LE ETA’ DELL’ESSERE UMANO: RIFLESSIONE SUL LIBRO DI FRANCO SEPE

Il titolo di questa nuova opera costringe il lettore a rimanere a lungo su di esso, ma non è una novità per chi conosce l’autore: Naufragi in acque di porto è un’espressione ossimoro che evoca una catastrofe prossima, nel luogo che sembra rassicurante per definizione. Ancor più disorientante è il sotto titolo: triptycon insanae mentis. Passando al testo, la seconda caratteristica che colpisce, anche senza leggere subito, è la distribuzione grafica del verso sulla pagina, che può essere intesa come una vera e propria icona, che si conferma per l’intera prima sezione del libro:

Un bimbo

un mondo

un mondo per sé

un mondo chiuso

a tutto il resto

Tale disseminazione sembra alludere al dissolversi di una trama testuale, ribadita dalle spazialità in cui sono il silenzio e il bianco a circondare una parola flebile. Nel testo che segue tale caratteristica si ripropone con qualcosa in più:

Era sicuro

il mio sonno

finché

dormivo nell’acqua

acqua informe

liscia

senza le pareti

che ora la murano

Il testo in corsivo, se messo in relazione con il precedente, introduce un elemento soggettivo (… il mio sonno/finché/ dormivo nell’acqua …), assente nel primo, in cui prevale un’oggettività descrittiva. Sia che lo s’intenda come un’identificazione dell’io scrivente con la condizione di mondo chiuso evocata, sia che s’intenda questa irruzione come la flebile voce di un soggetto che cerca di esprimersi, tale novità è rilevante e come vedremo nel prosieguo della sezione, l’alternanza di voci e di sguardi si proporrà come una cifra stilistica che ha una precisa ragione. Il prosieguo, per un lungo tratto dell’opera, propone questo verso, ma scorrendo rapidamente le pagine ci si rende conto che poi le cose cambiano; forse per capire meglio, allora, dovremo abbandonare momentaneamente la sequenza dei testi e tentare un primo sguardo d’insieme sull’opera. 

Il libro è diviso in tre parti. I titoli delle sezioni sono: Pueritia, Frammenti del vivere sottile (Adolescentia) e Nella casa smarrita nella mente (senectus). Sono titoli importanti e spiazzanti: il lessico prima di tutto e anche questa non è una novità per Franco Sepe. Le parole desuete e – nel caso specifico – addirittura in latino, come era già nel sottotitolo, sono frequenti anche in altre opere e sono sempre indicatori importanti. La sequenza allude alle diverse età della vita, anche se l’ultima – specialmente se messa in relazione al sottotitolo dell’opera intera – può riferirsi sia alla senescenza, sia alla mente che può smarrirsi nella follia a qualunque età. L’esergo che inaugura la sezione Adolescentia,1 invece, rimanda a una delle patologie più devastanti della nostra contemporaneità: l’anoressia, che è il motivo dominante dell’intera sezione. La terza parte del libro si sposta su un ultimo aspetto, che ci aiuta a entrare meglio dentro la trama nascosta di questa tessitura. La vecchiaia e i suoi affanni, visti sotto un duplice aspetto: quello più tenue – la dimenticanza dei nomi, per esempio, o altri inceppi strani della memoria – e quello che sconfina nella patologia vera e propria, dove è il reticolato della mente a vacillare e a dissolversi. Il viaggio che Sepe ci invita a compiere sembrerebbe dunque addentrarsi nei meandri della mente umana alle prese con il corso naturale della vita: nascere, crescere e decadere, una sequenza cui manca quasi del tutto e paradossalmente l’età adulta nelle sue espressioni ‘normali’. Questo particolare induce il lettore a non tirare conclusioni azzardate; infatti tutta la partitura si rivelerà alla fine più complessa. 

Il silenzio coatto.

Pueritia è un termine che non allude solo al puer e dunque all’infanzia come condizione esistenziale, ma anche alla povertà, da intendersi certamente in molti modi, ma che nel testo assume connotazioni sempre più precise, quanto più si legge:

La mia bocca/non ha pronuncia/ogni suono/si smorza dentro/se sale è un raschio/contro il duro/di una parete/le mie albe/sono per me/notti fonde/un pugno chiuso/dentro le viscere/della montagna/3

Il suo corpo/duro e impalato/sta sul ring/senza un nemico/solo sorrisi/e incitamenti/a fare qualcosa/che non è/in suo potere/

Mi chiedono/di esistere/esistere/come essere/umano/esiste/ma come/mettere fine/all’agonia/se per me questo/ormai/l’unico modo/di vivere?

Non sorride/con la bocca/sorride/con la mente/distante/dall’intrico/delle sue membra/incordate.4

La condizione che si esprime in questi versi non è quella di un bambino alle prese con il trauma del nascere e del crescere, che riguarda tutti, ma allude a una situazione particolare che sta in un range che può andare dall’autismo a patologie meno gravi ma che tuttavia travalicano i confini della ‘normale’ sofferenza esistenziale. La scena è sottoposta a diversi tipi di sguardo, che si evincono dalla scelta di scrivere in corsivo le incursioni soggettive che possiamo attribuire allo scrivente che tenta la difficile identificazione con il bambino autistico, oppure a lui stesso nel tentativo di esprimersi nonostante tutto: il secondo è uno sguardo adulto che osserva dal di fuori cercando di capire:

Non lisciarmi/la mano/non tenermi/stretto a te/per le carezze/non sono nato/né per gli abbracci/al tuo amore/muta risponde/la mia carne/marmo e anguilla/con l’immobile/fuga

Mai vista/una lacrima/da quegli occhi/blindati/strano orgoglio/di madre/augurarsi/dal figlio/il pianto

tiratemi fuori/da questa mezzanotte/infinita/voi che sapete/ridare la luce/tiratemi fuori/da questa terra/senza respiro/né pace/ridatemi intero/alla madre:/che io non sia più/la sua pena

Questi due diversi punti di vista s’incrociano e s’inseguono, nel tentativo di trovare un senso a un’esistenza precaria che si trova al limite della comunicabilità. L’oscillazione fra interno ed esterno cerca di costruire un reticolato di immagini che sono dolorose e al tempo stesso salvifiche perché rimangono come traccia, seppure su un territorio devastato. 

Non sorride/con la bocca//sorride/con la mente//distante//dall’intrico/delle sue membra/incordate. /

Lo sguardo esterno coglie qui un segnale flebile, una piccola luce, forse soltanto una speranza, cui però l’altra voce, quella soggettiva, sembra tuttavia rispondere in qualche modo, come fra due stelle lontane:

Tiratemi fuori/da questa mezzanotte/infinita/voi che sapete/ridare la luce//tiratemi fuori/da questa terra/senza respiro/né pace//ridatemi intero/alla madre:/che io non sia più/la sua pena/

Da questo punto della sezione in poi, tuttavia, la voce soggettiva si affievolisce sempre di più, la speranza sembra svanire: ritornerà in altre forme.  

Il corpo fragile

L’adolescente si trova nel paradosso di una vita che cresce impetuosamente, ma che è sottoposta a tutta una serie di fragilità, di cui la cronaca ci rende edotti quasi ogni giorno: dal bullismo, alle ludopatie, alla difficile scelta della propria identità sessuale.  Nel testo che segue Sepe trova un’immagine metafora quanto mai efficace:

Sempre aperto diario cui manchi/di annotare la vita. Ingiusto esistere/per una domanda di grazia senza un’anima/a cui rivolgerla. /Tutto qui lo sforzo: saper stare al convenuto/come radice fra sassi murati sotto un vertice/di cielo che fa gola. /Vincere, non arrestarsi nella morte. / Crescere, /nel vigore di un olocausto.

L’adolescente non sempre riesce a difendersi, anche da se stesso, l’immagine del diario aperto, a disposizione di tutti, un segreto nel quale si ritrae ma che è al tempo stesso trasparente; spesso è lui o lei a volere che altri leggano. Il vivere sottile evocato nel sottotitolo, invece, ci riporta all’anoressia, cui è dedicata l’intera sezione, ma nel verso finale – nel vigore di un olocausto – risuonano anche altri echi. Nella prima parte del testo che segue, l’adolescente – probabilmente una ragazza – si trova smarrita di fronte al corpo che sta cambiando e proprio in quelle trasformazioni è in agguato la tragedia: ma la metafora che Sepe costruisce riguarda anche la poesia e su questo ci soffermeremo meglio nelle conclusioni: 

Una sola legge: resistere all’entrata/nel nuovo corpo, arrestare la forma/tenera in gioiosa progressione/restringendola come linea sul foglio/(Ché non bruchi il bianco)/e di là nuovamente al corpo/tracciare corridoi di continenza/nel freddo stellare./…

In quest’altro testo la contraddizione drammatica che attanaglia il corpo dell’anoressico:

Un fato impera sul corpo:/esser materia in divenire/per età brevi e feroci. //meglio sarebbe/nella vita che chiama a vivere, /una calma auto estinzione. /

L’uso della parola fato non è casuale, perché nella determinazione dell’anoressica, sembra davvero agire qualcosa di arcaico e incomprensibile, ma nel testo che segue e in quello successivo avviene uno slittamento: una possibile via d’uscita?

Staccando l’aquilone/da ogni ormeggio terrestre, /con i fianchi dritti ed il petto/che implode, /saggiare infine l’estasi dei santi. /

Evadere dalla propria pelle/sfidando a lasciarcela. //Carne che non vuole più servire/né accrescersi. /

                          Apostasia//

Dramma di un corpo/eccelso/sotto la tutela della malattia. /

Il dilemma e anche la domanda implicita fra le righe del testo è se vi sia nell’anoressica una via che porti alla santità e dunque a un possibile riscatto, se nella forma estrema di ribellione che sembra dire No! a tutto, oltre che il rifiuto della madre vi sia qualcosa d’altro in gioco. Tuttavia non vi è alcuna facile adesione a questa scorciatoia, la santità è sotto tutela della malattia e sempre la psicoanalisi ci avverte pure che nell’anoressia è in atto anche una patologia narcisista. Se c’è dunque una via d’uscita da queste vite devastate andrà cercata altrove.

Senex

Il testo che segue, non il primo della sezione, e la sequenza successiva, sono quelli che, insieme all’ultimo testo – dedicato a Daniele Del Giudice – introducono un elemento biografico nel libro. Le due persone evocate sono il padre e un amico di avventure letterarie al quale Sepe è fortemente legato. Sul primo, andando oltre il dato biografico, c’è da osservare che nelle prime due sezioni è una figura quasi del tutto assente, prevalendo in entrambe la madre, sullo sfondo della tragedia; oppure un osservatore esterno. In quest’ultima parte, il padre è visto come senex, cioè nella sua estrema decadenza e il dolore dello sguardo di figlio che Sepe porta su di esso conferisce a questi versi una solennità particolare.

a mio padre,

in memoria

Nella calma di un seminterrato/d’un tratto le visioni si afferrano/come mani, /nel dolore del subbuglio/si torcono tra fessure d’occhi. / (Fatti e nomi sbiancati dentro/fossili arnie di memoria, /urla soffocate come suoni finiti/sotto terra fra tumuli/e radici) /Mi parli. Una sola parola/ma senza luce di amore/né pietà./Un fremito delle/spalle finisce nell’indice./E’ un pianto ora la preghiera di unirsi/ai tuoi occhi/per vedere in fondo alla paura.//Come in un soffio/quando tutto è incominciato/la soglia/che divide te dagli altri/si è confusa./Sei tu la strada battuta/tutta una vita/ma che ora più non trovi./Il cammino che non sai imboccare/e pure porta alla tua casa.

                                                                                                                            Lasciato ogni appiglio

                                                                                                           in un movimento che abbandona.

                                                                                                                          Scivolato sotto il carico

                                                                                                                          Come il proprio mulo 

Eccolo col suo discorrere affogato/in una palude di suoni:/lunghe e interminabili note/che sovrastano/la pagina sgombra della vita. //I suoi ricordi in una teca/ colma di occhi che stupiscono, /spogliati di ogni forma. // (Memoria terminale/o la sua anestesia?) / In vano richiamati/gli accenti scorrono via/dalle parole/come gomme sull’asfalto di un alfabeto/infinito, /in una nausea fatta di panico.  

La sequenza ci consegna dunque un padre già decaduto, fuori dalla sua funzione adulta, perso nel dedalo di una vita che gli sfugge. Ancora una volta questi versi ci lasciano inquieti perché lo sguardo di figlio che l’osserva dal di fuori, ma nell’impossibilità ormai, di una comunicazione, rimane sospeso fra dolore e sgomento.

Questioni di stile e di poetica

Il verso di Sepe, in quest’opera, è soggetto a torsioni e cambiamenti continui fra sezione e sezione e all’interno della medesima sezione, tranne la prima, la più necessariamente compatta, con il suo verso sgocciolato e franto. Sarebbe vano, tuttavia, cercare di ricondurre questo modo di versificare a stilemi presenti nella poesia italiana del ‘900, perché le eventuali affinità sono solo superficiali. L’esigenza che guida il poeta dall’inizio alla fine del libro è quello della difficile, quasi impossibile ricerca di modi espressivi che siano coerenti con il contenuto e con le diverse figure rappresentate nell’opera. Il cimento di Sepe è particolarmente arduo perché ci troviamo qui al limite della comunicabilità, in una zona in cui il soggetto che abita il linguaggio (per usare l’espressione di Heidegger), si trova limitato nel poterlo fare, in qualche caso addirittura impedito quasi del tutto; ciononostante, però, questi soggetti continuano ad abitare il mondo e a cercare la loro strada. Come esprimere tutto questo? Sepe si avvale di tutte le possibilità e le metafore grammaticali e sintattiche per esprimere un male di vivere che si discosta da tutti quelli che conosciamo perché, nel caso dell’autismo, per esempio, esso è dato a priori come una condizione nella quale chi è esterno non può capire; come, – al contrario – chi lo vive, non può comunicarlo se non in modo parziale. Lo stesso si può dire di patologie come l’Alzheimer o la demenza senile. Siamo al limite dell’afasia e del silenzio, in un punto dove anche la parola poetica sembra vacillare perché ogni altra forma di comunicazione è già stata travolta.

Uno dei modi stilistici ricorrenti nell’opera è la condensazione, che diventa immagine iconica, raggiunta tramite un accostamento paratattico di sequenze, come avviene, per esempio, nel finale di questo testo:

Il corpo deserto, rocca e stele/riparo e anacorési /è a un passo dal sublime/

Ciascuna di queste immagini può esistere di per sé, perché l’accostamento non obbliga a una sintesi, ma ne autorizza diverse e ciascuna immagine, nella sua autonomia, parla da sola. Il verso finale rimanda a una sintesi unificante possibile, ma si ferma a un passo dal sublime, non lo raggiunge. Dove sta la speranza in questo libro che allarga l’esplorazione poetica a continenti poco frequentati e così estremi? Per l’ultima volta faccio ricorso al percorso di Sepe e in particolare a un libro come Elegia terrestre dove, seppure con il tono dell’elegia, la fragilità della natura e le sue bellezze venivano messe in relazione ai disastri ambientali. In quest’ultimo è la fragilità dell’umano a essere messa in scena e la speranza sta proprio nella capacità che la poesia ha di riscattare questi fragili e sottili fili di esistenza e farli vivere e rivivere, aprendosi così a una forma di pietas. In alcuni versi già citati, Sepe ci offre, infine, una riflessione di poetica in versi, nel tempo dell’estrema povertà che ci circonda e che diventa nel testo anche un segno di fiducia nella parola nonostante tutto, purché tale parola poetica sappia spogliarsi dei suoi orpelli e ridursi all’osso per resistere:  

Una sola legge: resistere all’entrata/nel nuovo corpo, arrestare la forma/tenera in gioiosa progressione/restringendola come linea sul foglio / (Ché non bruchi il bianco) /e di là nuovamente al corpo/tracciare corridoi di continenza/nel freddo stellare. / …

I TESTI PUBBLICATI IN QUESTO BLOG SONO DI MIA PROPRIETA’: CONSENTO LA LORO STAMPA IN FORMA CARTACEA PER SOLA LETTURA E LA CITAZIONE DEL MIO NOME IN CASO DI UTILIZZO IN VOSTRI SCRITTI.


1 “Io non voglio più/mangiare/io non voglio/fiorire in questo/corpo che non sa/più fiorire io/non voglio mangiare/io non voglio più/mangiare ma/essere mangiata.  Vito M.

3 La spaziatura dei testi è analoga ai primi già citati e dunque irregolare; ma per rendere più facile la lettura ho pensato sia meglio citarli in questa forma.

4 Op.cit.

MORTI A TEATRO

La trama e i personaggi

La trama de Il tempo dei morti di Alessandro Carrera, appena uscito per Moretti&Vitali, è costituita da una vicenda famigliare che ricorda anche l’ambientazione di Piccola città di Wilder, come viene detto nella prefazione di Franco Nasi, che si riferisce a una nota dell’autore, contenuta nell’intervista finale. Quanto ai personaggi – Il Padre, la Madre, il Figlio, Il Bambino Morto, l’Angelo, il Droghiere, il Coro dei morti, il Padre ragazzo – essi sembrano richiamarsi lontanamente alla trinità cristiana, circondata da altre figure più o meno canoniche a essa collegate; tuttavia, alcune vistose anomalie rendono tale riferimento subito precario. Prima fra tutte la presenza del Droghiere, forse il personaggio più importante, insieme al Coro, indicato peraltro con un parola ormai desueta, nel senso che lo smercio tipico di quella attività è stato assorbito da mercati più ampi: il Droghiere ci riporta indietro nel tempo. Che mondo è dunque quello che viene rappresentato? Se stiamo alle indicazioni di scena iniziali vi sono pochi dubbi: tutta la vicenda è ambientata in un cimitero.  La poesia, a cominciare da quella che abbiamo imparato a scuola, è piena di discese nell’Ade, di morti che parlano, di viaggi iniziatici, di miti: sono personaggi di autori memorabili che ognuno ricorda. Anche il cinema, l’arte più moderna, ha frequentato il mondo di là, in vari modi: da La voce della luna di Fellini al Nosferatu di Herzog; infine il teatro. L’episodio biografico cui Carrera si riferisce e cioè proprio una rappresentazione teatrale cui assistette suo padre nell’immediato dopoguerra, è un segnale importante. Lasciate stare i nostri morti fu urlato dal pubblico che vi assisteva: i lutti ancora recenti avevano alimentato quel grido, ma la memoria di quell’episodio ha lavorato a lungo nella mente e nel cuore dell’autore se dopo decenni, quei morti tornano a parlare. Non ci dicono nulla sull’aldilà: siamo in piena modernità, questi morti hanno lo sguardo sempre puntato sul mondo che li ha ospitati da vivi, guardano all’al di qua e in questo ricordano anche i defunti dell’Antologia di Spoon river, ma solo come eco, perché in quei testi prevale una forza sintetica che spinge quei morti a esprimersi in un linguaggio definitivo, senza appello. Ne Il tempo dei morti, invece, è la tensione dialettica fra frammenti illuminanti e flusso a dominare. Tale tensione si stempera in un finale addirittura allegro, persino scherzoso e riconciliato, dal colore improvvisamente solare, a differenza della colorazione cupa che accompagna il testo fino a quel momento. Carrera qualche indizio sulle ragioni del percorso lo dà nell’introduzione e nell’intervista finale quando afferma che quest’opera, che lo ha accompagnato per molti anni, è stata:

una lotta con un fantasma, che nel testo è rappresentato dal Bambino morto …  (Pag. 81).

A questa affermazione segue una rapida descrizione del contesto famigliare che provo a riassumere, con una precisazione e cioè che la ricostruzione della trama è qualcosa che il lettore può compiere a cose fatte, ma che non riguarda il tempo del testo – il tempo dei morti – che non può essere lineare come lo è invece qualsiasi ricostruzione ex post.

Nelle prime sette scene, concluse dal Coro dei Morti, si presentano le otto voci e il loro conflitto. Nella seconda metà del dramma (scene 8-14) il conflitto prende corpo. Il Figlio deve scendere nel Regno dei Padri per comprendere che cosa è accaduto tra il Padre morto e il Bambino morto, affrontando la paura della Madre. Il Figlio comprende ciò che è accaduto al Padre e allo zio (il Bambino morto), ma solo in  sogno. Il Coro dei Morti esprime una certa ostilità verso l’Angelo, facendogli capire che la sua immortalità ai morti non interessa; quello che loro vogliono è vivere nel ricordo dei vivi. Il Droghiere sorveglia fino all’ultimo che le cose vadano a buon fine: il riscatto del Padre e del Bambino avviene, ma all’insaputa della Madre e del Figlio che, in quanto ancora vivi, non vi possono assistere. La comparsa del Padre Ragazzo, che ritrova il Bambino morto in un luogo e in un tempo in cui non c’è nulla di vicino o di lontano, conclude l’opera.

La dialettica fra squarci illuminanti e flusso porta il lettore dentro un vortice, di cui però alcuni indizi e segnali permettono di delineare dei confini sia spaziali sia storici. Qualche altro segnale lo lascia Carrera. Il suo accenno biografico alla fuga – l’espressione è soltanto mia ma mi sembra calzante – da Milano verso gli Stati Uniti all’inizio degli anni ’80, anni assai decisivi sia per la grande storia, sia per quelle personali, offrono una cornice temporale sufficientemente riconoscibile a questa narrazione in versi. Nel primo racconto del Padre morto e poi in quello del Droghiere, la collocazione storica, emerge con sufficiente chiarezza, pur nel mezzo di riflessioni che seguono una loro logica interna ai personaggi, da monologo interiore. Siamo fra Milano e Lodi, cioè fra la grande e la piccola città di provincia: ci sono il teatro Carcano e la Scala, l’Eni di Enrico Mattei e i crucci di chi deve ricostruirsi una vita alla fine del conflitto. Il Droghiere tornerà a parlare intorno agli stessi temi.

Il Droghiere

Anche a successive riletture continua ad apparirmi come il personaggio più importante, insieme al Coro. Nel suo primo intervento rimprovera il Padre, lo esorta a dimenticare il discorso che intende fare e che sarebbe poi l’orazione funebre dell’amico in occasione del suo funerale. Capiamo subito che la relazione fra il Droghiere e il Padre morto è stata una grande amicizia:

Metti via che non serve. I discorsi

Già stancano i vivi, ma qui non ci sono

Che morti, stanchissimi e morti. Non so

chi ha voluto che fosse così, alle

Pagine del libro che lo spiega non

C’è volta che ci arrivo …

Il tono ironico dei primi versi si rovescia nella seconda parte: la domanda implicita rimane sospesa e l’accenno alle pagine di un libro che dovrebbe poter spiegare ogni cosa si apre a significati molto estesi. Nella seconda parte del suo discorso torna l’ironia e il tono s’abbassa considerevolmente:

… Gli esami, lo sai, non li davo.

 Non per colpa di donne

o di treni, ma a lezione facevo tardi

Anch’io, e perdevo l’inizio; di tutto,

di come son fatte le cose, di quando

comincia la donna nell’uomo, la radice

quadrata di Dio. Tu sei ancora troppo

vivo, hai le guance bagnate di sonno

e di sogni, non ti basti come noi

ti vorremmo, ti tieni così stretto

a chi sei stato, mi sembri l’internato

di Mauthasusen che a casa da sei

settimane ancora serrava la gavetta

fra le mani vuote …

Il Droghiere rifiuta il discorso/narrazione della storia fatto dal Padre Morto, ma non propone un punto di vista più elevato: neppure lui ha una risposta definitiva, le sue debolezze sono umane come quelle di tutti gli altri, non è la trasfigurazione di una capacità superiore di vedere le cose. Insieme al Padre rappresenta una coppia di amici che hanno vissuto gli stessi anni e le stesse inquietudini: sullo sfondo il difficile secondo dopoguerra. Il Droghiere, in definitiva, sembra essere poco più di un fratello maggiore. Sono vite bloccate, diversamente prigioniere di un destino ormai postumo – sia esso del tutto personale o meno –  che può essere ricostruito solo per frammenti, i quali tuttavia non dialogano fra di loro se non raramente e il motivo sarà proprio l’Angelo a dirlo, come vedremo. Quest’ultimo, più che caduto, scende per scelta nel mondo. Se è un Angelo ribelle, la sua è una ribellione tenue, assomiglia di più a una diserzione: un poco ricorda l’angelo di Un cielo sopra Berlino, ma quello che dice nella prima sestina, è una sentenza che assume la funzione di chiave – intendo il termine nel suo senso musicale – della sua presenza nell’opera:

Prima sestina dell’angelo:

Mi sono ribellato, perché esser felici è intollerabile.

Ho scosso il capo alla salvezza, sotto stelle senza pena,

e sono sceso. Ti annuncio il dolore, l’unica novella

che non mi fa arrossire. Forse non abbraccio il tuo potere,

tanto è più  grande del mio, che invece di riavvolgere

il tappeto manifesto lo consola di una nuova tramatura.

e sono sceso. Ti annuncio il dolore l’unica novella, è questa la sola novella che non fa arrossire chi la pronuncia. Lo spostamento rispetto alla buona novella cristiana è decisivo. Successivamente, le parole dell’Angelo, quando si rivolge alla Madre, esprimono a mio giudizio uno dei temi  più importanti dell’opera:

L’Angelo

Un oblio insondabile e perfetto

Trascorre da una schiatta all’altra

Con la stessa ardente cura

Con cui gli uomini si traggono il sapere.

Pienezza dei padri è soltanto l’infanzia dei figli,

saggezza  intrasmissibile dei vecchi

È che i giovani, lungo la memoria,

diventeranno più e più immemori …

L’oblio, l’impossibilità di una trasmissione fra le generazioni, ma anche fra i membri di una famiglia, la perdita di memoria. l’Angelo lo ribadisce e dunque dalle sue parole emerge quel tanto di consapevolezza in più che tuttavia non può essere condiviso. Siamo così lontani da quello che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni? La perdita di memoria storica, oppure la sua reiterazione inutile perché banalmente ritualizzata, non sono forse una delle caratteristiche salienti del nostro tempo? Quanto alla memoria personale, sappiamo quanto sia labile e sottoposta alle rimozioni: come sia facile scambiare date e situazioni. In fondo, anche per i vivi, il tempo lineare è una difficile conquista. Solo il lettore, a questo punto, può decidere di assemblare i frammenti diversi di queste consapevolezze. In questo senso, il testo di Carrera chiede la sua cooperazione ma non la sua complicità perché i silenzi, i vuoti, persino le amnesie – nonostante il flusso – o non permettono una sintesi, oppure ne permettono molte; o a ciascuno la propria.

I dialoghi fra la Madre e il Figlio sono stati per me la parte più difficile da decifrare. Non mancano anche nei loro interventi frammenti illuminanti, ma sembrano correre su due binari paralleli: la discesa alle Madri è particolarmente difficile e lo è forse di più per un uomo, se ha nicchiato pure Goethe come afferma Carrera nell’intervista. La ragione per cui il Figlio è nato e insieme non nato, anzi disnato, è la presenza del Bambino Morto, il fratello del Padre, morto da bambino in circostanze cupe e che porta lo stesso nome del Figlio. Tuttavia, si comprende che del Regno dei Padri la Madre non sa e non vuole sapere nulla e teme che il Figlio non faccia più ritorno, mentre lui deve staccare da sé il fantasma del Bambino morto per poter dire di essere nato. Anche il Figlio e il Ragazzo morto sembrano condannati a un linguaggio ancora più magmatico perché la loro esistenza, più ancora di quella degli altri, è senza interlocutori. È questa la ragione per cui i versi con cui si esprimono sono così franti rispetto alla solennità di altri? Probabilmente sì, ma talvolta ho avuto la tentazione di leggerli senza la cesura del verso decisa da Carrera. Nel primo intervento del Figlio pare di sentire tutto l’affanno del dire, anche se nel finale s’intravede una possibile luce:

Pure un indizio

Di memoria

Ancora mi raggiunge,

mi questiona.

Anche nelle prime battute della Madre s’avverte il medesimo affanno, è un parlare a se stessa più che al figlio, c’è una distanza palpabile che rende la comunicazione quasi impossibile. In un passaggio la Madre ricorda Maria, quando implora il Figlio di non interrogarla e prosegue così:

… comprendimi in silenzio,

io ti ho concepito nel silenzio,

tu destino, tu contemplazione,

come io fui contemplata e soppesata.

Il silenzio, in questo caso, sembra essere quello di chi nel progetto generale non ha avuto voce, perché è stata contemplata e soppesata da altri, cioè il mondo dei padri. Nelle parole della madre, infatti, la storia non compare mai e una volta sola sembra affacciarsi nelle parole del Figlio quando afferma:

Ragazzi come io non sarò mai,

seduti sui muretti

spruzzati con la canna,

intenti farsi grandi

sognarsi come padri, più furbi e fortunati,

 fumano fuori dalla fabbrica

abbassando scappamenti.

Per una conclusione

Classificare un libro come Il tempo dei morti non è facile e forse solo dopo esserci tornato più volte si potrà dire qualcosa al proposito. Il mio percorso, peraltro, è stato testuale e probabilmente parziale, ma nel concluderlo è aumentata in me la convinzione che un testo del genere, può trovare nel teatro il suo felice punto di caduta. Se il Droghiere è il personaggio chiave della prima parte del testo, il Coro dei morti ha svolto un ruolo determinante nel giungere a tale conclusione perché non si tratta solo di un omaggio alla radice greca della nostra cultura, come avevo pensato a una prima lettura. Prima di tutto la sua collocazione centrale nel testo: è la settima sezione su quattordici e segna il passaggio da un prima a un dopo. La metrica è solenne, oscilla fra il blank verse della poesia inglese e l’endecasillabo, ma la particolare disposizione del testo conferisce al medesimo una sonorità molto forte, a volte aspra, che invoglia anche il lettore solitario a una recitazione a voce alta. La particolare compattezza del testo, si rovescia però nel suo opposto perché, facendoli parlare a turno e affidando a ciascuno una quartina diversa, il coro si disgrega in una molteplicità di voci che parlano individualmente, rompendo così la tradizione che affida al Coro una verità sovra determinata. Nel loro parlare insieme e disgiunti chiedono ancora una volta al lettore o allo spettatore di cooperare. Le sintesi non possono che essere tante e diverse, prestandosi anche a messe in scena per nulla tradizionali, dove la musica e persino la danza moderna possono svolgere un ruolo decisivo insieme a una parola che propone, nel corso dell’intera opera, un’alternanza di stili – da quello più alto, al basso colloquiale, al medio – che si prestano a loro volta a una polifonia di soluzioni.

IL RITORNO/THE RETURN

Il poemetto Il ritorno fu pubblicato sul numero 9 della rivista Smerilliana nel 2008. Della redazione, insieme al direttore Enrico D’Angelo, facevano parte anche Mariella De Santis,  Alessandro Centinaro e Antonio Tricomi, ma anche Anthony Robbins collaborava già con la rivista. Ci eravamo appena conosciuti e non osai chiedergli subito se se la sentiva di tradurre il mio testo in inglese. Glielo chiesi anni dopo, quando la nostra confidenza era assai maggiore, ma la possibilità di pubblicare subito la traduzione non c’era. Anthony rispose subito affermativamente e si mise al lavoro: in brevissimo tempo la traduzione arrivò e ne ammirai subito la sapienza. In fondo, l’inglese è la mia seconda lingua per cui posso dirlo con qualche cognizione di causa. Lo pubblico ora, nel suo ricordo e in quello delle nostre discussioni sui poeti che amavamo, primo fra tutti Wallace Stevens.  

Anthony Robbins alla Triennale

        

I.

Giunsi dopo di lei alla deriva

l’oscuro già l’aveva avvolta

e quando vidi il gorgo che s’apriva

e mulinando si chiudeva

mi arrestai sgomento …

Due leggi si affrontavano feroci

due belve tatuate nella carne …

Sentivo su di me occhi segreti

e le tenebre appena alzate in volo

confondevano la scena, il mare

un sipario disteso e la platea

un cielo ed il tumulto sotto

una belva rappresa.

Quando fui pronto me li vidi accanto.

Erano in tre e il primo disse:

solo a me dovrai rispondere

va’ dunque e sii veloce,

dimentica il tuo canto

prima che il freddo ti travolga e il peso.

Così parlò il secondo:

non il tempo dovrai temere

ma la luce degli occhi

tieni lo sguardo fisso al filo.

Toccò parlare al terzo:

né il tempo né lo sguardo

ti sono nemici ma il doppio

che ognuno rode in proporzione

e l’una fiamma all’altra paga il prezzo.

Ma già non ascoltavo e più vicino

al punto dove il gorgo mi attirava

vidi l’acqua oscillare

e l’orizzonte splendere come un

diadema di pupille fisse.

Mi gettai deciso fra le urla e i flash …

Fui lesto ad afferrare il filo,

cadevo a piombo e giunsi in fretta.

II.

Il luogo era assopito nei miasmi

e un novembre eterno lo copriva,

un tonfo sordo ed isomorfo,

il vento il fiato di una iena

unico rosso un accecante faro,

l’orribile parvenza della luce.

S’agitavano le ombre nel crogiolo,

il torchio di umidi sottili

tutte le impregnava e verso il fondo

inesorabile le trascinava.

Soltanto il filo riluceva

divorava la strada verso l’alto

verso l’alto e la luce vera …

guardando dove il gioco parallelo

si trasforma in mani congiunte

vedevo la scintilla, n’ero certo

il tremito di un numero periodico,

la fragile candela dire vieni,

qui c’è una casa, un fuoco acceso …

Scendevo ancora e ad ogni balzo

usciva l’orrore dai suoi viluppi

e dalla nebbia livide le forme

e un suono d’ovatta basso e denso,

un roco fuoco di voci rapprese.

Vidi la cagna che l’aveva uccisa

con il silenzio e la mano che di lei

fu l’arma, aggrovigliata al volto

disocchiato di un amante vile …

Raggiunsi un punto vuoto

il vero fondo, là dove figure

sempre più dense e impantanate

sprofondavano e l’occhio

che le seguiva stralunava

i suoni dentro il gorgo rallentando

così che ciò che udivo e vedevo

si univa nell’impasto di ogni senso

fino al gradino ultimo del gelo.

III.

Quando tutto si calmò mi ritrovai

rivolto verso l’alto e sentivo

dietro di me scuotersi il filo

così che l’onda era per me oro

d’intimità con lei e piombo.

Mantenevo costante il movimento

ma il freddo induriva la mia pelle

più avanzavo più divenivo ghiaccio.

Risuonarono le parole del primo

e mi affrettai ma non so come

mi sembrava di essere fermo

e allora alzai gli occhi e in lontananza

vidi la scintilla, il tremolio e

fu il conforto. Ma l’attimo si spense,

alzai di nuovo gli occhi di chi implora …

………………………………………………….…….

Non è vero ciò che dissero di me

chi di noi dispone secondo legge

e muta i corpi di chi scende

e disordina ogni direzione

fece quello … Me la trovai davanti

che andava nell’opposta via,

lei la tanto amata, già divenuta

grotta di sé, parola di granito.

IV.

Balzai nell’aria come un urlo perso

e caddi come un mimo disossato.

Quando toccai la dura terra

vidi il mio strumento abbandonato

che girava già di mano in mano

e il canto un suono dissipato

correva tra le folle della spiaggia

avvelenava i figli e rimbalzava

come un eco distorto di quell’oro.

Ero solo con il mio fiato …

E vidi il quarto, il signore

dell’enigma e dell’oblio incidere

nel cerchio dove tutto è prima

che scritto il segno del silenzio

perché un altro immemore riscriva.

I.

I came well after her to the edge

the dark had already swallowed her

and when I saw the whirlpool opening

and swirling close on itself

I stopped in horror…

Two savage laws confronted each other

two beasts tattooed in the flesh…

I felt I was watched by secret eyes

and the dark just risen in flight

confused the scene, the sea

a flat curtain and the sky

its theatre, and the tumult below

a clotted wild animal.

When I was ready I saw them close by me.

Three of them, and the first said:

Only to me will you have to answer

go then and be rapid

forget your song

or the cold or your weight will whelm you.

Thus spake the second:

Not of time shall you have fear

but the light of their eyes,

keep yours fixed on the clue.

The third spake in turn:

Nor time nor their eyes

are enemies, but your double:

each wears down the other in equal measure

and each flame pays the price to the other.

But now I had ceased heeding and nearer

to where the whirlpool drew me

I saw the water dancing

and the horizon shining like a

diadem of fixed pupils.

I threw myself straight between the howls and

the lights, quickly seized the clue

fell like lead and landed straight.

II.

Sunk in miasmas the place slumbered

and endless November lay over it,

a dull isomorphous thud was

the wind like a hyena’s hot breath,

only the red of a blinding beacon

the horrible illusion of light.

The shades writhed in their melting-pot,

the press of subtle liquids

impregnated all of them and

resistless dragged them to the bottom.

Only the clue glimmered

devouring the way up

the way out to the light of day…

looking where the parallels

change to joined palms

I saw the spark, I was sure of it

the tremor of a recurring number,

the feeble taper saying come,

here there’s a home, a fire lit…

Further I descended and at each bound

the horror loomed out of its drapes

and from the livid mist the forms

and a muffled sound, thick and low,

the hoarse rasp of clotted voices.

I saw the she-hound that had killed her

with silence and the hand that was its

weapon, entangled with the eyeless

visage of a repulsive lover…

I reached an empty space, which was

the real bottom, there where figures

ever thicker, ever more steeped in mud

sank deeper, and the eye that

followed them gaped wide,

the sounds in the gorge dying down,

so that what I heard and saw

was mixed in a soup of all my senses

down to the last dread step of ice.

III.

When it all died down I found myself

looking upward and I felt

the clue quivering at my back

so that to me the wave was the gold

of intimacy with her and also lead.

I kept moving constantly

but the chill hardened my skin

and the further I went the more I froze.

The words of the first returned to me

and I hastened on, but I know not why

I felt immobile, stock-still

and so I raised my eyes and far away

saw the spark, the trembling and

this brought me solace. But the moment died

and again I raised my eyes in supplication…

……………………………………………………………….

There’s no truth in what they said of me:

he who disposes of us according to law

and changes the bodies of those who descend

and confuses all directions, he it was

who did this…I found her before me

moving the opposite way,

her the much loved, already become

a cavern of herself, a granite word

IV.

I leapt in the air like a lost shout

and fell like a boneless mime.

When I touched the hard earth

I saw my abandoned instrument

already passing from hand to hand,

and the song was a melting sound

running around the beached crowds

poisoning its sons and returning

as a twisted echo of the lyre’s gold.

Alone I was with my sole breath…

And I saw the fourth one, the lord

of the enigma and forgetfulness,

trace in the sand where all – before

being written – is the sound of silence

so that another forgetting writes again.

Il doppio effetto dell’amore, desiderio e frantumazione dell’io nella poesia di Guido Cavalcanti. Di Paolo Rabissi

Il messaggio di un poeta ducentesco in una sorta di autocoscienza maschile. Pubblicato sulla rivista Overleft.it.

Noi siàn le triste penne isbigottite…

Bastano i versi del sonetto XVIII delle ‘Rime’[1] per venire a conoscenza di buona parte del mondo poetico cavalcantiano. A sorpresa, con una tecnica compositiva non insolita nel Dolce Stil Novo, scopriamo che a parlare sono gli strumenti antichi della scrittura, la penna d’oca, le forbici per farle la punta, il coltellino per raschiare la pergamena, gli oggetti che, per scrivere, l’autore ha maneggiato. Come suoi sostituti si presentano a noi (nel senso di lettori gentili, dotati di ‘intelletto d’amore’) ci pregano di ‘tenerli’, di accoglierli con pietà nella loro misera condizione, riflesso di quella cui appartiene il cuore dell’autore distrutto dall’amore.

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Luoghi del cuore e di utopie

Le tre poesie di seguito sono inedite e sono dedicate alla città di Berlino, dove ho trascorso molto del mio tempo negli ultimi 15 anni. Il testo dal titolo Kottbusser Tor è stato letto durante una seduta del salotto Galzio.

Berlino/Amarcord 3

Misurare a sorsi l’attesa

dall’angolo ottuso. Berlino

è un castello incantato

solo la musica e i bicchieri

sorreggono il peso della sera

fra le stoviglie allegre tintinnanti.

Due in bicicletta sbirciano dentro,

se ne vanno – sfoglio distratto

Il tempo ritrovato.

Proust è un compagno di viaggio

spietato e il tempo sembra immobile,

sospeso.

                Ma ecco il sole che rinasce,

sospinge più in là quel timore

di tenebra che spunta ai lembi

esterni di una foglia. Chiudo il libro

è tempo di un buon vino.

****

Kottbusser Tor

La piazza non è una vera piazza

e sempre disorienta.

Nel traffico di bancarelle

l’orientamento è in bilico.

In fondo, in lontananza,

sembra di scorgere un ponte

e il richiamo del fiume ti cattura:

ma di là c’è Istanbul

e allora la porta girevole

fra due mondi ti trattiene

incerto sul che fare alla fine

ci si ferma un po’ a sognare.

***

Schlachten See

A Franco Sepe

È un cerchio magico di acqua e bosco

il luogo delle nostre passeggiate.

D’estate è una spiaggia di Berlino

d’inverno è ghiaccio e silenzio.

Quando il gelo si rompe

e il sentiero risorge pulito

nell’aria frizzante di aprile

si torna di nuovo a girare in tondo

fino a quel bar con i tavoli fuori

al sole che riscalda ma non brucia.

Sembra che la natura abbia

un altro passo, o forse l’antica

foresta dei druidi ci alita

addosso e ci protegge. Così tace

qui la città, si fa meditativa …   


3 Amarcord è un bar di Berlino situato in Handjerystrasse 55 nella zona di Friedenau. Non ha nulla di particolare ma. come altri luoghi a Berlino, è sempre teatro di qualche evento imprevedibile, musicale o letterario. Inoltre è un bar libreria con una forte propensione per la cultura e la narrativa italiane.