivi. Tremavo solo per loro quando li accompagnavo. Gli altri, cosa volete, ognuno ha il suo karma e di certe vite cosa vuoi farne, di certe anime perse. Con loro era diverso, el coeur el me batéva fòrt mentre arrancavo al bivio e stavano per dirmi dove li dovevo traghettare. Trattenevo il fiato. Tutto finito adesso, vivo di ricordi come tutti i vecchi e sono stanco; la memoire est le répas de celui qui va a mourir: a cosa serve una porta se non l’attraversa nessuno?
Intanto ha finito d’impastare del pane con acqua, si asciuga le mani, torna a sedersi sulla panca e mette la ciotola per terra, poco distante da lui; poi alza lo sguardo in direzione di quella che sembra una montagnola di stracci. È Cerbero.
Amico mio, il solo rimasto! Magna che l’è prùnt! Eh ridete, ridete, ma qui la borsa è vuota, i patti non erano questi! Da qui dovevano passare tutti, anche dopo il cambio di gestione, era un gentlemen’ agreement, cosa sono in fondo due monete! Sarà questa poi la ragione? Gli ultimi due vivi che volevano andar giù hanno persino cercato di fingersi morti per derubarmi gli oboli della giornata! Fuck them! Che vadano all’inferno, non era mai accaduto che qualcuno avesse una tale mancanza di rispetto. Cosa credete che si tratta solo di portarli di là? Vi sbagliate! Quando arrivano da noi, hanno, gli occhi aperti, sono pieni del mondo, sentono il richiamo, tienen la vida en los ojos. Ci voleva tempo per preparare la barca, loro si spengono lentamente, talvolta li scuoto, y despuès se llega, empieza el tiempo de l’olvido, ritornano nella valle dove si erano spogliati delle vite precedenti e poi …e poi non li vedo più, it’s not my business, sono il guardiano della soglia io, posso soltanto immaginare cosa ci sia dalla vostra e da quell’altra che sta di là. Ma a cosa serve una soglia se non c’è più nulla da attraversare. È per questo che mi sono deciso, mettetevi nei miei panni! Come posso continuare a fare finta di niente? Riuscite a immaginarle le mie giornate? Qui in questo luogo tetro, puzzolente. Una volta non ci facevo caso, mai un momento di sosta, di respiro e non mi sono mai lamentato. Ora di notte mi sveglio di colpo, sento le urla di quelli che trasportavo e mi sembra che siano tornati, ma quando mi alzo il y a un silence … Ho deciso di scendere. Sì, io! Avete capito bene? Ho deciso di scendere e lui verrà con me, non lo lascio qui. Domani ce ne andiamo.
Si guarda intorno, quasi volesse imprimersi negli occhi la scena, nel presentimento di abbandonarla per sempre, poi si distende sul giaciglio. Buio e cambio di scena.
I TESTI PUBBLICATI IN QUESTO BLOG SONO DI MIA PROPRIETA’: CONSENTO LA LORO STAMPA IN FORMA CARTACEA PER SOLA LETTURA E LA CITAZIONE DEL MIO NOME IN CASO DI UTILIZZO IN VOSTRI SCRITTI.
La trama de Il tempo dei morti di Alessandro Carrera, appena uscito per Moretti&Vitali, è costituita da una vicenda famigliare che ricorda anche l’ambientazione di Piccola città di Wilder, come viene detto nella prefazione di Franco Nasi, che si riferisce a una nota dell’autore, contenuta nell’intervista finale. Quanto ai personaggi – Il Padre, la Madre, il Figlio, Il Bambino Morto, l’Angelo, il Droghiere, il Coro dei morti, il Padre ragazzo – essi sembrano richiamarsi lontanamente alla trinità cristiana, circondata da altre figure più o meno canoniche a essa collegate; tuttavia, alcune vistose anomalie rendono tale riferimento subito precario. Prima fra tutte la presenza del Droghiere, forse il personaggio più importante, insieme al Coro, indicato peraltro con un parola ormai desueta, nel senso che lo smercio tipico di quella attività è stato assorbito da mercati più ampi: il Droghiere ci riporta indietro nel tempo. Che mondo è dunque quello che viene rappresentato? Se stiamo alle indicazioni di scena iniziali vi sono pochi dubbi: tutta la vicenda è ambientata in un cimitero. La poesia, a cominciare da quella che abbiamo imparato a scuola, è piena di discese nell’Ade, di morti che parlano, di viaggi iniziatici, di miti: sono personaggi di autori memorabili che ognuno ricorda. Anche il cinema, l’arte più moderna, ha frequentato il mondo di là, in vari modi: da La voce della luna di Fellini al Nosferatu di Herzog; infine il teatro. L’episodio biografico cui Carrera si riferisce e cioè proprio una rappresentazione teatrale cui assistette suo padre nell’immediato dopoguerra, è un segnale importante. Lasciate stare i nostri morti fu urlato dal pubblico che vi assisteva: i lutti ancora recenti avevano alimentato quel grido, ma la memoria di quell’episodio ha lavorato a lungo nella mente e nel cuore dell’autore se dopo decenni, quei morti tornano a parlare. Non ci dicono nulla sull’aldilà: siamo in piena modernità, questi morti hanno lo sguardo sempre puntato sul mondo che li ha ospitati da vivi, guardano all’al di qua e in questo ricordano anche i defunti dell’Antologia di Spoon river, ma solo come eco, perché in quei testi prevale una forza sintetica che spinge quei morti a esprimersi in un linguaggio definitivo, senza appello. Ne Il tempo dei morti, invece, è la tensione dialettica fra frammenti illuminanti e flusso a dominare. Tale tensione si stempera in un finale addirittura allegro, persino scherzoso e riconciliato, dal colore improvvisamente solare, a differenza della colorazione cupa che accompagna il testo fino a quel momento. Carrera qualche indizio sulle ragioni del percorso lo dà nell’introduzione e nell’intervista finale quando afferma che quest’opera, che lo ha accompagnato per molti anni, è stata:
una lotta con un fantasma, che nel testo è rappresentato dal Bambino morto … (Pag. 81).
A questa affermazione segue una rapida descrizione del contesto famigliare che provo a riassumere, con una precisazione e cioè che la ricostruzione della trama è qualcosa che il lettore può compiere a cose fatte, ma che non riguarda il tempo del testo – il tempo dei morti – che non può essere lineare come lo è invece qualsiasi ricostruzione ex post.
Nelle prime sette scene, concluse dal Coro dei Morti, si presentano le otto voci e il loro conflitto. Nella seconda metà del dramma (scene 8-14) il conflitto prende corpo. Il Figlio deve scendere nel Regno dei Padri per comprendere che cosa è accaduto tra il Padre morto e il Bambino morto, affrontando la paura della Madre. Il Figlio comprende ciò che è accaduto al Padre e allo zio (il Bambino morto), ma solo in sogno. Il Coro dei Morti esprime una certa ostilità verso l’Angelo, facendogli capire che la sua immortalità ai morti non interessa; quello che loro vogliono è vivere nel ricordo dei vivi. Il Droghiere sorveglia fino all’ultimo che le cose vadano a buon fine: il riscatto del Padre e del Bambino avviene, ma all’insaputa della Madre e del Figlio che, in quanto ancora vivi, non vi possono assistere. La comparsa del Padre Ragazzo, che ritrova il Bambino morto in un luogo e in un tempo in cui non c’è nulla di vicino o di lontano, conclude l’opera.
La dialettica fra squarci illuminanti e flusso porta il lettore dentro un vortice, di cui però alcuni indizi e segnali permettono di delineare dei confini sia spaziali sia storici. Qualche altro segnale lo lascia Carrera. Il suo accenno biografico alla fuga – l’espressione è soltanto mia ma mi sembra calzante – da Milano verso gli Stati Uniti all’inizio degli anni ’80, anni assai decisivi sia per la grande storia, sia per quelle personali, offrono una cornice temporale sufficientemente riconoscibile a questa narrazione in versi. Nel primo racconto del Padre morto e poi in quello del Droghiere, la collocazione storica, emerge con sufficiente chiarezza, pur nel mezzo di riflessioni che seguono una loro logica interna ai personaggi, da monologo interiore. Siamo fra Milano e Lodi, cioè fra la grande e la piccola città di provincia: ci sono il teatro Carcano e la Scala, l’Eni di Enrico Mattei e i crucci di chi deve ricostruirsi una vita alla fine del conflitto. Il Droghiere tornerà a parlare intorno agli stessi temi.
Il Droghiere
Anche a successive riletture continua ad apparirmi come il personaggio più importante, insieme al Coro. Nel suo primo intervento rimprovera il Padre, lo esorta a dimenticare il discorso che intende fare e che sarebbe poi l’orazione funebre dell’amico in occasione del suo funerale. Capiamo subito che la relazione fra il Droghiere e il Padre morto è stata una grande amicizia:
Metti via che non serve. I discorsi
Già stancano i vivi, ma qui non ci sono
Che morti, stanchissimi e morti. Non so
chi ha voluto che fosse così, alle
Pagine del libro che lo spiega non
C’è volta che ci arrivo …
Il tono ironico dei primi versi si rovescia nella seconda parte: la domanda implicita rimane sospesa e l’accenno alle pagine di un libro che dovrebbe poter spiegare ogni cosa si apre a significati molto estesi. Nella seconda parte del suo discorso torna l’ironia e il tono s’abbassa considerevolmente:
… Gli esami, lo sai, non li davo.
Non per colpa di donne
o di treni, ma a lezione facevo tardi
Anch’io, e perdevo l’inizio; di tutto,
di come son fatte le cose, di quando
comincia la donna nell’uomo, la radice
quadrata di Dio. Tu sei ancora troppo
vivo, hai le guance bagnate di sonno
e di sogni, non ti basti come noi
ti vorremmo, ti tieni così stretto
a chi sei stato, mi sembri l’internato
di Mauthasusen che a casa da sei
settimane ancora serrava la gavetta
fra le mani vuote …
Il Droghiere rifiuta il discorso/narrazione della storia fatto dal Padre Morto, ma non propone un punto di vista più elevato: neppure lui ha una risposta definitiva, le sue debolezze sono umane come quelle di tutti gli altri, non è la trasfigurazione di una capacità superiore di vedere le cose. Insieme al Padre rappresenta una coppia di amici che hanno vissuto gli stessi anni e le stesse inquietudini: sullo sfondo il difficile secondo dopoguerra. Il Droghiere, in definitiva, sembra essere poco più di un fratello maggiore. Sono vite bloccate, diversamente prigioniere di un destino ormai postumo – sia esso del tutto personale o meno – che può essere ricostruito solo per frammenti, i quali tuttavia non dialogano fra di loro se non raramente e il motivo sarà proprio l’Angelo a dirlo, come vedremo. Quest’ultimo, più che caduto, scende per scelta nel mondo. Se è un Angelo ribelle, la sua è una ribellione tenue, assomiglia di più a una diserzione: un poco ricorda l’angelo di Un cielo sopra Berlino, ma quello che dice nella prima sestina, è una sentenza che assume la funzione di chiave – intendo il termine nel suo senso musicale – della sua presenza nell’opera:
Prima sestina dell’angelo:
Mi sono ribellato, perché esser felici è intollerabile.
Ho scosso il capo alla salvezza, sotto stelle senza pena,
e sono sceso. Ti annuncio il dolore, l’unica novella
che non mi fa arrossire. Forse non abbraccio il tuo potere,
tanto è più grande del mio, che invece di riavvolgere
il tappeto manifesto lo consola di una nuova tramatura.
e sono sceso. Ti annuncio il dolore l’unica novella, è questa la sola novella che non fa arrossire chi la pronuncia. Lo spostamento rispetto alla buona novella cristiana è decisivo. Successivamente, le parole dell’Angelo, quando si rivolge alla Madre, esprimono a mio giudizio uno dei temi più importanti dell’opera:
L’Angelo
Un oblio insondabile e perfetto
Trascorre da una schiatta all’altra
Con la stessa ardente cura
Con cui gli uomini si traggono il sapere.
Pienezza dei padri è soltanto l’infanzia dei figli,
saggezza intrasmissibile dei vecchi
È che i giovani, lungo la memoria,
diventeranno più e più immemori …
L’oblio, l’impossibilità di una trasmissione fra le generazioni, ma anche fra i membri di una famiglia, la perdita di memoria. l’Angelo lo ribadisce e dunque dalle sue parole emerge quel tanto di consapevolezza in più che tuttavia non può essere condiviso. Siamo così lontani da quello che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni? La perdita di memoria storica, oppure la sua reiterazione inutile perché banalmente ritualizzata, non sono forse una delle caratteristiche salienti del nostro tempo? Quanto alla memoria personale, sappiamo quanto sia labile e sottoposta alle rimozioni: come sia facile scambiare date e situazioni. In fondo, anche per i vivi, il tempo lineare è una difficile conquista. Solo il lettore, a questo punto, può decidere di assemblare i frammenti diversi di queste consapevolezze. In questo senso, il testo di Carrera chiede la sua cooperazione ma non la sua complicità perché i silenzi, i vuoti, persino le amnesie – nonostante il flusso – o non permettono una sintesi, oppure ne permettono molte; o a ciascuno la propria.
I dialoghi fra la Madre e il Figlio sono stati per me la parte più difficile da decifrare. Non mancano anche nei loro interventi frammenti illuminanti, ma sembrano correre su due binari paralleli: la discesa alle Madri è particolarmente difficile e lo è forse di più per un uomo, se ha nicchiato pure Goethe come afferma Carrera nell’intervista. La ragione per cui il Figlio è nato e insieme non nato, anzi disnato, è la presenza del Bambino Morto, il fratello del Padre, morto da bambino in circostanze cupe e che porta lo stesso nome del Figlio. Tuttavia, si comprende che del Regno dei Padri la Madre non sa e non vuole sapere nulla e teme che il Figlio non faccia più ritorno, mentre lui deve staccare da sé il fantasma del Bambino morto per poter dire di essere nato. Anche il Figlio e il Ragazzo morto sembrano condannati a un linguaggio ancora più magmatico perché la loro esistenza, più ancora di quella degli altri, è senza interlocutori. È questa la ragione per cui i versi con cui si esprimono sono così franti rispetto alla solennità di altri? Probabilmente sì, ma talvolta ho avuto la tentazione di leggerli senza la cesura del verso decisa da Carrera. Nel primo intervento del Figlio pare di sentire tutto l’affanno del dire, anche se nel finale s’intravede una possibile luce:
Pure un indizio
Di memoria
Ancora mi raggiunge,
mi questiona.
Anche nelle prime battute della Madre s’avverte il medesimo affanno, è un parlare a se stessa più che al figlio, c’è una distanza palpabile che rende la comunicazione quasi impossibile. In un passaggio la Madre ricorda Maria, quando implora il Figlio di non interrogarla e prosegue così:
… comprendimi in silenzio,
io ti ho concepito nel silenzio,
tu destino, tu contemplazione,
come io fui contemplata e soppesata.
Il silenzio, in questo caso, sembra essere quello di chi nel progetto generale non ha avuto voce, perché è stata contemplata e soppesata da altri, cioè il mondo dei padri. Nelle parole della madre, infatti, la storia non compare mai e una volta sola sembra affacciarsi nelle parole del Figlio quando afferma:
Ragazzi come io non sarò mai,
seduti sui muretti
spruzzati con la canna,
intenti farsi grandi
sognarsi come padri, più furbi e fortunati,
fumano fuori dalla fabbrica
abbassando scappamenti.
Per una conclusione
Classificare un libro come Il tempo dei morti non è facile e forse solo dopo esserci tornato più volte si potrà dire qualcosa al proposito. Il mio percorso, peraltro, è stato testuale e probabilmente parziale, ma nel concluderlo è aumentata in me la convinzione che un testo del genere, può trovare nel teatro il suo felice punto di caduta. Se il Droghiere è il personaggio chiave della prima parte del testo, il Coro dei morti ha svolto un ruolo determinante nel giungere a tale conclusione perché non si tratta solo di un omaggio alla radice greca della nostra cultura, come avevo pensato a una prima lettura. Prima di tutto la sua collocazione centrale nel testo: è la settima sezione su quattordici e segna il passaggio da un prima a un dopo. La metrica è solenne, oscilla fra il blank verse della poesia inglese e l’endecasillabo, ma la particolare disposizione del testo conferisce al medesimo una sonorità molto forte, a volte aspra, che invoglia anche il lettore solitario a una recitazione a voce alta. La particolare compattezza del testo, si rovescia però nel suo opposto perché, facendoli parlare a turno e affidando a ciascuno una quartina diversa, il coro si disgrega in una molteplicità di voci che parlano individualmente, rompendo così la tradizione che affida al Coro una verità sovra determinata. Nel loro parlare insieme e disgiunti chiedono ancora una volta al lettore o allo spettatore di cooperare. Le sintesi non possono che essere tante e diverse, prestandosi anche a messe in scena per nulla tradizionali, dove la musica e persino la danza moderna possono svolgere un ruolo decisivo insieme a una parola che propone, nel corso dell’intera opera, un’alternanza di stili – da quello più alto, al basso colloquiale, al medio – che si prestano a loro volta a una polifonia di soluzioni.
Il festival Fuori asse – ai confini del circo, che si è tenuto dal 27 a 29 gennaio alla Triennale di Milano, è stato un evento artistico importante e originale. Il titolo stesso evoca una difficoltà di collocazione, che si complica ulteriormente perché la seconda parte – ai confini del circo – si potrebbe trasformare anche in ai confini del teatro. È proprio la parola confine a essere centrale, nel doppio senso del termine: limite, ma anche possibilità di attraversarlo e trasgredirlo. Per orientare chi non c’era, il festival, ideato e curato da Clara Storti, Filippo Malerba e Gaia Vimercati, è consistito di quattro spettacoli che si sono alternati nei diversi giorni: ho assistito a tre di essi mentre del quarto – ideato da Piergiorgio Milano e dal titolo White out – riporto una parte della presentazione. Il titolo, in particolare, si riferisce al:
… termine con cui in alpinismo si definisce la perdita totale di visibilità. Si crea quando il biancore uniforme delle nuvole incontra un terreno innevato e rende impossibile l’avanzare o il retrocedere … White out fonde danza contemporanea, circo di creazione e alpinismo.
Seconde nascite e post umani
La scena in cui si svolge Mavara, ideata da Chiara Marchese – Porte 27, è molto semplice: un filo sospeso fra due instabili supporti. La protagonista è una, ma i corpi che si muovono sembrano due e solo da un certo momento in poi si comprenderà bene cosa accade in scena. I movimenti convulsi dell’attrice alludono sia alla nascita – alcuni gesti richiamano il parto – sia alla liberazione del corpo della donna da tutto ciò che lo tiene prigioniero. Fra acrobazie sul filo e contorsioni che rappresentano la fatica e la sofferenza della protagonista, alla fine lo scioglimento va nel senso della liberazione, o di una seconda nascita, sottolineata dall’altalena e dalla colonna sonora: onde marine che si muovono in armonia con le evoluzioni dell’attrice sul filo. Nella breve presentazione dello spettacolo si accenna al fatto che, nell’antica tradizione siciliana, Mavara è la donna che possiede poteri magici e curativi.
Il protagonista del secondo spettacolo, ideato da Alessandro Maida – Magda/Clan, è un uomo che sopravvive in modo assai precario in un deserto roccioso sferzato dai venti. Egli è solo; anzi, tutto fa credere che sia il solo umano rimasto nella porzione di mondo che abita; ma non si tratta di un’attualizzazione di Robinson Crusoe. Il titolo è una citazione letteraria, ma va in tutt’altra direzione: 2984. Siamo alla fine del millennio che abitiamo tutti noi e mille anni dopo 1984 di Orwell. L’evoluzione ha preso una direzione estrema e foriera di momenti di comicità: l’uomo vive in simbiosi con le pietre e si nutre persino di esse. L’arte può fare tali magie, anche se rimango più affezionato all’ipotesi che, in caso di sparizione del genere umano, l’evoluzione ricomincerà da scarafaggi e salmerini. Il sopravvissuto umano ha a disposizione le pietre, una carriola, un vecchio computer che manda segnali strani, una misteriosa bevanda e la sua abilità fisica nel destreggiarsi in quell’ambiente. Fra le pietre spicca la presenza di una sorta di monumento, una specie di moloch o di totem. La natura organica non esiste più, soltanto il sole e la luna continuano a scorrazzare per i cieli sempre più scuri. La colonna sonora è fatta di rumori stridenti e tuoni che nel finale diventano particolarmente sinistri. La scena ricorda per molti aspetti l’ambientazione del romanzo La strada di Cormac McCarthy. Anche in questo spettacolo il protagonista compie dei gesti la cui finalità rimane sospesa fra diverse ipotesi. Le sue azioni attraversano differenti stadi, compreso un delirio di onnipotenza indotto dalla bevanda, i cui effetti però durano poco. Alla fine di questa parte i movimenti diventano più coerenti e determinati nel dar vita a nuove forme, il cui significato vedremo nelle conclusioni.
La leggerezza del gioco
Il terzo spettacolo, Croȗte, di Guillaume Martinet/Defracto, è un ulteriore salto che ci porta nel mondo della giocoleria, anche se il termine è riduttivo. Martinet porta in scena soltanto sei palline di stoffa con le quali si esibisce in alcuni numeri tipici del giocoliere: ma questa parte della performance è in fondo quella più superficiale. Sono il corpo e lo spazio i veri protagonisti della performance. La scelta compiuta dalla regia è stata particolarmente felice, perché lo spettacolo si svolgeva in una parte del salone centrale, a ridosso della scalinata che porta a una delle mostre attualmente in corso di svolgimento. Il pubblico poteva accedere alla mostra e questo creava momenti d’imprevedibile interazione fra spettatori, pubblico ignaro di quanto stava accadendo e performer. In una alternanza fra momenti di comicità ad altri di puro virtuosismo, le azioni consistevano di poche semplici mosse. Più lo spettacolo continuava, più ci si rendeva conto che erano le interazioni fra il corpo e lo spazio più ancora delle abilità del giocoliere il vero motivo di fascino della performance; perché la diversità e anche la scelta, praticamente senza alcun limite, dei luoghi in cui quei gesti possono trovare dimora, fanno di Croȗte, uno spettacolo metamorfico, sempre diverso dal precedente.
Senza parole
Quanto visto m’induce a riflettere prima di tutto sull’assenza di parola. Non è una sorpresa in senso assoluto. John Cage in anni lontani, ma anche alcune esperienze del Living Theatre o di Lindsay Kemp non avevano al centro la parola o essa era addirittura del tutto assente; per non parlare dei Mimi e dell’indimenticabile Marcel Marceau. Tuttavia, la differenza rispetto a quelle esperienze è la possibilità di unificare in uno spettacolo elementi disparati ed eterogenei – un esempio per tutti, saper coniugare un aspetto estremo dell’alpinismo all’arte circense e al teatro – per dar vita ogni volta a performance difficilmente prevedibili. Proprio l’eterogeneità e l’interazione fra elementi così diversi, ma non arbitrariamente fusi insieme, suggeriscono che siamo forse in presenza di una nuova linea nel solco dell’arte totale, da un lato. Dall’altro che l’analogia, piuttosto che la metafora è la figura retorica prevalente.
Un altro tratto distintivo e vistoso è la capacità di usare il corpo e l’interazione fra di esso e alcuni oggetti. Tale elemento, specifico dello spettacolo circense, ma anche prerogativa della danza contemporanea, è posto al servizio di una trama più complessa come avviene – per esempio – in un passaggio particolarmente emozionante di 2984, per quello che il protagonista riesce a fare con la carriola. Oscillando fra aspetti squisitamente comici e grotteschi, ad altri più drammatici, si arriva allo struggente ballo notturno che evoca l’immagine del femminile assente dalla vita. Questo passaggio e un altro successivo, in cui, dall’esplosione di una pietra, emerge un vecchio braccio umano che verrà posto in cima al totem, portano il protagonista a mettere in scena con le sue pietre il sogno di ricostruire l’umanità.
La conclusione di questo spettacolo mi riporta a un confronto con l’altro dal titolo Mavara. Unisco queste due opere in una riflessione conclusiva perché, proprio per la loro grande diversità, portano in scena anche uno sguardo femminile e uno maschile sulla nostra contemporaneità. Mavara è un percorso di liberazione, compiuto da una donna, la quale sente che la propria presenza nel mondo è soltanto agli inizi e ha davanti a sé un futuro tutto da scoprire. La scena finale in cui la protagonista accompagna con il gesto e con il suono felice della voce, la liberazione di tutte le scorie, si apre alla speranza, ma al tempo stesso ha le proprie radici antropologiche in una tradizione di sapienza femminile che è stata repressa dalle società patriarcali. Niente potrebbe essere più lontano, in questo senso, dall’accompagnamento verso la fine del mondo, evocato da 2984. Entrambi gli spettacoli, però, ci mettono di fronte a un dilemma reale: perché se è vero che l’immaginario apocalittico è prevalentemente maschile e affonda le sue radici nella tradizione millenarista cristiana, d’altro canto la speranza di liberazione non può ignorare che il monito sulla possibile fine dell’umanità non viene da Cassandre d’occasione o pseudo indovini, ma da scienziati e scienziate.
A cura dell’Associazione Nadar. Regia di FABRIZIA FAZI
In questo periodo così complesso, il dovere dell’arte, a nostro parere, è quello di divertire, anche trattando argomenti e testi pieni di significato e importanti, come l’Opera da tre soldi. Vi invitiamo a divertirvi con noi il 5 novembre per condividere insieme il nostro lavoro.