LA POESIA DI PIER PAOLO PASOLINI
Introduzione
La produzione poetica di Pasolini copre l’intero arco della sua vita ed è vastissima. La prima parte è dominata dalle opere in dialetto friulano: da Poesie a Casarsa, che è del 1942 fino a La meglio gioventù del 1954. È il Pasolini che tutti amano e quello su cui la critica sembra unanime, fino ad attribuirgli il merito di avere rilanciato la poesia dialettale in Italia. Che Pasolini le abbia ridato rango e valore è vero e non va dimenticato che la poesia dialettale è stata un oggetto di attento studio critico da parte del poeta: dalla fondazione, insieme a Nico Naldini e altri dell’Academiuta de lengua furlana, fino alla pubblicazione, nel 52, di un libro sulla poesia dialettale del 900.
Senza nulla togliere al valore poetico di queste raccolte, ritengo che tale incondizionato elogio sia anche un modo per mettere la sordina alla poesia successiva. La poetica in cui sono immerse le due opere citate è ancora quella dell’ermetismo; ma l’uso del friulano a ovest del Tagliamento, un lingua che era solo orale, conferisce all’opera un valore altamente sperimentale. Quanto ai temi e all’atmosfera di queste liriche si può dire che il Pasolini di Casarsa non ha ancora conosciuto il male del mondo, l’ombra; la poesia riflette perciò uno stato di innocenza vera, pura, non letteraria, la stessa che si avverte anche in Sandro Penna. Solo successivamente il mondo di Casarsa diventerà una sorta di mitologia e al tempo stesso stimolo per la ricerca di un universo arcaico dentro la maglie della modernità: è un mondo che Pasolini cercherà e penserà di trovare (quasi sempre deluso), nelle borgate romane, poi alle Mura di Sanaa, in Africa e in India, infine nell’immaginario dei suoi film, specialmente in quelli più rivolti al passato: a cominciare dalla Trilogia dell’amore, ma anche nel Vangelo secondo Matteo. L’incanto che pervade le poesie di Casarsa è quello della fiducia primaria, quella che si ha per la madre.
Il darsi del male proprio nel luogo dell’Eden, prima con la tragica morte del fratello, poi con l’accusa di omosessualità e l’espulsione dal PCI, sarà il trauma che segnerà tutta la vita di Pasolini e una ferita che non si rimarginerà, ma verrà rielaborata in mille modi.
In lingua italiana
Il Pasolini in lingua italiana esordisce nel pieno del dibattito letterario del tempo, in un momento cruciale del dopoguerra. Il neorealismo, che peraltro aveva dato poco in poesia, si era ormai esaurito anche in narrativa. Pasolini non rifiuta del realismo gli elementi popolari e la tensione etica e civile; rifiuta invece la sua angustia ideologica, ma se si legge Scherzo Shakespeariano, in cui almeno nella parte iniziale rifà il verso al discorso di Marco Antonio in morte di Giulio Cesare, si potrà constatare come egli non rifiutasse i contenuti drammatici ed epici di quell’esperienza, ma rimproverasse semmai una certa acquiescenza successiva da parte di alcuni suoi protagonisti all’andazzo dei tempi; anzi, in quel testo, sembra proprio attribuire a questo accomodamento la fine del neorealismo.
Quando Pasolini sta per esordire in lingua italiana i poeti dominanti sono Quasimodo, Ungaretti e Montale; ma è la poetica dell’ermetismo a occupare ancora la scena. Altri protagonisti come Bertolucci, Caproni e Luzi sono più defilati, mentre la nascente Linea Lombarda non sarà mai vista da Pasolini come un’alternativa credibile alla poetica ermetica. Egli entra nell’agone con idee molto chiare per quanto riguarda la pars destruens: la necessità di superare l’ermetismo, ma anche il petrarchismo, di cui peraltro l’ermetismo è espressione. Pasolini è il primo a parlare di plurilinguismo, di contaminazioni fra registri alti e bassi, guarda al Dante dell’invettiva, alle commistioni fra lingua letteraria e lingua popolare. Sulla rivista Officina, da lui diretta insieme a Fortini, Roversi, Romanò e Leonetti, esordiscono Sanguineti e Pagliarani e altri che daranno poi vita al Gruppo 63, la neo avanguardia da cui Pasolini prenderà aspramente le distanze. Tuttavia, sarà un rapporto mai del tutto risolto né nel Pasolini poeta, né nel critico, anche perché fu proprio lui il primo a parlare della necessità di un neo avanguardismo, espressione che successivamente sentirà ritorcersi contro di lui. Questo rapporto conflittuale, complesso e non risolto, è a mio avviso anche un limite che influenzerà negativamente la sua ricerca poetica.
Il problema è che le ragioni che spingevano Pasolini a superare l’ermetismo erano diverse da quelle che ispiravano Sanguineti e tutto il Gruppo 63. Lo testimoniano sia gli scritti teorici, La libertà stilistica, per esempio, un saggio pubblicato proprio su Officina, ma anche la sua prima opera pubblicata in lingua italiana, proprio Le ceneri di Gramsci, (1957), che resta uno dei vertici dell’opera poetica, insieme a La religione del mio tempo e in parte anche Poesia in forma di rosa, che è del 1961.
Nel saggio ricordato, l’idea di sperimentalismo che viene avanzata è quella di una lotta innovatrice nella cultura e nello spirito. È un nuovo orizzonte culturale quello che Pasolini auspica e non semplicemente il rinnovamento della lingua della poesia; nel dire questo, egli pone per primo la necessità di uscire dal Novecento. Questo a me pare un punto d’irriducibile differenza con la neo avanguardia.
Quanto a Le ceneri di Gramsci e La religione del mio tempo, anch’essi sono esempi della distanza che separava Pasolini dalla sperimentazione neo avanguardista. Gli elementi salienti di differenziazione mi paiono tre: la scelta poematica, la materia epica seppure spuria, il corto circuito fra scelta metrico stilistica improntata a un forte legame con la tradizione (la terzina dantesca, l’endecasillabo) e un lessico popolare che recupera tutto il meglio dello stesso realismo; l’assenza in Pasolini di ogni intento volto allo scardinamento sintattico della lingua e ad un’esaltazione pirotecnica del significante. La valenza sperimentale, invece, si colloca proprio al livello in cui Pasolini la voleva: un rinnovamento dello spirito che indicasse un orizzonte culturale nuovo rispetto a quello in cui erano nati l’ermetismo in periodo fascista e il neorealismo del dopoguerra.
Nonostante gli elementi spuri a me pare che le due opere e in parte anche Poesia in forma di rosa siano da riportare proprio al genere epico, sia per la materia (la storia, la società, la condizione della comunità e non importa, a questo proposito, che Pasolini sentisse la fine di questa storia e ne vivesse la tragicità), sia per le scelte metriche; spuri perché segnati in contro canto da una memoria soggettiva interiore, quasi intimista (quello che è stato definito un canzoniere intimo alla Machado), estranea al genere epico per come lo conosciamo, se manteniamo ferma nel tempo la definizione stessa di epica. Chi ha detto però che il genere epico non possa, nel tempo, assumere al proprio interno contenuti e forme che non gli appartenevano all’origine? La stessa poesia lirica si è rivolta a temi che non le erano tradizionali. Non bisogna poi dimenticare che per Pasolini ciò che altri potevano leggere come elementi di un canzoniere intimo, venivano da lui considerati in ben altro modo. Per lui la condizione di omosessuale escluso non è l’irruzione nella partitura della grande storia di un elemento di biografismo, o non è semplicemente questo (se mai lo diventa nei momenti di caduta della poesia); bensì la metafora di una più generale emarginazione dei popoli del terzo mondo, dei borgatari romani, dei sotto proletari ecc. ecc. Discutibile o meno che sia tale convinzione, il punto di vista soggettivo che Pasolini introduce in contro canto non ha nulla a che vedere a mio avviso con un recupero dell’io biografico dell’artista.
Antimoderno
C’è infine un ultimo elemento da considerare poiché in questo Pasolini è stato davvero un caso unico nel secondo dopoguerra, per gli artisti della sua generazione: parlo della sua irriducibile anti modernità e della ricerca di mondi arcaici che lo portavano sempre più lontano dall’Occidente. Per anti modernità costituzionale intendo anche il fatto che Pasolini non ha mai introiettato l’idea della fine del mandato, cioè la convinzione che nella società moderna al poeta non spettasse più il compito di rappresentare la voce profonda di un’epoca o di un popolo. Questo mandato Pasolini lo ha conservato e praticato in pieno, si è posto senza remore e vergogne come un maître à penser in quanto artista. Un altro aspetto altrettanto importante della sua anti modernità è l’avere inseguito un’idea di opera totale, attraversando tutti i mezzi espressivi per approdare anche al cinema, certamente il più moderno di tutti, ma sempre in un’ottica che definirei leonardesca, piuttosto che a valorizzare l’apporto della tecnica nel senso della riflessione di Benjamin. La sua non accettazione del moderno, che in alcuni momenti può essere certo viziata da un volontarismo ingenuo, ne fa un autore lontano da un altro cliché che gli è stato indebitamente attaccato addosso: quello di essere un maledetto. C’è in lui troppo senso di colpa da un lato e troppo scandalo per la tragicità della secolarizzazione per presupporlo. Nel maledetto, almeno in quello moderno che ha in Rimbaud il padre (Rimbaud che – sia detto fra parentesi – Pasolini non amava), c’è sempre il disincanto, mentre in Pasolini c’è il dolore mai risolto, la ferita aperta che non si chiude mai. Di questo risentirà sempre la sua poesia, anche come limite; ma l’estetica del disincanto che poi finirà di passo in passo nel nichilismo non lo attirerà mai, neppure nei momenti più narcisisti che pure non mancano.
Il maledetto moderno è un dandy disincantato che fa della scissione della personalità non una materia di problematica sofferenza, bensì il suo punto d’onore. I grandi maledetti della contemporaneità sono i tecnocrati, gli gnomi della finanza, quelli che si travestono dal giovedì sera alla domenica da maledetti, ma che rientrano nell’ordine (anzi ne sono le colonne portanti) ogni lunedì mattina.
Rispetto a questa irriducibile anti modernità è pur vero che nella parte finale della sua vita Pasolini si sentiva sconfitto ed era giunto alla convinzione che la sua disperata vitalità non bastasse più. Vedeva i suoi amici intellettuali e gli altri poeti in preda a una deriva inarrestabile, vedeva l’omologazione venire avanti senza contrasti. È il periodo più oscuro per me della sua produzione poetica, quello in cui sembra arrendersi alle ragioni della neo avanguardia che pure aveva così aspramente combattuto. Trasumanar e organizzar è un’opera in cui Pasolini sembra rinnegare molto della sua opera poetica precedente in lingua italiana. Nella parte finale c’è una cesura (che comincia di già in Poesia in forma di rosa), che del resto Pasolini aveva anche chiaramente indicato. Nel motivare la sua scelta quasi esclusiva per il cinema Pasolini aveva affermato che riteneva la lingua della poesia e la poesia stessa fossero state sconfitte dalla modernità. Per questo parlo di una resa per Trasumar e organizzar. In quest’opera l’impoetico, l’estetica del brutto, il verso libero senza misura, quasi con un’esibizione, come se stesse dicendo alla neo avanguardia, vedete che se voglio queste cose le so fare anch’io, l’andare verso quella poesia in prosa, ecco tutto questo mi sembra una sorta di resa. Così come un’altra forma di resa mi sembra il suo ritorno tardivo al dialetto friulano; La nuova gioventù, pubblicata nel ’75 pochi mesi prima della morte, è un ricamo manierista intorno alle due opere del suo esordio. Era convinto che la sua fosse stata una battaglia perduta, ma se si guarda a quello che aveva fatto in così pochi anni, c’è da rimanere ammirati. Forse era vero che all’interno di quella vicenda del dopoguerra Pasolini avesse dato fondo a tutte le risorse a sua disposizione per contrastare la logica dei tempi; anche se tutto questo è comprensibile, tuttavia vi è un fondo oscuro nella parte finale della sua vita artistica, quasi una metafora, il presentimento di una fine tragica fine.