SUL DIBATTITO INTORNO AL PATRIARCATO

8 marzo

Le recenti riflessioni di Massimo Cacciari sul patriarcato stanno facendo discutere. Le argomentazioni del filosofo sono bizzarre e cervellotiche, ma comunque contengono spunti con i quali la discussione è possibile, a differenza di molti altri interventi maschili, perlopiù giornalistici, che oscillano fra ignoranza, dileggio e, passando per il sarcasmo, sfiorano nei casi più efferati un linguaggio che è istigazione a delinquere.

A Cacciari ha risposto Nicola Fanizza nel brano qui di seguito che getta uno sguardo su diversi altri problemi:

Quando Cacciari dice che il Patriarcato è finito con l’avvento del Rinascimento si sbaglia. Di fatto, nel XV secolo, cominciò ad affermarsi la famiglia mononucleare – composta dai soli genitori e figli – in luogo del Patriarcato o famiglia allargata. Lo sviluppo dello spazio sociale divenne il fuoco da cui si originò il Rinascimento, che va inteso come rinascita del soggetto, di un soggetto che dice il vero.

Così, a partire da quel periodo, il soggetto che dice il vero, però, non sarà più, a differenza di quando avveniva nel mondo ellenico, solo l’uomo bensì anche la donna. Non è un caso che quest’ultima, come Sibilla, venga rappresentata dai pittori del tempo non più come un viatico, come ciò che agevola il transito dell’uomo verso la verità, bensì come una donna che pensa, come una donna che dubita, come una donna che dice il vero. Insomma come un soggetto autonomo.

Fu, tuttavia, solo l’inizio. Il Rinascimento – e questo Cacciari non l’ ha capito, è stato e si configura ancora oggi come un’onda lunga, un onda che non si è ancora esaurita. Il Patriarcato, infatti, esiste tutt’ora, è onnipervasivo, pervade e avvelena ancora lo spazio sociale, impedendo alle donne di pervenire alla loro autonomia, alla loro libertà.

A questo intervento sono seguiti altri commenti che si trovano sulla mia pagina facebook: tutti contengono riflessioni importanti e a quelli rimando.

Adele Cambria, in un’intervista di alcuni anni fa e riproposta di recente a Radio Popolare sosteneva che se si parla solo di patriarcato senza aggiungere che esso è in crisi in tutto il mondo, si rischia di cogliere solo un aspetto della realtà attuale e neppure il più importante. Dall’Iran agli Stati uniti, dalle manifestazioni in Europa e anche in America latina, dove le associazioni femminili delle comunità indigene svolgono un ruolo di primo piano anche nel mettere in discussione la natura patriarcale di governi apparentemente progressisti come era quello di Evo Morales.

Il dominio maschile assume in tale contesto caratteristiche nuove: in Italia, una minoranza di uomini, di cui molti giovani, che si muovono come un’avanguardia acefala dentro un mare di complicità indirette, pretende di esercitare un dominio basato solo sulla violenza fisica e la forza; ma non si tratta del ritorno all’orda primitiva come sostiene una parte della cultura di destra, ma di una reazione violenta alla perdita di autorevolezza, potere e privilegi.

Si aprono qui due problemi a mio avviso: uno riguarda la cultura più reazionaria e di destra che sostiene che il patriarcato non esiste più e che trova svariati echi anche in atri settori dell’opinione pubblica. Il contrasto a questa deriva che è mondiale anch’essa nelle diverse forme che assume, rimane fondamentale, ma a patto che si ragioni sui limiti della cultura democratica e di sinistra. Il femminicidio di Giulia Cecchettin segna a mio avviso in Italia una svolta importante anche nella consapevolezza maschile e questo è testimoniato da livore con cui la parte più reazionaria sta reagendo; ma il problema principale rimane l’altro e cioè i limiti della risposta democratica e di sinistra.  

Alisa Del Re sul Manifesto del 2 dicembre scorso ha pubblicato un articolo che – a mio avviso – ha un inizio davvero singolare, Cari compagni. La prima cosa che ho pensato è stata: ma a chi si rivolge? Perché se si tratta di un modo di ritornare al conflitto degli anni ’70 che vide a un certo punto la sinistra extraparlamentare di allora entrare in rotta di collisione con i nascenti femminismi, il titolo ha un senso perché quelli compagni lo erano, nel senso che ragionavano almeno in termini anticapitalistici. Compagni oggi che cosa vuole dire? C’è qualcuno che ragiona in termini anticapitalistici? Ho pensato allora che fosse un modo di tendere la mano: finalmente avete capito gli errori di allora e si può tornare a ragionare insieme su qualcosa. La strada è certamente questa, ma il problema sta nel fatto che se si parla a quella generazione, che è anche la mia, si rischia di rimanere confinati nella nostra memoria, legittima, ma poco capace di intercettare le giovani generazioni. L’anticapitalismo, per le ragioni più diverse, sembra fuori dalle agende di tutti i movimenti che tutt’al più si limitano a criticarne gli aspetti più feroci. E laddove sembra esistere ancora, per esempio fra i gruppi iper leninisti, ma senza Lenin, esso si traduce in pratiche oscillanti fra il grottesco e il drammatico. Il problema però rimane: come coniugare nei termini oggi attuali un percorso che sia anticapitalistico ma con l’agenda femminista? Come coniugare diritti sociali e diritti civili? Alcune indicazione nel finale dell’intervento di Alisa Del Re ci sono e per quanto riguarda il ruolo che gli uomini possono avere è a mio avviso il solito, fatto di poche cose: rifiuto delle complicità indiretta, rifiuto del linguaggio sessista anche a costo di rompere relazioni, evitare le cene maschili basate sul pecoreccio, un po’ di fantasia e di immaginazione nell’inventare momenti collettivi di riflessione e testimonianza.

NIENTE SILENZIO, FARE RUMORE

Black Monday in Polonia

Premessa

Il femminicidio di Giulia Cecchettin sta suscitando un dibattito che è il sintomo di una società profondamente malata. Lo sapevamo già, ma ci sono momenti in cui avvengono dei salti di qualità e credo che in questo abbia influito anche la recente diffusione e ancor più il successo di massa del film di Paola Cortellesi C’è ancora domani.

Il dibattito.  

Il profluvio di analisi psicologiche e di autoflagellazioni maschili da cui siamo invasi trascura quasi sempre le ragioni strutturali e patriarcali della violenza maschile sulle donne, la cui estensione per età a maschi sempre più giovani chiama in causa tutto il processo educativo.

Mi sembra siano tre le mistificazioni più importanti, di cui una nuova particolarmente pericolosa, perché fatta propria anche da intellettuali non reazionari. La riassumo in poche parole così:

Il patriarcato ha delle regole, mentre quello cui stiamo assistendo è un ritorno all’orda primitiva maschile pre patriarcale. La sintesi: meglio il patriarcato che è pur sempre – specialmente in Europa aggiunge qualcuno – un mondo di regole in cui vi è spazio anche per i diritti delle donne.

Questa sintesi contiene un falso e molte mistificazioni. Scambiare per realtà la fiction antropologica di Freud sull’orda primitiva trasporta in un passato arcaico e originario un processo contemporaneo che ha tutt’altre motivazioni. Quanto alla fiction in sé, le acquisizioni recenti della paleo antropologia dovrebbero consigliare almeno la prudenza quando si fanno certe ipotesi. Mi sembra importante, a questo proposito, la lettura di un libro come L’alba di tutto di David Graeber e David Wengrow. I processi di imbestiamento (anche linguistico, come si evince leggendo certi articoli della destra più feroce) di una parte del mondo maschile sono un fenomeno modernissimo e rappresentano l’aspetto più appariscente di una reazione ben più vasta, che ha declinazioni diverse in contesti diversi ma una causa comune: reagire con violenza ai processi di liberazione delle donne. Faccio alcuni esempi che sembrano in apparenza lontani da noi. A vedere certe fotografie afgane degli anni ’50 e ’60 c’è da rimanere allibiti: donne che frequentavano l’università, abiti per nulla velati ecc. Com’è possibile? Sono sempre esistite delle minoranze emancipate anche in contesti di regole patriarcali severe, ma a un  patto e cioè che si trattava di privilegi concessi a minoranze. Le cose sono cominciate a cambiare quando la massa delle donne ha rivendicato i propri diritti. Le repressioni di parte islamica più forti sono avvenute laddove le donne erano state protagoniste: le algerine, per esempio, che avevano partecipato in massa alla lotta di liberazione contro la Francia. In sostanza, se non ci si ribella, c’è sempre una minoranza emancipata che può farcela. Mutatis mutandis è quanto avviene oggi in Italia seppure in forme meno efferate ma altrettanto violente. Chi afferma che il patriarcato è un mondo di regole, dice in realtà un’altra cosa: state al vostro posto e qualcosa vi verrà concesso. Oppure ancor meglio – come accade nel film di Paola Cortellesi: devi stare zitta, ripete ossessivamente il personaggio più odioso del film, il nonno.    

La seconda mistificazione mescola insieme elementi psicologici arrivando in qualche caso a definire Filippo Turetta – alternativamente – un malato o un bravo ragazzo. La sintesi è la condanna del delitto ma la negazione del femminicidio. Si punisce al massimo il crimine individuale, ma si negano le ragioni strutturali. Come ha scritto Elena Cecchettin, la sorella di Giulia, Turetta non è un malato ma un figlio sano del patriarcato. La fragilità maschile esiste eccome, ma invocarla in circostanze come queste non significa voler fare i conti con essa, ma cercare delle giustificazioni. In ogni caso, a chi volesse davvero uscire dal modello virilista e confrontarsi seriamente con la propria fragilità, consiglio per l’ennesima volta di leggere il libro di Edoardo Albinati: La scuola cattolica.

La terza mistificazione, di cui sono responsabili prima di tutto le forze di destra, sono i discorsi generici sull’educazione al rispetto, il piano presentato oggi dal Ministro, un guazzabuglio di false buone intenzioni. La versione leghista delle medesime false buone intenzioni consiste nell’affidare tutto alla famiglia. Sappiamo da tempo dalle statistiche che è nelle famiglie che si consumano le violenze di genere più diffuse. La famiglia non è mai stata un luogo idillico, ma non lo è neppure nella versione hollyvoodiana che viene veicolata da fiction statunitensi come Modern family, riverniciate di modernità e di ammiccamenti al mondo LGBTQ. Il familismo italiano, inoltre, ha un bagaglio assai pesante sulle proprie spalle, che non è patrimonio soltanto della cultura di destra, ma deriva anche dalla cesura che negli anni ’70 si produsse fra la sinistra vecchia e nuova e il femminismo. Andare avanti su una strada minimamente consapevole è togliere queste problematiche dall’ambito privato e familista e riportarle nello spazio pubblico, con lotte mirate e determinate per aumentare e sostenere i centri antiviolenza autogestiti, promuovere e consultori presidi territoriali, far funzionare reti di supporto che favoriscano le denunce.

Il film.

La pellicola di Paola Cortellesi merita un discorso critico importante perché si tratta di un film molto significativo e non solo di un’opera che ha saputo parlare a una platea molto vasta e mi piace pensare che l’ondata di sdegno seguita al femminicidio di Giulia Cecchettin ma anche certi discorsi che si smarcano dai dibattiti più penosi, siano anche il segno che questo film ha seminato una consapevolezza importante in un pubblico vasto, trasversale e non soltanto femminile. Tre mi sembrano i motivi forti della sua narrazione e del montaggio: la capacità di giocare con tutti i cliché che il tema poteva suggerire riuscendo, con alcune mosse spiazzanti, a evitarli tutti ma sempre all’ultimo momento. Dall’uso del bianco e nero, al neorealismo, dalla finzione di far credere a chi vede il film che forse la fuga di Delia sarà con il vecchio carrozziere verso il nord mentre invece quando corre per recarsi al voto e passa davanti alla sua autofficina non si volta neppure verso di essa perché ha da fare qualcosa di molto più importante. Il secondo aspetto è il modo in cui le scene di violenza, solo accennate, si coniugano a un linguaggio musicale che scimmiotta quanto di più ipocrita si nasconde dietro il sogno d’amore. Infine, ma senza rivelare cosa accade per non togliere il gusto di vederlo a chi il film non lo ancora visto, il modo geniale in cui Delia manda all’aria il matrimonio della figlia sfruttando la violenza che il mondo maschile esercita su di loro e rivolgendogliela contro. Quanto all’ambientazione del ’46 e dunque nell’Italia della scelta fra monarchia e repubblica, non condivido quelle critiche che ne fanno una scelta poco comprensibile. Non le condivido perché Cortellesi non parla affatto del 1946 e ancora una volta gioca con il cliché per poi smarcarsi dal medesimo. Il film metabolizza il femminismo ma lo fa in modo traslato: una scena come quella in cui Delia affossa il matrimonio della figlia sarebbe impensabile senza gli anni ’70. Il 1946 è il dito che mostra la luna, il suo film non è il sogno di una cosa del passato (il voto alle donne), ma evoca un domani che ancora non c’è.

Qualche proposta.

La prima

Niente minuti di silenzio ma molto rumore, continuo e possibilmente sempre più forte. Questa mi sembra la prima cosa da dire e fare anche per essere vicini a Elena Cecchettin, che si è esposta con dichiarazioni molto forti.

La seconda

La mobilitazione degli uomini e le sue forme. In passato ho espresso perplessità su manifestazioni di massa di uomini che si sono tradotte in poche iniziative con molte contraddizioni. Tuttavia, l’intervista di Ciccone a Radiopopolare di qualche giorno fa mi sembra importante e quindi se arrivano proposte ben vengano: meglio se sono diffuse sul territorio. Continuo però a pensare che la rottura di complicità indirette con il gruppo maschile sia il modo per far venir meno la solidarietà fra maschi: le cene di soli uomini dove il pecoreccio è dietro l’angolo sono da evitare sempre.

La terza

Utilizzare il libro di Albinati La scuola cattolica per letture pubbliche non stop che continuino per ore, alternandosi al microfono con commenti e altro. Si può fare in teatri, in situazioni di massa o anche più modeste quantitativamente ma diffuse nel territorio.

La quarta

Boicottare in modo sistematico quei prodotti che veicolano messaggi sessisti – sia in forma diretta sia indiretta – nella loro pubblicità. Rispondo all’obiezione sulla impossibilità di farlo, vista il largo uso di pubblicità sessiste, che alcune esperienze fatte altrove invece smentiscono tale impossibilità. Non si tratta di boicottare tutto, ma di scegliere di volta in volta uno o due prodotti e bandirli per un periodo sufficientemente lungo per fare danni. Non bisogna dimenticare che quello da cui siamo oppressi è pur sempre una combinazione di patriarcato e capitalismo e che ciò che spaventa i maschi al governo di tutte le colorazioni politiche è la possibilità di interrompere il flusso delle merci. Altrimenti, anche la denuncia del sessismo nella pubblicità rimane confinato nell’ambito delle opzioni morali senza alcuna conseguenza politica.

QUALCOSA SI MUOVE IN ISRAELE E A WASHINGTON

Introduzione

Le due lettere del maggiore israeliano – quella di luglio e quella più recente inviata al New York Times:  

Ora è il tempo della guerra, ma i palestinesi non sono il nemico

stanno facendo il giro del mondo. Nessuna illusione che le sue parole possano influire sull’oggi ma l’esempio di Nir Avishai Cohen come quello delle decine di migliaia di disertori ucraini e russi, fanno comunque ben sperare per il futuro. Le considerazioni dell’ufficiale israeliano della riserva, che ha scritto anche un libro dal titolo Love Israel, support Palestine, si prestano però a una riflessione più ampia, anche perché fra la presa diposizione di luglio e l’ultima lettera ci sono differenze e un’ambiguità di fondo che non viene sciolta ma che dimostra comunque un fatto incontrovertibile: il fronte interno di Israele può incrinarsi molto più di quanto appaia in superficie. Riporto per intero la dichiarazione del luglio scorso come è comparsa in rete, poi alcuni stralci della lettera al quotidiano newyorchese.

Mi rifiuto. Io, Nir Avishai Cohen, maggiore in Mill, numero personale 701874, ufficiale AGM della Brigata di fanteria, annuncio a malincuore il rifiuto. Mi rifiuto di continuare a servire nell’IDF, un esercito di un paese non democratico.

È importante per me sottolineare, non sono un volontario, servo in una riserva rispettosa della legge. Sono consapevole delle conseguenze che la mia dichiarazione può avere e sono pronto ad accettare con tutto il cuore, anche sedervi in galera. Un ordine di coscienza mi proibisce di far parte dell’esercito.

Più di chiunque altro oggi penso a mia nonna, Leah RIP, quella sopravvissuta ad Auschwitz ma tutta la sua famiglia è stata uccisa lì.

In questo giorno in cui annuncio il mio rifiuto di servire nell’esercito di un paese non democratico, penso a lei. La sua storia privata, che fa parte della storia nazionale del popolo ebraico, ci ha insegnato l’obbligo di rifiutare.

Non c’è una sola persona nel paese d’Israele che non sarebbe disposta a tornare nella macchina del tempo in Germania del 1933, un attimo dopo che aveva cessato di essere democratica, e urlare nelle mie orecchie tutti i soldati, che non gli è permesso servire l’esercito di un paese non democratico. Questo è un dovere rifiutare. Possiamo solo immaginare cosa sarebbe successo se nel 1933 decine di migliaia di ufficiali e soldati si fossero rifiutati di continuare a servire nell’esercito tedesco.

Così, molto prima che qualcuno pensasse che gli orrori di Auschwitz potessero accadere, i soldati hanno dovuto rifiutare.

Ho prestato servizio nell’IDF per 24 anni. Regolarmente come ufficiale di combattimento nella Golani, e successivamente in servizio di riserva come comandante di compagnia, Stato Maggiore Generale e ora come ufficiale di Divisione AGM. Ho rischiato la vita, ho perso i miei buoni amici. Vengo sempre quando mi chiamavano, per tutta la fede di non avere altro paese, che è mio dovere.

Sono stato chiamato ogni anno per decine di giorni di riserva, solo nell’ultimo anno ho scontato 41 giorni del genere. Giorni in cui ho lasciato la mia casa e tutte le mie occupazioni e ho dato il mio contributo alla difesa del paese.

Non è un segreto che da qualche anno ho avuto una critica acuta alle gesta di FDI nei territori occupati, ci ho anche scritto un libro. Ma nonostante questo ho deciso di continuare a servire. Vero, non nei territori occupati ma in difesa del confine meridionale e legittimo d’Israele. Anche se con molta contemplazione alla luce di quanto sta accadendo nei territori, ho continuato a servire. Di tutte le innumerevoli volte che ho indossato una divisa mi sono ricordato di nonna Lea. Mi sono sempre ricordato che è tornata e ha detto che la nostra famiglia deve contribuire alla sicurezza di questo paese, che l’Olocausto non sarebbe avvenuto in quale paese e i suoi militari sarebbero esistiti. Ho deciso che da una parte continuerò a servire nelle riserve e dall’altra farò del mio meglio come cittadino per influenzare e cambiare le politiche governative. Finché il paese è democratico ci ho trovato senso, anche se sono stato criticato per la mia decisione da entrambe le direzioni, destra e sinistra.

Un dato di fatto è che un regime antidemocratico usa l’esercito, la polizia e le altre forze di sicurezza, per i bisogni personali e i desideri dei governanti, non per i veri bisogni della difesa del paese. È giunto il momento di guardare onestamente alla realtà, Israele non è riuscito ad essere un paese democratico, anche quello all’interno delle aree della linea verde. Le leggi vigenti sono solo l’inizio, molte leggi orribili, antidemocratiche, in procinto di essere promulgate. Molti gruppi di popolazione stanno affrontando un vero pericolo. Arabi, donne, persone LGBT saranno le prime a essere ferite all’interno della linea verde. Nei territori occupati aumenteranno le sofferenze della popolazione palestinese e continuerà a versare sangue palestinese in quantità.

La storia dimostra che un regime antidemocratico può richiedere all’esercito di commettere atrocità, certamente un regime dove i governanti sono Smotrich, Ben Gvir e la loro banda razzista e messia. Non molto tempo fa Bezalel Smutrich, che è anche ministro del Ministero della Difesa, chiamato “Erase Havara”, chiamata che potrebbe sicuramente diventare un ordine. Pertanto l’obbligo di rifiutare oggi può prevenire gli orrori del domani.

La storia insegna che quando gli orrori che l’esercito richiederà di fare saranno accompagnati da propaganda velenosa, sarà troppo tardi, i soldati “semplicemente adempiranno agli ordini”. Quindi non c’è scelta, ora è il momento.

In questo momento difficile penso a mia nonna. Penso quale sarebbe il destino della sua famiglia, se nel 1933 una massa critica di ufficiali e soldati si rifiutasse di servire.

Oggi faccio la mia modesta donazione, tutto sommato una maggiore semplice e poco importante. Una donazione sotto forma di rifiuto pubblico di servire nell’IDF.

Guardo il cielo ora e dico a mia nonna orgogliosa, piena di lacrime di tristezza, che non sono pronta ad essere una di quelle che “seguono solo gli ordini”, che ho imparato questa lezione anche dalla sua storia privata, che è la storia di tutti noi. Da oggi non faccio più parte dell’esercito del paese d’Israele, un paese non democratico.

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Poiché la sua lettera al New York Times è facilmente reperibile in rete ed è riportata in molti siti facilmente consultabili, non continuerò a ripetere le fonti delle citazioni che riporto.

Prigionieri di minoranze religiose

La prima considerazione importante mi sembra questa:

Milioni di palestinesi che vivono qui con noi tra il mare e la Giordania non sono nostri nemici. Proprio come la maggior parte degli israeliani, anche la maggior parte dei palestinesi vuole semplicemente vivere la propria vita in pace e dignità. Il popolo ebraico e il popolo palestinese sono prigionieri da decenni di una minoranza religiosa violenta  

La conclusione del ragionamento è che “La guerra si poteva evitare, ma ora è troppo tardi. Poi prosegue così:

Come tutte le innumerevoli volte in cui ho prestato servizio nella riserva, anche questa volta, finché sarò in divisa, non scriverò qui le mie opinioni personali – continua – Ma prima di tacere vorrei scrivere qui alcuni miei pensieri”. E li elenca: “Non c’è nulla al mondo che possa giustificare il massacro di centinaia di persone innocenti”. E poi ; “Adesso è tempo di guerra, la prima cosa in questo momento è proteggere la casa, il Paese. Non confondiamoci, questa non è una “guerra senza scelta”, si poteva evitare, ma ora è troppo tardi. Ora non c’è altra scelta che imbracciare le armi e difendere i cittadini di Israele. Difenderò il mio paese dai nostri nemici. I nostri nemici sono organizzazioni terroristiche assassine controllate da estremisti islamici. Al massacro di israeliani innocenti non deve corrispondere il massacro di palestinesi innocenti. È importante ricordare che il popolo palestinese non è nostro nemico”. Questa guerra prima o poi finirà. Alla fine entrambe le nazioni dovranno fare i conti con i leader.

Sulla ricostruzione storica del confitto ci sarebbe molto da dire, ma è tuttavia a importante  questa presa di posizione anche per quello che dice alla fine e cioè che sono i leader di entrambi gli schieramenti a tenere prigionieri i due popoli.

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Qui di seguito riporto dal sito Terra Madre l’iniziativa delle donne israeliane ed arabe che il giorno 6 ottobre, prima dell’inizio del conflitto, hanno manifestato insieme. Il documento invece è di ieri.

IL GIARDINO DI LIMONI

Il grido delle madri: «Fermatevi e trattiamo per gli ostaggi»

Terra Madre

Manuela Borraccino

18 ottobre 2023

Le attiviste ebree e arabe di Women Wage Peace: «Chiediamo al governo israeliano di iniziare trattative immediate per il rilascio degli ostaggi e di includere le donne nei negoziati con i palestinesi. Non è possibile che ci siano solo uomini a guidare il Paese fuori da questa crisi».


«Scioccate, ferite, in ansia, eppure continuiamo a chiedere un accordo di pace». Comincia così la dichiarazione del movimento di Women Wage Pace (che raduna 44mila attiviste israeliane, ebree ed arabe) redatta nei giorni scorsi, dopo il massacro di 1.300 israeliani da parte di Hamas nei kibbutz di frontiera con la Striscia di Gaza, avvenuto solo tre giorni dopo l’ultima marcia pacifista a Gerusalemme e sul Mar Morto. Una strage, quella del 7 ottobre, durante la quale sono state catturate, tra i 199 ostaggi, anche una delle fondatrici del movimento, la 74enne Vivian Silver, che da decenni è membro attivo di organizzazioni femministe miste israelo-palestinesi (nel kibbutz Be’eri) e Ditza Heiman, madre dell’attivista Neta Heisman (nel kibbutz Nir Oz).

Nel dolore per la mattanza perpetrata da Hamas e per le migliaia di vittime altrettanto innocenti provocate dalla rappresaglia israeliana nella Striscia di Gaza, «come madri ebree ed arabe con diverse opinioni e posizioni, piombate dentro questo film spaventoso e folle», si legge nel comunicato, «chiediamo al governo israeliano di iniziare immediatamente delle trattative per il rilascio degli ostaggi. Facciamo appello alla Croce Rossa e alla comunità internazionale di garantire la loro sicurezza e agire per la liberazione immediata. Chiediamo che Israele impedisca che prenda fuoco anche la Cisgiordania e non permetta agli estremisti di entrambe le fazioni di istigare la regione, come già avvenuto la scorsa settimana». «Questa guerra dimostra oggi più che mai che il concetto di gestire il conflitto è fallito. L’idea di posticipare all’infinito la risoluzione del conflitto si è dimostrata fondamentalmente sbagliata».

Le attiviste fanno riferimento anche alla Risoluzione Onu 1325 del 2000 Donne, pace e sicurezza sull’obbligo (finora disatteso nella maggior parte dei conflitti mondiali) di inserire negoziatrici donne nelle trattive di riconciliazione e in generale tra i decisori. «Siamo nel 2023 eppure non ci sono quasi donne nei circuiti dove si prendono le decisioni in Israele. Questa è una situazione intollerabile che deve cambiare. Chiediamo che il team negoziale per la liberazione degli ostaggi includa delle donne. Non è possibile che ci siano soltanto uomini a guidare il Paese durante questa crisi».

La dichiarazione passa in rassegna l’angoscia, lo sgomento, la preoccupazione, il senso di impotenza che le madri di entrambi i popoli stanno provando da 11 giorni di fronte al nuovo conflitto. «Dobbiamo unirci a tutte le donne del mondo per fermare questa follia. Le nostre parole possono suonare ingenue e irrealistiche, ma questa è la verità: ogni madre, ebrea e araba, mette al mondo i propri figli per vederli crescere e fiorire, non per seppellirli». Per questo le attiviste chiedono al governo israeliano «di considerare i propri passi e le proprie azioni in modo responsabile e morale e prevenire morti inutili di civili e di soldati e, allo stesso tempo, laddove possibile, di impedire danni agli innocenti a Gaza».

Chiedono altresì risposte a queste domande: «Un’invasione di terra, la distruzione di Gaza, costringere un milione di palestinesi a lasciare le proprie case… tutto questo porterà forse a un futuro di sicurezza? E che cosa accadrà il giorno dopo? Non è forse essenziale dare la priorità alla liberazione degli ostaggi? I nostri leader cosa rispondono?». Dopo tutti gli sforzi fatti per stimolare l’adesione al movimento anche di cittadine arabe israeliane, le firmatarie della dichiarazione chiosano: «Dobbiamo rafforzare la solidarietà e unità fra il pubblico ebraico e arabo in Israele e continuare ad agire contro il razzismo e l’odio. Il pubblico arabo, che ha convissuto per anni con il dissidio interno di essere cittadini di Israele e parte del popolo palestinese, ha marciato insieme a noi in questi difficili tempi di crisi per la salvezza dell’intera società in Israele».


Infine la diretta mandata in onda dal Corriere del Ticino sulla manifestazione che negli Usa. In Italia questa notizia è stata data dalla Sette, e da Radio popolare. Di seguito tutti i link per chi volesse approfondire le questioni

10 ore fa — Migliaia di manifestanti di associazioni ebraiche hanno marciato mercoledì a Washington per chiedere il cessate il fuoco immediato fra Israele e …

https://tg.la7.it/esteri/washington-la-manifestazione-gli-ebrei-pacifisti-pro-palestina-500-arresti-19-10-2023-196476

11 ore fa — Decine di ebrei americani manifestano al Congresso per chiedere il cessate a fuoco a Gaza. Le immagini mostrate da media americani mostrano …

https://www.cdt.ch/news/mondo/manifestanti-al-congresso-usa-chiedono-il-cessate-il-fuoco-330757

MASCHIO NON PIÙ GUERRIERO? UNA PICCOLA O GRANDE SPERANZA

Elogio della diserzione

Premessa

Finalmente, il Manifesto ha rotto il silenzio della stampa mainstream e delle televisioni italiane sulle diserzioni di massa sia in Ucraina sia in Russia: prima di questo articolo era stato il quotidiano Avvenire a sollevare il problema e durante lo scorso anno molte iniziative si sono tenute in Italia a sostegno dei pacifisti russi e ucraini. Ne ricordo due di cui una si è tenuta presso il CIQ a Milano; sempre nel silenzio dei media.  L’articolo dal titolo:  

I PACIFISTI RUSSI E UCRAINI NON FANNO NOTIZIA!

è stato poi ripreso in facebook dal sito Il cuore a Sinistra e sta finalmente girando. Naturalmente è una goccia nel mare dell’informazione inquinata, se guardiamo tutto dal punto di vista dei signori della guerra italiani e dei loro pifferai, ma se lo guardiamo dal lato delle cifre imponenti del fenomeno, i numeri fanno di certo paura ai guerrafondai e il loro silenzio è anche di paura. Certo, in occidente, hanno già provveduto da tempo a smantellare gli eserciti di massa e puntare tutto sui guerrieri di professione, ma quanto sta accadendo ha una grande importanza. La guerra comincia a non attirare più come un tempo? Gli uomini cominciano a sottrarsi? In ogni caso, il fenomeno non è soltanto uno spontaneo moto di ribellione. Ecco qui di seguito l’introduzione riportata in Il cuore a sinistra e le indicazioni di tutti i link per avere maggiori informazioni 

Di renitenti alla leva e disertori si continua ben comprensibilmente a riferire con la massima circospezione nelle cronache belliche del nostro Paese.

Tuttavia, ‘The Economist’ e altre testate di rilievo internazionale, anche polacche e tedesche, seguitano a pubblicare inchieste su un argomento sgradito in Occidente.

Il fenomeno è diffuso tanto in Russia quanto in Ucraina: https://m.facebook.com/groups/248463850589095/permalink/648036947298448/.

Il ‘Bild’, primo quotidiano per diffusione in Europa, riporta i dati del Ministero dell’Interno tedesco: “163.287 ucraini maschi e normodotati” hanno riparato in Germania dall’inizio del conflitto allo scorso marzo.

Analogamente il quotidiano polacco ‘Rzeczpospolita’ riferisce che nello stesso periodo 80mila giovani idonei alla leva si sono trasferiti nel Paese senza far ritorno in patria.

Numeri alti, se rapportati alla politica di Zelensky incentrata sul patriottismo militarista.

Andrea Sceresini, giovane e audace giornalista di guerra, ne dà conto su ‘Il Manifesto’ di ieri.

#Russia

#Ucraina

#renitentiallaguerra

Fin qui l’articolo e i link. Che riflessione possiamo trarne? A parte la necessità di solidarizzare sempre e in tutte le forme possibili con i disertori di entrambe le parti, il problema maggiore è come aggirare il silenzio dei media e allora ricostruire le ragioni per cui l’industria della armi e della guerra è così fiorente in Italia può aiutare a comprendere meglio perché tale unanimità. La prima riflessione riguarda l’assetto industriale italiano. Le eccellenze sono poche, ma per quel che riguarda questa riflessione solo una è veramente interessante e cioè Finmeccanica che oggi si chiama Leonardo. Si tratta di un’azienda di punta nel settore della ricerca spaziale e degli armamenti. I dati sono impressionanti e la sintesi che ne segue incrocia quelli riportati da diversi siti reperibili facilmente in rete:

Leonardo scala posizioni nella classifica mondiale delle vendite di armi redatta dall’istituto indipendente svedese Sipri. Secondo i dati raccolti dall’istituto da fonti aperte, il gruppo italiano ha realizzato vendite per circa 13,9 miliardi nel 2021 con un incremento del 18% sull’anno precedente.

Subito dopo il varo del governo Meloni ci sono state diverse inchieste sul confitto di interessi del ministro della difesa Crosetto. Anche in questo caso riporto una sintesi basta su fonti diverse e facilmente reperibili:

Crosetto, … a proseguire la sua carriera di manager ed imprenditore, viene nominato, proprio nel 2014, Presidente di AIAD (federazione delle Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza), la quale è membro di Confindustria. Inoltre, nel 2020, Crosetto è stato nominato Presidente del Cda di Orizzonte sistemi navali, una società controllata da Fincantieri e Leonardo.

Tutto vero, ma dopo un momento di effervescenza, su Crosetto è caduta una relativa sordina. In sostanza anche chi ha sollevato il problema non se l’è sentita di domandarsi come mai alcune vistose figure in quota Pd  sono diventate negli anni, in tempi diversi, uomini di punta della Leonardo-Finmeccanica. E’ il caso di Gianni De Gennaro che è stato promosso nel ruolo di Presidente di Finmeccanica dopo i fatti di  Genova nel 2001 e culminati con l’assassinio di Carlo Giuliani e il massacro alla scuola Diaz. Ma è anche il caso ancora più spettacolare quello di Marco Minniti: dopo avere firmato, come Ministro degli interni, gli accordi anti migranti con le bande criminali libiche e avere fatto di tutto per screditare  Mimmo Lucano, è stato promosso a un nuovo incarico per Leonardo.

La sintesi è piuttosto facile da trarre. Il partito della guerra in Italia è un bipartizan e abbarbicato all’unica industria che tira in un paese che ha cessato da decenni di avere una politica industriale. Questo spiega i silenzi e le complicità, le omertà mafiose e la vergogna come l’ultima in ordine di tempo compiuta a Milano dal sindaco Sala: autorizzare una mostra indecente sui nazisti del battaglione Azov ucraino. Anche per questo le centinaia di migliaia di disertori dall’una e dall’altra parte sono fra le poche buone notizie del momento.     

Il disertore

DONNE E GUERRE. VISIBILITÀ/INVISIBILITÀ DELLE DONNE NELLE GUERRE

Di Adriana Perrotta Rabissi.

Il testo è stato pubblicato nel libro La psicoanalisi e la sua causa al tempo del non ascolto, a cura di Eva Gerace per le edizioni Città del sole di Reggio Calabria.

La letteratura dell’Occidente comincia con la glorificazione di una guerra di rapina[1]. Christa Wolf

Gli uomini hanno paura che le donne raccontino tutta un’altra guerra… I ragazzetti correvano lungo la colonna e gettavano sassi… E le donne piangevano… Mi sembra di aver vissuto due vite: una maschile, l’altra femminile [2]. Svetlana Aleksievič


[1] Christa Wolf, Premesse a Cassandra. Quattro lezioni su come nasce un racconto, Roma, edizioni e/o, 1984, p. 22.

[2] Svetlana Aleksievič, La guerra non ha un volto di donna, Milano, Bompiani, 2015, p. 20.

Svetalana Aleksievič

Premessa

Le donne non spariscono nelle guerre, come a volte si è portate/i a pensare, ma nella narrazione che ne è fatta. Anche quando sono le donne a raccontare spesso il modello di ricostruzione è quello unico, secondo un paradigma maschile, apparentemente neutrale, fatto di ideali, eroismi, sacrifici. Quando si parla di donne nelle guerre queste ultime sono rappresentate o come vittime di stupri e aggressioni, oppure affannate a districarsi nelle mille difficoltà per portare avanti la vita propria, e quelle delle persone che dipendono da loro. Nel caso poi ci si riferisca a donne combattenti, una minoranza comunque, ad esempio nella Resistenza, si esaltano le doti di coraggio, l’eroismo, lo spirito di sacrificio comuni agli uomini.

Le ragioni dell’uniformità di modelli narrativi affondano nella patriarcale divisione sessuale del lavoro e nelle attribuzioni di attitudini e abilità che ne derivano, secondo questo ordine agli uomini è assegnata la sfera delle relazioni pubbliche (politica, guerre, lavoro) e della presa di parola pubblica, alle donne quella delle relazioni private e dei sentimenti, vale a dire il mondo degli affetti, della cura alle persone e agli animali, della manutenzione e riparazione di ambienti e oggetti.

Dimensione che offre loro il massimo di potenza immaginaria e il massimo di impotenza reale.

Nel mito

Eco e Medusa, due figure che simboleggiano l’obbligo delle donne al silenzio pubblico e rappresentano un monito severo per quelle che abbandonano la sicurezza confortevole dei luoghi stabiliti dal patriarcato per avventurarsi nei territori infidi della produzione culturale, del sociale e del politico, trascurando così la funzione prioritaria del femminile, storicamente determinata, ma naturalizzata da millenni di pratica.

La loro vicenda segnala i rischi più comuni che si corrono: la ripetizione balbettante di cose già dette da altri o il silenzio.

Eco perde il corpo per un eccesso di passione, poco importa che ne sia l’oggetto – nel mito meno conosciuto è fatta a pezzi mentre sfugge a Pan – o il soggetto – si consuma fino a confondersi con la roccia della montagna nell’amore non corrisposto per Narciso – di lei resta solo la voce. Giunone le ha inflitto un terribile destino: non può prendere l’iniziativa di parlare per prima, deve limitarsi a ripetere frammenti disarticolati, le sillabe finali delle parole altrui.

Ha voce, ma non la dignità del dire, del parlare in prima persona.

Medusa perde anch’essa il proprio corpo, è una bellissima donna punita dalla dea Atena per averne la sfidata bellezza, è presente nel nostro immaginario come testa terrificante, la bocca spalancata in un urlo muto e disperato e lo sguardo che ha il potere di pietrificare chi la guarda. La sua testa mozzata andrà ad adornare lo scudo di Atena, la vergine saggia, fedele alleata di eroi, uscita dal capo di Giove, nascita che l’ha liberata dall’umiliazione di nascere da un corpo di donna. Medusa non ha voce, la sua cifra è il silenzio, solo lo guardo comunica, è di orrore e terrorizza, che cosa ha visto?  Che cosa sa? Non ha voce per dirlo, per avvertirci.

In entrambi i miti la punizione è inflitta per mano di altre due donne, peraltro dee, Giunone e Atena, che incarnano nella nostra cultura due modelli conformi al destino sociale delle donne, la prima è la madre, potente e fiera del suo potere, anche se comunque subordinata al marito Giove, orgogliosa e gelosa delle sue prerogative, protettrice dell’istituzione familiare. L’altra è la sorella, savia e forte, amica delle guerre e delle tecnologie produttive, vera donna emancipata, che ha assunto i modelli di parola e azione maschili.

Due ruoli pacificati e pacificanti, che mantengono l’ordine sociale costituito.

Nello stesso tempo Eco e Medusa segnalano l’insopprimibile passione a infrangere gli interdetti reali o immaginari, auto o etero imposti, anche a rischio di perdere un’interezza – il corpo.

Nulla chiama in causa la questione delle relazioni tra gli uomini e le donne come le guerre, guerreggiate, minacciate, mascherate, ignorate; la Storia insegnata, ricordata, trasmessa è prevalentemente storia di guerre, resistenze, lotte di oppressione e liberazione a cominciare dal fondamento della cultura occidentale, l’Iliade.

Nulla più della guerra rimette a posto il disordine sociale rispetto ai compiti e alle funzioni di genere, nulla quindi, in ultima istanza, risulta più rassicurante dinanzi ai veloci cambiamenti di mentalità, atteggiamenti, comportamenti e costumi.

Gli uomini -guerrieri- rischiano la vita per la difesa di valori, persone, beni, ideali civili e/o religiosi, riconquistando una centralità e un’autorità che sentono messa in crisi dai tentativi delle donne di sottrarsi alla permanente subordinazione sociale e culturale.

 Le donne, in trepida attesa del ritorno dei loro eroi, da curare nel fisico e nello spirito, trovano una pausa dalle quotidiane fatiche di conquistare un’autonomia di pensiero e azione, nonché dal senso di impotenza e dalla delusione che spesso gravano sulle spalle di chi intraprende un percorso esterno agli schemi di genere socialmente accettati.

Il destino femminile di cura e accudimento, interiorizzato nell’educazione di genere, ritorna a essere risorsa sociale, collettiva e individuale, fattore di esaltazioni e riconoscimenti altrimenti negati.

Concorrono all’incantamento nei confronti della guerra anche le narrazioni costanti del nostro passato collettivo e individuale, che pongono l’accento soprattutto su eventi bellici, pur mostrandone gli orrori, ma presentandoli come ineliminabili, quasi fossero tratti di specie, oscurando il fatto che molti conflitti furono risolti attraverso mediazioni, dialoghi, scambio di pensieri e parole tra uomini, e anche donne.

L’effetto immediato, anche solo di previsione di guerra, è cancellare dai discorsi, dalle prime pagine dei giornali e dai servizi televisivi ogni notizia relativa alla vita quotidiana, che affonda in una dimensione di dettaglio e inessenzialità,  di riferire tutto a guerre possibili e incombenti, a vendette immaginate, a ritorsioni, tutte illustrate da competenti e esperti, rigorosamente uomini, perché ufficialmente è affare loro.
E se c’è qualche donna che ne parla si tratta di eccezioni che confermano la regola, sorelle degli uomini colti, cooptate da loro e fedeli alle strategie politiche degli uomini che le hanno promosse.

 Anche se le moderne tecnologie hanno sovvertito molte delle immagini interiorizzate rispetto alle guerre conosciute fino a cinquant’anni fa, con l’impiego di droni, guidati come in un videogioco, con il conseguente sterminio di civili, certe motivazioni di fondo, soprattutto riguardo alle relazioni tra donne e uomini di fronte alle guerre, non sono cambiate di tanto, i ruoli si sono solo modernizzati, non cambiati alle radici.

Gian Lorenzo Bernini, Testa di Medusa, 1640

Nella storia

Tre scrittrici contemporanee, testimoni delle guerre e degli orrori del Novecento, hanno affrontato il tema del rapporto tra donne e guerre, Svetlana Aleksievič, Christa Wolf e Marguerite Yourcenar.

Wolf e Yourcenar, in particolare indagano due figure principali del nostro immaginario, Cassandra e Clitennestra, sovvertendone le immagini trasmessaci dalla tradizione di una Cassandra profeta inascoltata da chi avrebbe dovuto crederle per evitare la rovina e di una Clitennestra, mostro sanguinario, fedifraga e assassina spietata.

Nella rappresentazione di Wolf Cassandra inizialmente vuole per sé il potere destinatole per nascita in quanto figlia amatissima di Priamo, sacerdotessa, e quindi con un ruolo di prestigio nella sua comunità, quando si accorge del disinganno, delle menzogne relative alla guerra, dell’ipocrisia che regna nel Palazzo e anche tra i suoi familiari, arriva a ipotizzare che Elena sia un pretesto, e non esista, si ammala, rinunciando a ruolo e vita a Palazzo.

Quando, portata da Agamennone schiava a Micene, incontra Clitennestra, ha un moto di pietà, intuisce che al di fuori della guerra degli uomini avrebbero potuto anche essere amiche:

Prima, quando la regina uscì dalla porta, lasciai che mi nascesse dentro un’ultima esilissima speranza, poterle strappare la vita dei bambini. Poi ho dovuto solo guardarla negli occhi: lei faceva quel che doveva. Non ha fatto lei le cose. Si adegua allo stato delle cose. O si sbarazza dell’uomo, quella testa vuota, completamente, oppure rinuncia a sé: alla vita, alla reggenza, all’amante, che del resto se interpreto bene la figura sullo sfondo, è ugualmente una testa vuota innamorata di sé, solo più giovane, più bello, di carne liscia. Con una scrollata di spalle mi fece capire che quel che accadeva non era rivolto direttamente contro di me. Niente in altri tempi avrebbe potuto impedire di chiamarci sorelle, questo lessi sul viso dell’avversaria, dove Agamennone, l’imbecille, avrebbe dovuto vedere amore devozione e gioia di rivederlo, questo vide. Perciò inciampò su per il rosso tappeto, come il bue che va al macello, lo pensammo entrambe, e agli angoli della bocca di Clitennestra apparve lo stesso sorriso che a quelli della mia. Non crudele. Doloroso. Perché il destino non ci ha posto dalla stessa parte[1].

Clitennestra, donna di maschio volere secondo l’espressione di Eschilo, nel racconto di Yourcenar acquista progressivamente negli anni consapevolezza del proprio valore e della propria forza, esercitando la funzione di capo durante l’assenza di Agamennone, così come molte donne durante le guerre suppliscono alle assenze degli uomini. Si sente più capace e meritevole del marito di esercitare quel ruolo a cui non vuole rinunciare, si ritiene più abile di altri uomini dai quali è circondata, quale ad esempio il pauroso Egisto, ma soprattutto si rende conto della falsità di una vita, programmata fin dalla nascita dai genitori, aspettata con ansia nell’adolescenza, destinata ad amare, servire, onorare un uomo senza particolari qualità, tutto preso dalle vicende della guerra e dai piaceri sessuali con le donne incontrate in guerra.

L’amore folle tradito e il disincanto la portano a organizzarne l’uccisione.

La Clitennestra di Yourcenar non può provare empatia per la schiava di suo marito, anzi la dipinge con parole di disgusto, la chiama la sua gialla schiava turca abituata a giocare con le ossa dei morti:

Ero in attesa sotto la Porta dei Leoni; un parasole rosa imbellettava il mio pallore. Le ruote della vettura scricchiolavano sull’irta salita; la gente del villaggio si attaccò alle stanghe per alleviare la fatica ai cavalli. Alla svolta della strada potei finalmente intravedere la carrozza un po’ più alta della cima delle siepaglie, e mi accorsi che il mio uomo non era solo. Gli stava accanto quella specie di maga turca che si era scelta come parte del bottino, benché fosse un pochino guasta, forse, dai giochi dei soldati. Era quasi una bambina; aveva dei begli occhi cupi in un viso giallo tatuato di ferite; lui le accarezzava il braccio per impedirle di piangere. L’aiutò e scendere dalla carrozza; mi abbracciò freddamente, mi disse che contava sulla mia generosità per far buona accoglienza a quella ragazza orfana di padre e di madre[2].

Due forme opposte, quella di Cassandra e quella di Clitennestra, e reali di relazioni tra donne vittime della stessa violenza maschile, la violenza strutturale della società patriarcale, della quale la guerra è l’esempio più significativo.

Uno degli effetti più deleteri delle guerre è la divisione tra donne che la guerra degli uomini comporta, anche quando sarebbe necessaria la solidarietà.

Osserva Wolf:

Europa [era] la figlia del re fenicio, che il dio Zeus, in sembianze di toro, rapì dalla fenicia portandola a Creta, dove lei partorì, tra gli altri figli, il futuro re Minosse. Un atto di violenza contro una donna fonda, nel mito greco, la storia dell’Europa[3].

Riporta poi l’osservazione di un giovane uomo che ascolta una sua conferenza:

…bisognava smetterla di piangere sulla sorte della donna in passato. Che lei si assoggettasse all’ uomo, che lo curasse, che lo servisse – esattamente questa era stata la condizione perché l’uomo potesse concentrarsi sulla scienza, o anche sull’arte, e dare risultati di altissimo livello in entrambi i settori. Il progresso era stato e era impossibile in altro modo[4] .

Svetlana Aleksievič fa un’operazione singolare, scrive un libro di narrazione femminile di guerra.

La ricerca è durata sette anni, il libro è stato pubblicato quasi vent’anni dopo la sua stesura al tempo della perestrojka di Gorbaciov, perché prima era censurato con il pretesto che la guerra che lei raccontava era troppo spaventosa, troppi orrori e troppi dettagli naturalistici, in una parola non era la guerra giusta, da tramandare, bisognava invece parlare dei gesti eroici, non infangare tutto rimestando nel sudiciume e nella biancheria intima, in questo modo si sminuivano le donne, riducendole  a donne comuni, a femmine.

Avverte Aleksievič:

Scrivo un libro sulla guerra… Io che non ho mai amato leggere i libri di guerre benché per tutta la mia infanzia e adolescenza fossero le letture preferite di tutti… E non c’era niente di strano: non eravamo forse i figli della Vittoria? I figli dei vincitori? … c’erano già state migliaia di guerre, grandi e piccole, note meno note. E i libri che le avevano narrate erano ancora più numerosi. Ma… erano libri scritti da uomini e parlavano di uomini… Tutto quello che sapevamo sulla guerra c’era trasmesso da voci “maschili”. Siamo tutti prigionieri di una rappresentazione “maschile” della guerra. … nelle narrazioni delle donne non c’è, o non c’è quasi mai, ciò che siamo abituati a sentire… i racconti femminili parlano d’altro. La guerra “femminile” ha i propri colori, odori, una sua interpretazione dei fatti ed estensione dei sentimenti. E anche parole sue.… E a soffrir non sono solo loro (le persone!), ma anche i campi, e gli uccelli, e gli alberi[5] .

Le intervistate sono donne che hanno prestato la loro opera nell’esercito sovietico in tutti i settori, sia sul fronte che nelle retrovie, ci sono voluti molta pazienza e molti incontri ripetuti perché le donne si liberassero del controllo maschile nelle loro interviste, controllo sia interiorizzato che esplicito da parte di mariti e compagni, che raccomandavano Racconta come ti ho insegnato. Senza lacrime e stupidaggini.

Così si va dalla autista di mezzi militari che ebbe tre corvè di punizione perché al ritorno da un’esercitazione aveva abbellito il suo fucile con un mazzo di violette, alla donna che ricorda di avere impiegato tre anni per riadattarsi alle scarpe e alle gonne, dopo aver passato tanto tempo con stivali e abbigliamento militare. 

Riporto come esempio qualche brano di interviste:    

 È notte… Sono lì per svegliarmi e mi sembra di sentire qualcuno che piange accanto a me nell’oscurità…Sono io alla guerra… Stavamo ripiegando su tutto il fronte…. Superata Smolensk una donna mi regala un suo vestito, riesco a cambiarmi. Cammino sola… tra gli uomini. All’improvviso, le mie “cose”… Sono arrivate in anticipo, senz’altro a causa dell’agitazione, del tormento dell’umiliazione. Dove trovare ciò che mi serviva? Una vergogna! Come mi vergognavo! … Mi hanno preso prigioniera. Ma prima, proprio l’ultimo giorno, ho avuto per giunta le gambe fratturate, non potevo alzarmi dal mio giaciglio e mi sporcavo sotto[6] .

Ancora

…All’improvviso si è incendiata la parte di prora… Il fuoco è corso veloce per la tolda. È esploso il deposito delle munizioni… così i soldati si sono gettati in acqua per raggiungerla a nuoto [la riva] … e dalla riva hanno cominciato a crepitare le mitragliatrici nemiche. Io sapevo nuotare bene e volevo salvare almeno un ferito… Sento che qualcuno accanto a me si dibatte, ora emerge dall’acqua, ora affonda di nuovo. Sono riuscita ad afferrarlo… Era freddo, scivoloso… Ho pensato fosse un ferito investito dallo spostamento d’aria dell’esplosione… Io stessa ero quasi svestita… avevo indosso la sola biancheria… Un buio impenetrabile…. E attorno solo gemiti e imprecazioni. In qualche modo ho raggiunto con lui la riva. … E proprio in quel momento un razzo illuminante è esploso in cielo e ho potuto rendermi conto che avevo abbracciato e portato a riva un grosso pesce ferito. Un grosso pesce della statura di un uomo. Uno storione beluga… Stava morendo. Mi sono accasciata accanto a lui maledicendo piangendo… Per gli inutili sforzi… Ma anche per quella sofferenza che accomuna tutti viventi[7]

Un’altra testimonianza

Sono arrivata fino a Berlino con le truppe…Sono rientrata al mio villaggio con due ordini della Gloria e altre medaglie. Ci ho trascorso tre giorni e il quarto, di buon’ora, mamma mi ha fatto alzare intanto che tutti dormivano. “Figliola, ti ho preparato un fagottino. Va… va. Hai due sorelle minori che stanno crescendo. Chi le vorrà sposare? Tutti sanno che sei stata al fronte per quattro anni, in mezzo agli uomini” …Ma mi risparmi tutto questo, non mi tocchi l’anima. Scriva piuttosto, come tutti gli altri delle mie onorificenze[8].

Infine

Ero un’addetta alle mitragliatrici. Ne ho ammazzati talmente tanti… Dopo la guerra per molto tempo l’idea di avere dei bambini mi spaventava. Ne ho potuto avere solo quando mi sono un po’ calmata: dopo sette anni… Ma neanche adesso ho perdonato. E non ho intenzione di perdonare niente… Mi rallegravo per come erano conciati, da far pena solo a vederli: i piedi avvolti in stracci, e la testa pure… Li facevano sfilare attraverso il villaggio e imploravano: “Madre, dammi da manciare”… e mi stupivo al vedere le contadine che uscivano delle loro casupole per tender loro chi un pezzo di pane, chi una patata… I ragazzetti correvano lungo la colonna e gettavano sassi…E le donne piangevano…

Mi sembra di aver vissuto due vite: una maschile, l’altra femminile[9].

Per concludere

Sono un’insegnante di storia. Per quanto mi ricordo, il sussidiario di storia è stato riscritto tre volte. Io ho insegnato la storia ai bambini attenendomi al primo, al secondo e al terzo …Chieda a noi, finché siamo vivi. Non trascriva poi senza di noi. Continui a far domande. Sapesse com’è difficile uccidere una persona…Io lavoravo nella resistenza clandestina. Dopo sei mesi mi hanno affidato una missione: farmi assumere dai tedeschi come cameriera alla mensa ufficiali… Ero giovane, bella… Mi hanno presa. Avrei dovuto mettere del veleno nella pentola della zuppa e il giorno stesso raggiungere i partigiani. Ma mi ero ormai abituata a loro, e anche se erano nostri nemici quando li vedi ogni giorno e ti dicono Danke Shon… Danke Shon… diventa tutto più complicato… Uccidere può fare più paura che morire. Ho insegnato storia per tutta la vita …E non ho mai saputo come raccontare tutto questo. Con quali parole [10].

Léon Bakst, Eco, 1911

[1] Christa Wolf, Cassandra, Roma, e/o edizioni, 1984, p. 57.

[2] Marguerite Yourcenar, Clitennestra o del crimine, http://www.i-libri.com/opere/clitennestra-o-   del-crimine-di-m-yourcenar/

[3] Christa Wolf, Premesse, p.98.

[4] ibidem, pp.147-148.

[5] Svetlana Aleksievich, La Guerra, pp. 7-10.

[6] ibidem, pp.  28-29.

[7] ibidem, pp. 29-30.

[8] ibidem, p. 38

[9] ibidem, p. 39

[10] ibidem, p. 4

MASCHIO GUERRIERO

L’ennesimo femminicidio compiuto da Alessandro Impagnatiello nei confronti della compagna Giulia Tramontano ripropone a un uomo il solito dilemma: in che modo prendere posizione? A parte il rilancio dei messaggi che mi sono sembrati più significativi e il ribadire l’importanza dei centri anti violenza autogestiti dalle donne e della necessità di forme di prevenzione e rieducazione della popolazione maschile al rispetto a cominciare dai bambini, mi sembra che sia opportuno ribadire alcune convinzioni ma anche di arrivare infine a una proposta. Come uomo ho espresso più volte anche in ambiti pubblici il mio scetticismo rispetto alle manifestazioni di uomini sulla violenza maschile contro le donne. In qualche occasione le ho seguite, non mi hanno convinto e la ragione di fondo è che c’è nel gruppo solo maschile una contraddizione di fondo perché è proprio dalla dimensione del gruppo che gli uomini dovrebbero imparare a uscire per diventare individui autonomi fra l’altro, capaci di governare la propria vita e rifiutare le complicità maschili sottili che sfociano negli stereotipi  sessisti più consolidati.

In questo blog ho pubblicato diversi interventi che affrontano il tema della violenza maschile contro le donne in due diverse rubriche, ma ho pensato in questi giorni che la tematica debba avere un contenitore autonomo che permetta di distinguerla da altri aspetti del pensiero unico dominante. Ne ho discusso con Paolo Rabissi e alla fine la scelta del titolo della nuova rubrica è Maschio guerriero, che riprende una parte del titolo di un intervento di Paolo, ma vuole stabilire anche un nesso con un’altra opera che ho spesse volte citato e cioè il romanzo di Edoardo Albinati La scuola cattolica. In quest’opera il nesso fra guerra, dominio e appropriazione del corpo femminile trova pagine di grande forza, tanto più perché pronunciate da un uomo. L’intento di questa nuova rubrica però è anche un altro. Ci sono stati nella mia vita alcuni passaggi generazionali che sul tema della violenza maschile hanno segnato dei passaggi molto importanti, ma che poi sono spariti o quasi dalla visibilità. Mi riferisco a programmi come Processo per stupro, al monologo teatrale di Franca Rame seguito alla violenza dai lei subita. Se nelle elaborazione recenti di gruppi femministi ritrovo molti contenuti degli anni ’70, mi sembra invece che essi siano scomparsi dalla riflessione di molti uomini.   

Maschio guerriero, maschio protettore: il paradosso mortale dentro il patriarcato

Paolo Rabissi

Odisseo e Tiresia

Il testo è stato pubblicato nel libro La psicoanalisi e la sua causa al tempo del non ascolto, a cura di Eva Gerace per le edizioni Città del sole di Reggio Calabria.

Per me uomo bianco, educato all’eterosessualità, non è poi così semplice e intuitivo l’uso della parola ‘femminicidio’. Perché il femminicidio non è il semplice omicidio di una donna, si presenta dentro una casistica articolatissima in cui a commettere violenza è ora il padre, ora il fratello, ora il conoscente anche se più frequentemente l’uccisione di una donna avviene per mano del partner abbandonato, per un altro/a ma anche no.

Non è nemmeno semplice l’uso della parola sessismo. Perché devo distinguere tra misoginia, antifemminismo e sciovinismo maschile, che, per quanto odiosi, sono componenti indiscutibili del sessismo ma meno gravi delle forme estreme di manifestazione come il femminicidio e anche la mercificazione del corpo e dell’immagine femminile che, per la sua carica razzista di fondo, del femminicidio è supporto.

Le cose cominciano ad essere più chiare quando risalendo al patriarcato, che è organizzato sulla subordinazione del femminile al maschile, ti rendi conto che il sessismo è l’insieme di idee, credenze e convinzioni, stereotipi e pregiudizi ecc., che perpetuano e legittimano la gerarchia e la disuguaglianza fra i sessi, per usare le parole di Annamaria Rivera (La bella, la Bestia e l’Umano, Ediesse, 2010).


Ma infine s’impara anche che, acquisizione felice di più recenti studi antropologici, è diventato possibile storicizzare la nascita del patriarcato. Voglio dire che di fronte alla disperante nozione che affonda quella nascita nella notte dei millenni, oggi siamo in grado di datarla con una certa sicurezza a circa tre, quattro mila anni fa, che fanno in tutto solo trenta, quaranta secoli, che in fondo non è gran che: siamo in definitiva eredi di una quarantina di generazioni di Sapientes e non è più così difficile pensare che il patriarcato come è nato possa anche morire. Nel senso che intanto non solo sappiamo cosa non vogliamo ma anche quali radici abbiamo da estirpare, che poi facendo ciò si possa anche finire molto verosimilmente col togliere molta aggressività e subliminale capacità di condizionare le genti all’organizzazione capitalistica del mondo, neoliberismo incluso, non può che consolarci.


Si dice a ragione allora insistentemente: il femminicidio è soprattutto un problema di uomini e sono costoro a doversene fare carico pubblicamente. E viene aggiunto subito che riguarda tutti gli uomini, non solo alcuni uomini, che è l’aspetto più difficile da sbrogliare. Perché c’è da superare la tentazione diffusa di addebitare il femminicidio a colpi di follia esplosi in un uomo, magari apparentemente mite e innocuo: del quale solo dopo perlopiù si viene a sapere che esercitava violenze continue e di vario tipo che accumulatesi a un certo punto esplodono.


A monte dunque di questi casi, mitezza apparente ma violenza più o meno nascosta, sembrerebbe che ci sia un tipo di uomo che non ha comunque inibizioni a usare la violenza, né di educazione né di scelta volontaria. Anche se occorrerebbe aggiungere che evidentemente non gli provengono, oggi in particolare, sufficienti inibizioni nemmeno dalla scuola, dalle istituzioni, dalla politica che, nei periodi di crisi come quello che viviamo, dovrebbero far argine nella testa dei ‘violenti’.

Coloro che invece fanno argine per scelta volontaria e che non hanno mai “toccato una donna con un dito” e che dichiarano con fermezza che mai lo farebbero, sembra debbano essere automaticamente esclusi dalla categoria sospetta, il che appare a prima vista anche legittimo.

Tuttavia in questo modo da una parte la violenza viene anch’essa naturalizzata (come avviene dei ruoli assegnati all’uomo e alla donna), assunta quasi a codice genetico che solo il lungo lavoro della civiltà dei costumi può modificare sottraendo l’umano alla sua ferina barbarie, mentre sappiamo che violenti si può diventare per mille ragioni. Dall’altra la mancata storicizzazione dei comportamenti cui la violenza induce, impedisce di ragionare sulle forme di violenza diverse da quelle fisiche, quelle per intenderci che all’interno della relazione impongono di fatto alla donna il rispetto dei ruoli tradizionali (la cura della casa, del cibo, dei figli, ecc.), dei suoi ‘doveri’ di madre, moglie ecc., sottraendole libertà e parità nelle scelte (in una infinita serie di varianti dovuta a condizione sociale e cultura).

Questo è forse il territorio meno esplorato perché è il più complesso, dato che oggetto dell’analisi non può essere più soltanto il maschio che si sente depositario naturale di una serie di privilegi ma la relazione stessa, soprattutto quella familiare, nella quale anche la donna, pur partendo sempre da una condizione di inferiorità, è costretta ad accettare una serie di compromessi appena compatibili con la sua soggettività nonostante ne avverta il fondo di limitazione e compressione. Si tratta di quelle infinitesimali violenze che non arriveranno mai alla ribalta di un giornale e che nessuno andrà mai a rintracciare, anche quando dal litigio tra coniugi o conviventi si dovesse passare alle mani e dalle mani al coltello. (Lea Melandri, Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà – Bollati Boringhieri 2011).

Che si tratti di violenza omicida o di quella silenziosa nel quotidiano, il nostro presente è segnato irrimediabilmente dal venir meno dei secolari privilegi dell’uomo, il che fa terribilmente comodo al neocapitalismo, soprattutto nostrano, che sollecita romanticamente il maschio in crisi al recupero di posizioni mettendo a produzione le sue passioni (basta dare un’occhiata agli spot pubblicitari). In ogni caso la violenza snuda il marchio del dominio dell’uomo sulla donna, che di individuo in individuo si caratterizza in una scala infinita di forme che la relegano nell’inferiorità fisica intellettiva e morale, che aprono la strada a umiliazione, schiavitù, de-umanizzazione, fino alla reificazione nell’oggetto sessuale di cui il maschio, che se ne sente proprietario, può decidere quando vuole la vita o la morte.

Quis fuit horrendos primus qui protulit enses ? Chi afferrò per primo le armi per la guerra? Quando al liceo negli anni cinquanta traducevamo Tibullo e Virgilio, (due specialisti nell’ipostatizzare un paradiso agreste e pastorale senza guerra del quale dopo un secolo di guerre civili non potevano che sentire la mancanza) non potevamo immaginare che cinquant’anni dopo accanto a quella domanda avremmo dovuto farne altre.

Quale frase d’amore fra due teneri amanti risuonò mai per prima dentro gli orrori della guerra: Ti proteggerò io oppure Proteggimi?

In ogni caso in quel momento la divisione dei ruoli era già cosa fatta. E non è che per se stessa non fosse cosa buona. Anche se ormai del bisogno della donna di essere protetta e accudita durante la gravidanza e il parto abbiamo conoscenza che è una costruzione culturale (non sappiamo forse che certe contadine partorivano sulla terra nuda mentre la lavoravano?), tuttavia sappiamo che ogni divisione del lavoro ha vantaggi per ogni membro di una comunità. Il problema è che poi su quella divisione di ruoli tra uomo e donna si venne incistando un sistema gerarchico di poteri che vogliono dominio da una parte e sottomissione dall’altra e che quei ruoli si sono fissati dentro una rete sempre più fitta di doveri e obblighi ‘definitivamente’, al punto che essi hanno finito con l’essere percepiti come ‘naturali’.

Quando è nato il mio primogenito agli inizi degli anni settanta, mio padre, lui che aveva scelto di fare l’artista rompendo con la famiglia patriarcale, e che la famiglia disastrata che fu costretto da quelle stesse regole patriarcali a mettere su, l’aveva appunto subita, si ricordò improvvisamente dei ‘naturali’ ruoli nei quali era stato educato e suggerì a mia moglie (già femminista) di lasciare la scuola per dedicarsi al figlio e alla casa (e a me suppongo).

Quante/i della mia generazione, che hanno steso tenere relazioni d’amore nell’epoca della contestazione antiautoritaria, sono sfuggite/i a questa codificazione di ruoli? La disponibilità a proteggere e ad essere protette, la disponibilità ad una divisione aggiornata tra l’uno e l’altra dei compiti di cura, almeno nelle coppie che hanno resistito, ha finito spesso (ma non sempre, e non così raramente come sostengono certe femministe che parlano di ‘perle rare’ dimenticando tra l’altro che in Italia sono spesso stati uomini a introdurre certi temi del femminismo), a causa dell’organizzazione sociale del lavoro che richiede tempi sempre più cogenti per la produzione e la riproduzione a discapito della relazione che ne viene soffocata, col costringere ad accettare quanto di più collaudato e comodo arrivava dalla tradizione di quei ruoli. Intendo la contrattazione tra tempi dei doveri comuni e tempi del piacere per sé. Nella quale la donna, spinta all’analisi dall’insorgenza femminista, si trovò a scoprire di godere di pochissima libertà rispetto all’uomo, di essere cioè imbrigliata in una dinamica di dominio tutta a favore dell’uomo: verso la quale non si sentiva più disponibile né tanto né poco, dimodoché anche l’uomo ha dovuto rimettere in discussione la propria identità e rileggerla storicamente. La follia da sola non spiega perché la violenza omicida si accanisca sulla donna, ma scardinare la mentalità da guerrieri dominanti che si è radicata dentro di noi in un percorso millenario non è né sarà compito facile.

Il potere che derivò un tempo al signore della guerra per essere tornato vincitore si riflette sin dentro la propria casa come estensione di dominio, nel senso che essa storicamente diventa la ‘patria’ da difendere sempre e che per la sua sicurezza deve funzionare secondo le regole che il signore ha esperito vincenti in battaglia: gerarchizzazione, obbedienza, disciplina e fedeltà. La donna ora riceve dalle mani del neo patriarca l’investitura di esecutrice fedele e disponibile di compiti ‘privati (sesso compreso)’, importanti quanto i ‘pubblici’ di sua competenza e di fatto interamente dipendenti dalle sue decisioni.