IMPERO E MULTINAZIONALI
Premessa
Per Impero intendo un sistema di alleanze che ha al suo centro gli Stati Uniti, ma che non corrisponde a quello che si definisce Occidente, parola che viene usata e abusata senza mai entrare troppo nel merito del suo significato. In realtà si tratta di un impero statunitense-anglo che si estende a tutto il mondo di lingua inglese, seppure con alcune contraddizioni al proprio interno, che riguardano la Gran Bretagna dopo la Brexit e il Sudafrica, che non si può considerare organico a tale aggregato. In quest’area, che è al tempo stesso geopolitica linguistica e culturale, hanno le loro sedi le maggiori società multinazionali. Ciò che tale studio intende fare è un contributo alla comprensione degli intrecci fra la geopolitica imperiale e l’operatività delle multinazionali. I dati sono stati raccolti una prima volta durante il Covid, ma gli aggiornamenti recenti non indicano sostanziali cambiamenti. Per iniziare sono utili alcuni dati di riferimento sull’evoluzione dei più importanti settori manifatturieri negli ultimi decenni. Ho fatto riferimento a due diverse fonti anche per i loro orientamenti politici, ma entrambe autorevoli e sostanzialmente coincidenti rispetto ai numeri. Entrambe sono facilmente controllabili: i siti di provenienza si possono leggere cliccando sulle sigle. Questa analisi dettagliata dei comportamenti si trova nell’appendice in coda al testo: ho scelto tale soluzione per non appesantire questa riflessione, il più possibile sintetica.
Un quadro prevedibile
Le prime deduzioni che si possono trarre da una prima massa di dati riportati nelle prime pagine dell’appendice, sono due: il massiccio trasferimento di reddito da lavoro a capitale e la concentrazione del capitale medesimo. Tali fatti si sono consolidati in un arco di tempo che inizia negli anni ’80 del secolo scorso e che trova il suo picco dalla caduta del muro di Berlino in poi. Le premesse antecedenti vanno cercate nella scelta di Nixon del 1975 di seppellire gli accordi di Bretton Woods, scelta che segnò il passaggio da un modello di moneta coniata peraltro già in crisi a un modello di moneta creditizia. A partire da questi primi dati ho esaminato prima di tutto il modo di agire delle multinazionali nei diversi scenari geopolitici a cominciare dalle 10 maggiori per fatturato e provenienza. Due ulteriori aspetti da cui si prescinde in questa prima parte sono gli eventi come le epidemie e tutto il discorso riguardante le guerre di intelligence. I dati fin qui raccolti possono definirsi ovvi, nel senso che non presentano un quadro diverso da quello che ci si poteva aspettare, anche senza mettere in campo particolari competenze. Analogamente, certi comportamenti standard che verranno rilevati nel prosieguo, tipo attività di lobbying quando non di vero e proprio ricatto messi in atto dalle multinazionali, non possono stupire, come pure la sostanziale subalternità dei poteri politici (quello degli Usa compreso, seppure con margini diversi autonomia), rispetto a tutte le altre aggregazioni nazionali o sovranazionali. Perché allora uno studio come questo? La prima e principale ragione è di verificare se l’ipotesi più volte evocata di uno spostamento strategico dell’impero statunitense-anglo sullo scenario estremo orientale, un parziale o totale abbandono del Medio Oriente al suo destino, sia realistica o meno e fino a che punto lo sia, eventualmente. Naturalmente si tratta di una questione decisiva per l’Europa. Una seconda ragione sta nel cercare di capire se gli elementi di crisi presenti nella politica statunitense – dunque nel cuore del potere imperiale e da tempo – sono l’indice di una crisi ancora più profonda e inarrestabile di egemonia, oppure no. Un’ultima considerazione prima di cominciare. Londra rimane il più grande mercato finanziario del mondo, ma la Brexit, evento non propriamente previsto, di natura intermedia fra una turbativa catastrofica e una crisi qualunque, rimane un’incognita su cui è bene per il momento non lasciarsi andare a previsioni, ma piuttosto cercare di monitorare quanto avviene giorno per giorno.
La politica delle multinazionali
I dati salienti che si possono ricavare dalle analisi riportate nell’appendice sono tre: l’espansione nel continente asiatico è abbastanza recente, c’è un vivo interesse verso le repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale, un’importante crescita d’interesse per India e Cina e una forse sorprendente minore rilevanza del Giappone. Tuttavia, il quadro generale, ci dice che negli ultimi anni il fatturato nell’area asiatica è diminuito dell’8% nonostante la crescita globale del fatturato.
Il secondo è che Europa e Stati Uniti rimangono i mercati fondamentali per Microsoft, la più grande fra le 10 più importanti, mentre l’estremo oriente è un’area interessante, ma solo un po’ di più di Africa e America latina. Le pressioni sull’Europa quindi, saranno ancora forti e l’attività nevralgica di lobbying che Microsoft intraprenderà, sarà identica a quella documentata nell’appendice anche maggiore perché non si tratta solo di aumentare i profitti ma esercitare forme di controllo sempre maggiori sugli stessi governi dell’unione, del tutto dipendenti dalla tecnologia del colosso statunitense. In particolare, Microsoft condurrà una battaglia contro la possibilità del software libero. Quanto ad Amazon, la sua espansione ha assunto dimensioni che alcuni siti stessi indicano come mostruose e riguardano il mondo intero seppure con alcune precisazioni. Sulla potenza di Amazon inutile dilungarsi di più ma ai fini del discorso che si fa qui quello che è importante mettere in evidenza è che, per le caratteristiche del servizio che svolge, Amazon tende al massimo di concorrenza possibile alle imprese che agiscono nell’e-commerce, ma la sua diffusione dipende esclusivamente dalla natura dell’impresa stessa, per cui il criterio seguito è quello di un’espansione on demand. Gli elementi che caratterizzano Amazon sono altri: i tassi allucinanti di sfruttamento del lavoro – e dunque gli alti profitti – ma anche la necessità di ricorrere a magazzini di logistica che mettono in movimento quote crescenti di lavoro vivo che tende a ribellarsi, come avviene in altri settori dove la logistica svolge un ruolo strategico. L’aggressività di Amazon, che ha monopolizzato un settore a livello mondiale, andrà tuttavia incontro a limiti oggettivi, prima di tutto perché è riuscita a cannibalizzare tutto il settore dell’e-commerce con una tale voracità da diventare troppo grande in breve tempo, come la famosa rana che si gonfia fino a scoppiare. Sia per la resistenza operaia, sia perché altri saranno indotti a trovare nicchie di mercato, sfruttando le prevedibili manchevolezze, Amazon andrà incontro a un momento di crisi e di stabilizzazione successiva, cedendo quote di mercato.
Fra Apple e Google vi è invece una divisione delle parti: Apple prevale nei mercati occidentali a causa del costo elevato dei suoi prodotti, Google nei mercati emergenti. Infine Facebook. Le ragioni della relativa crisi di facebook le conosciamo: le falle nel sistema di sicurezza, le profilazioni incontrollabili e finite in chissà quali mani, il sospetto di influenza sulle campagne elettorali, le vertenze in atto un po’ in tutto il mondo per farsi dare dei rimborsi: anche in Italia Altroconsumo ha avviato una class action. Sotto certi aspetti Facebook assomiglia ad Amazon ma, per ragioni diverse, sarà soggetta a fragilità che sono esplose negli ultimi due anni.
Non mi occuperò invece per il momento di Berkshire Hathaway (Stati Uniti): 496 miliardi di dollari di Visa, di JP Morgan e delle due cinesi Tencent (Cina): 436 miliardi di dollari e di Alibaba (Cina): 431 miliardi di dollari, perché non influiscono sul bilancio generale che si può trarre da questi dati alla luce dei cambiamenti intervenuti nella politica statunitense e cioè guerra dei dazi e il tentativo di tornare a forme di protezionismo avvenuti durante la presidenza Trump e non ritoccati più di tanto dalla presidenza Biden. I dati sembrano suggerire che vi è indifferenza fra i due comportamenti perché l’impatto della politica di Trump ha colpito al cuore la strategia mercantilista tedesca e dunque europea, ma è ininfluente sulle politiche delle aziende più tecnologiche. In sostanza la politica di Trump ha avuto una forte incidenza sui mercati cosiddetti maturi (quello dell’automobile per esempio), ma non sulle dinamiche di altri settori. La politica di Trump andava a colpire alcune eccellenze europee e metteva in crisi maggiormente settori come quelli della piccola e media industria e questo ha grandi conseguenze sull’Italia – per esempio – come si evince dall’attivismo frenetico delle associazioni di questi settori. Il ritorno di Biden non ha cambiato più di tanto la situazione: pur lontano dal protezionismo, a parole, in realtà non ha toccato le modifiche introdotte da Trump: il solo cambiamento significativo sta nella politica distributiva dei redditi e nell’uso della guerra ucraina per demolire gli accordi energetici fra Russia e Unione europea, costringendo gli europei a rivolgersi agli Usa per le forniture energetiche e pagarle molto di più.
Conclusioni provvisorie
Joe Biden: “Non so se le prossime elezioni saranno pacifiche”. La dichiarazione è stata ripresa un po’ in tutto il mondo, in modo piuttosto asettico e senza troppi commenti. Le fonti diverse e facilmente reperibili in rete.
Rimane un’ultima domanda cui cercare di dare un minimo di risposta. In che misura la politica delle grandi multinazionali ha influenzato oppure è cambiata a seguito delle due diverse presidenze? Si può parlare di indifferenza fra due diversi sistemi che corrono in parallelo. Le 10 maggiori multinazionali e anche le altre che non hanno bisogno del WTO per attuare le loro politiche commerciali, continuano per loro strada senza troppi intoppi. Le dinamiche delle loro crisi possibili sono legate o a fattori di concorrenza con le due grandi cinesi Tencent e Alibaba. Tuttavia le dinamiche della politica imperiale si iscrive in un ordine di problemi diversi che fino ad ora possono essere descritti secondo uno schema di reciproca indifferenza che può diventare fonte di contraddizioni. Ne indico alcune, come se fossero i titoli di capitoli da esplorare.
- Il mercato è a occidente, la geopolitica no.
- L’Europa è un peso che gli Usa, per questa ragione insieme alla Gran Bretagna hanno fatto di tutto per impedire la nascita di una forte e autonoma Unione europea, ma l’impoverimento dell’Europa ha contraccolpi potenziali sui bilanci delle maggiori multinazionali Usa.
- Il mercato tecnologico può essere solo mondiale, ma i metalli rari sono quasi un monopolio cinese e in parte latino americano, dove la presenza cinese è molto forte.
- Il fronte interno statunitense va verso una polarizzazione potenzialmente drammatica.
- La Cina può aspettare senza fretta.
La seconda deduzione provvisoria che si può trarre è che i provvedimenti di carattere protezionistico di Trump hanno riguardato per un buon 90% i settori maturi e cioè il mercato automobilistico, gli alimentari, vestiario, settori manifatturieri in generale, con la sola – rilevante peraltro – eccezione e cioè lo scontro con la Cina per quanto attiene il sistema operativo Android cioè lo scontro con Huawei. La politica anti cinese di entrambi i presidenti, colpisce maggiormente l’Europa e il settore manifatturiero tedesco in primo luogo, mette in crisi il WTO, ma non sembra colpire la Cina più di tanto. Perché dunque questa politica? Trump è l’espressione di una contraddizione profonda che ci rimanda ai primi due punti dei cinque indicati alla fine della prima parte di questo studio: 1) il mercato è a occidente, la geopolitica no. 2) L’Europa è un costo che gli Usa non possono più mantenere ma così facendo la colano a picco. La politica di Trump, fondata sul breve termine per recuperare posti di lavoro nel tempo più breve possibile, ha funzionato eccome, ma è di corto respiro perché non riguarda i settori di punta. Questa dinamica schizofrenica è destinata ad approfondirsi e infondo il timore espresso da Biden nella dichiarazione all’inizio delle conclusioni va proprio nel senso una radicalizzazione dello scontro interno da un lato, e di un allargamento della forbice fra un mercato che continua a essere in larga prevalenza a occidente e una geopolitica che lo sarà sempre di meno. Tutto questo sembra portare a una collisione con la Cina, che le amministrazioni democratiche saranno probabilmente più determinate a perseguire fino alla guerra; ma chi spera che una presidenza Trump possa modificare le cose prende una grande cantonata. Quando Trump afferma l’inutilità della guerra ucraina, è solo per dire all’Europa: questa guerra fatevela voi, mentre sullo scontro geopolitico con la Cina non potrà tirarsi indietro. E se vincesse Harris? L’agenda di Harris è dettata da Biden e lo si vede molto bene dall’incontro settimane fra il Presidente e il leader britannico. Il teatrino sulla guerra ucraina andato in scena è una divisione delle parti. Biden nicchia sulla possibilità di usare le armi occidentali per colpire a Russia e il leader britannico lo vorrebbe: ma lo vuole davvero oppure è una scelta obbligata, un modo più soft della rozzezza trumpiana di dire all’Inghilterra la guerra fatevela voi che siete i nostri valletti in Europa? Quanto alla politica aggressiva anticinese s’inasprirà qualunque sia il presidente e lo dimostra proprio il discorso di Biden, non quello alla Convention democratica, ma quello fatto il giorno dopo, successivamente all’apoteosi festiva. In quel discorso sono stati posti due limiti precisi: di Gaza non si parla e Harris non potrà fare nulla di diverso sulla Cina. Biden è stato chiaro: il programma nucleare statunitense deve guardare in direzione cinese, Harris non potrà scostarsi di un millimetro da questa linea, a meno che non ci siano contrasti interni che ancora non vediamo. Del resto, nell’intervista successiva alla convention Harris ha già fatto molte marce indietro rispetto a quanto affermato in precedenza. La sua affermazione nel confronto diretto con Trump è dovuta maggiormente all’incapacità del secondo di porre un limite alla propria sgangherata emotività, oppure è il frutto di una scelta che gli è suggerita dallo staff, vai a sapere. In ogni caso, i nodi verranno presto al pettine. Rimane un’ultima questione cui cercare di dare risposta. Lo spostamento geopolitico verso l’estremo Oriente implica un abbandono parziale del campo mediorientale ed europeo? Le due questioni vanno a mio avviso tenute in parte separate. Le scelte suicide dell’Europa sulla guerra ucraina l’hanno messa ai margini, indipendentemente dalle dinamiche geopolitiche principali e cioè lo spostamento strategico verso l’estremo oriente. Proprio in questi giorni, la seconda tappa del suicidio si materializza nelle reazioni scomposte e al limite dell’incredibile al piano Draghi, che peraltro è stata la stessa commissione europea a commissionargli e non si può pensare che non sapessero già in partenza quali fossero le sue intenzioni, dal momento che quanto scritto nel rapporto Draghi lo ha detto più volte e infondo si muove nel solco del famoso whatever it takes di alcuni anni fa. La risposta è stata un no su tutta la linea. Il piano Draghi non è niente di che, non si scosta dai canoni del liberismo, prevede un’economia di guerra ma con due proposte logiche e di buon senso: se l’Europa è unita deve muoversi come una sola entità e questo vuol dire investimenti pubblici solidali e debito comune, altrimenti non stiamo parlando di un progetto comune ma di una accozzaglia di staterelli. Draghi è stato netto anche nel dire che se non sceglierà questa strada il declino dell’Europa diventerà inarrestabile e potrebbe aprire scenari nuovi e inquietanti; se sarà o meno conseguente con le sue parole è un altro discorso, ma non cambia la sostanza della cosa e cioè la marginalizzazione dell’Europa. Diverso ma altrettanto inquietante lo scenario mediorientale. Da tempo gli Usa cercano una soluzione che consenta loro di allentare la presenza mediorientale, delegando a Israele la funzione di cane da guardia della regione, ma le politiche al tempo stesso criminali e potenzialmente suicide della leadership israeliane – non solo del primo ministro ma di tutto l’establishment israeliano – hanno messo in scacco gli Usa in una misura fin troppo visibile a livello mondiale. Presi a pesci in faccia da Israele si sono macchiati di crimini di guerra – che differenza c’è fra chi il genocidio lo attua e chi gli fornisce le armi per farlo? – ma al tempo stesso il ricatto israeliano è riuscito a mettere ai margini qualsiasi tentativo di mediazione promosso dagli Usa, anche nelle forme più deboli e sempre sbilanciate in funzione antipalestinese. Fino a quando andrà avanti il ricatto israeliano nei confronti del mondo intero e di tutte le istituzioni internazionali? Potenzialmente sempre perché Israele – non solo il suo primo ministro e i coloni – sa fare solo la guerra e niente altro, ma questa politica rischia di creare un vortice nella quale cadranno in molti. Un commentatore israeliano è intervenuto in un dibattito recentemente ricordando una frase pronunciata anni fa da Golda Meir e quanto ma attuale: dopo la Shoah gli ebrei possono fare quello che vogliono e Golda Meir era addirittura una progressista secondo la disgustosa ipocrisia occidentale. Nel giudizio sulle prossime elezioni statunitensi, tuttavia, occorre distinguere alla fine due diverse questioni. La propaganda di entrambi i partiti metterà su di esse la sordina anche perché al popolo statunitense la politica estera interessa fino a un certo punto: una volta stabilito che 4 su cinque fra chi si esprime sta dalla parte di Israele e una volta detto che le perplessità sulla guerra ucraina sono molte, tali questioni saranno materia di scontro fra gli apparati di intelligence che se ne occupano: a questo proposito il controllo quasi monopolistico delle reti satellitari da parte Elon Musk potrebbe avvantaggiare Trump nelle elezioni ma sarà a disposizione di qualsiasi presidenza per scopi bellici. Le ragioni di politica interna determineranno probabilmente chi fra i due vincerà ma la crisi continuerà, con esiti imprevedibili perché il connubio fra cecità politica – gli Usa generano il caos ovunque ma non hanno vinto una sola guerra dalla fine della Seconda Guerra Mondiale in poi – e la possibilità di usare una forza ancora immensa è l’aspetto più pericoloso della politica imperiale statunitense-anglo.
APPENDICE A L’IMPERO E LE MULTINAZIONALI
Il potere delle multinazionali negli Stati Uniti
Pubblicato: 16 Ottobre 2012
(ASI)
… Lo Stato americano spende 500 miliardi di dollari l’anno in armamenti. Il budget per gli aiuti ai Paesi in via di sviluppo invece ammonta solo a 15 miliardi di dollari. Oltre a ciò la maggior parte dei media degli U.S.A., soprattutto i giornali e le stazioni televisive, sono proprietà di grosse imprese. Le multinazionali Disney, Viacon, CBS, Time Warner, News Corp, Bertelsmann e General Electric controllano più del 90% del settore dei media, e guadagnano i loro soldi principalmente con costose pubblicità. In Germania gli utili delle imprese e i redditi patrimoniali sono aumentati del 31% dal 2000 al 2005. Le imposte pagate su questi redditi nello stesso lasso di tempo sono invece diminuite del 10%. La stessa evoluzione diventa visibile in modo ancora più drastico se si guarda ancora più indietro: tra il 1960 e il 2006 le tasse sugli utili delle imprese e sul patrimonio sono diminuite dal 20 al 7,1%. L’imposta sul reddito da lavoro dipendente nello stesso periodo invece è aumentata dal 6,3 al 16,3%. L’imposta sulle persone giuridiche, di cui si è discusso molto e con la quale vengono tassati gli utili delle imprese, dal 1980 al 2007 è diminuita in tutta Europa dal 45 al 24%. Nello stesso periodo, l’aliquota più alta per i redditi maggiori è diminuita dal 62 al 48%…. Dall’altro lato, persone normali e piccole imprese pagano sempre più tasse e contributi, nonostante traggano sempre meno vantaggi dal nostro sistema sociale. Nel 1980 la somma delle imposte e dei contributi sul reddito da lavoro dipendente ammontava a circa il triplo delle tasse sul capitale, nel 2003 aveva raggiunto il sestuplo. Un insegnante e un operaio non possono dire così facilmente: “Bè, allora mi trasferisco in un altro Paese dove pago meno tasse”. I 55 miliardari tedeschi possiedono insieme un patrimonio di 180 miliardi di euro. Questa somma raggiunge quasi l’ammontare dell’intera Germania, cioè della cifra che lo Stato ha a sua disposizione in un anno per le spese: nel 2006 erano circa 260 miliardi di euro per questioni di lavoro e sociali, 8 miliardi per l’istruzione e 4 miliardi per gli aiuti ai Paesi in via di sviluppo. Le spese per i cittadini più indigenti nello stesso anno ammontavano a 30 miliardi di euro scarsi, e ogni beneficiario doveva cavarsela con 345 euro al mese.
Davide Caluppi – Agenzia Stampa Italia
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Fonte: www.attac.it
“Il libro che le multinazionali non ti farebbero mai leggere” di Klaus Werner-Lobo
Le società madri delle maggiori multinazionali sono concentrate per oltre il 95% in una decina di paesi ricchi. Il 42% delle esportazioni mondiali è effettuato all’interno delle filiali delle multinazionali. Rispetto al fatturato ed al potere economico di cui dispongono le multinazionali producono un numero di posti di lavoro molto basso.
Il controllo delle attività estere. Tra le multinazionali di ciascun paese un gruppo molto ristretto concentra nelle proprie mani la maggior parte delle attività delle filiali estere. Negli USA l’1% delle multinazionali controlla il 45% delle filiali all’estero di tutte le multinazionali. In Germania lo 0,7% delle multinazionali (50 società) controlla oltre i 2/3 di tutte le filiali estere tedesche. Il controllo delle filiali estere viene esercitato dalla società madri non necessariamente detenendo il 100% del loro pacchetto azionario, e spesso nemmeno con la quota maggioritaria, ma attraverso il controllo della tecnologia, dei marchi, dei servizi finanziari e del marketing.
La concentrazione geografica delle multinazionali
Il 96,5% delle società madri delle 200 maggiori multinazionali del mondo si concentra in appena 9 paesi. Queste società realizzano il 98% del fatturato e il 95% dei profitti complessivi delle 200 multinazionali. Nel mondo esistono oltre 63.000 multinazionali che controllano oltre 690.000 filiali estere. L’intero sistema delle multinazionali rappresentava nel 1997 ¼ del PIL mondiale. Negli Stati Uniti l’1% delle società madri (22 multinazionali) controllano il 45% di tutte le filiali estere delle multinazionali
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Analisi del comportamento delle maggiori multinazionali
La fonte principale cui faremo riferimento è la Forbes. Ecco come la redazione introduce il problema.
21 Settembre, 2018 @ 10:11 La redazione di Forbes.
Le più grandi aziende del mondo stanno diventando sempre più grandi. Ma quasi tutte hanno due cose in comune: sono tecnologiche e americane. La gara tra chi è più grosso, è una questione che si gioca tra pochissime aziende, tutte statunitensi: Apple, Amazon, Microsoft, Alphabet e Facebook. Si tratta di una competizione serrata e dove chi primeggia può perdere la posizione in poche ore. Infatti, la valutazione dei titoli azionari di una società può cambiare rapidamente. Così, quest’anno, Microsoft ha detronizzato Apple, che era l’azienda più grande nel 2018. I problemi di Apple e il successo di Microsoft. Attualmente, Apple soffre a causa delle scarse vendite di iPhone e MacBook. Al contrario, il modello di business di Microsoft è incentrato su flussi in costante aumento di entrate ricorrenti. Mentre le persone non hanno bisogno di un nuovo smartphone o laptop ogni anno, se hanno acquistato una licenza software, un pacchetto cloud o un abbonamento ad un videogioco, è probabile che lo rinnoveranno anche l’anno successivo. Ecco spiegato il sorpasso dell’azienda di Bill Gates a spese della Apple. Tuttavia, il valore delle azioni in circolazione di una società, cioè la sua capitalizzazione di mercato, può essere influenzato da una miriade di fattori imprevedibili. Ad esempio, i mercati azionari hanno ripetutamente perso valore a causa dei tweet del Presidente Donald Trump, comprese le società che avevano poco o nulla a che fare con l’argomento dei tweet: la Cina. Dietro ai numeri c’è sempre della verità. C’è chi si domanda se la capitalizzazione di mercato rifletta il valore oggettivo o il valore intrinseco di un’azienda. Warren Buffett a riguardo disse che “Nulla è più lontano dalla verità”. Tuttavia, essendo lui il fondatore di Berkshire Hathaway (in sesta posizione della graduatoria), sa bene che dietro ai numeri, capitalizzazione di mercato compresa, c’è sempre della verità. Mentre quasi tutte le prime 10 aziende più capitalizzate sono americane, spiccano due eccezioni: le società tecnologiche cinesi Tencent e Alibaba. Hanno infatti preso il posto di due colossi americani del calibro di Exxon Mobil e Wells Fargo. La loro ascesa ha segnato uno spostamento non solo nella composizione geografica della classifica, ma anche settoriale. Infatti, fino a un decennio fa, le società più capitalizzate sul mercato azionario erano società nel settore dell’energia, con una lunga storia alle loro spalle (Exxon, Generale Elettric e AT&T). Oggi sono quasi tutte le aziende tecnologiche. Meglio una gallina domani che un uovo oggi. Infine, è interessante notare come le aziende più grandi (in termini di capitalizzazione) non siano quelle che generano più fatturati. Tutte e dieci le società di questa graduatoria non sono nella Top 10 mondiale dei fatturati (Microsoft è solo in 60esima posizione). Come è possibile? Gli investitori preferiscono le start-up tecnologiche alle aziende che generano grandi fatturati perché hanno un potenziale di crescita molto maggiore. Chi ha acquistato 100 dollari in azioni Amazon durante la IPO del 1997, adesso (agosto) ne ha 106.000. Proprio Jeff Bezos, fondatore e proprietario di Amazon, ha sempre sostenuto che investire nella redditività futura attraverso nuovi prodotti e servizi ha la priorità rispetto a fare utili nell’immediato. Ma andiamo a vedere la classifica 2019 (i dati sono riferiti al 1 agosto) delle 10 maggiori aziende del mondo in termini di capitalizzazione di mercato.
Le 10 maggiori aziende del mondo per capitalizzazione di mercato nel 2019
- MICROSOFT (Stati Uniti): 1.058 miliardi di dollari
- APPLE (Stati Uniti): 959 miliardi di dollari
- AMAZON (Stati Uniti): 959 miliardi di dollari
- ALPHABET (Stati Uniti): 839 miliardi di dollari
- FACEBOOK (Stati Uniti): 550 miliardi di dollari
- BERKSHIRE HATHAWAY (Stati Uniti): 496 miliardi di dollari
- TENCENT (Cina): 436 miliardi di dollari
- ALIBABA (Cina): 431 miliardi di dollari
- VISA (Stati Uniti): 389 miliardi di dollari
- JPMORGAN CHASE (Stati Uniti): 366 miliardi di dollari
Fonte: AISOM
Cominciamo da Microsoft Corporation, azienda d’informatica con sede a Redmond nello Stato di Washington e quindi sulla costa atlantica. Creata da Bill Gates e Paul Allen il 4 aprile 1975, cambiò nome il 25 giugno 1981, per poi assumere nuovamente nel 1983 l’attuale denominazione. Dipendenti: 114.000 (dato del 2016) Slogan: «Do Great Things».1 In Italia sua sede centrale è a Milano e a Roma all’Eur. Cominciamo da questa azienda non tanto perché sia attualmente la più ‘avanzata’ (Amazon e Apple lo sono molto di più e persino Facebook – seppure un po’ claudicante – insieme a Google e a tutto il gruppone della Silicon Valley), ma perché occupa una posizione strategica e monopolistica in un uno dei settori europei più delicati: i desktop della pubblica amministrazione, che da solo rappresenta il 30% dei ricavi dell’Information Technology in Europa. L’attività di lobbying intrapresa da Microsoft ha naturalmente bypassato i diversi stati nazionali concentrandosi su Bruxelles, anche se poi gli esiti di tale campagna è a macchie di leopardo.Ecco come la situazione viene riassunta da Martin Schallbruch, fino al 2016 capo del servizio informatico del governo federale tedesco:
“Il lock in delle amministrazioni sarà un tema molto serio nel futuro, se non si agisce con investimenti importanti i nostri Stati rischiano di perdere il controllo sul proprio sistema informatico. È una questione di sovranità”.
La Microsoft ha annunciato di sospendere il sistema di sicurezza di tutti i computer delle amministrazioni pubbliche, se i governi non si affrettavano a sostituire il vecchio Windows XP con Windows 7. Non c’era possibilità di negoziare. Risultato: solo per un anno il governo olandese ha dovuto sborsare 6.5 milioni di euro per un software di protezione del suo vecchio sistema operativo, prima di migrare verso il nuovo modello Microsoft. Lo stesso hanno dovuto fare le altre amministrazioni europee. Il problema si ripresenterà nel 2020, quando Microsoft aggiornerà i suoi sistemi operativi Windows. Perché l’amministrazione pubblica dei nostri Paesi è incatenata ai programmi Microsoft. Gli esperti lo chiamano “vendor lock-in” essere legati a un solo venditore. I documenti sono tutti formattati con Windows. Diego Piacentini, il commissario voluto da Renzi per digitalizzare l’Italia, manager in aspettativa di Amazon, spiega:
“Nella Pubblica amministrazione italiana ci sono tanti servizi che non sono utili e non si parlano tra loro. Il vero problema oggi è la mancanza di operabilità e questa la puoi ottenere non solo con open source, ma anche con un altro applicativo proprietario”.
Ma se si continua a investire in software e nuove applicazioni (l’anagrafe unica, le fatture on-line, i documenti on line) che si agganciano sempre al sistema operativo Windows, della Microsoft, non se ne uscirà più.
“La Pubblica amministrazione non può e non deve essere ricattabile”, dice Flavia Marzano, Assessore IT al Comune di Roma, una lunga carriera come professore di Tecniche per l’Amministrazione Pubblica.
“Devo avere il controllo sul software che controlla i dati dei miei cittadini”.
Tutto vero e di buon senso: ma che si fa allora? Lo capiremo meglio fra poco. Difficile, invece, comprendere se la strategia di Microsoft sia stata semplicemente dettata da ragioni commerciali e di realizzo oppure anche da una qualche velleità politica (diretta o eterodiretta) di controllo sulle amministrazioni e indirettamente su tutto il comparto politico e militare; né si capisce da questi dati se da parte degli stati europei e di Bruxelles si sia agito più per incompetenza che per connivenze o corruzione. Sappiamo però che il problema è sul tavolo dal 2013 e che nel 2020:
“… firmeremo con la Microsoft, stiamo valutando le alternative, ma per il momento non ce ne sono, non possiamo bloccare tutto il sistema”,
ha detto a Bruxelles Gertrud Ingestad, direttrice generale per le infrastrutture digitali. Corruzione, connivenza, incapacità di decidere su basi competenti? Probabilmente un mix, dal momento che l’alternativa invece esiste e si chiama open source, software libero: chi sviluppa i codici li mette a disposizione della comunità, basta scaricare gratuitamente un programma e poi cercare l’assistenza sul web o pagare dei professionisti. Il paradosso è che Google, Facebook e Skype (che appartiene a Microsoft) usano il sistema a codice aperto Linux. La stessa cosa per il controllo del traffico aereo europeo, per gli uffici fiscali di mezza Europa (ma non in Italia), per la Marina olandese. Dai dati emerge una prima constatazione, anch’essa ovvia: non esiste una politica europea comune su questo come su un po’ tutto e ognuno di arrangia come può. In questo contesto i soli a prendere l’iniziativa in Italia sono stati i militari su iniziatica del generale Camillo Sileo che tre anni fa, in spirito di spending review, ha proposto ai suoi superiori di tagliare il costo delle licenze Microsoft, 28 milioni di risparmi in 4 anni. Il ministero della Difesa ha accettato. Microsoft non l’ha presa bene: si racconta che il Capo del servizio commerciale della Microsoft sia volato da Redmond per impedire questa migrazione, ma niente.).
“Abbiamo scoperto che solo il 15 per cento degli utenti usa appieno Office, cioè Word, Excell e Power Point, per il resto il desktop è come una macchina per scrivere. Non c’era quindi bisogno di pagare tutte queste licenze”.
Libre Difesa: da settembre 2015 ad oggi sono stati cambiati 33.000 computer, si arriverà a 100.000 nel 2020. E nei tre corpi della Difesa, l’Esercito, la Marina e l’Aviazione.
“Abbiamo preparato questa migrazione con l’aiuto di Libre Italia, un’associazione no profit che diffonde l’open source nella Pa italiana”.
Dietro al generale Sileo, per sei mesi, c’era l’occhio attento di Sonia Montegiove, presidente di Libre Italia, un’informatica della Provincia di Perugia. Sileo mostra due schermi con i due software da lavoro, Office e Libre Office. “Sono uguali”. Solo che uno costa 280 euro a utilizzatore, ogni tre anni, l’altro è gratuito e lo posso cambiare come voglio. Sonia Montegiove spiega che altre Pa italiane sono passate a Libre Office: “I comuni di Bari, Verona, Trento, Assisi, Norcia, Todi, la Provincia di Perugia e il consiglio regionale dell’Umbria. Alcuni altri hanno migrato, ma non vogliono farlo sapere, per paura della Microsoft”.
In Italia il codice per l’amministrazione digitale o CAD, esiste dal 2005 ed è stato riveduto già tante volte. Però l’impianto resta:
“Le pubbliche amministrazioni acquisiscono programmi informatici, dopo una valutazione comparativa tra (nell’ordine): “software sviluppato per conto della pubblica amministrazione; riutilizzo di software sviluppati nella Pa; software libero o a codice sorgente aperto; software fruibile in modalità cloud computing e software di tipo proprietario”.
Prima il software libero e poi quello proprietario. Peccato che non ci siano sanzioni, né incentivi. E dunque chi si avventura verso l’open source, rischia di scontrarsi con Microsoft. Nella provincia di Bolzano per quattro anni un’equipe di quattro funzionari ha lavorato a tempo pieno al viaggio verso Libre Office: si risparmiavano 500 mila euro di licenze il primo anno e 1 milione ogni anno successivo. Ma nel 2014 cambia la giunta e il 12 aprile 2016 viene approvata una nuova delibera in cui si annuncia un contratto con la Microsoft, 5,2 milioni su tre anni per andare sul Cloud (il software O365). Delibera votata dopo aver chiesto a una società “indipendente”, la Alpin di Bolzano, di dire la sua tra Libre Office, Google a sempre Microsoft. La Alpin, che nel suo sito fa promozione di prodotti Microsoft e chiede a chi cerca lavoro di saper usare i suoi programmi operativi, in sei giorni e con un compenso di 12 mila euro, conclude che ormai è un’esigenza andare sul cloud, quindi meglio restare con la Microsoft. Ma lo stesso responsabile IT, Kurt Pöhl, nella delibera di aprile ammette: “La banda non è pronta a sopportare una tale migrazione verso il cloud”. Intanto da maggio 2016 la Provincia versa 150 mila euro al mese nelle casse della Microsoft per un programma non ancora installato. Nella Regione Emilia Romagna la Microsoft ha dovuto essere più generosa: a ogni utilizzatore in regione sono state date quattro licenze in più, da usare privatamente, più cinque licenze per smartphone e 5 per tablet. E un nuovo contratto è stato firmato. Dobbiamo pensar male?
“La nostra priorità non è fare la guerra a Microsoft”, risponde l’onorevole Paolo Coppola (Pd) – stia tranquillo onorevole Coppola, non ne dubitiamo NDR – presidente di una Commissione parlamentare d’inchiesta che dovrebbe dirci come vengono usati i 5,2 miliardi che ogni anno la pubblica amministrazione spende sul digitale. “Noi dobbiamo insegnare agli italiani ad usare un computer. Se i big ci possono aiutare, ben vengano”.
Ma quanto si spende per le licenze? Nessuno lo sa. Né in Italia, né in Germania, in Francia, in Portogallo. La pressione sui dipendenti Microsoft è altissima, ogni tre mesi ricevono una graduatoria sulle loro prestazioni. “Se per due anni non vai bene, ti propongono un pacchetto di soldi, ma ti mandano a casa”, ha raccontato un impiegato italiano. “Le licenze vengono fatturate dall’Irlanda, da noi tutto si concentra sulle vendite, sulla lobby”.
Questa è la situazione in Europa ricostruita in un’inchiesta del fatto Quotidiano:
La potenza politica della Microsoft è evidente. Nel Regno Unito i suoi finanziamenti ai partiti politici sono pubblici, ma un ex-consulente IT dell’ex premier Cameron, Rohan Silva, ha rivelato le minacce della società americana al governo conservatore: niente fondi in caso di passaggio all’open source. In Portogallo, il giovane manager Microsoft Mauro Xavier è stato scelto dal capo del partito conservatore Pedro Coelho come capo della sua campagna elettorale nel 2011, per poi tornare in azienda dove oggi è a capo dell’Europa orientale. E continua a consigliare i governi portoghesi sulle migliori scelte in materia digitale. In Francia Investigate Europe ha trovato almeno cinque impiegati al ministero degli Interni e della Difesa, membri dello staff del ministero, con regolare indirizzo mail e telefono fisso, ma pagati da Microsoft e con un profilo da consulenti o venditori dentro l’azienda americana. Roberta Cocco è assessore al comune di Milano per la trasformazione digitale: in Microsoft dal 1991, ex direttore del Marketing in Italia e ha quasi quattro milioni di dollari in azioni Microsoft, per ora congelate. In Italia, come in molti altri Paesi, i prodotti Microsoft vengono venduti attraverso delle gare pubbliche della Consip (società del ministero del Tesoro, azionista unico). Ogni due anni in media la Consip apre un bando chiamato “Enterprise agreement per prodotti Microsoft”, la concorrenza è già tagliata fuori. Chi li vince? A ruota la Telecom o Fijutsu che rivendono dunque software, hardware e servizi della società americana. Una volta firmata questa Convenzione, le Pa non hanno più bisogno di andare a gara, firmano contratti sulla base dell’accordo Consip: 5 milioni qui, 10 là, i soldi vanno tutti in Irlanda da dove la Microsoft fa partire le fatture per le licenze. Abbiamo chiesto a vari avvocati in diversi paesi europei se lanciare bandi per una sola società, fosse in linea con le norme europee sugli appalti pubblici. “Non aprire ad altri fornitori è una chiara violazione della direttiva Ue sugli appalti”, risponde Matthieu Paapst, un avvocato olandese tra i massimi esperti in materia. “Il problema è che la Commissione europea è la prima a non rispettare le regole, firmando contratti con la Microsoft senza un bando pubblico”. “Cominciare una causa costa tempo e denaro”, spiega Marco Ciurcina, un avvocato torinese che nel 2006 vince una causa contro il ministero del Lavoro che voleva acquistare 4,5 milioni di licenze Microsoft. L’associazione Assoli riuscì a far bloccare l’acquisto per non rispetto della concorrenza. L’avvocato Ciurcina oggi però pensa ad altre soluzioni: “Non si può cambiare il sistema per vie legali. Deve cambiare la consapevolezza politica”. Microsoft non ha mai voluto rispondere alle nostre richieste d’interviste, nè dalla sede europea, né da molte sedi nazionali, tra cui l’Italia.
Cosa è cambiato nella politica di Microsoft negli anni successivi a questi dati? Poco o nulla se non l’aumento dei prezzi dei servizi cloud e poco altro. La sola vera novità sembra essere l’accordo del maggio 2024 con gli Emirati Arabi Uniti potrebbe trasferire all’estero chip e tecnologia chiave degli Stati Uniti e al tempo stesso un alleggerimento dei rapporti con la Cina e un rafforzamento della presenza in Giappone.
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AMAZON
Da: it.businessinsider.com
“Gli incredibili dati che rivelano le mostruose dimensioni raggiunte da Amazon”
Da: ilsole24.com
mar 2018 – Amazon spiegata con cinque grafici
Apple (Stati Uniti): 959 miliardi di dollari:
Mappa diffusione iOs e Android
ALPHABET
it.businessinsider.com › la-societa-un-tempo-nota-come-google-e-molto-…
- luglio 2018 – E mercoledì 11 luglio il ramo per la ricerca e lo sviluppo di Alphabet, X, ha … dai palloni aerostatici per la diffusione di internet alle macchine a guida autonoma … Google è diventata ufficialmente Alphabet nell’ottobre del 2015, con la … che volino ininterrottamente per anni
- diffondendo internet per il mondo.
Fonti: Forbes, Il fatto quotidiano, Multiplayer.
Alcune deduzioni che si possono trarre da quanto detto sopra le vedremo nel capitolo conclusivo di questa prima parte; per avere un quadro esaustivo rispetto agli interrogativi posti nella premessa, è infatti necessario capire prima come Microsoft si muove negli altri contesti geopolitici.
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La politica di Microsoft in Estremo Oriente
I riferimenti che seguono danno un quadro sufficientemente ampio dell’espansione di Microsoft in estremo oriente:
Microsoft vuole una nuova divisione Xbox Asia incrementare la …
Sembra che Microsoft abbia intenzione di tornare a concentrarsi anche sul … in estremo oriente di Phil Spencer per questioni di sviluppo della divisione Xbox. I grandi sempre più verso l’Estremo Oriente – Punto Informatico
www.punto-informatico.it › i-grandi-sempre-pi-verso-lestremo-oriente
Microsoft progetta di aprire il primo centro di sviluppo per MSN in Cina, Sony Ericsson sposterà il grosso delle proprie produzioni in India.
Touchscreen – Ordine record di Surface per Microsoft – Focus.it
www.focus.it › tecnologia › microsoft-surface-diventa-un-karaoke-bar
Microsoft festeggia il capodanno cinese con otto Xbox One …
www.everyeye.it › Scheda Xbox One › Notizie
1 Il valore azionario non viene indicato perché varia di giorno in giorno ed è facilmente reperibile in rete.