Premessa.
Questo testo è stato pubblicato sul sito della società di psicoanalisi critica, a ridosso della loro morte. Lo ripropongo a pochi giorni dalle commemorazioni del primo, con pochi ritocchi.
Il destino, talvolta illuminante, ha posto queste due morti l’una accanto all’altra, ma ancora ad anni di distanza dall’evento, di Ida Magli non si è ricordato Non esito a dire che per me Magli è stata una maestra e lo è ancora; questo non mi impedisce di criticare le sue prese di posizioni sull’Islam, l’Europa, ma anche di riconoscere, nella sua esasperazione, la radice di alcune verità negate. Su questi aspetti del suo pensiero, tuttavia, credo sia meglio dedicare in futuro una riflessione specifica.
I DUE ECO.
Umberto Eco, in quanto semiologo, linguista e strutturalista, è stato un eminente studioso e accademico che ha portato nell’università italiana la tradizione europea che a partire da De Saussure e Wittgenstein, passando poi da Levi Strauss, Jakobson e Barthes, ha fatto della scienza dei segni, della filosofia del linguaggio e dello strutturalismo un’importante segmento della cultura europea del ‘900, sebbene la sua personale propensione verso l’analisi strutturale risalisse alla Scolastica (dunque anche ad Aristotele) e alla tesi di laurea su Tommaso D’Aquino. Dalle testimonianze provenienti dall’ambito universitario, si comprende che era stimato da colleghi e studenti e che è stato dunque un bravo professore, di grande erudizione.
Tuttavia, egli non è stato solo questo, ma, come hanno ripetuto fino alla nausea i servizi televisivi e giornalistici a ridosso della morte “Molto, ma molto di più”. È proprio su questo che è lecito avere dubbi, o quanto meno porre interrogativi e sollevare problemi: tanto più perché è questo secondo l’Umberto Eco che ha tenuto le scene, mentre i suoi lavori accademici o il suo ruolo di fondatore della facoltà di scienza della comunicazione sono scivolati da tempo in seconda linea, almeno per il grande pubblico. Anche nelle celebrazioni che nei giorni scorsi si sono tenute in altri paesi, per esempio alla tv tedesca che gli ha dedicato una serata sul canale Arte, di lui si è parlato solo in quanto autore di romanzi gialli a sfondo storico.
Eco, in quanto intellettuale di massa, che è cosa diversa dall’essere studioso della società e della cultura di massa, nasce con la pubblicazione de Il nome della rosa: siamo nel 1980. Cinque anni prima, nel 1975, si era chiusa la sua stagione più militante che lo aveva visto, sull’abbrivio dei movimenti intorno al ’68, collaboratore de Il Manifesto, – con lo pseudonimo di Dedalus – dopo un articolo assai duro su quello di Pasolini contro l’aborto, pubblicato sul Corriere della sera. Da quel momento in poi Eco, in perfetta consonanza con i tempi, approdò sia al pubblico televisivo, sia alla divulgazione. Nacquero così I diari minimi, le interviste impossibili, le Bustine di Minerva, le collaborazioni con riviste letterarie come Il cavallo di Troia, che riprendevano temi e modi che erano stati anche delle avanguardie del primo ‘900 e già ripresi dal Gruppo ’63, nel quale Eco aveva militato: la parodia, lo sberleffo, il pastiche, il gioco linguistico, la preminenza del significante sul significato. A tutto questo egli apportava in più la sua virtuosa abilità nel manipolare i segni e la scienza dei segni.
Negli anni precedenti il 1980, da intellettuale critico e di opposizione, si servì virtuosamente degli strumenti semiotici per smontare e anche demistificare le strutture della narrazione e togliere un po’ di ruggine all’accademia italiana ancora legata alla critica crociana. Tuttavia, con Il nome della Rosa, egli compì una vera e propria invasione di campo: usare gli stessi strumenti con cui aveva demistificato molta cultura sia alta sia bassa, per costruire un tipico prodotto di genere, cui solo l’autorevolezza ormai consolidata del suo nome poteva conferire un quid in più che non c’era. Il modello, in realtà, era molto antico – Conan Doyle e altri giallisti presenti nella sua personale biblioteca, su cui si è soffermato durante l’intervista alla tv tedesca; ma trasportando tutta la materia in un favoloso Medio Evo, la narrazione acquisiva una veste apparentemente nuova. L’esperimento riuscì talmente bene che diede il via ad altri analoghi, fino al Codice da Vinci di Dan Brown.
Gli anni ’80 e ’90 furono anche quelli del maggior trionfo dello strutturalismo applicato alla letteratura e in particolare alla narrativa. Erano gli anni in cui la lettura testuale si affermava anche nelle scuole come lo strumento principe per comprendere un testo, ma isolandolo dal suo contesto per coglierlo nella sua nuda essenza di materiale linguistico. Per ragioni biografiche mi trovavo negli stessi anni alle prese con due figli in età scolare che leggevano libri game, componevano in classe narrazioni di cui ciascuno scriveva un capitolo e un altro doveva continuare ecc. Persino in un gruppo di scrittura di cui facevo parte ci divertimmo per qualche tempo a farlo anche noi. Devo ammettere che ne fui affascinato, era stupefacente osservare come ragazzini e ragazzine di quell’età fossero capaci, sotto la guida di bravi insegnanti, di inventare trame e intrecci, personaggi e loro caratterizzazione. Insomma, lo strutturalismo era una macchina che funzionava davvero bene se utilizzando i suoi modelli, studenti delle medie potevano arrivare a tanto; a molto di più poteva arrivare un professore che la scienza dei segni e delle strutture la conosceva a fondo.
Fu proprio in quegli anni e precisamente nel 1985 che, anticipato dagli studi Cesare Segre, approdò in Italia l’analisi strutturalista che Roman Jakobson e Claude Levi-Strauss proposero del sonetto di Baudelaire Les Chats, disaggregandolo con l’abilità con cui un perito settòre seziona un cadavere sul tavolo anatomico.
Nei fui colpito sinistramente; poi mi allarmai di più quando vidi che la tecnica del libro game o altre molto simili entravano nelle scuole di scrittura e poi che cominciavano ad apparire romanzi che assomigliavano molto a esercizi scolastici. Eco ha anticipato tutto questo nel 1980; con lui il postmodernismo entrò a vele spiegate in Italia e lo strutturalismo, da strumento insieme ad altri per avvicinare un testo letterario divenne una macchinetta multiuso.
L’ANTROPOLOGIA AL CENTRO.
Ida Magli non ha goduto della medesima attenzione mediatica. Le ragioni sono tante e sarà sufficiente ricordare che oltre all’atavico ostracismo misogino della cultura media italiana per le donne intellettuali, Magli aveva due gravi difetti in più: l’essere politicamente molto scorretta, tanto da avere abbandonato il sacrario progressista di Repubblica per scrivere su quotidiani di destra e l’essere invisa a una discreta parte del femminismo, come i commenti comparsi in facebook nei giorni successivi la morte testimoniano.
Magli è stata ed è prima di tutto una grande antropologa che ha applicato il metodo della ricerca sul campo alla cultura occidentale (Viaggio intorno all’uomo bianco), andando alle radici più recenti e dominanti di questa cultura e cioè al cristianesimo e alla sua visione della donna, cui sono strettamente legati i modi di concepire la sessualità. Nel compiere questo passo, Magli non ha dimenticato in ogni momento che il linguaggio e l’immaginario sono sessuati e non neutri e che l’immagine femminile occidentale è una costruzione dello sguardo maschile, mediato in particolare dalla teologia che ha fornito immagini, lessico ed espressioni ritenute ovvie anche da chi credente non è.
Il centro di irradiazione del suo pensiero e delle sue opere è stato questo e anche le rare incursioni che si allontanavano un po’ da tale campo di ricerca, erano per lo più estemporanee, legate a fatti di attualità: mi riferisco in particolare al libro Alla scoperta di noi selvaggi, che era poi una raccolta di suoi articoli comparsi su Repubblica o altri periodici.
I suoi grandi libri sul Cristianesimo sono a mio giudizio le opere cui ci si deve in prima istanza rivolgere per comprendere il suo percorso e anche i suoi crucci più estremi. Ne scelgo tre, sebbene anche in altri compaia sempre prima o poi un riferimento a questo archetipo (l’uso di questo termine è mio) della cultura occidentale: Gesù di Nazareth, La Madonna e Storia laica delle donne religiose. Sono tre libri strettamente legati, dove l’antropologa si smarca dalle antinomie classiche con cui si è guardato alla figura di Cristo e di Maria di Nazareth (i primi due libri) e cioè tutto il dibattito fra credenti e non credenti sulla divinità o meno di Gesù e tutto quanto ne consegue, per leggere i testi evangelici e i pochi altri documenti dell’epoca, mettendo al centro usi costumi, mentalità e quindi contesto sociale, cultura profonda, quelle che Braudel chiamerebbe lunga durata, espressione che Magli stessa cita nella introduzione a La Madonna; sempre però a partire dal linguaggio concreto dei testi, in primis naturalmente, la Bibbia e i Vangeli. In sostanza, Magli prende alla lettera l’assunto – che è anche dei credenti – che tutte quelle figure storiche fossero veri uomini o donne e li situa nel loro contesto. L’analisi del testo evangelico da un punto di vista antropologico, apre le porte a un campo di ricerca vastissimo. Nel terzo libro, e anche nella biografia di Teresa di Lisieux, Magli affronta con lo stesso strumento la costruzione dell’immagine femminile a partire però dalle storie reali, dalle biografie delle donne santificate dalla Chiesa Cattolica o che hanno scelto, o cui più spesso è stato imposto, il monachesimo o addirittura – nel caso di Bernadette Soubirous o dei tre pastorelli di Fatima – una sofisticata e indotta forma di martirio.
STORIA E MEMORIA.
Nelle ultime interviste rilasciate e riproposte nei giorni successivi la morte, Eco tornava sempre a un tema a lui caro, la memoria e ne sembrava un po’ più ossessionato del solito, forse perché nel suo ultimo romanzo, Numero zero, si occupa della recente storia d’Italia.
Di memoria e strutture si è occupata anche Ida Magli, nessun antropologo ne può prescindere; ma è proprio la diversa e critica considerazione dello strutturalismo che le ha permesso di non essere imprigionata nelle gabbie di un angusto riduzionismo. La sua critica a Levi Strauss è a questo proposito molto importante.
E siamo con questo tornati a quello strumento così potente, il cui metodo permette di saltare sopra il tempo; anzi, di non tenerne conto per nulla. Così, per esempio, tale metodo si può applicare con la stessa efficacia all’analisi di un filastrocca come Ambarabà ciccì coccò tre civette sul comò, oppure alla Vispa Teresa e poi a un canto della Divina commedia. Lo strutturalismo però, in quanto metodo che tratta indifferentemente le strutture, non conosce la dimensione del tempo. Ma se l’oggetto analizzato è il testo letterario, oppure un reperto antropologico, la storia di un popolo o di una cultura, l’eliminazione del tempo rende tutto orizzontale, schiacciato su una sola dimensione e quindi senza tempo e per conseguenza senza memoria possibile. Le strutture diventano allora forme vuote di contenuto, pericolosamente buone per tutti gli usi. Non sarà proprio anche per questo che lo strutturalismo è stato uno degli agenti più o meno consapevoli delle eternizzazione del presente, tanto cara a chi pensa che la storia sia finita? Sarà un caso che nell’epoca in cui esiste un giorno della memoria praticamente per qualsiasi cosa, persino per le ferrovie dimenticate e abbandonate (cercare in rete se qualcuno non ci crede), abbiamo a che fare con una dilagante incapacità di massa, anche da parte di persone che dovrebbero essere colte, di collocare gli eventi storici nel tempo e nello spazio? Naturalmente le responsabilità di questa tragica deriva sono anche altre, ma questa non è trascurabile dal momento che molti formatori si sono formati proprio in quei due decenni in cui lo strutturalismo era sugli scudi.
La dimensione del tempo e dello spazio occupato da una cultura, inoltre, è forse la sola in grado di indicare a una qualsiasi teoria o scienza, qual è il suo limite.
Nei libri di Ida Magli, l’analisi delle strutture non prescinde mai dal contesto e dalla loro origine: non vi è affermazione che non sia corredata da una rigorosa indagine sulle fonti e le loro contraddizioni. Anche nell’analizzare le permanenze e dunque la lunga durata, l’origine è sempre presente e dunque la storia. Questo permette a Magli delle incursioni rapide, limitate ma decisive, anche in campi come l’arte e la letteratura. È sua per esempio l’intuizione e poi la ricerca approfondita sulla dipendenza di tutto il linguaggio della courtoisie e quindi dell’amor cortese dall’elaborazione del culto mariano da parte dei Padri della Chiesa, così come sue sono le rapide ma profondissime analisi del soggetto pittorico più frequentato dalla pittura occidentale, la madonna con bambino; oppure sulla musica, come scrive nell’ultima parte del settimo capitolo de La Madonna, intitolato Il tempo interrogativo della musica.
Tuttavia, nel fare questo Magli non ha mai superato il limite. Faccio un solo esempio, ma che vale per tutti. Alla fine dell’analisi antropologica di Gesù di Nazareth, l’antropologa deve affrontare il momento topico della testimonianza sulla sua resurrezione. A quel punto lei registra ciò che viene detto e avviene senza alcun commento: su ciò l’antropologia non ha nulla da dire. Questa coscienza del limite rende ancor più grande quel libro e la sua autrice.