WALTER BENJAMIN: STRADA A SENSO UNICO

Introduzione

Questo testo così particolare fu pubblicato nel 1928 ma scritto nel 1926, anche se alcune parti riprendono gli appunti di un viaggio attraverso la Germania compiuto da Benjamin nel 1923. L’opera è una sorta di bric-à-brac, un mix di osservazioni su cose e oggetti quotidiani, improvvise e rapide illuminazioni sugli argomenti più disparati, serie analisi cui fanno da contrappunto ironiche e bizzarre riflessioni: si avverte già in questo testo la fascinazione che i surrealisti esercitavano su Benjamin, anche se i saggi sul movimento verranno dopo. Se si pensa ad alcune opere precedenti e successive a questa, Strada a senso unico è un piccolo ma ricchissimo laboratorio di cui il filosofo si serve per riprendere, modificare, ampliare discorsi precedenti e aprirne di nuovi. L’influenza di Asja Lācis sulla genesi dell’opera, inutilmente negata decenni dopo da Adorno e Scholem, è invece del tutto evidente e tale magma è anche una traduzione in immagini di quello che Benjamin pensava di avere appreso da lei e una continuazione solitaria dell’esplorazione di Napoli che avevano fatto insieme nel 1925. Ne pubblico alcuni frammenti, con rari commenti, nella Rubrica Critica del pensiero unico perché a quasi un secolo di distanza mi sembra un testo molto attuale. L’edizione che ho scelto è quella a cura di Giulio Schiavoni, Piccola Biblioteca Einaudi, 2006 perché in essa sono presenti anche le Appendici, scritte successivamente in forma di appunti e anche per il bel saggio introduttivo di Schiavoni stesso.

Poiché l’esergo, a mio giudizio,  fa pienamente parte del testo e ne anticipa una delle caratteristiche salienti e spiazzanti, mi sembra opportuno cominciare proprio da questo:

Questa strada si chiama via Asja Lācis dal nome di colei che da ingegnere l’ha aperta dentro l’autore.

L’omaggio dietro il quale si può leggere certamente anche una dichiarazione d’amore, ha due elementi che balzano subito all’occhio: la perentorietà del dettato e quella parola – ingegnere – il cui uso può lasciare perplessi, ma che comincia a chiarirsi da subito, dal titolo sorprendente del primo fra i diversi capitoli o capitoletti di cui consiste il libro e del suo incipit, altrettanto perentorio:

STAZIONE DI SERVIZIO

La costruzione della vita dipende in questo momento assai più dai fatti che dalle convinzioni, E anzi, da un genere di fatti che quasi mai, finora, da nessuna parte, sono diventati fondamento di convinzioni … In simili circostanze una vera attività letteraria non può pretendere di svolgersi in un ambito riservato alla letteratura. Una reale efficacia della letteratura può realizzarsi solo attraverso un netto alternarsi di azione e scrittura: in volantini, opuscoli, articoli di rivista e manifesti deve plasmare quelle forme dimesse che corrispondono alla sua influenza … Solo questo linguaggio immediato si dimostra all’altezza del momento in modo attivo. Le opinioni sono per il gigantesco meccanismo della vita sociale quel che è l’olio per le macchine. Non ci si mette davanti a una turbina inondandola di lubrificante: se ne spruzza un po’ sui perni e snodi nascosti che bisogna conoscere. …

Una stazione di servizio ci introduce idealmente nel territorio di una città, ma il capitolo successivo s’intitola Stanza della prima colazione. Dalla città alla casa sembra che Benjamin stia costruendo una sorta di città o casa ideale e allora quel termine – ingegnere – ci porta in un mondo che è al tempo stesso artificiale e prefigurante  di qualcosa, come lo era per esempio per il costruttivismo sovietico in quegli anni.  

CANTIERE.

Lambiccarsi pedantescamente il cervello per creare prodotti – materiali visivi, giocattoli o libri – adatti ai bambini è sciocco. Sin dall’illuminismo è questa una delle fissazioni più stantie dei pedagoghi. La loro infatuazione per la psicologia impedisce di accorgersi che il mondo è pieno dei più incomparabili oggetti dell’attenzione e del cimento infantili. … È che i bambini sono portati in misura notevole a frequentare qualsiasi luogo di lavoro in cui si opera visibilmente sulle cose. Si sentono attratti in modo irresistibile dai materiali di scarto che si producono nelle officine, nei lavori domestici, o di giardinaggio, in quelli di sartoria e falegnameria. Nei prodotti di scarto, riconoscono la faccia che il mondo rivolge proprio a loro, … I bambini in tal modo si costruiscono il proprio mondo oggettuale, un piccolo mondo dentro, un piccolo mondo dentro il grande, da sé …

MINISTERO DEGLI INTERNI.

Quanto più un uomo è avverso alla tradizione, tanto più inesorabilmente assoggetterà la sua vita privata alle norme che vuole innalzare a legislatrici di un  futuro assetto sociale. È come se quelle gli imponessero di configurarle, loro che ancora non sono realtà da nessuna parte, almeno nell’ambito della sua personale esistenza. L’uomo, invece, che si sente in armonia con le più antiche tradizioni del suo ceto o del suo popolo, pone talvolta la sua vita privata in aperto contrasto con le massime di cui si fa intransigente sostenitore in pubblico e senza il minimo turbamento di coscienza. Scorge in cuor suo nel proprio contegno la riprova più convincente dell’irrefutabile autorità dei principi da lui professato. Si distinguono così i tipi politico dell’anarco-socialista e del conservatore.

XIV.

Dalle più antiche usanze dei popoli sembra giungerci come un monito a guardarci dal gesto dell’avidità nell’accogliere ciò che riceviamo con tanta ricchezza dalla natura. Perché alla madre terra,noi non siamo in condizioni di regalare niente del nostro. Per questo ci si addice mostrare rispetto nel prendere … Questo rispetto traspare nell’antica consuetudine della labatio. Anzi, è forse questa remotissima esperienza morale che si è conservata sotto altra forma nello stesso divieto di raccogliere le spighe dimenticate o di raccogliere i grappoli d’uva caduti, che devono ritornare alla terra e agli antenati dispensatori di benefici … ma se un giorno la società sotto la spinta del bisogno o della cupidigia avrà a tal punto tralignato da poter ricevere i doni della natura solo predando, da spiccare i frutti ancora acerbi per piazzarli sul mercato … allora la terra s’impoverirà e la campagna darà cattivi raccolti …

REVISORE GIURATO DEI LIBRI.

Il nostro tempo, quale antitesi per eccellenza al Rinascimento, si contrappone in particolare alla situazione in cui fu inventata la stampa … La comparsa di quest’ultima in Germania, cade nell’epoca in cui il libro per antonomasia, il libro dei libri, grazie alla traduzione della Bibbia fatta da Lutero, divenne patrimonio popolare. Ora tutto fa prevedere che il libro in questo sua forma tradizionale stia andando incontro alla sua fine. Mallarmé … che vedeva bene cosa stava maturando, nel Coup de dés ha per la prima volta acquisito alla pagina a stampa le tensioni grafiche della rèclame … La scrittura, che nel libro stampato aveva trovato un asilo, ove condurre un’esistenza autonoma, dai cartelloni pubblicitari vien trascinato nelle strade, e assoggettato alle brutali eteronomie del caos economico … Se alcuni secoli fa aveva cominciato pian piano a coricarsi e da iscrizione retta era diventato manoscritto  semi adagiato su leggii per poi stendersi alla fine nel letto del libro stampato, ora comincia … a rialzarsi da terra. …. E prima che il contemporaneo arrivi ad aprire un libro è piovuto sui suoi occhi un turbine talmente variabile di lettere colorate e rissose, che le probabilità di penetrare nell’arcaico silenzio del libro si sono per lui assai ridotte … Ma è fuori di dubbio che l’evoluzione della scrittura non resterà all’infinito legata alle pretese di dominio di una caotica condizione della scienza e dell’economia, e che anzi arriverà il momento in cui la quantità si tradurrà in qualità e la scrittura, e le scritture sempre più s’addentra, nel campo grafico della sua nuova eccentrica ricchezza di immagini, conquisterà di colpo contenuti adeguati. A questa scrittura per immagini i poeti, potranno collaborare solo se dischiuderanno a se stessi i campi i cui si compie la costruzione di essi: quelli del diagramma statistico e tecnico. Con la creazione di una scrittura variabile internazionale essi rinnoveranno la propria autorità nella vita dei popoli e scopriranno una funzione in confronto alla quale tutte le aspirazioni al rinnovamento della retorica si riveleranno antiquate fantasie.   

Benjamin riprenderà questa tematica in tutti i suoi saggi successivi. Questo brano e in particolare i passaggi che si riferiscono alla pubblicità mi hanno riportato però a un testo poetico che probabilmente Benjamin non conosceva ma che è decisivo perché il suo autore fu fra i primi nel contesto europeo e comprendere il ruolo che stava acquisendo la pubblicità: mi riferisco a La passeggiata, scritta da Palazzeschi nel 1913.

  1. Libri e prostitute si possono portare a letto.
  2. Libri e prostitute intrecciano il tempo. Dominano la notte come il giorno e il giorno come la notte.
  3. Libri e prostitute non fanno vedere a nessuno che per loro i minuti sono preziosi. Se però si entra in confidenza con essi, si finisce per accorgesi di quanta fretta hanno. Mentre noi ci sprofondiamo in loro, non la smettono di contare.
  4. Libri e prostitute hanno sempre un amore infelice gli uni per gli altri.
  5. Libri e prostitute:entrambi hanno un loro genere di uomini che vivono di loro e li maltrattano. I libri i critici.
  6. Libri e prostitute in case pubbliche. Per gli studenti.
  7. Libri e prostitute: di rado vede la loro fine uno che li ha posseduti. Sono soliti scomparire prima del disfacimento.
  8. Libri e prostitute raccontano così volentieri e così bugiardamente come lo sono diventati. In realtà, spesso neanche loro se ne accorgono. Per anni si corre dietro a tutto “per amore” e un giorno ecco che quale corpus ancora in carne si trova sul marciapiede, quel che per motivi di studio” si era sempre librato sopra esso.

IX. Libri e prostitute amano girare il dorso quando si mettono mostra.

X. Libri e prostitute figliano molto.

XI. Libri e prostitute: “Vecchia beghina. Giovane puttana”. Quanti dei libri su cui oggi la gioventù è tenuta a studiare, erano un tempo malfamati.

XII. Libri e prostitute mettono in piazza,le loro beghe.

XIII. Libri e prostitute: le note a piè pagina sono per gli uni quello che sono per le altre i soldi nella calza.

IV

Non per niente si usa parlare di “nuda” miseria. Il lato più deleterio della sua esibizione – che comincia a divenire abitudine sotto la legge del bisogno e tuttavia rende visibile un millesimo soltanto della miseria nascosta – non è la compassione o la non meno spaventosa coscienza di personale immunità che si fa strada nello spettatore, ma la vergogna di costui. Impossibile vivere in una città tedesca dove la fame costringe i più miserabili a campare delle banconote con cui i passanti cercano di coprire una nudità che li ferisce.    

PRONTO SOCCORSO

Un quartiere quanto mai caotico, un intrico di strade da me evitato per anni, mi apparve di colpo dotato di un suo ordine quando un giorno vi si trasferì una persona amata. Fu come se alla sua finestra avessero installato un riflettore e questo fendesse la zona con fasci di luce.

SEGNALATORE D’INCENDIO

L’idea che ci si fa della lotta di classe può trarre in inganno. Non si tratta, in essa, di una prova di forza in cui si decida la questione di chi vince e chi perde, né di uno scontro al cui termine al vincitore andrà bene e allo sconfitto male. Pensare così significa dare ai fatto un travestimento romantico. Perché la borghesia, sia che vinca o che soccomba nella lotta, è comunque condannata a perire dalle sue interne contraddizioni che le riusciranno fatali nel corso del suo sviluppo. La questione soltanto se essa perirà per mano propria o per mano del proletariato. Continuazione o fine di un’evoluzione della civiltà tre volte millenaria saranno decise dalla risposta a questo punto. La storia nulla sa dell’infinito di bassa lega simboleggiato dai due gladiatori perennemente in lotta. Solo ero scadenze fa i suoi calcoli il vero politico. E se la liquidazione della borghesia non si sarà compiuta a un punto quasi esattamente calcolabile dello sviluppo economico e tecnico (lo segnalano inflazione guerra chimica), tutto sarà perduto. Prima che la scintilla raggiunga la dinamite la miccia va tagliata. Intervento, rischio e rapidità del politico sono una questione di tecnica, non di cavalleria.

CONSULENZA FISCALE   

Nessun dubbio: esiste una segreta connessione fra la misura dei beni e la misura della vita, voglio dire fra tempo e denaro. Quanto più futilmente è occupato il tempo di una vita, quanto più sfaldati, multiformi ed eterogenei, mentre il grande periodo caratterizza l’esistenza dell’uomo superiore. Molto giustamente Lichtemberg propone che si parli di “rimpicciolire” anziché di abbreviarlo; lo stesso osserva: “Qualche dozzina di milioni di minuti fanno una vita di quarantacinque anni e qualcosa”. Dove è in uso una moneta di cui una dozzina di milioni di unità non significano niente, bisognerà che la vita venga calcolata in secondi anziché in anni, in modo da apparire ragguardevole come somma. E in conformità a ciò verrà frazionata come un rotolo di banconote:l’Austria non riesce a perdere l’abitudine di calcolare in corone.

L’ARTE DI RACCONTARE

Ogni mattino ci informa delle novità di tutto il globo. Eppure noi siamo poveri di storie singolari. Da cosa dipende? Dal fatto che non ci raggiunge più nessun avvenimento che non sia già imbevuto da spiegazioni … una metà della parte del narrare consiste infatti nel mantenere libera da spiegazioni una storia mentre la si racconta. In questo gli antichi erano maestri, prima di tutto Erodoto. Nel quattordicesimo capitolo delle sue Storie si trova il racconto di Psammenito. Quando il re egizio Pasammenito fu sconfitto e catturato dal persiano Cambise, Cambise fece in modo da umiliare il prigioniero. Comandò di mettere Psammenito sulla strada lungo la quale avrebbe dovuto muovere la processione trionfale dei Persiani. E fece altresì in modo che il prigioniero vedesse passare sua figlia che andava con l’anfora alla fonte come serva. Mentre tutti gli egiziani si lamentavano elevando alte grida a questo spettacolo, solo Psammenito rimase muto e immobile con gli occhi fissi a terra; e quando poco dopo vide passare suo figlio passare portato in processione al patibolo, anche allora restò immoto. Ma quando poi scorse nelle file dei prigionieri uno dei suoi servitori, un vecchio caduto in povertà, allora si percosse il capo con i pugni e diede tutti i segni di un profondo cordoglio – Da questa storia si vede di che natura sia il vero racconto. L’informazione si consuma nell’istante della sua novità … Non così il racconto … Esso conserva la propria forza raccolta all’interno e sa dispiegarsi anche dopo lungo tempo. Così Montaigne è tornato al racconto del re egizio e si domandato: perché si lamenta solo alla vista del servitore e non prima? La risposta di Mantaigne è: “Dacché era già traboccante di cordoglio, bastò soltanto una minima aggiunta perché questa abbattesse gli argini.” La storia può essere interpretata in questo modo. Ma essa lascia spazio anche ad altre spiegazioni. Può farne la conoscenza chiunque abbia formulato la domanda di Montaigne nella cerchia dei propri amici … Quel che è certo è che tutti i reporter la spiegherebbero in men che non si dica. Erodoto non la spiega neppure con una parola. La sua narrazione è di estrema aridità. Ecco perché  a distanza di millenni questa storia dell’antico Egitto è ancora in grado scatenare meraviglia e riflessioni. Assomiglia a quei semi rinchiusi per migliaia dì anni senz’aria nelle camere delle piramidi, che hanno mantenuto il loro potere di germinazione fino al giorno d’oggi.   

I TESTI PUBBLICATI IN QUESTO BLOG SONO DI MIA PROPRIETA’: CONSENTO LA LORO STAMPA IN FORMA CARTACEA PER SOLA LETTURA E LA CITAZIONE DEL MIO NOME IN CASO DI UTILIZZO IN VOSTRI SCRITTI.

8 MARZO SCIOPERO GLOBALE

“Noi donne iraniane”  

Eppure, le loro voci e immagini sono arrivate chiare e nitide anche in un Occidente che troppo di sovente ancora finge di non sentire o si gira dall’altra parte.

Scritto dalle giornaliste Sabina Fedeli e Anna Migotto, “Noi donne iraniane” è stato proiettato in anteprima a Milano lunedì 6 marzo alle ore 18.30 presso l’Anteo Spazio Cinema (Piazza XXV Aprile, 8). Alla serata erano presenti Sara Hejazi (Università di Trento, scrittrice e giornalista) e Alessandra Campedelli (CT Nazionale pallavolo femminile dell’Iran dal 2021 al 2023).

Dopo il passaggio in sala, mercoledì 8 marzo andrà in onda su La7 all’interno del programma Atlantide, condotto da Andrea Purgatori.

LETTERA 8M 2023 A SINDACATI, DELEGATƏ, LAVORATRICI E LAVORATORƏ

26 GENNAIO 2023 | NONUNADIMENO

L’8 marzo 2023, per il settimo anno consecutivo, sarà ancora una volta sciopero femminista e transfemminista transnazionale, in uno scenario profondamente mutato rispetto al primo sciopero chiamato da Non Una Di Meno l’8 marzo 2017. Oggi ancora una volta ci rivolgiamo allə tantissimə delegatə e lavoratrici che in questi anni hanno fatto proprio lo sciopero transfemminista, e a quellə che per la prima volta vorranno organizzarlo, certə che per noi tuttə il prossimo 8 marzo sia l’occasione per affermare con forza la nostra comune pretesa di libertà e autodeterminazione, contro la violenza patriarcale e la povertà, le discriminazioni, lo sfruttamento.

La congiunzione delle crisi sanitaria, economica e climatica, della pandemia e della ricostruzione postpandemica e dei focolai di guerra accesi in tutto il pianeta ha effetti devastanti sul nostro lavoro e le nostre vite, oggi resi ancora più pesanti dalla guerra in Ucraina che sta aumentando l’intensità e la pervasività della violenza patriarcale e rendendo più urgente la lotta per contrastarla. Sono dinamiche complesse che in Italia dobbiamo affrontare misurandoci con un governo di estrema destra, che porta avanti politiche che ci impoveriscono, taglia i servizi, il welfare, abolisce il reddito di cittadinanza, mentre si richiama alla famiglia patriarcale, difende i confini, attacca frontalmente tutte le libertà per le quali lottiamo.

Scioperiamo sia dal lavoro produttivo che dal lavoro di cura e riproduttivo per un reddito di autodeterminazione che ci garantisca indipendenza, per un salario minimo e per l’abbattimento di ogni forma di sfruttamento e precarizzazione, per contratti stabili e tutelanti. Scioperiamo contro ogni forma di violenza e discriminazione sul luogo di lavoro e per la tutela del lavoro dellə sex workers.

Scioperiamo per un welfare pubblico, gratuito e libero da ogni forma di violenza patriarcale e di discrimazione di genere, omolesbobitransfobica, abilista e razzista. Rifiutiamo politiche familiste di welfare che costringono donne e soggettività lgbtqia+ a offrire assistenza gratuitamente a familiari e non e sostengono tagli e privatizzazioni ai servizi pubblici. Scioperiamo contro ogni attacco alla nostra autodeterminazione, per la libertà di abortire, di intraprendere percorsi
di transizione e per la tutela del nostro benessere psico-fisico.

Scioperiamo dall’attuale sistema scolastico che si configura come un laboratorio per preparare futurə lavaratorə allo sfruttamento e alla morte sul luogo di lavoro e che riproduce saperi patriarcali e di forme educative
oppressive. Scioperiamo per una scuola inclusiva, che adotti carriere alias per le persone trans, che offra educazione sessuale e affettiva, capace di veicolare saperi transfemministi, di educare al pensiero critico e libera da tutte le forme di precarità e sfruttamento delle insegnanti.

Scioperiamo perché la crisi climatica già in atto, generata da un modello di sviluppo basato sullo sfruttamento capitalistico della terra e del lavoro, sta accelerando e minaccia la vita stessa del pianeta. Scioperiamo perché gli effetti dell’inquinamento, dei disastri ambientali e del profondo abuso della natura, che stiamo vivendo anche in Italia, non colpiscono tuttə allo stesso modo. Scioperiamo perché pretendiamo molto di più della tutela ambientale, del green washing dei governi e delle aziende, e perché pensiamo che soltanto una visione ecotransfemminista possa farci uscire da questa pesantissima crisi promuovendo azioni di reale giustizia climatica.

A un anno dall’inizio della guerra in Ucraina, scioperiamo contro la guerra che inasprisce la violenza patriarcale e contro le sue conseguenze. Siamo vicine alle profughe ucraine e alle profughe di tutte le guerre che attraversano paesi che con l’espediente della guerra rafforzano il proprio attacco patriarcale. Scioperiamo contro il riarmo e le politiche di guerra.

L’8 marzo, insieme, dobbiamo opporci senza condizioni anche al razzismo esasperato dalla guerra, che è una leva per intensificare lo sfruttamento del lavoro, tramite la proposta di definire ‘quote’ di ingresso e il ricatto del permesso di soggiorno, obbligando le/i migranti ad accettare salari bassissimi per lavorare nelle nostre case, o a svolgere lavori tanto essenziali quanto invisibili nelle fabbriche, nei campi e in ogni altro settore.

In questi anni con lo sciopero femminista e tranfemminista abbiamo inteso fare della lotta contro la violenza patriarcale una leva potente di rivolta e cambiamento radicale,  interrompendo la produzione e la riproduzione sociale, gli algoritmi del sistema di sviluppo e consumo, le tirannie dei generi e dei confini. Abbiamo voluto tracciare linee di contrasto nette e inequivocabili contro tutti gli assi di oppressione che gravano su di noi, innescando una conflittualità sistemica finalizzata ad aggredire tutti i gangli del sistema di subordinazione patriarcale che attraversa l’intera società, dalle case, ai luoghi di lavoro, alle istituzioni, ai tribunali, ai media. Politicizzare la violenza patriarcale facendone una questione pubblica e non più solo privata restituisce allo sciopero la potenza di un processo espansivo e inclusivo di lotta, fatto proprio ad esempio dalle donne in Polonia, diffuso oggi in Iran anche attraverso lo sciopero generale di dicembre, contro l’oppressione patriarcale istituzionalizzata, per far sentire la forza collettiva di chi non accetta più quella tirannia, la povertà e lo sfruttamento che sorregge.

Sappiamo che riappropriarci della pratica dello sciopero, per lə tantə che fanno lavori precari, sottopagati, in nero, non riconosciuti, senza orari, che non riescono a pagare le bollette, che sono schiacciate ogni giorno tra il carico di lavoro in casa e fuori casa, è una sfida, un processo di lungo periodo, ancora difficile ma a cui non siamo disposte a rinunciare. Siamo convintə che questa sfida la possiamo raccogliere insieme, con la partecipazione di tutte le lavoratrici, lavoratorə, delegatə che stanno lottando in questo momento per il salario, contro le molestie e il razzismo sul posto di lavoro, e per non dover sostenere da sole il lavoro domestico e di cura. Siamo convinte che anche i sindacati, sia quelli che negli anni passati hanno aderito allo sciopero sia quelli che non lo hanno fatto, non possano e non debbano sottrarsi a questo impegno.

Tutte lavoratrici e le delegate sui posti di lavoro hanno il diritto di pretendere dalle proprie organizzazioni sindacali, incluse le RSU, di proclamare lo sciopero del prossimo 8 marzo 2023, garantendo la copertura sindacale alle lavoratrici e lavoratorə che vorranno astenersi dall’attività lavorativa e mettendo in campo tutto ciò che è necessario, in ogni settore e area del paese, per sostenerlo e organizzarlo, inviando la comunicazione dell’indizione in tutti i luoghi di lavoro, organizzando assemblee sindacali sui temi dello sciopero dell’8 marzo, favorendo l’incontro tra lavoratrici e lavoratorə e i nodi territoriali di Non Una Di Meno, nel rispetto della reciproca autonomia.

È comunque un diritto di tuttɘ, anche lɘ iscrittɘ a differenti organizzazioni sindacali, aderire ad uno sciopero indetto da altre sigle.

L’8M 2023 lo sciopero femminista e transfemminista sarà per tuttə e per ognunə di noi, NON UNA DI MENO.

SRAFFA E LA CRITICA AL MARGINALISMO

Premessa. I due lavori qui pubblicati di seguito sono la conclusione di una ricerca sulle teorie del valore di Sraffa. Tutta la documentazione è disponibile collegandosi al sito della rivista poliscritture alla voce SRAFFAX.

L’articolo si collega ai miei precedenti già pubblicati qui, qui e qui.

Verso le conclusioni

di Franco Romanò

Così riprende il testo:

Ora che abbiamo esaminato le diverse idee di costo elaborate da diverse generazioni di economisti, e le difficoltà che abbiamo incontrato, passeremo a discutere quali sono le relazioni fra il valore delle merci e il loro costo di produzione; e in particolare in che senso si può dire che il costo di produzione determina il valore e in che misura deve condividere il suo potere di determinazione con la domanda. Naturalmente la prossima parte della nostra inchiesta sarebbe stata più facile qualora avessimo trovato una chiara e definita concezione di costo di produzione, sulla quale fossero d’accordo gli economisti. In prima istanza abbiamo fallito, ma vedremo pure che nella dettagliata applicazione della nozione di costo alla teoria del valore saremo in grado di portare avanti la nostra analisi per un pezzo un po’ più lungo di strada prima di essere costretti di nuovo rinunciare a fronte di nuove difficoltà che possono finalmente spingere la nostra mente a considerare cosa intendiamo realmente quando parliamo di costo. La difficoltà è dovuta al fatto che. nella determinazione del prezzo di ogni particolare merce, la nozione di spese di produzione sarà sufficiente per molti propositi, senza che sia necessario decidere se 1) ci sia o meno l’ombra di “costi reali” oppure sacrifici dietro di esso; 2) un altro nome per utilità del prodotto (costo  di opportunità), esso stesso costo reale in ultima analisi (non in quanto somma di denaro ma somma di cose consumate nella produzione) e se tale concetto abbia o meno un solido fondamento. Per alcuni qualsiasi definizione di costo funzionerà bene. Tutte tranne una e cioè il costo di opportunità nella sua estrema e più consistente interpretazione … che non ha alcunché a vedere con la determinazione del prezzo delle merci.

Tale drastica conclusione ci permette di trascurare tutta una serie di esempi concreti e di ripartire da questa affermazione:

… Ora, lasciando da parte le interpretazioni estreme dei costi, quali sono le condizioni in base alle quali si può determinare il valore di una merce? La questione si trasforma nel domandarsi se i costi variano o meno per diverse quantità prodotte.

Le considerazioni che seguono non sono sempre chiare e una delle ragioni sta certamente nel dilemma che riguarda il nesso fra costi e quantità prodotte. Sraffa ragionerà per lungo tempo su tale materia finché darà una risposta netta in Produzione di merci a mezzo merci la necessità di ritornare ai classici. Le lezioni così proseguono:

Naturalmente la questione è quali costi costanti contano maggiormente per unità prodotta, non i costi totali, qualunque sia il volume prodotto. La confusione può generarsi perché, come abbiamo visto, se l’ammontare di un fattore è costante (pag. 61) si dice che non entri nel costo e perciò non determina il valore; laddove invece quando una merce è prodotta in condizioni di costi costanti, il valore è interamente determinato dai costi. Ma c’è una grande differenza fra i due casi nella realtà. Nel primo caso il totale è davvero costante, mentre nel secondo il costo totale cambia in proporzione alle quantità prodotte. Nel caso estremo in cui la curva della domanda nella sua interezza sia inferiore al costo di produzione, nulla viene prodotto; ma, laddove è possibile produrre, la merce deve essere vendita a un prezzo fissato. La stessa cosa vale per la domanda: se quella di una merce ha una elasticità infinita, il suo valore sarebbe interamente determinato dalla domanda stessa. E i cambiamenti nelle funzioni di costo non avrebbero alcuna influenza. Per converso anche nel caso dell’assoluta rigidità dell’offerta cioè quando la fornitura totale è fissata, il costo non influisce sul valore e solo la domanda è determinante. Lo stesso avviene in caso di domanda non elastica  Fra i due casi estremi ci sono naturalmente tutta una serie di casi intermedi che vanno da zero a infinito..

L’interdipendenza fra costo e quantità prodotti è un’idea moderna. Tutti gli economisti classici la ignorano ma non si può neppure dire se se essi pensino che siano i costi costanti a operare, dal momento che non prendono in considerazione l’intera questione. La loro analisi si riferisce solo alla quantità di lavoro e anche di profitto, e persino la rendita incorporati nell’offerta, che è la sola che prendono in considerazione. L’argomento che acqua e aria  hanno una grande utilità, ma che nulla si può scambiare con esse, mentre l’oro ha scarsa utilità ma può essere scambiato con una quantità di altre merci sembrava porre fine a ogni discussione. 

Queste considerazioni sono una sintesi delle ragioni delle oscillazioni di Sraffa. Da un lato, pur nell’oscurità di certi passaggi, che tuttavia in buona parte si chiariranno nel prosieguo e cioè quando affronterà la questione dei rendimenti decrescenti e delle curve delle domanda e dell’offerta secondo Marshall e altri, Sraffa considera le loro analisi assai confuse e infatti approderà a una critica senza appello del marginalismo. Il  tipo di critica che Sraffa muove ai classici è diversa. È evidente che anche per lui la frase che segue non può essere l’ultima parola:

… L’argomento che acqua e aria  hanno una grande utilità, ma che nulla si può scambiare con esse, mentre l’oro ha scarsa utilità ma può essere scambiato con una quantità di altre merci, sembrava porre fine a ogni discussione … 

Non si tratta però di certo di una parola inutile, specialmente se la connettiamo all’affermazione successiva. Vediamo di districare la matassa prima di giungere alle conclusioni. L’interdipendenza fra costo e quantità prodotte è un’idea moderna. La ragione è che solo in pieno ‘900 la produzione industriale su larga scala ha raggiunto un grado di autonomia e se vogliamo anche di autoreferenzialità che nel secolo precedente non era così netta. Tutto nasceva ancora dalle viscere di ciò che esisteva prima (l’industria dalla bottega artigiana, la produzione su larga scala da quella precedente  ecc. ecc): il problema è quello di capire se tale interdipendenza esista veramente oppure no, a parte la considerazione su acqua e aria che cambierà pure nelle sue analisi mentre nella frase di cui sopra, Sraffa sembra ancora accettare il fatto che esse siano illimitate e non abbiano un costo; sappiamo bene oggi quanto questo non sia affatto vero! Tuttavia la conclusione cui egli approda del discorso è assai interessante.

Ma ciò non cambia i valori delle singole e particolari merci, dal momento che i rendimenti decrescenti che derivano dalla terra riguardano in forma uguale tutti i prodotti, dal momento che tutti dipendono in uno modo o nell’altro dal prodotti dell’agricoltura e perciò la loro posizione relativa rimane invariata. Ricardo parla spesso soltanto della produzione del grano mettendola in connessione con i rendimenti decrescenti, ma non vi è dubbio che egli usi il termine “grano” per intendere il prodotto agricolo in generale … 

Ma in ogni caso, la coordinazione fra quantità e costo e  di entrambe con la domanda è uno sviluppo molto recente, dovuto principalmente a Marshall e alla teoria dell’utilità marginale e anche un tentativo di compromesso. Dovremo poi notare che il fatto che le due leggi furono elaborate per due diversi propositi rispetto a quelli ora presenti è causa di molte difficoltà.

Tutto il ragionamento sui rendimenti decrescenti sarà più chiaro nel prosieguo quando riprenderà il discorso sull’agricoltura risalendo addirittura a Turgot, ma la conclusione che essi non possono essere considerati discriminanti dal momento che riguardano tutti i prodotti indistintamente e tutti i comparti industriali è realistica e di buon senso. La domanda da porsi è: lo è ancora anche oggi? Si può utilizzare lo stesso ragionamento, magari estendendolo dall’agricoltura alla logistica, per esempio? A mio avviso sì ma lo vedremo meglio soltanto alla fine del percorso. Torniamo al testo:

Nelle ultime lezioni abbiamo visto come la legge dei rendimenti decrescenti e quella dei rendimenti crescenti abbiano avuto delle origini storiche distinte, e come alle origini fossero elaborate per essere usate in connessione con problemi che solo indirettamente avevano qualche rapporto con il valore. Abbiamo visto pure come tale connessione sia uno sviluppo recente della teoria e che le interpretazioni che le riguardano in quanto tendenze sono simili nel carattere ma vanno in due direzioni opposte: quest’ultima deduzione è ancora più recente. Ora, molte delle difficoltà in cui si trovano a causa della nuova funzione in cui vengono poste si possono attribuire a quei caratteri che le hanno rese così adatte al posto che occupavano in precedenza nella teoria economica; tali caratteri le rendono in larga parte contraddittorie rispetto alle condizioni essenziali su cui è basata la teoria del valore. Non propongo ora di discutere in questo momento di esaminare in modo completo le condizioni alle quali l’uso delle curve della domanda e dell’offerta sono soggette nella determinazione del valore. Lo faremo alla fine come conclusione sulla base di quelle curve e cioè vale a dire i costi variabili e la diminuzione di utilità. Lo dirò in breve e in modo piuttosto dogmatico al fine di determinare dove porta l’argomentazione. Spesso, le condizioni cui le curve di domanda e offerta sono soggette, vengono riassunte nei libri di testo con l’espressione “assumendo inalterate tutte le altre condizioni”. … In primo luogo, il guaio è che la definizione comprende troppe cose, perché non avviene mai che qualsiasi cosa rimanga ferma al mondo e non modificata mentre noi muoviamo le nostre variabili: ci sono un sacco di cose che possono mutare senza che questo incida sull’argomento che stiamo trattando …. La condizione espressa dicendo “altre cose rimangono uguali” è contraria al principio che il numero delle nostre assunzioni dovrebbe essere ridotto al minimo.

Questo passaggio chiarisce molte delle ragioni che spingeranno Sraffa a scrivere le sue equazioni di Produzione di merci a mezzo merci presupponendo una sola stringente condizione e cioè considerare solo quelle proprietà di un sistema economico che sono indipendenti dal volume della produzione e nelle proporzioni fra i “fattori” impiegati. Se sia davvero possibile e se lo sia sempre lo vedremo a tempo debito, ma vale la pensa di osservare che tale ipotesi era quella degli economisti classici.

Ma il pericolo veramente serio è che nella marea di cose che non dovrebbero cambiare ci sono sicuramente delle quantità che non possono rimanere inalterate se le variabili cambiano … Nel nostro caso, le condizioni che sottostanno alle curve della domanda e dell’offerta di una merce sono: 1) che le due curve devono essere indipendenti l’una dall’altra; 2) che i prezzi e le quantità prodotte di tutte le altre merci dovrebbero rimanere inalterate, il che equivale a dire tutti gli altri prezzi e le altre quantità dovrebbero essere indipendenti dalle variazioni nella quantità e nel prezzo della merce presa in considerazione in quel momento. Indipendenza delle curve di domanda e offerta significa che la forma e la posizione di ciascuna debba rimanere inalterata mentre un’altra si modifica. Per esempio: se una tassa viene posta su un certo articolo, la curva dell’offerta salirà a causa dell’ammontare della tassa, ma tale fatto non deve per forza incidere sulla forma della curva della domanda. Naturalmente il prezzo della domanda sarà diverso, se la quantità commercializzata è diversa, ma tale cambiamento prenderà posto nella preesistente curva della domanda, e non nella nuova curva. La ragione per cui si verifica tale condizione è chiara. Le due curve rappresentano due diverse equazioni: y = f(x) – y1 = (x1), dove x è la quantità del prodotto comprato o venduto, y è il prezzo di offerta e x1 il prezzo di domanda. Nella posizione di equilibrio il prezzo di offerta è uguale a quello di domanda, e perciò  y = y1 e x = a x1. In questo modo ci sono solo due variabili e ed essendo le due equazioni come date, prezzo e quantità sono così determinate. Ma se un cambiamento avviene nella funzione della domanda, non soltanto vengono modificati il prezzo e la quantità dell’offerta, cioè le variabili x e y1, anche le costanti che sono rappresentate e quindi abbiamo sempre più variabili che equazioni e allora il sistema diventa indeterminato.

Il problema dell’indeterminatezza, insieme a quello delle equazioni simultanee e dell’eterogeneità delle merci sono alla base della critica di Sraffa all’economia neoclassica o marginalista che dir si voglia e sotto certi aspetti costituiscono un unico e medesimo problema: com’è possibile ricondurre a poche variabili l’universo eterogeneo delle merci? Dire che il sistema diventa indeterminato, come nell’affermazione finale del brano precedente, significa dire che è necessaria una diversa equazione per ogni diversa situazione, ma tale moltiplicazione ad infinitum  rende di fatto impossibile una descrizione realistica del processo e delle curve di domanda e offerta: è un’impossibilità per definizione oppure è tale perché i presupposti su cui si basa la teoria marginalista sono errati? Come prima approssimazione il problema va diviso in due. Per Sraffa i presupposti del marginalismo sono sicuramente sbagliati, per sciogliere il secondo dilemma bisogna avere più pazienza e anche qualche ulteriore mossa che ci porterà verso Keynes, specialmente il Keynes dei libri di Anna Carabelli. La parte che segue, come altre che verranno in successione, sono una critica dettagliata e puntigliosa delle formulazioni di Marshall e altri sulle curve e i rendimenti crescenti e decrescenti. L’acribia di Sraffa, a volte velata di sottintesi ironici e vere e proprie stroncature, l’ho più spesso lasciata solo nella lingua originale, ma alcuni passaggi sono tuttavia utili per arrivare a comprendere le scelte cui Sraffa approderà. In particolare i brani che seguono e prima di tutto quello di certo sorprendente della riscoperta di Turgot, sono essenziali e vale la pensa di seguirli anche in traduzione.

Ora, supponiamo un cambiamento nella domanda e supponiamo che questo non incida sulla curva dell’offerta. La sostanza di questo è che date le curve della domanda e dell’offerta … se una tassa viene imposta su un prodotto, possiamo prevedere gli effetti di essa sul prezzo, una volta stabilito che le curve rimangono inalterate, a parte l’aggiunta dell’ammontare della tassa sui prezzi di offerta; Ma se essi cambiano nella loro forma, non possiamo in realtà sapere nulla sui possibili effetti della tassa fino a che non ci venga detto in che modo la forma della curva si sia modificata, ciò equivale a dire che dobbiamo fare ricorso ad altre equazioni. La seconda condizione e cioè che i prezzi e le quantità di tutti gli altri prodotti dovrebbero rimanere inalterati, può derivare essenzialmente dalla esistenza di prodotti sostitutivi per i quali esiste una sorta di domanda congiunta. La curva della domanda di un articolo è basata sull’assunzione di una scala dei prezzi data rispetto alle altre merci, se i prezzi cambiano anche i prezzi della domanda di una data merce presa in considerazione cambierebbero, dal momento che sarebbero sostituiti da prodotti sostitutivi più economici.  Ora, nel paragonare i rendimenti crescenti e decrescenti troviamo prima di tutto che c’è una differenza fondamentale nel modo in cui essi sorgono … Nella loro forma più usuale e largamente accettata c’è fra loro una distinzione fondamentale e cioè che i rendimenti decrescenti provengono da un cambiamento nelle proporzioni in cui i differenti fattori sono combinati in un’industria, indipendentemente dal fatto che la grandezza globale del prodotto totale aumenti o diminuisca. I rendimenti crescenti, al contrario, sono generalmente connessi con l’aumentare delle dimensioni di un’industria mentre hanno una relazione remota con la proporzione in cui i fattori vengono impiegati: … L’apparente somiglianza delle condizioni grazie alle quali rendimenti decrescenti o crescenti sorgono è dovuta al fatto che solitamente … scegliamo, come metodo di visualizzazione del cambiamento in proporzione ai fattori, per assumere che un fattore rimanga costante mentre gli altri vengono accresciuti con successive dosi … Tale metodo delle successive dosi applicate al fattore costante è solitamente adottato, perché è più conveniente per rappresentare il cambiamento di una quantità mentre tutto il resto rimane costante, piuttosto che cambiare entrambi nello stesso momento. Tuttavia, nella loro essenza, i rendimenti decrescenti potrebbero essere rappresentati con identica correttezza assumendo che due quantità  impiegate in ciascuno dei due fattori cambi in direzioni opposte, e in proporzione  tale da mantenere costante il prodotto globale. Questo può essere rappresentato da curve di indifferenza … che sono note a coloro che hanno seguito i miei consigli di leggere Edgeworth e Pareto. Le curve di indifferenza vengono usate solitamente anche in connessione con i problemi della domanda, quando l’utilità marginale di entrambe le merci scambiate si suppone variare- mentre una normale curva della domanda assume che l’utilità marginale di una delle merci (il denaro) rimanga invariata.

Nell’ultima lezione ho messo in evidenza la differenza fra la natura delle cause che portano ai rendimenti crescenti da quelle che ne causano invece la diminuzione. Abbiamo visto come i rendimenti crescenti sono dovuti all’allargamento delle dimensioni di un industria e conseguentemente delle economie di produzione su larga scala, le accresciute opportunità di divisione del lavoro e così via. I rendimenti decrescenti, al contrario, sorgono dai cambiamenti nelle proporzioni in cui i differenti fattori della produzione vengono combinati fra loro che porta alla decrescente efficienza di quei fattori in cui la proporzione della loro importanza in quanto grandezza è stata già portata oltre il massimo dell’efficienza possibile. Tale punto di vista, che considera il cambiamento nelle proporzioni dei fattori ma trascura i cambiamenti avvenuti nella grandezza assoluta di un’industria, è il punto di vista adottato dalle teorie della distribuzione secondo il prodotto marginale di ogni fattore. Ma la curva dell’offerta, rilevante per arrivare alla determinazione del prezzo delle merci, si tramuta in costo marginale e deve essere collegato in modo diretto ai cambiamenti del volume di quanto prodotto. Tale connessione si ottiene assumendo che la quantità di un fattore rimanga costante mentre tutti gli altri fattori e conseguentemente anche il prodotto, aumentano. Un caso tipico di un’industria in cui uno dei fattori rimane, e non può essere accresciuto quando la stessa industria cresce, si verifica in agricoltura. L’adozione di tale strumento ha fortemente oscurato la differenza fra le cause che danno luogo alle due opposte tendenze rispetto ai rendimenti e certe ambiguità nella definizione del senso in cui un fattore debba essere considerato costante ha rafforzato e contribuito a creare tale oscurità, perché quando il fattore costante venga considerato come fissato in senso assoluto, non solo rispetto alle crescite ma anche alle decrescite, c’è la possibilità che si verifichi un caso in cui i rendimenti crescenti si verifichino al di fuori delle condizioni che sono tipiche e che dunque non abbiano nulla a che vedere con le condizioni di produzione su larga scala che formano invece la base più comune in cui si verificano i rendimenti crescenti. Tale forma eccezionale che propone in quel caso i rendimenti crescenti è chiaramente portata avanti nelle prime formulazioni (della teoria economica ndr)  È l’idea che ha espresso in modo assai chiaro l’economista francese Turgot nel 1768 e dunque siamo proprio agli inizi della formulazione di una legge dei rendimenti decrescenti in agricoltura. Nelle sue “osservazioni” a favore delle tasse indirette egli afferma: “Le sementi gettate su un suolo naturalmente fertile ma totalmente impreparato sarebbero un anticipo quasi completamente a fondo perduto. Una volta che il suolo fosse arato e preparato, il prodotto sarebbe più grande; rassodandolo e curandolo una seconda volta il prodotto aumenterebbe ancora … e potrebbe crescere anche più da tre o quatto volte fino a dieci. Il prodotto dunque sarebbe destinato ad aumentare in una proporzione maggiore rispetto all’aumento degli anticipi e fino a un certo punto cioè fino a un punto massimo. Superato quel punto se gli anticipi continueranno ad aumentare il prodotto crescerà ancora ma in misura minore essendo la fertilità della terra sempre più esausta …”

Fin qui Turgot. Scrive Sraffa a commento:

Questo passaggio è assai notevole non solo per la novità che esso costituisce in quegli anni, ma per la precisione con cui la materia viene trattata. Nella sua prima parte dove si assume che il primo anticipo cioè “le prime dosi di capitale e lavoro” applicate a un certo tratto di terra danno un ritorno crescente, egli sta semplicemente notando ciò che avverrebbe se un agricoltore con limitate risorse non sapesse il modo migliore di usarle.

La sua riflessione è altrettanto significativa quanto il brano di Turgot perché non si limita a un semplice commento ma ne modifica in parte i presupposti e introduce altri elementi su cui occorre fermarsi puntualmente. Turgot parlava solo di sementi mentre Sraffa parla di dosi di capitale e di lavoro, introduce cioè un altro elemento, ma che non contraddice l’affermazione che il primo anticipo è quasi a fondo perduto. Qualsiasi attività nuova è basata su un anticipo dal rendimento crescente ma incerto per definizione.

In effetti curando il suolo una, due o più volte, egli ottiene quattro volte quello che si otterrebbe arandolo una sola volta e se le sue risorse non gli permettono di arare e preparare l’intera area disponibile fino al raggiungimento della massima efficienza, è chiaro che sceglierebbe questa strada, lasciando l’altra parte del suolo non coltivato.  …. 

Anche questo  non è un semplice commento. Sraffa amplifica il modello di Turgot e lo rappresenta nel prosieguo in un diagramma. Varrà la pena tornare già a questo punto all’introduzione delle Lezioni, proprio a quel preambolo in cui per la prima volta si rivolgeva ai suoi studenti per invitarli, nel suo modo sempre in traslato, a leggere i classici. In quell’occasione aveva usato per convincerli una frase lasciata quasi cadere con nonchalance:

 … Poi, naturalmente ci sono gli Economisti Classici. La miglior cosa da fare sarebbe di leggerli in originale – sono sicuro che li trovereste più leggibili e meno astrusi dei moderni economisti.

Possiamo riprenderla ora per una costatazione che penso si sia già imposta a chi legge. Ogniqualvolta si torna ai classici l’esposizione dei problemi risulta chiara e comprensibile, anche se incompleta e infatti, in questo caso, come in altri, Sraffa non manca di aggiungere dati, ma sempre a partire da un nucleo di comprensibilità che è invece assai più arduo quando si tratta di confrontarsi con le teorie marginaliste. Lo stesso linguaggio di Sraffa diventa a sua volta più oscuro, in quel caso, cosa che non è affatto laddove la materia economica s’impone nella sua fisicità e materialità: è così per esempio, nella parte che segue, che presenta carenze di comprensione anche in inglese, specialmente a causa della scelta di non rendere disponibili i diagrammi. In ogni caso ho deciso di mantenere la traduzione perché essa rende comunque più comprensibile lo sviluppo del ragionamento successivo.

Tutto questo può essere rappresentato in un diagramma. 1) l’ottimo non è il massimo marginale ma la media massima 2) corrisponde all’ intersezione. 3) Questo può essere dimostrato nell’osservare che la curva media deve cresce fino a che non incontra quella marginale, e cade non appena l’ha incontrata: infatti ogni punto appena precedente l’intersezione è una media fra un punto medio più basso e uno più elevata della curva marginale – perciò deve essere più alto del punto appena precedente; dopo l’intersezione è una media fra un punto in cui le due ordinate sono uguali e un punto marginale più basso.  4) Proprietà delle due curve: area marginale= rettangolo della media. Ora nessuno dei punti sulle due curve che abbia una ascissa minore di OM può essere un punto di equilibrio per il proprietario agricolo e questo equivale a dire che egli continuerà a immettere dosi crescenti di capitale e lavoro fino a che non raggiungerà il massimo di ritorni possibili, sempre che disponga delle risorse necessarie. Se esse non saranno adeguate, restringerà l’area di coltivazione in proporzione alla risorse disponibili, perché in questo modo egli otterrebbe un prodotto maggiore di quello ottenibile da un trattamento superficiale dell’intera superficie coltivabile. In generale si può dire che l’agricoltore coltiverebbe quella porzione di terra che gli consente di raggiungere il rendimento massimo.

A questo punto, Sraffa applica lo stesso principio valido per l’agricoltura all’intera economia:

Ora, abbandoniamo il caso particolare delle terra che abbiamo considerato perché, in definitiva, il caso dei rendimenti decrescenti che dipendono dai cambiamenti nelle proporzioni dei fattori riveste un carattere generale che è presente in ogni sorta di impresa. Se stipiamo più gente nello stesso bus, oppure facciamo correre un numero maggiori di treni sulla stessa linea, oppure mettiamo lo stesso lavoratore a occuparsi di un maggior numero di macchine … tutto questo significa utilizzazione sempre più intensiva, fino a che si raggiunge un margine in cui i vantaggi e gli svantaggi si bilanciano. Mi sembra allora necessario, vista la grande varietà di circostanze che portano ai rendimenti decrescenti, cercare di capire che cosa tutti questi diversi casi hanno in comune, visto che portano ai medesimi risultati.

La scelta dei due exempla è assai importante in sé e perché sotto traccia è avvertibile anche una critica alla teoria di Ricardo del massimo profitto come infinito, criticata anche da Marx. Ne parlano anche Neri Salvadori e Kurz in questo passaggio:

Sraffa diede credito a Marx per avere scoperto che in queste condizioni il saggio massimo di profitto era finito e non infinito, (cui portavano invece come conseguenza come le assunzioni di Ricardo), e per avere specificato che la sua grandezza è uguale all’inverso delle composizione organica del capitale considerato come insieme … 

Dagli exempla si può anche comprendere il motivo per cui Sraffa non dimentica mai la consistenza fisica dell’economia, perché in definitiva sono proprio i suoi limiti fisici a porre dei confini alle teorie, mentre l’accumulazione di capitale e gli algoritmi si muovono nella cattiva infinità. Partire dalla terra, allora, per dire che le superfici coltivabili non possono essere estese all’infinito, non è un modo naif di guardare all’economia, ma è il solo modo realistico. La cattiva infinità esiste solo nel mondo degli algoritmi e delle proiezioni, ma su questo come su altri punti saranno illuminanti le riflessioni di Keynes sulla matematica applicata all’economia e la ripresa di Anna Carabelli nei suoi libri dedicato all’economista britannico. Così prosegue la disamina intorno al problema dei rendimenti decrescenti:

La scorsa volta ho iniziato a esaminare le basi su cui i rendimenti decrescenti possono essere considerati quasi come una tendenza universale che opera nelle più svariate sfere della produzione (e in un certo senso anche nel consumo), quando avviene un cambiamento nelle proporzioni in cui i fattori che sono stati diminuiti come quantità vengono ora ripristinati. La varietà delle industrie è così grande che molti autori hanno pensato che sia impossibile parlare di una singola legge dei rendimenti decrescenti e che occorrerebbe considerarli per ciascuna industria presa singolarmente e riferendosi dunque solo alle circostanze particolari di quell’industria specifica perché in ciascuna di loro ci saranno cause specifiche che provocano tale tendenza, e che tali cause sono senza relazione alcuna con altre che si verificano in altre industrie. Perciò, se il risultato è il medesimo in casi diversi, tale eguaglianza deve essere considerata come puramente accidentale e non ricondotta a una causa comune. Ora appare molto improbabile che risultati simili dovrebbero originarsi a partire da circostanze completamente differenti l’una dall’altra e senza una causa comune. D’altro canto molte parti importanti della teoria economica che fanno propria la convinzione dell’esistenza dei rendimenti decrescenti si baserebbero su fondamenti davvero instabili se, prima di applicarli a una particolare industria, fosse necessario provare che a causa di un accidente fortunato, le condizioni tecniche di quella industria danno luogo al fenomeno dei rendimenti decrescenti.

La logicità di questa obiezione è assai sottile e anche con un fondo di ironia. Quella che segue, infatti, è una vera e propria stroncatura.

Ciò che cercherò di dimostrare oggi è che i rendimenti decrescenti non dipendono dalle peculiarità tecniche di un’azienda o dell’altra, ma dall’azione dell’agente umano che concretamente controlla la combinazione dei fattori cercando di massimizzare il risultato. La sua azione tesa ad allargare il più possibile il rendimento che può ottenere dalla situazione data è il fondamento del carattere universale che si manifesta nei rendimenti decrescenti. Questo non significa negare che i fattori tecnici possano spingere nella stessa direzione; semplicemente mi limito a sostenere che ai fini della teoria economica non è necessario assumere che essi dovrebbero farlo. Se lo fanno tanto meglio, ma se non lo fanno tale fatto non è sufficiente ad inficiare le teorie economiche basate sull’assunzione del dato dei rendimenti decrescenti. Questa interpretazione richiede la realizzazione di due condizioni: 1) che l’imprenditore nelle sue decisioni sia governato dal principio di sostituzione. 2) che ci sia un certo grado di varietà e di indipendenza fra le unità che vengono prese in considerazione. Per esempio quelle che compongono il fattore variabile, oppure fra le unità che compongono il fattore costante, oppure ancora fra i metodi in cui i due fattori possono essere combinati fra loro cioè i modi in cui il fattore variabile possa esser utilizzato  (A questo punto nel testo compare in italiano la parola spiega, ndr.) Date tali condizioni i rendimenti decrescenti si verificheranno perché l’imprenditore stesso valuterà che gli sia conveniente mettere a punto successive dosi o unità di quei fattori e degli usi cui li destina, in un ordine decrescente dai più efficienti ai meno. Inizierà producendo modeste quantità e usando le migliori combinazioni possibili e con la crescita del suo prodotto nonché le dosi più produttive fino a che non si raggiunge un punto massimo dal quale si può soltanto tornare a dosi meno efficienti.

L’espressione agente umano usata da Sraffa non va qui intesa in senso individuale, anche se il testo conserva su questo una certa ambiguità. In realtà, affermare che ai fini della teoria economica non è necessario assumere i fattori tecnici come rilevanti, significa togliere l’alibi che nasconde in realtà che ciò che accade è dovuto a decisioni che stanno tutte in alcune mani e non in altre. Lo vedremo meglio alla fine dell’intero ragionamento.

Prendiamo il caso dell’agricoltura. Anche nel suo caso, la prima ipotesi formulata era che i rendimenti decrescenti erano dovuto alle condizioni tecniche. Mill è stato il primo a suggerire tale interpretazione e sembra in contrasto con l’opinione di Ricardo. La definizione di Mill è adottata in molti libri di testo. Dice che ‘il rapporto decrescente tra prodotto del suolo e investimento è una di quelle verità che i testi di Economia Politica prendono a prestito dalle scienze fisiche alle quali più propriamente appartengono’. Ciò significa affermare che la tecnica agricola determina in modo definitivo il modo in cui le successive dosi di investimento devono essere impiegate su un terreno dato, e pure che, a causa di ragioni che dal punto di vista di vista economico appaiono come accidentali, determina il fatto che il prodotto di successivi investimenti diminuisce al crescere dell’esborso totale. (Il testo a questo punto finisce con la parola Unset. ovvero unsettled, non definitivo Ndr.) L’agricoltore non avrebbe scelta rispetto al modo di spendere una unità di capitale che lo ripaghi al meglio, tutto sarebbe dunque determinato da una legge fisica, indipendentemente dalla sua scelta e azione. In effetti le cose stanno in modo differente. Quando l’agricoltore ha speso una certa cifra annua per un tratto di terra dato, e si propone di spendere in aggiunta altre 100 sterline, non c’è alcuna legge fisica che lo costringa a spenderle in un determinate modo che non impieghi considerazioni di tipo economico. La tecnica agricola offrirà all’agricoltore un ventaglio di modi differenti in cui l’investimento addizionale di 100 sterline possa essere impiegato. Supponiamo di definire queste diverse e possibili soluzioni come A.B.C. D ecc. la tecnica agricola suggerirà all’agricoltore quale ammontare di prodotto può aspettarsi dalle diverse ipotesi. Ma oltre questo la tecnica non potrà andare. In primo luogo la chimica agricola o quella fisica non ha alcun modo di paragonare una tecnica di concimazione oppure di aratura rispetto a un’altra definendo in quale modo una può essere migliore dell’altra: questo lo si può fare solo riducendole a una qualche unità comune. In secondo luogo non esiste alcuna ragione per supporre che il prodotto aumentato sarà dello stesso tipo e qualità di quello ottenuto con l’investimento della prima dose di capitale e lavoro. I rendimenti decrescenti rilevanti per l’economia non implicano in alcun modo che se il prodotto finale è accresciuto il tipo di raccolto rimanga costante. Può essere che in un primo tempo il modo migliore di spendere le prime dosi sia quello di usare la terra come se fosse una foresta; con l’aumento della spesa si può decidere di allevare bestiame, poi ci si può rivolgere a un tipo di raccolto, poi accrescendo di nuovo l’investimento la terra può essere trasformata in una serra per coltivare verdure. Il confronto fra i rendimenti di successive dosi marginali non può avvenire su basi puramente fisiche cioè non possiamo dire se qualche metro cubo di legno è più grande più piccolo in quanto prodotto a uno staio di grano senza ridurre i due prodotti a una misura comune, cioè che stabilisca quale sia il loro valore. Supponiamo che il miglior rendimento sia ottenuto  usando l’impiego di tipo B. Se dopo questo l’agricoltore vuole spendere altre 100 sterline la sua scelta si restringerà: rimarranno solo i metodi che possono essere usati adattandosi al metodo B, sia che si parli di differenti unità dei fattori oppure di un cambiamento di uso. La scelta sarà ristretta a A,C,D e così via. Nelle condizioni dell’agricoltore cioè, se dopo l’impiego del metodo B la produttività degli altri metodi rimane inalterata, (il che può succedere solo se essi sono del tutto indipendenti da B), è chiaro che la seconda dose di 100 sterline immesse darà un rendimento inferiore o al limite uguale a quello di una dose se i diversi e possibili metodi di spesa non sono indipendenti abbiamo due casi possibili. Se nelle nuove condizioni e cioè dopo che è stato usato il metodo B, i rendimenti ancora disponibili grazie a quel metodo sono decrescenti, ci troviamo di fronte a una caso di legge fisica dei riendimenti decrescenti che si manifesta in modo cumulativo. Se, d’altro canto, dopo avere impiegato il metodo B la produttività degli altri metodi che sono stati lasciati ma che sono ancora disponibili  viene aumentata, sembra che ci troviamo di fronte a rendimenti crescenti. Ma questo solo perché l’agricoltore ha fatto male i suoi conti. In effetti, in questo caso, avrebbe dovuto spendere il primo apporto addizionale di 100 sterline non per usare il metodo B per l’intera superficie della terra ma adottare una combinazione fra il metodo B e il metodo C … Perciò se l’agricoltore avesse fatto bene i calcoli, questo  sarebbe al massimo un caso di rendimenti costanti e non crescenti. Si tratta infatti del caso che abbiamo preso in considerazione nella lezione precedente quando abbiamo visto che arando e rassodando due volte la terra, essa dà un prodotto superiore al doppio rispetto ad averlo rassodato una volta sola. Perciò se l’ammontare di capitale è limitato, soltanto metà della superficie di terra deve essere coltivata ma rassodata due volte. Perciò, se le condizioni che abbiamo assunto si realizzano, rendimenti decrescenti o costanti si realizzano applicando dosi successive dei fattori diversi a un fattore costante, indipendentemente dalle particolarità tecniche che caratterizzano un’industria o l’altra. Da questo punto di vista possiamo capire le ragioni di Ricardo, e generalmente degli economisti classici che hanno sempre enfatizzato che i rendimenti decrescenti sorgono dalla coltivazione prima delle terre più fertili e poi passando gradualmente a quelle sempre meno fertili, e lasciato sullo sfondo la questione delle dosi successive di capitale e lavoro impiegati sulla stessa terra il che equivale a dire l’estensivo opposto all’intensivo. È certo e anche ovvio che la produttività della terra in un dato tratto è in larga misura indipendente dalla circostanza se la terra accanto sia coltivata o meno, ma la produttività di una data dose di capitale è in generale meno dipendente dalle altre dosi che sono spese nello stesso tempo sulla medesima terra. Perciò la generalità ed affidabilità della legge dei rendimenti decrescenti è maggiore in un coltivazione estensiva che non in quella intensiva.

Tutto il ragionamento ha il significato di ribadire che in realtà i rendimenti decrescenti non sono in realtà altro che rendimenti costanti in alcuni casi e che la loro decrescita è dovuta a limiti fisici non superabili. Chi prende però le decisioni? Mi sembra importante richiamare, proprio a questo punto del discorso, ciò che scrive Emiliano Brancaccio, in dialogo con Augusto Graziani. Il testo completo del saggio si trova anche in Sinistra in rete ma non è difficile trovarlo anche in altri siti. È doveroso ricordare che il dialogo fra Brancaccio a Graziani ha molte sfumature e che dunque il brano che segue va considerato un’interpretazione che, per quel che vale, condivido pienamente.

Sul problema delle quantità prodotte date di Sraffa, tuttavia, Graziani ha proposto una diversa chiave di lettura. Anche l’interpretazione grazianea si situa dal lato della linea di demarcazione che spetta alla visione marxiana, vale a dire del capitalismo inteso come processo “circolare”. Graziani, però, sembra distanziarsi per più di un aspetto dalla concezione delle quantità date suggerita dagli interpreti sraffiani tradizionali. Per Graziani, non è detto che nel sistema sraffiano la composizione della produzione si adatti alla composizione della “domanda effettuale”. A suo avviso, piuttosto, Sraffa potrebbe avere omesso di analizzare il modo di determinazione delle quantità prodotte per sottolineare che quelle quantità sono frutto di una decisione autonoma da parte dei capitalisti. La scelta di considerare date la scala e la composizione del prodotto sociale potrebbe cioè costituire un modo per evidenziare che la produzione capitalistica si realizza in un contesto asimmetrico, in cui la sola classe dominante fissa a priori le quantità prodotte, determina anche la loro ripartizione e per tali vie esercita un potere sulle altre classi. Questa chiave di lettura, secondo Graziani, consentirebbe tra l’altro di ipotizzare l’esistenza di un filo di congiunzione tra l’opera principale di Sraffa e alcune tesi precedenti che lo stesso Sraffa, ispirato dal Trattato della moneta di Keynes, aveva avanzato in una recensione critica ad Hayek (Graziani 1986) … L’interpretazione grazianea di Sraffa mi è sempre parsa interessante per una sua potente implicazione teorico-politica. Attribuendo alla classe capitalista un potere di decisione autonoma sulla scala, sulla composizione e quindi anche sulla ripartizione del prodotto sociale, Graziani fa piazza pulita di qualsiasi possibilità di riabilitazione del concetto neoclassico di sovranità del consumatore … Ma non è finita qui. Assumendo che la classe dominante decida le sorti della scala, della composizione e della ripartizione sociale della produzione, Graziani sembra dubitare della possibilità di incidere su tali grandezze attraverso le rivendicazioni salariali o le pressioni sulla domanda effettiva esercitate con i consueti strumenti di politica monetaria e fiscale. Che si tratti di rimediare ai guasti del capitalismo sul versante della disoccupazione di massa, o delle disuguaglianze sociali, oppure anche della crisi ecologica, le possibilità di intervenire sulla domanda per correggere le distorsioni del processo produttivo appaiono frustrate se contrastano con le autonome decisioni della classe dominante. Così, assieme al singolo consumatore, anche il lavoratore in lotta per il salario e il politico keynesiano illuminato sembrano finire nell’oblio dei soggiogati dalla forza del capitale. Si potrebbe sintetizzare il tutto affermando che lo Sraffa “dopo” Graziani risulta alquanto scettico sulla concreta efficacia del “riformismo”, inteso come quel complesso di prassi politiche che tentano di disciplinare la dinamica capitalistica tramite strumenti di regolazione della domanda, autorità di controllo dei mercati e incentivi di vario genere, ma che rinunciano a qualsiasi forma di governo collettivo della produzione. Uno scetticismo tanto più disturbante quanto più se ne ravvisi l’attualità.

Riprendiamo le lezioni. Quanto detto in precedenza potrebbe rendere superfluo quanto segue, ma il ragionamento di Sraffa è talmente elegante, che vale la pena di leggerlo, fosse pure soltanto per ragioni estetiche.

Penso di dovere andare oltre la questione del significato delle Curve Funzionali  e delle Curve descrittive … e affrontate la differenza introdotta da Marshall  fra quelle che egli chiama “curva particolare delle spese” e curva dell’offerta; più in generale  con la  determinazione di quale tipo di rendimenti decrescenti sono rilevanti per l’analisi economica dell’offerta di una merce che sia distinta però dalla tipologia che vediamo coinvolta nella distribuzione dei fattori della produzione secondo il loro prodotto marginale. Secondo la distinzione di Wicksteed, in una curva funzionale la relazione fra costo e quantità  marginale e numero delle unità impiegate è una necessità, nel senso che è basata su una relazione di tipo causale: dal momento che le unità di un fattore variabile sono  identiche a un altro, ciò che producono non è una peculiarità della dose marginale a renderli meno produttivi, ma semplicemente al fatto che tale dose (di investimento ndr)  è stata impiegata insieme ad un numero dato di altre dosi. Perciò la curva funzionale attuale  rappresenta l’ordine delle cose per come accadono empiricamente, laddove la curva descrittiva rappresenta un ordine arbitrario selezionato dall’economista, che non è necessariamente coincidente con l’ordine degli eventi. La curva descrittiva è costruita arbitrariamente ponendo in un ordine discendente di efficienza un campione differente di terreni. Ma in questo caso la produttività della terra marginale non dipende dal fato di essere stata impiegata dopo che tutti gli altri terreni siano stati impiegati. Supponiamo che il terreno marginale, in uno stato di equilibrio dato, sia la millesima unità. Ora, tale terreno, che occupa il millesimo posto nell’ordine dei terreno, avrebbe esattamente la stessa fertilità e perciò la medesima produttività se esso fosse coltivato dopo una serie di unità piccolo o grandi che fossero, coltivate in precedenza. In una fabbrica, laddove fossero impiegati un migliaio di lavoratori di identica efficienza, il lavoratore marginale non è un uomo dato, Jones o Smith, ma qualsiasi lavoratore: il suo prodotto è determinato dal numero di posto che egli occupa e se invece di essere il 999 esimo di altri fosse uno di altri 2000 il suo prodotto sarebbe interamente differente. Perciò la distinzione fra due diversi tipi di curva sta nella natura della relazione fra prodotto marginale e numero delle unità impiegate: la decrescita in un prodotto è dovuta in un caso da un arrangiamento di tipo arbitrario e a una “legge” necessaria nell’altro. In realtà non esiste alcuna differenza fra le due curve. Una è altrettanto arbitraria quanto lo è l’altra perché in entrambi i casi di decrescita il prodotto marginale è dovuto all’azione del produttore che in prima istanza dosa direttamente al fine di ottenere in ciascun caso il prodotto massimo che preferisce.    

Il prosieguo delle lezioni è comunque importante perché permette alla fine di comprendere alcune delle affermazioni basilari che Sraffa proporrà in Produzione di merci a mezzo merci.

Una relazione fra cambiamento delle proporzioni e cambiamento nel costo di equilibrio in un mercato competitivo – il che equivale a dire che il costo è uguale al prezzo di equilibrio – si verifica soltanto quando la quantità totale disponibile di un fattore per una comunità data è costante – nel senso che non può essere ulteriormente aumentato. Questo fatto non può avere luogo in una sola impresa, ma può essere osservato solo dal punto di vista dell’intero comparto industriale. Il ruolo giocato dalla teoria dei rendimenti decrescenti è perciò radicalmente diverso se consideriamo la singola impresa oppure l’insieme delle imprese Per la ditta individuale esso rappresenta semplicemente una stato di transizione e aggiustamento e quando viene raggiunto l’equilibrio interno questo equivale al massimo possibile e questo significa che al punto di intersezione (fra le curve dei rendimenti crescenti e decrescenti ndr)  (considerando tutti i fattori) e perciò siamo al limite del rendimento costante. Ma il comparto industriale nel suo complesso può essere benissimo in uno stato di equilibrio anche in una zona a rendimenti decrescenti. Questa è la ragione delle difficoltà che sorgono quando si vogliono collegare le condizioni per una singola impresa con quelle generali dell’intero comparto in particolare nella costruzione delle curve totali dell’offerta a partire dalle curve individuali che la compongono. Ci sono molti metodi per arrivare a questo  che si prestano in molti casi a obiezioni, sebbene possano esser utili per alcuni propositi. In primo luogo c’è il metodo di cui ho già detto e cioè organizzare le singole ditte in ordine decrescente per quanto attiene alla loro efficienza. Questo metodo ci fornisce un diagramma molto simile a quello dei costi crescenti nella curva dell’offerta, ma senza che abbia con essa qualcosa in comune: si può usare il diagramma per la curva particolare della spesa ma non per la curva dell’offerta. La ragione è che non è necessariamente vero che siano le ditte più inefficienti a finire fuori mercato quando c’è una caduta della domanda e che invece vi entrano quando l’industria è in espansione – . … Poi c’è il metodo usato da Marshall in connessione con la teoria degli effetti di miglioramento in agricoltura (credo intenda dire nei metodi agricoli ndr), che riguardano sia il comportamento della singola industria che impiega la totalità dei fattori costanti e spende dosi successive di fattori variabili fino al punto in cui  esso. Il guaio è che questo tipo di curva si basa sull’assunto che non cambino né le economie interne né quelle esterne con la crescita dell’industria; così che ciascuna impresa, dal suo punto di vista individuale, aderirebbe alle condizioni dei rendimenti costanti, ma il numero di imprese componenti l’industria nonché le dimensioni sarebbe del tutto indeterminato. Inoltre tale metodo dimentica completamente che le caratteristiche primarie di un’industria competitiva, e cioè l’equilibrio generale, è il risultato di una serie di equilibri parziali che si raggiungono nella competizione e indipendentemente l’una dall’altra. D’altro canto questa specie di curva collettiva mostra nel modo più evidente gli effetti dei rendimenti decrescenti su scala nazionale e in effetti è sufficiente per testare i limiti su cui è legittimo basare su di loro la curva dell’offerta.

Anche in questo caso non è necessario alcun ulteriore commento.

Il metodo che io credo corretto ha maggiormente a che fare con i rendimenti crescenti per cui non lo tratteremo qui. La sostanza, naturalmente, è di considerare prima di tutto le curve individuali che mostrano variazioni nel costo in quanto funzione delle dimensioni di una industria: successivamente inglobate nella curva collettiva, non la totalità di ciascuna curva ma solo la quantità di costo che corrisponde alla dimensione ottimale di ciascuna azienda – ma in questo modo si tiene conto dei rendimenti decrescenti dovuti al fattore costante solo nella curva collettiva e non in quelle individuali. Ora, voglio concludere la parte dedicata ai rendimenti decrescenti e definirò in breve quali sono i limiti entro i quali una curva dell’offerta si possa basare sui rendimenti decrescenti. Questi limiti, credo, consistano nel fatto che la loro influenza si verifica in casi talmente ristretti da risultare eccezionali.

Come si può constatare la logicità del ragionamento si traduce in una stroncatura senza appello. A questo punto cambia l’oggetto dell’indagine.

Ora, dobbiamo introdurre una distinzione fra due tipi diversi di variazioni nella quantità di un fattore, conseguenti a un cambiamento nella remunerazione:1) aumento o diminuzione della proporzione nella vendita di quel fattore sul mercato da parte del proprietario in cambio di denaro. 2) aumento o diminuzione della quantità totale attualmente esistente di quel fattore, sia che esso venga usato direttamente dal proprietario, oppure venduto ad altri.  Per esempio: un aumento delle ore di lavoro lavorate come conseguenza di un aumento dei salari appartiene al primo caso – e si tratta meramente di una diversa distribuzione del tempo ed energia fra due diversi usi possibili e cioè più lavoro per avere più salario, oppure più ozio; ma in entrambi i casi non muta il totale disponibile: una crescita di popolazione dovuta a un aumento dei salari appartiene invece alla seconda classe. Ora, i teorici del costo di opportunità pensano in realtà alla prima classe e da questo punto di vista essi hanno ragione nel non fare differenza fra un fattore e un altro, la cui remunerazione entra nel costo. Il proprietario terriero è libero di aumentare o diminuire la proporzione di terra da usare produttivamente, come risposta a un mutamento della rendita, tanto quanto il capitalista è libero di aumentare o diminuire la parte del suo capitale che presta ad altri se il tasso d’interesse cambia. Oggi vi propongo di soprassedere ancora sulla questione delle relazioni fra la teoria di Marshall dei costi reali e dei costi di opportunità (o perdita di utilità) da un lato e invece la concezione classica e fisiocratica dei costi, cioè considerata solo quantità fisica di materiale richiesta per il mantenimento del lavoro. Forse dovrei chiarificare a priori cosa sto cercando di mostrare. Credo che Marshall abbia tentato di conciliare due cose che sono incompatibili. In primo luogo egli desidera avere a disposizione una sorta di costi reali che sono paragonabili all’utilità, in modo tale che si bilancino fra loro, quello che chiama rendere uguale l’utilità marginali più i sacrifici più quello che definisce  “simmetria fondamentale”  fra offerta e domanda. In secondo luogo vuole che i suoi costi siano qualcosa di diverso dall’utilità in modo tale da non essere identificato meramente come perdita di utilità. Non credo sia possibile avere le due cose.

Infatti si tratta di una versione sofistica del gioco delle tre carte.

Il primo punto di vista porta diritto al costo di opportunità più identità fra costi e utilità negativa. Poi la quantità totale dei fattori deve essere considerata costante e diventa impossibile spiegare le variazioni sul totale disponibile. Il secondo porta alla teoria classica dei costi che essendo una quantità di materiali e non di sentimenti non si può rendere uguale alle utilità marginali … L’idea di “costo reale” sostenuta da  Marshall porta necessariamente come conseguenza logica al concetto di “costo di opportunità” e tale conseguenza è inconsistente se si considerano le due fondamentali dottrine di Marshall e cioè: 1) che “utilità e costi reali sono le due forze opposte che determinano il valore delle merci”. 2) Che la rendita “non è parte del costo di produzione”, mentre l’interesse e i salari lo sono, così che la rendita viene ad avere una posizione del tutto differente da quella di interessi e salari in relazione al valore …

L’obiezione logica non sembra tuttavia bastare a Sraffa che riprende il discorso introducendo nuovi elementi:

A questo proposito vanno notate diverse cose: 1) le due cose (sacrifici e sussistenza) non  possono essere addizionate e se lo potessero ci sarebbe una duplicazione e cioè sacrifici da parte del lavoratore e sacrificio dei suoi genitori (parents ndr). Questo non sono affatto costi reali nel senso di Marshall: piuttosto essi rappresentano delle utilità per il lavoratore.

L’uso di una parola come parents e il ribadire che è proprio quello s’intende, lascia a prima vista perplessi. Cosa c’entrano i genitori di un figlio che lavora e cosa bisogna intendere qui per sacrifici e sussistenza che non si possono sommare? L’argomento, in realtà, era già stato trattato da Sraffa e sembrava in effetti concluso. Vediamo però prima di tutto di capire cosa sono sacrifici, utilità e costi di opportunità per la teoria marginalista. Faccio due esempi mettendomi dalla parte del consumatore. Se mangio tutti i giorni in casa, il mio comportamento è un’utilità per il supermercato sotto casa dove vado a fare la spesa: ovvio. Solo che il marginalismo non si ferma qui e scopre che il mio comportamento è una disutilità per la trattoria che si trova anch’essa sotto casa. Anche in questo secondo caso siamo dalle parti dell’ovvio, ma se poi si pretende che per la trattoria io sarei addirittura un costo o un sacrificio, ecco che le cose cambiano perché la stessa cosa – il mio comportamento – viene spostata dalla parte dell’utilità o dei costi a seconda delle esigenza della teoria, ma in questo modo si ha una duplicazione indebita: insomma siamo sempre a una versione più o meno raffinata del gioco delle tre carte. Il testo prosegue in questo modo:

Le “necessità per efficienza” non è affatto un sacrificio per lui (e neppure per i suoi genitori per quanto attiene alla formazione, ecc.. ). Se fanno un sacrificio questo non è affatto compensato dal salario che non riceveranno, ma se mai il piacere di stare bene e avere figli che vanno a scuola) (in ogni caso per i genitori questi sarebbero non costi negativi ma perdita di utilità. 3) Ciò che essi hanno è costo nel senso inteso dagli economisti classici,  cioè “anticipi di lavoro” per il cibo richiesto dal lavoratore, carburante per la macchina, ecc. ecc. e per i quali il concetto di utilità non entra affatto. Ma allora ciò significa che i costi non sono disponibili per la teoria di Marshall che richiede un tipo di costi che dovrebbero essere misurati in termini di bilanciamento rispetto alle utilità cioè sarebbe dello stesso tipo.

Vediamo di cominciare a dissolvere, o almeno a cercare di farlo, le nebbie che avvolgono queste affermazioni. La prima constatazione, che può sembrare sorprendente, è che in questo brano Sraffa si pone dal punto di vista di una famiglia operaia per ritorcere le argomentazioni marginaliste contro la teoria stessa: su questo non vi è dubbio, visto il reiterato uso della parola parents ma anche l’accenno al training, cioè alla formazione diremmo oggi: e poi la scuola ecc. Anche in questo caso, Sraffa riprende un’argomentazione che aveva già usato, ma allora si era posto soltanto dal punto di vista del lavoratore singolo, mentre in questo caso ingloba nel ragionamento l’intera famiglia. Vediamo però di scomporre la frase. Sraffa ritorce l’argomentazione soggettivistica su cui si basa la teoria marginalista per dire, in definitiva, che se si assume quel punto di vista, ogni azione di tipo economico può essere intesa come utilità per qualcuno o il suo contrario per altri, a seconda del punto di vista che si assume; ma questo non ha alcuna rilevanza nella determinazione dei costi e neppure del valore di una merce. In sostanza Sraffa sta dicendo che se una famiglia decide che il figlio invece di andare lavorare è meglio se va a scuola (assumiamo come data la possibilità di scelta), il sacrificio non è il mancato salario, ma la possibilità di stare meglio e avere più tempo da passare insieme: ma queste non sono forse utilità per il lavoratore? Tuttavia, quello che per la famiglia è una utilità, sarebbe un costo per l’azienda che non può usufruire del lavoro del figlio: ma si tratta della medesima cosa non di due. Infatti la conclusione di Sraffa è che i costi non sono disponibili nella teoria di Marshall. E quali sono allora i costi e come si calcolano? Come affermavano i classici e cioè “anticipo di lavoro” per il cibo dei lavoratori, il carburante per la macchina ecc. ecc. È sufficiente tutto questo? No, o almeno dobbiamo sospendere il giudizio, mettendo però in evidenza due questioni niente affatto minori: Sraffa mette fra virgolette l’espressione “anticipo di lavoro” e non è affatto soltanto un vezzo, coma si vedrà meglio nel prosieguo e specialmente in un capitolo di Produzione di merci a mezzo merci.

Tutti gli elementi di costo di questo tipo sono già stati incorporati nel concetto di utilità (dal lato della domanda), in quanto costo di opportunità. Ciò che ancora resta dei costi non è nulla del genere. Infatti siamo rimasti a due tipi diversi di materia (utilità e costi fisici), ciascuno dei quali può essere usato come la sola base della teoria del valore: abbiamo così due teorie indipendenti non una teoria che li prende in considerazione entrambi. 4) In definitiva, questo tipo di costo adottato in ultima analisi da Marshall distingue fra rendimenti che corrispondono a costi reali e ad altri che non corrispondono, ma invece di porre la rendita da un lato salari e interessi dall’altro, egli mette i salari da una parte, e rendita più interesse dall’altra … Questo può essere vero quando s’intende mantenere il livello presente di produzione, ma se si tratta di accrescerlo, si potrebbe dire che il capitale passa dalla classe in cui è rendita del lavoro a quella in cui diventa lavoro.

Partiamo dalla prima affermazione che ribadisce come quello che per Marshall sono i costi è qualcosa già incorporato nel concetto di utilità e non può quindi essere spostato a seconda delle convenienze. Sempre nella prima parte Sraffa ribadisce che una teoria del valore può usare come base i costi fisici, oppure le utilità (che diventano costo di opportunità dal lato della domanda), ma non entrambe. Non è del tutto chiaro a questo punto se Sraffa ritenga che invece sarebbe possibile farlo. Il punto 4 dell’argomentazione, però ci offre un’indicazione precisa e cioè che il costo di Marshall non ha nulla di reale dal momento che non sa distinguere fra rendimenti decrescenti che sono effettivamente costi e altri che non lo sono. La rendita come un anticipo di capitale nel suo costo va inglobato anche l’interesse su quel capitale, ma se si considera il salario non più un anticipo ma una quota del reddito da distribuire il discorso cambia. La frase finale, però, complica ulteriormente il discorso perché mi sembra che qui Sraffa unifichi due problemi diversi.

In questo caso anche il surplus che va in maggiori salari per l’aumento della popolazione cessa di essere un surplus. In effetti non c’è aumento della rendita che possa permettere al proprietario terriero di aumentare il volume della terra ; sebbene non sia provato da nessuna parte che rendite più alti non portino alla colonizzazione di terre incolte, in nuove nazioni o continenti

Anche quest’ultimo brano è assai importante ma anche particolarmente spericolato. Ne propongo una possibile interpretazione. La prima frase è del tutto comprensibile nel sistema sraffiano e cioè che se il surplus va in maggiori salari cessa di essere surplus perché è reddito.

Veniamo ora alla parte conclusiva delle Lezioni, dove Sraffa sembra finalmente prendere per le corna il toro dei costi e la connessione con il valore.

… Ora, lasciando da parte le interpretazioni estreme dei costi, quali sono le condizioni in base alle quali è possibile affermare che le spese di produzione determinano il valore di una merce? La questione ci riporta a un’altra e cioè se i costi variano o meno se cambiano le quantità prodotte. Naturalmente s’intende i costi costanti per unità per prodotto, non il costo totale, qualunque sia l’ammontare del prodotto. La confusione può sorgere, come abbiamo visto, quando l’ammontare di un fattore è costante … Quando una merce è prodotta in condizioni di costi costanti, il suo valore è interamente determinato dai costi. (passaggio non chiaro ndr). Nel mondo reale c’è una differenza fra i due casi … Nel primo caso il totale è davvero costante, mentre nel secondo cambia in proporzione delle quantità prodotte L’aumento di domanda per Mashall non ha alcuna influenza sul valore nel caso di costi costanti: Nel caso estremo in cui la curva della domanda è più bassa della curva dei costi, niente sarà prodotto, ma se qualcosa lo sarà esso sarà venduto a un prezzo fissato.

Naturalmente, gli economisti classici conoscevano la legge dei rendimenti crescenti e decrescenti, ma non pensavano che essa avesse a che fare con la valore di una particolare merce. Altrettanto non trattarono mai il problema in connessione con le questioni dello scambio, ma sempre come parte  della teoria della distribuzione e dei metodi di produzione. I rendimenti crescenti giocavano un ruolo minore nell’economia classica,  il solo aspetto preso in considerazione era la divisone del lavoro come mezzo per accrescere la produttività: ma la divisone del lavoro era per loro dovuta molto di più alla generale progresso della società che non alla crescita di una particolar industria. I rendimenti decrescenti furono invece molto enfatizzati da Ricardo e dai sui amici e avevano chiara la connessione fra essi e la produzione globale; ma la consideravano soltanto in connessione alla crescita della popolazione e la teoria della rendita.

La posizione dei RD (Rendimenti Decrescenti) è diversa quando consideriamo la teoria dell’equilibrio generale di tutte le merci e di tutti i fattori della produzione. Il punto essenziale è che la teoria del valore di particolari prodotti e la teoria della distribuzione del prodotto totale non sono  considerate del tutto separate e distinte (così come viene detto da Marshall nei Principi). I due problemi sono risolti simultaneamente e considerati come un problema solo. Non propongo oggi di entrare nel dettaglio della teoria dell’equilibrio generale, lo farò nella prossima sezione. Voglio solo mostrare qui la parte che penso i RD debbano occupare in essa. Supponiamo un caso molto semplice. Un certo numero di merci differenti sono prodotte da due fattori della produzione, diciamo la terra e il lavoro: assumiamo allora che una certa quantità di entrambi i fattori sia necessaria per ogni prodotto, ma che la loro proporzione possa variare, poi assumiamo anche che tutte le unità di terreno siano di qualità uniforme e anche le unità di lavoro. La condizione di equilibrio sarà quella in cui il prodotto marginale del lavoro sia uguale in tutte le altre industrie, così come pure la produttività marginale della terra (salari più affitti in valore uniforme). In tale posizione di equilibrio … il valore del prodotto marginale dipenderà dalla ripidità della curva della produttività di dosi di lavoro applicate a un’area fissata di terra, quanto più ripida sarà la curva più grande sarà la proporzione del prodotto che va in affitto, più piccolo sarà il costo marginale in lavoro  (valore per unità) dal momento che tale valore moltiplicato per l’affitto in prodotto deve essere uguale in tutte le industrie. Tutto ciò può essere rappresentato da diagrammi che si riferiscono ad aree uguali impiegate in industrie diverse. Al fine di accertare tale questione il diagramma rovesciato delle produttività deve essere rappresentato in questo modo:  affitto salari affitto salari. In entrambi i diagrammi gli assi rappresentano uguale ammontare del fattore (a o b) prodotto del  lavoro.  In questo modo avremo che più lavoro sarà speso su ciascun acro nelle industrie in cui i rendimenti da lavoro scendono lentamente e minor lavoro dove i rendimenti scendono bruscamente. (La stessa cosa può essere rappresentata altrettanto bene in termini di produttività marginale della terra assumendo che successive dosi di terra siano impiegate a quantità costanti di lavoro). Supponiamo ora che, stante tale situazione di equilibrio, ci sia un aumento della domanda di uno dei prodotti. In che modo il valore del prodotto ne verrà toccato? Dal momento che i RD sono ottenuti da ciascuno dei fattori sembrerebbe che il valore debba crescere. Ma non è così. La semplice informazione che l’aumento della curva della domanda di un prodotto non è sufficiente per capire cosa accadrà del suo prezzo. Tutto dipende da quale sia l’origine dell’aumento avvenuto nella domanda. Possiamo così distinguere due casi: 1) dovuto al cambiamento nel gusto dei consumatori; 2) dovuto a un aumento dell’offerta di uno dei fattori (questo comprende anche miglioramenti e invenzioni), cioè il terzo caso. Se l’aumento della domanda è del primo caso, questo significa che la domanda di un altro prodotto sarà diminuita in proporzioni uguali: dal momento che tutti i prodotti sottostanno alla legge dei rendimenti decrescenti sembrerebbe allora che nulla sia destinato a cambiare. Ma non è così. Lo stesso accade con l’offerta dal momento che tutti i prodotti sono divisi fra fattori di produzione. La domanda totale non può crescere se l’offerta di fattori della produzione rimane invariata. Tutto allora dipende da: 1) se la merce la cui domanda è aumentata è prodotta a una più alta  o più bassa intensità di capitale o di lavoro per unità di terra e paragonata con la domanda della merce che è diminuita  2) se la merce in questione è prodotta con una più alta o bassa intensità di lavoro per unità di terra paragonata alla media di tutte le merci (oppure selezionando una merce standard come unità di valore). 3) Tanto per fare un esempio. Cavoli (alta proporzione di lavoro), Grano (bassa intensità di lavoro). Supponiamo che la domanda di cavoli cresca, e che quella del grano diminuisca. Terra e lavoro si trasferiranno nella produzione di cavoli, ma fino a che le proporzioni rimangono inalterate, una parte della terra sarà incolta. Allora tale porzione si distribuirà sull’insieme delle industrie fino a che il prodotto marginale sarà caduto. Alloro il valore di tutti i prodotti che sono ridotti facendo ricorso a una maggiore quantità di terra (il grano per esempio), cadrà se la paragoniamo al prezzo di quelli che sono prodotti con più lavoro. Si noti che: 1) Se il cambiamento della domanda avviene passando da un prodotto a un altro, che hanno entrambi la medesima proporzione di lavoro e capitale terra, tutti i valori rimangono inalterati; 2) Le proporzioni sono diverse, il valore dell’articolo la cui domanda è aumentata salirà sempre della stessa proporzione in cui cade la domanda di un altro; ma la domanda può anche cadere per tutti gli altri articoli. Fine (in italiano nel testo ndr) Tassa sul prezzo di un prodotto. Se il prezzo salirà per una quota minore, superiore o uguale alla tassa, ciò dipende interamente dal modo in cui il governo intende spendere il gettito; per esempio se deciderà di acquistare merci prodotte in proporzioni uguali oppure no. Un altro caso: aumento della popolazione del 10%. Supponiamo che i gusti dei consumatori siano inalterati. Non si possono aumentare tutti i prodotti, la terra, per esempio è quella che è. Se vi è un aumento di lavoro in una industria del 10%, i prodotti aumenteranno in proporzioni variabili e valori e anche la produttività marginale cambierà.  Il prodotto, tuttavia, crescerà meno dove i valori salgono per cui il nuovo aggiustamento dovuto alla domanda sarà inferiore. (Finito con prova che in condizioni di ritorni costanti il solo costo non determina il valore).

La conclusione che abbiamo raggiunto sui rendimenti decrescenti è che solo in casi eccezionali possiamo usarli come base per la variazione del costo e per la curva dell’offerta di una merce.

Ciò avviene quando la produzione della merce di cui si cerca di determinare il valore impiega la totalità di un fattore nella produzione. (tutto il fattore disponibile). In generale, e cioè quando un fattore che causa i rendimenti decrescenti è usato nella produzione di diverse merci, la curva dell’offerta di queste merci non può prendere in considerazione i rendimenti decrescenti che sorgono da essa senza stravolgere le condizioni essenziali che stanno alla base della teoria del valore di Marshall. Questo è particolarmente vero per l’agricoltura e per la produzione dei minerali più importanti che vengono usati come materie prime in una varietà di industrie.

Raggiungeremo lo stesso tipo di conclusione con i rendimenti crescenti. Il prestigio di cui ancora godono come base della curva dell’offerta è basato sulle variazioni di costo in una singola ditta quando aumenta il suo prodotto. Anche in questo caso, il fatto è irrilevante dal momento che ciò che è necessario per determinare la curva dell’offerta, è il RC (Rendimento Crescente) er l’industria nel suo complesso.

Due casi per la singola azienda: 1) economie interne; 2) spalmatura delle spese generali su un più largo numero di unità. In un regime competitivo, i rendimenti crescenti non possono mai essere causati da economia interne; ciò equivale a dire che la curva dell’offerta di una ditta singola deve sempre comportare costi crescenti. Se in qualche caso ciò non avviene, vuol dire che quella ditta è stata in grado di espandere la produzione indefinitamente fino a ottenere il monopolio del mercato … Perciò RC per un’industria possono scaturire solo dall’esistenza di economie esterne, il che implica che mentre un’industria nel suo complesso sta producendo in condizione di RC ciascuna delle ditte di quel comparto industriale sta producendo in condizioni di RD. Il risultato è che se una singola ditta espande il suo  prodotto i suoi costi salgono; ma se tutte le ditte sono in espansione nel medesimo momento, i costi per ciascuna di esse scendono. Dobbiamo ora prendere in considerazione le relazioni fra le tabelle dell’offerta di una singola azienda e quelle di un comparto industriale nel suo complesso, nel caso di costi in diminuzione. Le economie esterne sono un vincolo che connette le condizioni di produzione di una singola impresa rispetto al complesso industriale. Il costo di produzione di ciascuna non è determinato soltanto dalle quantità prodotte, ma anche dalla quantità della produzione di tutte le altre. Considerando l’equilibrio della impresa individuale dobbiamo perciò prendere in considerazione tre variabili. Il costo, quantità prodotte, e produzione totale. La curva dei costi di una impresa individuale in condizioni di competizione stabilità o equilibrio, deve avere una forma definita. In primo luogo non può mostrare costi crescenti in tutto il ciclo. All’inizio il costo cadrà, perché in caso contrario la competizione obbligherebbe l’impresa a contrarsi, a diminuire indefinitamente il suo prodotto, dal momento che quanto più l’impresa è piccola tanto più è piccolo il prezzo di vendita che può permettersi.  In questo modo il numero di imprese crescerebbe senza limiti e questo non permette di raggiungere l’equilibrio. D’altro canto dovrà finire a costi crescenti perché se i costi continuassero semplicemente a scendere, solo un’impresa rimarrebbe in  piedi in quel comparto e verrebbero meno le condizioni della concorrenza. La curva dei costi medi aggregati dell’offerta avrà in ogni caso una forma di questo tipo: un minimo che corrisponderà a un massimo di economicità, cioè la quantità che potrà produrre al più basso costo per unità di prodotto— Supponiamo che tale curva dia un prodotto che indichiamo come z.

  • Perciò il prezzo di mercato è fissato
  • Definizione di concorrenza: l’individuo non può influenzare il prezzo di mercato.
  • Curva della domanda dal punto di vista delle ditta individuale: diritta
  • Sempre tangente alla curva individuale al minimo (??? Ndr)

In effetti, i costi includono le remunerazioni di tutti i fattori, inclusa l’abilità manageriale. Se la curva non fosse tangente, la ditta avrebbe profitti al di sopra del normale: la causa che provoca questo può essere solo un fattore monopolistico oppure un fattore non preso in considerazione. Se supponiamo una concorrenza perfetta, e una considerazione di tutti i fattori, ciò non può accadere.

  • Prudenza (pag. 310)
  • Dedurre la curva marginale.
  • Curva tridimensionale.
  • Composizione in una curva collettiva sul piano
  • Marginale più media dei due casi
  • Economie esterne che accrescono quelle interne ecc. (quando il minimo individuale slitta verso le conseguenze giuste. (???? Ndr)

Annali in italiano nel testo.

Vediamo un’obiezione che si può sollevare verso il modo in cui ho disegnato la curve di domanda e offerta rispetto a una azienda singola in concorrenza con altre. In primo luogo ho disegnato la curva dell’offerta e ho detto che deve avere una certa forma poi ho sostenuto che la curva della domanda deve essere orizzontale, una linea retta e che in condizioni di equilibrio deve essere tangente alla curva dell’offerta nel punto di costo medio più basso. Secondo il signor Plumpre * questo implica che la curva della domanda venga disegnata prima e solo successivamente quella dell’offerta. In altre parole, la curva dei costi è quella che è perché il prezzo di mercato è quello che è, ed ogni cambiamento nel prezzo implica un cambiamento complete nella curva dei costi. In questo modo il mio ragionamento diventerebbe un circolo vizioso. L’argomento da me usato era questo: se i costi sono più altri del prezzo, l’industria verrà eliminate dal mercato sul lungo periodo, mentre se il costo sono bassi si crea un surplus di profitto e questo implica che non ci possa essere equilibrio e che l’entrata in scena di altre industrie, attratte dai super profitti, riporterà il livello dei prezzi a quello dei costi. Se una impresa gode di un qualche speciale vantaggio e questo può diventare un elemento di monopolio (ma lo escludiamo nel nostro esempio), o altro in uno dei fattori della produzione, la cui remunerazione avrebbe dovuto essere presa in considerazione  nel costruire la curva dei costi. Veniamo al punto di tale obiezione. Credo che la remunerazione di questo tipo di “fattore” che è rappresentato dalla speciale vantaggio di cui gode una ditta specifica, varia al variare del prezzo del prodotto così che la curva totale dell’offerta, se si assume la sua remunerazione come data, deve riguardare un prezzo dato di quel prodotto. La risposta è che possiamo soltanto disegnare una curva dell’offerta in base all’assunzione che il prezzo di un fattore rimanga invariato, così che il concetto di “spese di produzione” venga ad avere un significato definito perché sempre proporzionale ai costi reali: Ciò che muta è la quantità dei fattori impiegati per unità di prodotto, ma non il prezzo. Se cambia il prezzo l’intero schema perde di significato avremo così costi crescenti se li misuriamo dal punto di vista del fattore il cui prezzo sia caduto, e costi decrescenti nel caso contrario Prima di abbandonare questa materia, voglio enfatizzare un paio di punti che sono piuttosto importanti e andrebbero ricordati. 1) la differenza fra costo marginale per una ditta e costo marginale per un intero comparto industriale, una differenza che compare non appena ci sono in gioco economie esterne. Ciò è dovuto al fatto che la media e il costo marginale devono essere uguali per la ditta (dal momento che sono dei punti di flesso della curva dei costi medi), ma sono differenti per l’intero comparto. La proposta di Pigou di pagar dei compensi alle industrie con rendimenti crescenti, al fine di equiparare i prodotti marginali complessivi va in questa direzione.

2) La causa della uguaglianza dei costi medi e della divergenza dei costi marginali fra quelli di una impresa singola e dell’industria nel suo insieme è questa: il costo marginale è relativo a un cambiamento di prodotto – cioè è il tasso di crescita del costo totale in presenza di una crescita del prodotto – e quindi vi sono due costi marginali separati, uno in relazione ai cambiamenti dell’impresa, e l’altro a causa dei cambiamenti nel prodotto totale dell’industria. Mentre il costo medio è semplicemente il costo totale diviso per unità prodotte e perciò non è relativo ad alcun cambiamento, cioè indipendente dai cambiamenti  3) Abbiamo visto come le economie esterne possano influire sulla forma delle curve individuali in modo tale che, quando un comparto si espande, la singola impresa può accrescere il suo prodotto e diminuire i prezzii. Ma questo non contraddice l’affermazione che una condizione di rendimenti crescenti individuali sia incompatibile con la condizione di equilibrio.

Abbiamo visto come tanto con RC a causa di economie esterne, che con RD dovuti a fattore costante, il costo medio e quello marginale per una singola impresa sono uguali. Sono pure uguali al prezzo di offerta dell’industria nel suo insieme. Ma mentre per i RC questo prezzo di offerta è uguale alla media dei costi dell’industria, per i RD  sono uguali al costo marginale. (La ragione sta nel fatto che in regime di RD cresce la rendita e per di più questo incide sul costo della singola azienda ma non riguarda l’industria. Ora, nel caso in cui entrambe le forze e cioè economie esterne più fattore costante, agiscono contemporaneamente in un intero comparto, abbiamo ancora uguaglianza fra utilità marginale e media dei costi per la singola azienda e a loro volta uguaglianza di prezzo di offerta dell’intera industria. Ci dovremmo aspettare questo punto che il prezzo di offerta non sia uguale a quello marginale e neppure alla media dell’industria, ma che sia da qualche parte in mezzo fra questi due costi: ma le cose non stanno così. La curva dell’offerta è più alta sia di quella marginale sia della media dell’industria. Perché? Il prezzo di offerta collettivo deve essere ovviamente uguale al costo marginale per una impresa singola altrimenti lavorerebbe in perdita. Il costo marginale individuale è più alto del margine collettivo a causa delle economie esterne. Ma è anche più alto del costo medio di comparto perché esso è uguale alla media di tutte le singole imprese che includono le rendite e deve per forza essere più alto di quello di comparto che non tiene conto della rendita.

Ora prendiamo in considerazione il caso in cui le due forze, per caso, esattamente si bilancino, per cui per esempio il prezzo di offerta sia costante supponendo che il suo equilibrio sia a una quantità OM e che il totale del prezzo pagato sia OP. Possiamo disegnare una curva che divide quest’area in due: rendita dei fattori costanti e remunerazione dei costi reali. Tale curva in realtà non esiste. Solo il punto P è reale, l’altro non lo è dal momento che la curva intera è soggetta alla condizione che il prodotto sia OM. Essa rappresenta che cosa accadrebbe se le economie esterne fossero assenti  mentre invece sono presenti. Possiamo dedurre tale curva da una curva di indifferenza, in cui le proporzioni fra i fattori sono cambiate, mentre il prodotto no; e quindi, dato che le variazioni nella produttiovità marginale dipendono da proporzioni, ci fornisce la produttività marginale di lavoro e capitale quando le proporzioni mutano..

La maggiore difficoltà nel determinare la nozione di economie esterne riguarda la loro relazione con le invenzioni. Dovremmo rivolgere lo sguardo alle invenzioni e in generale ai miglioramenti nelle tecniche di produzione come parte delle economie esterne che devono essere prese in considerazione per la curva dell’offerta forse? E in caso contrario, dal momento che i costi devono decrescere necessariamente coinvolge certi miglioramenti nelle tecniche, dove vediamo la differenza fra due tipi di miglioramenti che possono essere presi in considerazione e altri no>?> Marshall sostiene che nel costruire lo schema dell’offerta per le industrie a rendimenti crescenti “escludiamo da ogni considerazione le economie che possono risultare da sostanziali invenzioni, mentre dovremo includere quelle che ci si aspetta di vedere aumentare ma nell’ambito degli adattamenti naturali delle idee esistenti.” )(460). Ciò che io ricavo da questa affermazione è che ciò che rilevante non è tanto se le invenzioni sono sostanziali, ma se possono o meno essere previste. Nel complesso ritengo tale distinzione accettabile sebbene da qualificare nel senso che i miglioramenti non devono sorgere naturalmente ma solo come conseguenza alla crescita del prodotto in una industria data. Pigou, d’altro canto, sembra guardare alla dipendenza delle invenzioni dalla crescita del prodotto come il solo criterio della distinzione fra quelle invenzioni che vanno prese in considerazione oppure no. Egli pone la distinzione in questo modo: …v ref..

Ora, a parte il fatto che non è così chiaro per me che non esistano difficoltà logiche nello speculare sulla storia che avrebbe potuto svolgersi diversamente, il problema reale mi sembra questo: Se nuove invenzioni future devono essere prese in considerazione per disegnare una curva di offerta dei rendimenti crescenti, ogni speranza di disegnare una curva attuale dell’offerta deve essere abbandonata per sempre, dal momento che prima che gli economisti possano misurare gli effetti che una nuova invenzione ha sui costi è necessario che tale invenzione sia già avvenuta.

Il prof Pigou distingue fra due tipi di nuovi cambiamenti nei metodi di produzione e nelle applicazioni tecniche dovute alle invenzioni: “Alcuni cambiamenti avvengono più o meno ‘spontaneamente’, cioè sono dovuti a fattori che opererebbero anche se il prodotto dell’industria rimanesse costante. Altri sono invece il risultato dei cambiamenti di scala del prodotto e vengono chiamati in causa in risposta a cambiamenti nella domanda.” … Poi procede nel dare una definizione di industrie a rendimenti crescenti che include, fra tutte le cause possibili dei costi, la seconda classe di invenzioni mentre esclude la prima.

Naturalmente, si potrebbe disegnarle per il passato, ma costruzioni come le curve della domanda e dell’offerta, che inducono a speculare su diverse possibilità in un momento dato, hanno senso solo se proiettate nel futuro. Per quanto riguarda il passato, una delle curve si è effettivamente realizzata mentre  le altre si sono dimostrate impossibili in quelle circostanze. …. È utile tracciare una storia passata se essa può gettare qualche luce sul futuro, ma nel nostro caso lo escludiamo. Le invenzioni passate sono già state fatte una volta per tutte e non si riproporranno in futuro, mentre quelle future se fossero conosciute già, cesserebbero di essere qualcosa di futuro  – dal momento che una invenzione diventa tale nel momento in cui viene conosciuta. Perciò credo che la soluzione corretta per quanto attiene la questione dei miglioramenti della tecnica industriale dovuta a invenzioni, è la soluzione data da Marshall che tutto quello che riguarda metodi superiori processi o forme di divisione del lavoro, o macchine ha senso se le consideriamo se sono conosciute adesso, anche nel caso in cui non siano adottate perché nel momento presente la scala di produzione non le rende convenienti. Ora dobbiamo domandarci: se le curve della domanda e dell’offerta debbono rappresentare, come si suppone facciano, le cause attuali che determinano il valore di una merce, che influenza può avere il fatto che gli economisti le sappiano individuare in modo corretto oppure no? Non è forse vero che un’invenzione ha a che fare con il costo sia che lo si sappia o no? La risposta naturalmente è che la curva dell’offerta, essendo disegnata da un economista, può rappresentare soltanto quello che sa e quando questa conoscenza diverge dai fatti la curva dell’offerta è dalla parte del torto. A parte le nuove invenzioni ci sono altri tipi di miglioramenti nella tecnica dovuta a processi di adattamento delle idee esistenti emerge un’altra difficoltà e cioè che tali metodi sono stati adottati in un momento di crescita del prodotto e non possono costituire una regola  quando il prodotto diminuisce. Perciò Marshall afferma: “La lista dei prezzi dell’offerta può aver ben rappresentato la caduta effettiva nel prezzo di offerta…ma se l’offerta dovesse diminiuire..l’andamento di ritorno prenderebbe un corso inferiore..”

Ma questo è un modo troppo blando di descrivere la cosa: significa che dobbiamo introdurre una nuova variabile e alla lunga il sistema diventa indeterminato. …. il che equivale a dire che in quel caso le curve della domanda e dell’offerta non ci dicono quale sia il valore della merce.  

Questa è la mia ultima lezione del trimestre. Perciò concluderò questa parte dell’argomento trattando delle variazioni di costo. Ho ancora poche cose da dire sui limiti dell’uso delle economie esterne come base dei RC. Abbiamo visto come un secondo gruppo di economie che non possono essere prese in considerazione per la costruzione delle curve di domanda e offerta riguarda i miglioramenti permanenti nei metodi di produzione i quali, se sono stati introdotti in precedenza a causa di un aumento del prodotto, non vanno perduti se c’è una riduzione a una scala precedente. Quando diciamo che non possono essere presi in considerazione, intendo dire che essi non possono essere rappresentati in una curva statica dell’offerta, perché questo causa una modifica nella curva stessa. Una curva rappresenta un’equazione essa dunque può mostrare cambiamenti nella variabili, ma non i cambiamenti nelle costanti – cioè nei parametri che definiscono la forma e la posizione della curva stessa.   Cambiamenti nelle costanti implicano che si debba disegnare una nuova equazione e quindi una nuova curva. Ma c’è un altro gruppo di economie esterne che non possono essere prese in considerazione: quelle economie grazie alle quali la crescita di alcune industrie va a beneficiarne anche altre; il che equivale a dire che il costo di produzione decresce nelle industria nella loro totalità e non soltanto per l’articolo che stiamo considerando.

Escluse dalle economie esterne:

-invenzioni

-miglioramenti irreversibili

-economie comuni ad altre industrie

tali requisiti equivalgono a dire che le economie esterne lo devono essere dal punto di vista delle single aziende, ma da considerarsi interne se si guarda all’intero comparto industriale. La curva dell’offerta basata sulle economie esterne assume per forza di cose che ci sia una stretta interdipendenza fra i costi di una impresa e la quantità prodotta da altre della stessa industria, ma pretende al tempo stesso che vi sia totale indipendenza fra tali costi e la quantità prodotta dalle altre. Perciò, la classe più importante di economie esterne, cioè quelle che derivano dallo sviluppo generale dell’ambiente industriale (Marshall), deve essere espunta dall’analisi: per esempio i costi più bassi di produzione delle nazioni molto industrializzate rispetto alle nazioni ancora agricole, sono dovuti principalmente a fattori di carattere generale piuttosto che caratteristici di una singola industria.… Ora, la ragione  per cui questo tipo di economie esterne non devono essere prese in considerazione è la stessa che abbiamo incontrato a proposito del RD, che sorgono dalla impossibilità di crescita di un fattore che venga usato contemporaneamente in diverse industrie o comparti … Conseguentemente, le condizioni che la curva dell’offerta dell’industria presa in considerazione dovrebbe essere indipendente dalla corrispondente curva della domanda, non sarebbe soddisfatta dal momento che in generale la forma della curva di una domanda di un articolo cambia quando i prezzi delle  altre merci cambiano … Per esempio, la crescita di uno dei fattori, rende possibile lo sviluppo di mezzi di trasporto meno costosi per esempio le ferrovie, e questo vantaggio si riflette ovunque generale piuttosto che da fattori particolari legati a una particolar industria p comparto Tali limitazioni restringono il campo delle applicazioni delle economie esterne alla curva dell’offerta il che non è affatto sorprendente e questa è la ragione per cui si trovano pochi esempi nei libri di testo! Vediamo dunque sia i rendimenti decrescenti sia le economie esterne possono essere prese in considerazione per un numero limitato di casi …

LA SVOLTA.

A questo punto e con ben altra consapevolezza di tutto il percorso, possiamo ripartire dallo Sraffa del 1940. Egli ritorna nello stesso punto dove aveva interrotto la sua riflessione degli anni ’20, ma questa volta riconosce subito la forza dell’argomentazione marxiana:

Marx si appella a un principio comunemente accettato che dovrebbe essere reso esplicito: se due cose sono equivalenti l’una rispetto all’altra devono essere equivalenti rispetto a qualche altra cosa.

Poi prende in considerazione le critiche che vengono rivolte a tale convinzione, in particolare quella di Cassel, ma solo per respingerla. Dopo aver riconosciuto che fra due equivalenti ci deve essere un tertium comparationis ecco la conclusione:

Se si considera il profitto uguale a zero i valori delle merci sono proporzionali alle quantità di lavoro in esse incorporate. A questo caso si applica la teoria del valore lavoro ed il lavoro è la sostanza comune,

Occuparsi di Cassell è la coda delle oscillazioni precedenti ed è l’ultima e lo dimostra in fatto che nelle terze equazioni che entreranno in Produzione di merci a mezzo merci, il lavoro viene quantificato. Anche Neri Salvadori e Kurz ripartono da questo  punto:

Mentre nella prima e nella seconda equazione Sraffa considera il salario come una quantità di merci fisiche, … nel caso preso in considerazione con la terza equazione, dove esiste un surplus, Sraffa s’interroga – tornando a Ricardo –  sulle implicazioni della partecipazione dei lavoratori al surplus e giunge alla famosa proposizione sulla distribuzione e cioè che il saggio di profitto è inversamente proporzionale alla quota di salario erogata. Se i lavoratori partecipano alla distribuzione del surplus il concetto di salario espresso in merci fisiche diviene obsoleto. Tuttavia non si ferma qui. L’adozione di questo nuovo concetto di salario obbliga Sraffa a riconsiderare tutta la questione e a domandarsi quindi che cosa distingue il nutrimento dato a un cavallo, per esempio, con il salario necessario al sostentamento dei lavoratori? Anche questa è una vecchia domanda che era stata posta anche ai suoi studenti nelle Lezioni. La risposta, allora era che il nutrimento del lavoratore fa parte del reddito nazionale mentre quello del cavallo no. Nel 1940, tuttavia, Sraffa aggiunge qualcosa d’altro e cioè che mentre nel caso del cavallo è solo il proprietario a decidere la quantità e qualità del nutrimento, nel caso dei lavoratori dipende dai rapporti di forza. Sraffa chiarisce in un appunto del 1942 che nelle prime due equazioni egli considera il salario alla stessa stregua del foraggio dato a un cavallo.

Questo passaggio dissolve la polemica precedente, quando Sraffa aveva imputato a   Marx, addirittura di occuparsi di cose metafisiche. La necessità di distinguere fra salario e foraggio porterà Sraffa alla necessità di quantificare il lavoro, ma anche a comprendere la differenza fra lavoro animale e lavoro umano in un modo in fondo non diverso dalla considerazione di Marx. La compresenza fra due diverse accezioni del termine lavoro dipende però dalla sua connessione con l’ente generico o meno. Potremmo definire il sistema capitalistico come il tentativo di eliminare completamente l’ente generico e trasformare gli esseri umani in macchine specializzate del tutto alienate da se stesse, nel linguaggio di oggi in macchine post umane. Quindi nel caso di produzione del surplus, il lavoro umano non poteva più essere trattato come gli altri tipi di lavoro (animale ecc.) e dunque come un costo reale espresso in termini fisici, ma bisognava prenderlo in considerazione in quanto tale e quindi nella sua diversità. Dal momento che i salari venivano pagati in relazione al lavoro svolto Sraffa si convinse che il lavoro doveva essere trattato come una quantità misurabile a differenza di quanto sostenuto nel ’27. I dubbi sulle sue idee precedenti, però, emergevano già nel 1929, ma fu solo in questi appunti che il mutamento appare chiaro e credo che abbia a che fare con la cura delle opere di Ricardo.

… Un altro concetto classico perse molto del suo appeal e cioè il salario come ante factum cioè anticipo che implicava di rapportare il salario come appartenente al capitale anticipato all’inizio del periodo di produzione. Ricardo e Marx adottarono il punto di vista dell’anticipazione in un primo tempo, Sraffa li seguì, ma poi avanzo la sua ipotesi di salario come interamente pagato dal prodotto. Tale mossa lo portò a riconsiderare la distinzione classica fra beni necessari e beni di lusso che lo portò infine a distinguere fra prodotti di base e prodotti di non base. Questo passaggio è fondamentale per arrivare alla terza serie di equazioni.      

Considerazioni finali.

Nelle conclusioni Neri Salvadori e Kurz prendono le distanze da Stademann. La materia sarà controversa per un bel po’ di tempo ed è bene dire per l’ennesima volta che l’opera di Sraffa si presta a interpretazioni diverse, anche se la possibilità di accedere ad essa in forma più o meno completa è destinata a far cadere molti pregiudizi se ci si pone da un punto di vista dei suoi sviluppi e quindi anche della sua storia niente affatto lineare. Ecco come essi ricostruiscono il tutto:

…. With regard to Sraffa’s analysis, of (single-product system), without and with a surplus and given (commodity) wages, he pointed out that the general rate of profits and relative prices are fully determined by the ‘objective data’ for which Sraffa har started. Being themselves merely derivates of the given physical conditions, labour value magnitude have no role to play in  this determination and are therefore superfluous in developing a materialist analysis of history…

Riguardo all’analisi di Sraffa del sistema a prodotto singolo, senza o con un surplus, e con un salario dato in forma di merce, egli mise in evidenza che il saggio generale di profitto e i prezzi sono interamente determinati dai ‘dati oggettivi’ da cui l’analisi di Sraffa ha preso avvio. Essendo dei meri derivati di condizioni fisiche date, la grandezza del valore lavoro non gioca alcun ruolo in tale determinazione ed era perciò superflua  ai fini dello sviluppo di una analisi materialistica della storia

Anche Neri Salvadori e Kurz affermano a questo punto che si può considerare valida l’interpretazione di Stademann per il periodo 1927-31 ma non per il dopo. Peraltro, anche considerando quel periodo, abbiamo già visto come in singoli appunti, frasi e qualche nota, i dubbi e gli interrogativi erano già presenti. In realtà, ciò che prevale in quel periodo è la confusione, poco c’è di univoco e la parte di gran lunga più valida della stesse Lezioni è quella in cui Sraffa attacca senza mezzi termini il marginalismo. Le conclusioni di Neri Salvadori e Kurz, che condivido, mettono in evidenza uno Sraffa che riaccredita Marx nella propria analisi; tuttavia, proprio perché la materia è controversa e continuerà ad esserlo, preferisco entrare direttamente nel merito delle Lezioni e delle altre parti dell’archivio – nonché di Produzione di merci a mezzo merci – per arrivare a una qualche conclusione. La questione dei rapporti fra Sraffa e Marx, infatti, va divisa in due parti distinte. Un conto è dire che ci sono stati equivoci e diffidenze ingiustificate nei confronti di Sraffa, che in gran parte si stanno dissolvendo; altro sarebbe sostenere che allora il rapporto Marx-Sraffa sia diventato improvvisamente del tutto lineare, cosa che non è affatto. Inoltre, i due attori principali, non possono più essere lasciati soli: c’è un convitato di pietra fra loro –  John Maynard Keynes  – specialmente dopo i libri fondamentali di Anna Carabelli e altri che tuttavia andranno presi in considerazione, per esempio Augusto Graziani.

Sraffa, Marx e la primavera

di Paolo Di Marco

1- il quadrato magico

Il testo di Sraffa che oggi compare, l’ultimo delle Lezioni, completa il quadro della critica dei fondamenti della teoria economica: quadro in tutti i sensi, dato che abbiamo l’articolo di Sraffa del 26, queste Lezioni, Keynes visto attraverso gli occhi di Anna Carabelli nella edizione completa delle opere, e infine Graeber col suo ‘Debito, gli ultimi 5000 anni’.
Da Sraffa vengono tre elementi di analisi della teoria marginalista: il primo (nell’articolo del 26) è che non necessariamente c’è un solo punto d’incontro tra la curve di domanda ed offerta, quindi un punto di equilibrio non è determinato con certezza, e con esso un saggio del profitto; il secondo che in generale tutte le curve che formano la parte analitica della teoria sono arbitrarie e provengono da sistemi di equazioni indeterminati; il terzo che l’ambito in cui possono avere applicazione pratica è ristretto a pochi casi marginali. Il tutto accompagnato dall’osservazione che la riscoperta della ‘economia volgare’ da parte dei marginalisti e la loro fortuna appare dovuta più alla voglia di abbandonare la teoria classica e con essa l’imbarazzante fardello del valore-lavoro, nonché lo spettro socialista che ad esso si era accompagnato, che non a meriti intrinseci.
Conviene aggiungere una nota matematica che non è sempre palese: quando si dice che in una teoria economica un sistema è sovradeterminato (come nel caso di Marx che aggiunge con l’uguaglianza somma-prezzi=somma-valori una condizione di troppo) o è indeterminato (come nel caso di Marshall- e con lui tutti i marginalisti per l’insieme delle curve di produzione) diciamo una cosa molto precisa: il sistema è sbagliato. Non è una soluzione. Se fosse uno studente che si presenta col compitino fatto gli diremmo: torna a casa e rifai da capo.
Alla stroncatura senza scampo di Sraffa, Anna Carabelli, colla sua edizione delle opere di Keynes, aggiunge altre bordate di non poco peso: il suo Keynes non rappresenta solo, come nella tradizione, un’altra tendenza di politica economica, nota per il ruolo propulsore della spesa pubblica rispetto all’individualismo ‘egoista’ dei marginalisti, ma soprattutto pone grande attenzione ai fondamenti. Se a qualcuno vien da piangere leggendo i periodici commenti sullo stato dell’economia dei paesi basandosi sull’andamento del PIL, questa grandezza del tutto avulsa non solo dai bisogni reali della gente ma anche dallo stato reale dell’economia, dalla sua struttura, dalle sue tendenze..bene, trova conforto in Keynes, che avverte, quasi invano, che il PIL è grandezza in sé priva di senso, un aggregato inomogeneo e non rappresentativo, che va preso con tre paia di pinze e solo nei momenti di sconforto. Ma il suo discorso è assai più ampio, ché avverte della difficoltà di misurare le grandezze economiche, del livello ampio di incertezza che sempre le accompagna, legato non solo e non tanto ad elementi statistici ma soprattutto alle difficoltà intrinseche di misurazione, sia della sua effettuazione sia della scelta dell’unità.
Cos’è allora l’economia per Keynes? La risposta è lui concepisce l’economia come una scienza morale e insieme un ramo della logica. È una scienza morale in quanto riguarda valori etici e introspezione (CW XIV, 300). E nel contempo è un ramo della logica, un modo di pensare. Fondamentalmente è un metodo che serve agli economisti per ottenere risultati ‘logicamente’ corretti- per evitare di cadere in ragionamenti logicamente fallaci come l’errore dell’additività nella probabilità o l’errore della composizione in economia.
Per Keynes il punto centrale è che senza questa logica gli economisti potrebbero perdersi nel bosco empirico e matematico, come secondo lui è stato il caso di econometristi come Tinbergen e Colin Clark e di altri economisti matematici. Il problema, come lui lo vede, è che l’applicazione di linguaggi matematici e statistici-coi loro presupposti di omogeneità, atomismo, e indipendenza- a una materia economica che è essenzialmente ‘vaga’ e ‘indeterminata’ produce fallacie logiche, una delle quali è la ‘ignoratio elenchi’ (un ragionamento irrilevante rispetto all’argomento ndr) nella teoria economica classica (Carabelli 1991). La definizione di matematica come ‘imprecisa’ nella Teoria Generale di Keynes significa che l’applicazione cieca di matematica e statistica all’economia -coi suoi aspetti invece non-numerici, non-comparativi e -non-ordinali, richiede attenzione logica. (CW VII, 298; Carabelli 1995).
E qui si apre il tema dirompente dei ‘presupposti nascosti’, tema noto ai matematici e agli scienziati, meno in altri campi; ma in Matematica e nelle scienze è obbligatorio elencare tutti i postulati su cui ci si basa, tutte le affermazioni che si danno per vere e su cui il ragionamento si basa. O meglio sarebbe obbligatorio, perché spesso si danno per scontati (in geometria sono spesso sottaciuti); ma talvolta sono presupposti di cui non ci rendiamo conto, o che non sono appropriati. Se in Geometria chiedessi di formare 4 triangoli equilateri con 6 stecchini dovrei anche precisare che la risposta non è necessariamente su un piano, cioè in 2 dimensioni (dato che la soluzione esiste solo in 3 dimensioni). Finché siamo in geometria i presupposti nascosti sono innocui, al massimo procurano mal di testa, in altri campi sono assai nocivi: sono la base di molte credulità e di molti trucchi illusionistici (come di molte ‘medicine’ illusorie). E mentre nelle scienze ‘esatte’ in genere si sta attenti, e talvolta si elencano puntigliosamente tutti i presupposti di un ragionamento o di un esperimento, in Economia e Sociologia -ma spesso anche in Medicina- è prassi rara, e spesso sconsigliata; (come sarebbe in una ricerca americana sull’obesità trascurare il reddito e il colore della pelle, ovvero i fattori determinanti dell’alimentazione negli USA; o in sociologia fare interviste a campioni sbilanciati-ad esempio pagati 100$ per rispondere). Non è un caso isolato il Nobel dell’Economia del 2019, un cialtrone che derivava la propria fama dall’essere stato il primo ad avere una cattedra in Economia Ambientale, e grazie a questo dirigeva la rivista che se ne occupava, dove metteva amici e benefattori. Il cui metodo ‘scientifico’ di lavoro consisteva nel inviare questionari a un certo numero di persone, di cui poi selezionava le risposte che gli facevano comodo come significative. E così chiedeva ‘pensate che l’estrazione crescente del petrolio possa far male al pianeta e all’economia?’, selezionava tutti i no e poi vendeva lautamente le proprie consulenze ai governi interessati.
Ed è sui presupposti nascosti che interviene a gamba tesa David Graeber, che dopo aver capovolto con ‘L’alba del tutto’ le nostre conoscenze sull’organizzazione sociale dell’uomo antico con ‘Debito, i primi 5000 anni’ smantella le basi delle nostre convinzioni più radicate.
Il concetto di debito è infatti alla base non solo dell’economia ma anche di molti dei nostri rapporti sociali, fino alla religione; la sua disanima mostra la trasformazione che ha subito, man mano verrebbe da dire ma in realtà con un percorso assai poco lineare, apparendo e scomparendo e poi riaffiorando nei rapporti sociali, in opposizione o compresenza con società di cooperazione dove l’uso era assente e il concetto inutilizzato, dato che non c’era scambio né immediato né procrastinato. Fino a quando, come dice ne ‘L’alba’, rimaniamo incastrati in un vicolo cieco con una sola organizzazione sociale e il debito, stavolta più gradualmente, esce dall’ambito delle scelte ed entra in quello dei presupposti, così necessari ed ‘inevitabili’ da risultare nascosti.
“..ovviamente lei aveva letto molto a proposito di Seattle, Genova, gli scontri nelle strade e i lacrimogeni ma..bene, avevamo ottenuto qualcosa in quel modo? ‘In effetti’ risposi ‘penso sia abbastanza stupefacente tutto quello che siamo riusciti ad ottenere in un paio d’anni’ ‘Ad esempio?’ ‘Beh, ad esempio, siamo riusciti a distruggere quasi completamente il FMI’ . Come spesso succede lei non sapeva esattamente cosa fosse il Fondo Monetario Internazionale, così le accennai che il FMI agiva di fatto come l’esattore dei debiti internazionali -si potrebbe dire come l’equivalente per l’alta finanza degli energumeni che vengono a romperti le gambe- e mi lanciai nei retroterra storici spiegando come, nel corso della crisi del petrolio degli anni 70, i paesi dell’OPEC avevano finito per versare tante di quelle loro improvvise ricchezze nelle banche occidentali che queste non sapevano più come investire tutti quei soldi; come Citybank e Chase cominciarono allora a spedire agenti in giro per il mondo per convincere politici e dittatori del terzo mondo a prendere prestiti (allora questo veniva chiamato ‘banche a gògò’); come inizialmente i tasse d’interesse fossero estremamente bassi ma poi andassero alle stelle al 20% o più a causa della politica monetaria di austerità degli USA.; come, durante gli anni ’80 e ’90 questo portasse alla crisi del debito del terzo mondo e come allora il FMI intervenisse insistendo che per ottenere rifinanziamenti i paesi poveri avrebbero dovuto abbandonare il sostegno dei prezzi sui generi di prima necessità e persino le politiche di formazione di riserve strategiche di cibo e abbandonare la sanità gratuita e l’educazione gratuita; e come tutto questo abbia portato al collasso di tutti i sostegni base per alcune delle popolazioni più povere e vulnerabili del pianeta. Parlai di povertà, del sacco delle risorse pubbliche, del collasso di intere società, di violenza endemica, denutrizione, disperazione e vite infrante. ‘Lo scopo a lungo termine era l’aministia del debito. Qualcosa del tipo del Giubileo biblico.’ ‘Per quello che ci riguardava’ le dissi ‘trent’anni di denaro che fluiva dai paesi più poveri a quelli più ricchi era fin troppo’ . Ma, obiettò lei, come se fosse evidente ‘loro hanno preso in prestito i soldi! Certamente uno deve pagare i propri debiti’.   

Il problema alla base di tutto stava qui: proprio l’assunzione che che I debiti devono essere pagati. In realtà quello che è notevole in questa affermazione ‘uno deve pagare i propri debiti’ è che anche secondo la teoria economica standard questo non è vero. Un prestatore deve accettare un certo grado di rischio…La cosa buffa è che non è il modo in cui dovrebbero operare I debiti; le istituzioni finanziarie avrebbero il compito di distribuire le risorse. Il fatto stesso che non sappiamo cosa sia il debito, la flessibilità del concetto, è la base del suo potere. Se la storia insegna qualcosa è che non c’è miglior modo di giustificare relazioni basate sulla violenza per farle sembrare morali che esprimerle in termini di debito; soprattutto perché questo in questo modo è la vittima che sembra subito che faccia qualcosa di sbagliato. I mafiosi lo sanno. E altrettanto i comandanti di eserciti invasori. Per migliaia di anni i violenti sono stati in grado di dire alle vittime che erano in debito con loro. Oggi ad esempio l’aggressione militare è definita un debito contro l’umanità e le corti internazionali, quando sono chiamate in causa, normalmente chiedono all’aggressore di pagare dei risarcimenti. La Germania ha dovuto pagare pesanti risarcimenti dopo la WW1, e l’Iraq sta ancora pagando il Kuwait per l’invasione del 90. Eppure il debito del terzo mondo, quello di paesi come il Madagascar, la Bolivia, e le Filippine sembra che vada esattamente nel verso opposto. Le nazioni debitrici del terzo mondo sono quasi esclusivamente paesi che a un certo punto sono state attaccate e conquistate da paesi europei- spesso proprio le stesse nazioni di cui sono ora debitrici. Ma il debito non è solo la giustizia del vincitore; è anche un modo di punire vincitori che non avrebbero dovuto vincer L’esempio più spettacolare è quello della Repubblica di Haiti- il primo paese povero a venir posto in uno stato di servitù da debito permanente. Haiti era una nazione fondata da ex-schiavi di piantagioni che hanno avuto la temerarietà non solo di ribellarsi- nel mezzo di dichiarazioni roboanti di diritti universali e libertà- ma anche di sconfiggere le armate che Napoleone aveva mandato per riportarli in schiavitù. La Francia sostenne immediatamente che che la nuova repubblica le doveva 150 milioni di franchi di danni per l’esproprio delle piantagioni, come anche le spese delle spedizioni militari, e tutte le altre nazioni, inclusi gli USA, acconsentirono a imporre un embargo sull’isola finché non venisse pagato. La somma era intenzionalmente impossibile (equivalente a circa 18 miliardi di dollari) e l’embargo risultatnte assicurò che il nome Haiti fosse sinonimo di debito, povertà e miserabilità per sempre.

A volte tuttavia debito sembra significare esattamente l’opposto. A partire dagli anni 80 gli USA, che avevano insistito per applicare termini rigorosi per il rimborso dei debiti del terzo mondo, si indebitarono essi stessi per una somma che eclissava di gran lunga quella dell’intero terzo mondo- una somma generata principalmente dalle spese militari. Il debito estero degli USA però prende la forma di buoni del tesoro detenuti investitori istituzionali di paesi (Germania, Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Tailandia, Golfo Persico) che nella maggior parte dei casi sono di fatto protettorati militari degli USA, coperti di basi militari piene di armi pagate con quelle stesse spese in debito’.…”

2- il ritorno del re
Ma ci si potrebbe chiedere: se la teoria economica è ridotta così male, a cosa affidarsi per capire l’economia?
Penso la domanda sia mal posta: il passo di Graeber citato sopra dove descrive la storia di Haiti ci dice dell’economia reale assai più di un trattato; e questo ci insegna che parlare di economia avulsa dal mondo reale è grave errore; ed è intenzionale, chè la teoria neoclassica nasce proprio con l’intento di mascherare sia l’origine del valore nello sfruttamento dei lavoratori sia la violenza necessaria a mantenerlo; ivi compresa la violenza degli stati imperialisti sugli altri.
Per chiarire meglio il mio punto di vista faccio un esempio tratto ancora una volta da un economista onesto (nonostante il Nobel) come Krugman, che rispetto ai bitcoin (e alla loro recente crisi) chiede: ‘ma in fondo, c’è un qualche uso pratico dei bitcoin che non sia il riciclare denaro sporco?’: domanda retorica ma significativa, perché quello che ci dice in realtà è che l’economia non è in grado di capire i bitcoin. Infatti alla base dei bitcoin -con tutti i loro limiti e difetti, che ne fanno sconsigliare l’uso a qualsiasi persona ‘normale’- sta proprio il tentativo di uscire dalle regole dell’economia ufficiale, dell’uso del denaro inscindibile dalla coercizione. (Valga ad esempio il fatto che nella ristretta comunità che li ha originariamente generati era sufficiente che a un certo momento qualcuno detenesse poco più della metà per appropriarsi di tutto; e nonostante questa condizione si sia verificata più di una volta nessuno ne ha mai approfittato).
Così come la sociologia non ha una teoria generale, ma un comune oggetto e tanti metodi per studiarlo, propongo quindi di abbandonare una volta per sempre la ‘teoria economica’ come oggi ci viene presentata e tenerci poche cose:
-le riflessioni di Keynes sull’incertezza e la difficoltà di misurazione come criteri fondamentali per valutare la realtà economica;
-alcune formule empiriche (anche se millantate come alta matematica) che di volta in volta ci spiegano alcune contingenze economiche,
-delle tavole delle interdipendenze settoriali alla Leontief
-e la teoria del valore-lavoro di Marx, che è il risultato più alto dell’economia classica e ci spiega come nasce il profitto; fra l’altro il sistema di Marx, anche se non è possibile mantenere la sua condizione dell’eguaglianza complessiva tra somma dei valori e somma dei prezzi, (anche se tanto Sraffa quanto altri come Pala ne recuperano la sostanza come processo storico di accumulazione) ci dice molto sui percorsi dell’economia, anche attraverso la dialettica proprio fra questi due elementi.
Val la pena di citare ancora una volta il passo dei Grundrisse sulle macchine, dove dice che il valore -e con esso il lavoro umano quindi- è ormai base ben misera per misurare la ricchezza; se questo implica la sparizione della classe operaia come centro delle contraddizioni e con questo del suo ruolo centrale come soggetto rivoluzionario non comporta però la sparizione di ogni soggetto rivoluzionario, anzi: significa più cose contemporaneamente:
-l’allargamento dell’estrazione del plusvalore a tutte le branche e livelli del percorso delle merci -dalla produzione alla distribuzione alla circolazione- come prima fase di autonomizzazione del capitale dal lavoro;
-la perdita del ruolo progressivo del capitale nel rivoluzionamento continuo dei mezzi di produzione (scienza inclusa);
-la perdita della centralità della fabbrica (processo compiuto solo in Occidente, laddove Cina e India funzionano come enormi fabbriche decentrate) comporta anche un carattere caotico delle contraddizioni e delle lotte, prive di quel riferimento unificante, di contraddizione ma anche di controllo; e questo a sua volta comporta sviluppi caotici della gestione del potere, con ruolo maggiore delle forze esterne come esercito e polizia (ruolo accentuato da una necessità di controllo a distanza di una forza lavoro decentrata, che è uno degli elementi dell’attuale guerra silenziosa tra USA e Cina: lo strangolamento delle capacità produttive nell’IA da parte degli USA non dice solo ‘non vogliamo concorrenza’ ma anche ‘dovete limitarvi a fornirci merci a basso costo da cui estrarre sovraprofitti’).
-epperò implica anche, una volta rovesciato quel potere, la possibilità di una gestione dolce -non coercitiva- di forze produttive ormai abbastanza sviluppate da poter fare a meno del socialismo e del suo controllo su un lavoro necessario ormai ridotto a termine minimo.
Ma se vogliamo aver successo su questa strada bisogna però fare prima un po’di pulizia, in primis dei paraocchi che ci hanno cucito addosso, poco a poco.

Dal Collettivo Di Fabbrica – Lavoratori Gkn Firenze


 Alla fine è arrivato l’attacco più duro e frontale che questo presidio ha subito dal 9 luglio 2021. Con una mail oggi VENERDI’ alle h 15.55 l’azienda ha comunicato l’arrivo dei camion LUNEDI MATTINA ALLE 8.00 per quello che è, a nostro parere, a tutti gli effetti l’inizio dello svuotamento dello stabilimento. E’ evidentemente una operazione preparata da tempo, una escalation studiata a tavolino, probabilmente su diretto suggerimento di Confindustria e cogliendo l’assist del Governo del “made in Italy”.
Melrose non aveva mai osato tanto. E probabilmente è ancora Melrose che comanda e che viene a completare la delocalizzazione.
Questa forzatura avviene perché l’azienda non ha in mano nulla. Non ha la cassa integrazione approvata dall’Inps, non ha nessun piano industriale, non ha brevetti, non ha consorzi, veri o presunti, non ha accordi commerciali, non ha probabilmente una linea di credito approvata dalle Banche per gli investimenti, non ha credibilità, ha venduto fumo e chiacchiere per dieci mesi, ha disatteso l’accordo quadro e può quindi usare solo la forza della provocazione, in spregio ad un intero territorio.
Abbiamo teso la mano per metterci al lavoro, attraverso i nostri stessi progetti industriali. Il 2 novembre è stato proposto all’azienda di mettere a disposizione lo stabilimento dei progetti industriali, delle attività di soggetti pubblici, privati o delle forme associative e del cooperativismo produttivo del territorio. Il 3 al Mise è stato proposto una governance pubblica. Borgomeo ha rifiutato. Ed ha rifiutato perché probabilmente il suo compito non è portare lavoro, ma svuotare lo stabilimento.
Siamo alla vendita del ferro a rottame. Altro che piano industriale. Le aziende appaltatrici che verranno a fare questa operazione di smantellamento devono sapere di essere state tirate nel mezzo a una vera e propria provocazione di natura sociale.
Che forma ha la dignità lunedì mattina alle 8.00? Pensiamoci bene. #insorgiamo

IL CESELLO ARRUGGINITO. Terza parte

Favole moderne e lestofanti

Nel pieno degli anni ’90, si diffuse una vera e propria frenesia matematica, riguardante gli studi economici ma non solo. L’intento era quello di calcolare i guadagni a lungo termine che si potevano conseguire a partire da una semplice opzione o prodotto finanziario.9 Era tutto un fiorire d’equazioni, finché quel lavorìo fu finalmente coronato da successo e ottenne il massimo dei riconoscimenti con l’attribuzione del premio Nobel per l’economia agli esimi professori Robert Merton e Myron Scholes. I due avevano trovato l’equazione matrice, la madre di tutti i prodotti cosiddetti derivati, grazie alla quale promettevano la crescita indefinita di ricchezza, una cornucopia senza limiti. Fedeli alle loro convinzioni e corroborati dal prestigioso riconoscimento, i due – moderna versione in chiave ‘scientifica’ de il gatto e la volpe – decisero di dar vita al Fondo d’investimento Long term capital management (LTCM). Dopo un anno d’applicazione della famosa equazione, il Fondo totalizzò un buco di bilancio di 3,5 miliardi di dollari! Inutile domandarsi se ai due sia stato almeno tolto l’emolumento conseguito con il Nobel. Ciò non fu possibile perché fra i clientes di tale memorabile impresa finanziaria vi erano molte e importanti istituzioni europee e statunitensi, fra cui, secondo quanto denunciato da Loretta Napoleoni: “… l’Ufficio Italiano Cambi e la Banca d’Italia.” 10

Per evitare l’effetto domino, coprire lo scandalo e nascondere la figuraccia, la Federal Reserve statunitense fu costretta a salvare il fondo immettendo denaro fresco nelle sue esauste casse. Ciò che colpisce in tutto questo, come afferma la stessa Napoleoni nel suo bel libro, è la leggerezza di chi affida i proprio soldi a simili venditori di bufale. Lo stesso, peraltro, era già accaduto con un truffatore vero e proprio, il famigerato Madoff, condannato recentemente dalla giustizia statunitense a un numero esorbitante d’anni di carcere. In questo secondo caso, poi, tale mal riposta fiducia assume davvero toni grotteschi perché la truffa architettata dal finanziare è vecchia come il mondo: si tratta, infatti, del sistema cosiddetto Ponzi, una catena di Sant’Antonio grazie alla quale si promettono rendimenti favolosi a breve termine che vengono pagati con i soldi dei nuovi sottoscrittori e giocando sulla differenza di tempi di rimborso. Naturalmente, è sufficiente una competenza da ragioniere per calcolare in quanto tempo il sistema crolla su se stesso. Come si possa cadere in una trappola come questa è difficile davvero da comprendere! 

Forse la risposta sta nel denaro in sé, nei sentimenti ambivalenti che suscita, dal senso di colpa che colpisce coloro che lo maneggiano; forse in alcuni straricchi c’è persino un’inconscia pulsione a liberarsene. Fra i colpiti dalla truffa di Madoff e dal fallimento del fondo dei due esimi premi Nobel, infatti, ci sono molti attori di Hollywood; Steven Spielberg ha perso gran parte dei suo patrimonio e così molti altri. È la maledizione del denaro, quel mix di razionale e irrazionale che si porta appresso. Tuttavia qui non abbiamo a che fare solo con gli ingenui protagonisti delle favole e neppure con straricchi sbadati, ma con istituzioni che governano la vita di tutti. Si può concordare con Loretta Napoleoni quando afferma che i due premi Nobel “Merton e Scholes sono i re Mida degli anni ’90, ma che non sono delinquenti  come Madoff…” 11

Tuttavia c’è da domandarsi cosa ne è degli altri che hanno creduto così facilmente ai due pifferai magici, a cominciare dall’Accademia di Svezia. Nel caso della giuria del premio Nobel è davvero difficile esprimersi, mentre nel caso di prestigiose banche e istituzioni internazionali occorre una riflessione più approfondita.

Se si esclude di avere a che fare con dei cretini, allora la spiegazione va cercata ancora una volta nel meccanismo profondo che governa la finanza e nei comportamenti che induce. Se la logica, infatti, è quella dell’accumulo a breve termine e i manager vengono remunerati, non in base a un progetto che duri nel tempo, ma soltanto in ragione della velocità di accumulo degli utili, ogni programmazione a lungo termine viene meno. Ciò che conta è ottenere il massimo nel più breve tempo possibile, quello che avviene dopo non conta nulla. Se un manager riesce a convincere un numero sufficientemente grande di sottoscrittori e la sua raccolta di soldi in un anno è ingente, verrà remunerato per quello e non per le conseguenze a medio e lungo termine dei suoi investimenti. Questa logica da Prendi i soldi e scappa diviene nel tempo la sola che ispira tutti i comportamenti, generando quindi un sistema e una prassi volta al fallimento: ma nel breve tempo in cui il gioco funziona qualcuno che si è arricchito c’è stato eccome! A cominciare naturalmente dai manager in questione, mai tanto remunerati negli scorsi anni e mai così falliti! Questa spiega anche il continuo passaggio di amministratori delegati e altre figure simili da un settore all’altro e da un’azienda all’altra. Proprio perché sanno che a medio e lungo termine i loro castelli di carta crollano, l’importante è saltare da una banca all’altra, da una finanziaria all’altra, costantemente in bilico su zattere improvvisate dentro un fiume in piena. L’importante è stare in piedi in qualche modo finché dura.       

E veniamo infine a Pound e al suo Canto XLV, detto anche dell’Usura. Trattandosi di un testo poetico non lunghissimo, ma di grande portata e valore letterario, preferisco citarlo integralmente in lingua e nella mia traduzione.

With usura hath no man a house of good stone

Each block cut smooth and well fitting

that design might cover their face,

with usura

hath no man a painted paradise on his church wall harpes et luthes

or where virgin receiveth message

and halo projects from incision,

with usura

seeth no man Gonzaga his heirs and his concubines no picture is made to endure nor to live with but it is made to sell and sell quickly

with usura sin against nature,

is thy bread ever more of stale rags

is thy bread dry as paper,

with no mountain wheat, no strong flour

with usura the line grows thick

with usura is no clear demarcation

and no man can find site for his dwelling.

Stone cutter is kept from his stone

weaver is kept from his loom

WITH USURA

wool comes not to market

sheep bringeth no gain with usura

Usura is a murrain, usura

blunteth the needle in the maid’s hand

and stoppeth the spinner’s cunning.

Pietro Lombardo

came not by usura

Duccio came not by usura

nor Pier della Francesca; Zuan Bellin not by usura nor was “La Calunnia” painted.

Came not by usura Angelico; came not Ambrogio Praedis, Came no church of cut stone signed: Adamo me fecit.

Not by usura St Trophime

Not by usura Saint Hilaire,

Usura rusteth the chisel

It rusteth the craft and the craftsman

It gnaweth the thread in the loom

None learneth to weave gold in her pattern; Azure hath a canker by usura; cramoisi is unbroiled Emerald findeth no Memling

Usura slayeth the child in the womb

It stayeth the young man’s courting

It hath brought palsey to bed, lyeth

between the young bride and her bridegroom

CONTRA NATURAM

They have brought whores for Eleusis

Corpses are set to banquet

at behest of usura. 12

Ciò che colpisce nel testo poundiano sono l’approccio realistico e la competenza che dimostra anche sul piano strettamente economico.13

Il secondo aspetto che balza all’occhio è l’arditezza dei correlativi oggettivi, il ruolo che la figura retorica della similitudine vi svolge, la quasi completa rinuncia alla metafora, il dispiegarsi di un procedimento che ci porta all’allegoria attraverso un percorso differente rispetto a quello cui siamo normalmente abituati.

Pound riesce a distillare, in questo testo, il meglio che la poesia anglo-americana ha saputo fare suo in modo originale, a partire da una delle tante lezioni di Baudelaire: portare ciò che sembra impoetico nel cuore della poesia e del suo linguaggio, rinnovandoli entrambi profondamente. È un procedimento che viene ancora più da lontano, dai Metafisici del ‘600, da John Donne in particolare, seppure senza il suo wit. Allora erano le scoperte geografiche a entrare nel linguaggio poetico, insieme alla riscoperta dell’autonomia dell’eros e del corpo femminile.

Nel caso di Pound è addirittura l’economia a divenire oggetto di poesia: quanto di più prosaico e lontano da essa, secondo i canoni correnti!

Incatenando fra loro una serie di similitudini memorabili, Pound rompe anche questo tabù, entra nel vivo di un territorio fino a quel momento estraneo al dettato poetico, lo muta per il solo fatto d’entrarvi. Proviamo allora a ripercorrere questo testo.

L’inizio perentorio stabilisce subito una similitudine che diventerà ricorrente in tutto il canto, concretizzandosi di volta in volta in esempi diversi: in essa l’usura si contrappone alla pietra e alla casa, la dimora dell’essere umano, l’ubi consistam di cui tutti hanno bisogno e senza il quale non esiste vita sociale, né individuale. Pound non usa il termine finanza e preferisce quello medioevale d’usura (peraltro tornato assai di moda). Un altro modo di sottolineare tale ritorno allo scenario medioevale è l’uso che egli fa dell’arcaismo linguistico: termini come hath, thou, seeth e altri, non appartengono più all’inglese moderno, ma si riferiscono a un mondo linguistico e culturale in cui l’usura, cioè la finanziarizzazione selvaggia dell’economia non era ancora penetrata o stava per penetrare. Tuttavia non è difficile rapportare tutti gli esempi che fa al mondo contemporaneo: la volatilità e l’evanescenza del denaro e la pietra, la casa solida e il dominio astratto e malefico della quantità numerica. La finanza si contrappone alla vita reale, alla solidità della costruzione, è accumulo di ricchezza nominale e di miseria morale e materiale. Egli scrive come parlerebbe un oracolo, il tono è solenne, il verso lungo ha un incedere maestoso, l’iterazione della parola usura e l’improvviso irrompere di versi brevi e martellanti quasi a tempo di improvvisazione jazzistica e addirittura di rap, sfocia nell’invettiva, addirittura nella maledizione. Eppure quanta concretezza, realismo e competenza! Quando Pound scrive che con l’usura la lana non giunge al mercato, lo sciocco potrà imputargli un peccato d’ingenuità, l’economista potrà fargli notare che la lana non arriva più al mercato grezza ma già lavorata e che il poeta parla di un mondo che non esiste più ecc. ecc. Quanto di più falso!, e lo vediamo proprio nella realtà odierna, così come nel ’29. Le merci giacciono inerti nei mercati, la crescita esponenziale della ricchezza finanziaria si dissolve, i valori nominali crollano dopo che si erano gonfiati in modo abnorme: si giunge così al paradosso di avere contemporaneamente un eccesso di denaro inutile e un eccesso di merci invendute.

Però i versi di Pound non sono un trattato d’economia, sono concreti come un’analisi scientifica ma suonano sinistri. Un alone di sventura aleggia intorno al testo, anche per l’uso sapientemente voluto della parola italiana, che ha un suono lugubre e sinistro, accentuato dalla ripetizione. Perché? Che cosa evoca Pound? Tocchiamo qui la capacità peculiare della poesia di nominare qualcosa di semplicissimo e risaputo, ma di farlo in modo nuovo e scegliendo situazioni emblematiche. Se isolassimo il semplice contenuto di pensiero sotteso a tali versi ci accorgeremmo che il loro nucleo può risultare persino banale se fosse detto in senso puramente letterale. Esso suona infatti così: tutto ciò che di solido e di bello l’umanità ha prodotto non dipende dal denaro, ma dal lavoro, dal poiein, dal fare. È il faber contrapposto alla potenza astratta e impersonale del dominio quantitativo, il cui unico scopo è l’accumulo: è la hybris moderna, attitudine faustiana e demoniaca che non ha neppure bisogno del patto con il diavolo, dal momento che esso è intrinseco al meccanismo economico capitalistico dominante. Se vi è l’uno non vi è l’altro, solo che la poesia non nomina astrattamente tale incompatibilità, ma l’incarna concretamente in un’elencazione emblematica. ‘Se hai l’usura non avrai più Piero della Francesca, se vuoi l’usura non avrai più la casa’ e se pensiamo allo scandalo dei cosiddetti sub prime, cioè dei mutui che hanno mangiato proprio le case ai poveretti che li avevano sottoscritti, ancora una volta siamo sorpresi dalla concretezza. Tuttavia anche gli esempi non sono scelti a caso. Pound nomina Piero della Francesca, non Michelangelo, perché il periodo rinascimentale è già inquinato dall’usura e dal nascente capitalismo. Il pensiero di Pound è poeticamente rigorosissimo, non fa sconti a nessuno! Non lasciamoci travisare dal suo personale credo ideologico, ma guardiamo al dettato poetico. L’esemplarità dei correlativi oggettivi crea intorno all’usura un senso di tragedia incombente, ma mette noi lettori di fronte a qualcosa che, nei suoi sviluppi successivi, conosciamo fin troppo bene. Con l’usura finisce il ‘saper fare’, (la sequenza in cui l’ago si ottunde nelle mani della ragazza, il telaio arrugginisce ecc.) che a lungo andare provoca dissesti e tragedie! Colpisce, per la sua forza sinistra, anche l’immagine dell’usura che giace nel letto fra lo sposo e la sposa o che impedisce al giovane il corteggiamento. Parole d’altri tempi? No, dei nostri! Come possono i giovani uscire di casa e farsi una vita propria e avere dei figli se non hanno un lavoro e un reddito? Come è possibile consumare e ridare fiato all’economia (come viene richiesto quotidianamente dalla propaganda mediatica, ma anche ripetuto da illustri ministri dell’economia) quando il lavoro è sempre più precario? È la quadratura del cerchio! Se una persona qualunque, in altri contesti, facesse affermazioni così palesemente contraddittorie, finiremmo per dubitare delle sue facoltà mentali o penseremmo di trovarci di fronte a quel tipico loop o corto circuito che la teoria psicanalitica indica con il termine di ingiunzione paradossale: ma a parlare in questo modo sono i gestori dell’economia mondiale, molti dei quali hanno creduto a suo tempo alla formula magica dell’Eldorado!

Per tornare a Pound, ancora una volta sorprende l’attualità di questi versi che ci arrivano tuttavia, carichi di una sventura che rimanda ai flagelli biblici e alle catastrofi naturali.

Pound tuttavia insiste molto anche sull’opera artistica, la sua elencazione precisa ci offre un panorama di assenze crescenti d’opere d’arte, il rinsecchirsi di una capacità autoriale con cui ci troviamo a fare i conti oggi. Non c’è forse un nesso fra l’avvento della società narcisista e dello spettacolo e la crescita esponenziale e globale (peraltro inevitabile in un sistema capitalistico), dell’economia finanziaria (Pound direbbe usuraia)? La pletora di libri perlopiù invenduti e comunque non letti, il consumismo culturale acefalo, l’invadenza televisiva, non sono forse la sovrastruttura dell’economia di carta e nominale? Oppure il contrario. Sono gli apparati della comunicazione di massa e della spettacolarizzazione di tutto che, veicolando una filosofia ottimistica e criminale, favoriscono l’abbandonarsi senza alcuna capacità critica ai meccanismi acefali della finanza?

Una favola moderna come Le avventure di Pinocchio può essere molto utile per comprendere alcuni tratti della realtà attuale. 

Il libro è talmente noto che mi soffermerò soltanto sul ruolo che vi svolgono in essa il paese dei balocchi e l’omino di burro, che rappresentano molto bene a mio avviso, la profondità dei fenomeni contemporanei di alienazione.

Nella favola di Collodi il paese dei balocchi riassume sinteticamente tutte le cadute precedenti di Pinocchio, anche se proprio da quell’ultima avventura disastrosa inizia la sua emancipazione dalle pulsioni negative che lo hanno governato fino a quel momento e che trasformeranno finalmente il burattino in un ragazzo. Il paese dei balocchi assomiglia superficialmente a un parco dei divertimenti; solo che non si tratta di una parentesi bensì della vita intera. Il suo gestore occulto, l’omino di burro, non appare quasi mai in scena ma si manifesta attraverso l’organizzazione di questa strana società e tramite gli effetti che tale organizzazione sociale produce sui suoi abitanti. Ciò che l’omino di burro promette è la felicità permanente, il divertimento e lo spettacolo senza soluzione di continuità, la spensieratezza indefinita: il paese dei balocchi è in buona sostanza un paradiso artificiale, creato appositamente per una popolazione di pueri eterni. Infatti i suoi abitanti sono tutti ragazzi dagli otto ai quattordici anni, cioè adolescenti e preadolescenti maschi. Si tratta dunque di un mondo senza padri e senza madri, un’orda primitiva di fratellini, orizzontale e acefala; dove la verticalità è rappresentata soltanto dai gestori occulti del sistema di relazioni esterne, un vero e proprio potere impersonale che si manifesta attraverso figure ridicole e meschine. Letto dopo tutto quello che sappiamo dei meccanismi di manipolazione di massa questa parte del libro di Collodi è davvero stupefacente. In essa Lorenzini mette in scena una società istupidita e bambina, preda di ogni potere, dove domina lo spettacolo continuo, il gioco che non finisce mai. Le analogie con gli apparati propagandistici e con l’invasiva presenza totalizzante della televisione mi sembrano quanto mai appropriati; è sufficiente seguire per un giorno intero la miriade di giochi televisivi dove, con la semplice risposta a domande idiote, oppure grazie al semplice caso, si possono vincere somme di denaro spropositate. Il vecchio Lascia o raddoppia fa persino tenerezza se confrontato a questi programmi!

Quando Pinocchio esce dalla città dei balocchi non è più un burattino ma entra nella vita organica come animale: è un asino, ma per la prima volta è costretto a sentire su di sé il dolore della propria condizione e la fatica che si fa a sopportarlo. Credo che qualcosa di simile alla condizione asininina attende la società occidentale, una volta raggiunto il fondo di questo tunnell!

Favola, pseudo scienza, pressione mediatica segnano oggi il ritorno della più completa irrazionalità nel governo dell’economia. Non sono gli scrittori a dirlo ma i responsabili delle banche. Intervistato recentemente, il direttore generale dell’Ubs (Unione banche svizzere), ha dovuto riconoscere che il colosso elvetico non è in grado di dire quanti titoli cosiddetti tossici sono finiti nel suo portafoglio clienti perché per seguire il percorso di un titolo e seguirne tutti i passaggi di mano e le transazioni occorrerebbe un lavoro di mesi. Infine, l’episodio tragicomico dei due esimi premi Nobel, sfata una volta per tutte  la sciocchezza che i capitalisti sono i più indicati a gestire il capitalismo e che anche per questo le forze alternative non sarebbero in grado di accedere al governo. Se istituzioni come quelle citate in precedenza hanno potuto credere così facilmente a una formula magica viene semplicemente da ridere!

Le favole, quelle vere naturalmente!, possono invece suggerirci qualcosa di più e di meglio. Esse contengono sempre una morale molto chiara: il delirio di onnipotenza dei loro protagonisti viene sempre punito severamente da una legge superiore. Tale punizione, modernamente intesa, non può che incarnarsi in una regola sociale che nasca al di fuori della sfera economica e che le imponga, anche con la forza, un limite che non può che essere deciso da una comunità di soggetti organizzati intorno a un progetto di società.

Vorrei concludere questo saggio con un’ultima fiaba, raccolta dai Fratelli Grimm: Il pifferaio magico. Essa non ha a che fare direttamente con il denaro e la ricchezza, bensì con la rottura del patto sociale, che è tuttavia una delle conseguenze primarie delle crisi strutturali del sistema capitalistico. 

La storia è nota, ma serve ripercorrerne alcuni passaggi essenziali per comprendere bene perché ci riguarda, ma anche per ricordare che si tratta di una fiaba le cui fonti orali risalgono al 1300 e dunque a tempi a noi abbastanza prossimi.

La città di Hamelin è infestata dai topi. Naturalmente l’animale è  simbolicamente  assai ambivalente e perturbante: perché i topi ci assomigliano molto, più di quanto non siamo disposti a credere. Non dimentichiamo, poi, che il topo fu portatore della pestilenza, una sventura di proporzioni bibliche che funestò l’Europa durante tutto il ‘300.

Il borgomastro di Hamelin non è in grado di risolvere il problema, ci vuole la cooperazione d’altre competenze e pensa di trovarle nel pifferaio magico. Questi concorda il compenso e con la musica suadente del suo piffero attrae a sé i topi e li trascina nel fiume Wesen, dove annegano. La città è libera ma, proprio quando sembra tutti finito per il meglio, accade qualcosa che a prima vista sembra del tutto irrazionale: la comunità di Hamelin e il suo borgomastro si rifiutano di riconoscere al pifferaio il compenso pattuito e questi allora trascina tutti i bambini della comunità dietro il suo piffero fino al fiume, o, secondo altre versioni, dentro una grotta dove li imprigiona.

Ci sono diverse versioni sulla conclusione della fiaba. Fra quelle meno tragiche ne scelgo una per i suoi richiami biblici. Secondo tale versione solo un bambino riesce a sfuggire alla sorte che lo attende perché è zoppo e non riesce a tenere il ritmo impresso dal pifferaio alla musica: rimanendo indietro egli vede dove vanno a finire gli altri bambini e riesce a fuggire. L’imperfezione fisica del bambino ricorda l’episodio del sogno di Giacobbe e della lotta con l’angelo. Al mattino Giacobbe si sveglia diverso da come s’era addormentato e si ritrova zoppo come il bambino della fiaba, cioè consapevole. Quanto al bambino, egli non segue le seduzioni della musica, a differenza degli altri che non si pongono alcun interrogativo, pur sapendo benissimo la fine che hanno fatto i topi. Ciò che colpisce, però, sono l’assenza e l’irresponsabilità degli adulti della città, che sembrano prima illogici nel negare il compenso al pifferaio e poi impotenti di fronte alla sua magia. Forse però si tratta di ripensare in altro modo tutta la favola.

Quando la comunità ricorre al pìfferaio lo fa perché è in preda al panico, i topi sono ovunque, e sono il sintomo di un maleficio che si è già diffuso e che la comunità non ha saputo prevenire. E i topi non sono forse, con la loro organizzazione sociale pericolosamente vicina a quella umana, i più adatti a prestarsi come causa piuttosto che come effetto? La comunità di Hamelin si affida così al pifferaio magico, che bene incarna la figura del demagogo politico che si sostituisce ai poteri costituiti e ‘libera’ la città; ma a un prezzo altissimo. La natura del compenso, infatti, non viene esplicitamente indicata.

Se si unificano tutte le versioni della fiaba e le si riportano al comune denominatore, la morale è sempre la stessa: una comunità incapace di governarsi mette il proprio destino nelle mani di una forza ambivalente e distruttiva e che esige un tributo impossibile da pagare perché si tratta semplicemente della distruzione della comunità stessa: sia che si tratti dei topi (o degli ebrei – che i nazisti consideravano cimici e cioè piccoli topi, come ci ricorda Canetti nel caso della Germania nazista), sia che si tratti dei propri figli. Il demagogo non libera dai topi perché non erano loro il problema a Hamelin come da nessuna altra parte e se si dissolve il legame sociale prima si comincia con lo sterminare i ‘topi’ (nell’Italia delle leggi razziali contemporanee non sono più gli ebrei ma gli islamici, gli zingari, gli albanesi; i rumeni a seconda delle opportunità del momento).

Qual è il nesso fra la dissoluzione del legame sociale, allegoricamente rappresentato nella fiaba del Pifferaio magico, e il denaro? O se si preferisce l’economia? Ci soccorre ancora Canetti. L’invasione dei topi (o delle bibliche cavallette) è una sorta d’inflazione, speculare a quella della moneta e incarna benissimo quell’immagine così pregnante dello scrittore viennese, quando egli afferma che quanto più i milioni salgono nel valore nominale, tanto più gli esseri umani che li possiedono sentono di non valere nulla. I topi rappresentano benissimo quest’immagine di un’umanità numericamente enorme  ma che ‘non vale nulla’: perciò fanno così tanta paura e per questo hanno buon gioco i demagoghi a fare leva su questa paura.

L’inflazione catastrofica o le crisi strutturali ricorrenti del modo di produzione capitalistico, tuttavia, non sono maledizioni bibliche, ma conseguenze assolutamente certe del suo modo di funzionare. La rottura del vincolo sociale si ripete nel tempo costantemente, generando ogni volta le condizioni che favoriscono il ricorso al pifferaio magico di turno. Torniamo allora a quest’ultimo per vederne più da vicino la natura.

La prima  caratteristica che colpisce è la sua apparente innocuità. Anzi, la sua immagine si presenta come qualcosa di positivo in sé: rappresenta la musica, la più pura delle arti insieme alla poesia di cui è coeva alle origini. Il pifferaio è un artista? In apparenza sì, ma solo nella declinazione di un’arte che è puro spettacolo e pura seduzione: la sua musica produce un consenso acritico, tanto che topi e umani possono seguirlo indifferentemente. La sua musica è un altro paradiso artificiale che aliena dalla realtà e se la comunità si affida a lui per governare, essa non ha futuro e infatti la sua musica non porta alla morte gli adulti bensì i bambini, cioè il futuro della comunità. 

Il pifferaio, dunque, è anche il simbolo di una funzione degradata dell’arte: invece di rappresentare criticamente ciò che più manca alla comunità di Hamelin, (per dirla con Jung) e darle la consapevolezza necessaria, egli si serve delle paure dei cittadini di Hamelin per speculare su di esse, esigendo un tributo che alla fine segna la morte della comunità stessa. Ricordiamoci allora dei versi straordinari e immortali di Pound: ‘ se c’è l’usura non ci può essere Piero della Francesca’ Il suo era anche un modo di segnalare il pericolo di una prostituzione delle arti e dell’artista e il loro asservimento all’ideologia del puro intrattenimento o dello spettacolo, come avrebbe denunciato decenni dopo Guy Debord: le arti come una sorta di ‘pifferaio di massa’ e di aulete dell’ideologia massmediatica dominante.

L’artista e anche l’intellettuale degni di questo nome potrebbero, nella realtà odierna, avere come modello di riferimento, invece, il bambino zoppo della fiaba, che nella versione meno tragica riesce poi a salvare in qualche modo anche gli altri e a ridare un futuro alla comunità di Hamelin: oppure il modello altrettanto classico della favola del re nudo, nella quale il protagonista è ancora una volta un bambino. Entrambi i protagonisti di quelle due fiabe compiono un gesto, infondo, molto semplice: resistono al canto delle sirene, all’omologazione di massa, a quel pensiero unico che ha fagocitato e colonizzato gran parte dell’immaginario e trasformato anche il tempo libero in tempo coatto. 

BIBLIOGRAFIA.

  1. Elias Canetti: Massa e potere, traduzione di Furio Jesi, Adelphi, Milano 2002.
  2. Sigmund Freud: Psicologia delle masse e analisi dell’io. In Opere di Sigmund Freud, a cura di Cesare Musatti, Bollati Boringhieri, Torino 1976-80
  3. Sigmund Freud: Il poeta e la fantasia. In Opere di Sigmund Freud, Bollati Boringhieri, Torino 1976-80.
  4. Fratelli Grimm: Fiabe, Collana I Millenni, Einaudi, Torino 1978.
  5. Carl Gustave Jung: Saggi sulla poesia e sull’arte, Bollati Boringhieri, Torino 1980.
  6. Carl Gustav Jung: La psicologia analitica nei suoi rapporti con l’arte poetica. In: Carl Gustav Jung: Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna, prefazione di Giovanni Jervis, traduzione di Arrigo Vita e Giovanni Bollea, Einaudi Torino, 1959.
  7. Karl Marx: Il capitale, a cura di Eugenio Sbardella, Avanzini e Torraca editori, Roma 1966.
  8. Karl Marx: Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica (Grundrisse), a cura di Giorgio Backhaus, Einaudi, Torino 1976.
  9. Arthur Miller: L’orologio americano. (solo su Internet, non disponibile nella traduzione italiana).
  10. Loretta Napoleoni: La morsa, Chiare Lettere, Roma 2008.
  11. Ezra Pound:  Cantos, Canto  XLV, Garzanti Milano, 1964.
  12. Ezra Pound: L’abc dell’economia , introduzione di Giorgio Lunghini, prefazione di  Mary Pound de Rachewiltz. Universale Bollati Boringhieri, Torino 1994.
  13. W. Reich Psicologia di massa del fascismo, Feltrinelli, Milano 1978.
  14. Emil Zola: L’argent, (il denaro), traduzione di  Luisa Collodi; introduzione di Attilio Lolini, Newton Compton, Milano.

9 La furia matematica del decennio andava ben oltre i limiti dell’economia: qualcuno, sull’onda dell’entusiasmo per le teorie di René Thom (l’autore della Teoria delle catastrofi), parlava della possibilità di trovare l’equazione di Dio.

10 Loretta Napoleoni, La morsa, Chiare lettere, Roma 2008

11 Op. cit. Ivi.

12 Ezra Pound, Cantos, XLV,1964. /Con l’usura non si ha per l’uomo casa di pietra buona/dove ogni isolato sia squadrato finemente e adatto/e il design possa dare ricovero al volto,/Con l’usura/non c’è un paradiso dipinto sui portali della chiesa/né arpe o liuti/o luogo dove la vergine riceva il messaggio/e si proietti l’aureola dall’incisione/Con l’usura/non c’é nessun Gonzaga, suoi eredi e concubine/nessun dipinto è fatto per durare e per convivere/ma per essere venduto e venduto in fretta/Con l’usura peccato contro natura,/il tuo pane ancora di più diventa avanzo rancido/secco come carta/niente grano di montagna niente buona farina/con l’usura il limite intorbidisce/con l’usura non vi è confine certo /e nessuno trova dove costruire la propria dimora/il tagliatore di pietre è alienato dalla sua pietra/il tessitore lo è dal suo telaio/Con l’usura la lana non giunge al mercato/le pecore non recano guadagno/L’usura è pestilenza./con l’usura/si ottunde l’ago nelle mani della ragazza/si arresta la delicata macchina filatrice/Pietro Lombardo/non venne dall’usura/Duccio non venne dall’usura/e così Piero Della Francesca; Zuan Bellin non dall’usura/né fu dipinta La calunnia./Beato Angelico non venne dall’usura, Né Ambrogio Praedis,/nessuna chiesa di pietra siglata: Adamo me fecit/Non dall’usura St Trophine/non dall’usura Saint Hilaire/l’usura arrugginisce il cesello/arrugginisce l’arte e l’artigiano/corrode il filo nel telaio/Nessuno imparò a filare l’oro nel suo modello/l’azzurro ha un cancro con l’usura/il cremisi non si accende/lo smeraldo non trovò Memling/L’usura assassina il bimbo nel grembo/trattiene il giovane dal corteggiamento/ha portato la paralisi nel letto/si sdraia fra il giovane sposo e la sua sposa// CONTRA NATURAM/hanno portato le puttane per Eleusi/cadaveri preparati per il banchetto/agli ordini dell’usura…… (traduzione mia).

13 Negli anni ’30 Pound scrisse in effetti una raccolta di saggi di carattere economico che sono oggi rieditati in Italia da Bollati Boringhieri, sotto il titolo L’A B C dell’economia con una nota critica di Giorgio Lunghini.

IL CESELLO ARRUGGINITO. Seconda parte

Inflazione e panico di massa

Tutto quanto abbiamo visto finora ha a che fare con un rapporto individuale e personale col denaro. Le fiabe nascono dal profondo della storia; anzi, fioriscono su quella linea di demarcazione impalpabile che la separa dalla preistoria; a quel tempo  il segno grafico pittorico e la trasmissione orale erano i mezzi d’espressione e la scrittura non esisteva ancora. Le fiabe selezionano archetipi, sono il distillato scritto, cioè la traccia, d’esperienze millenarie di cui si è persa l’origine. La fiaba è il segno lasciato da un’arcaica esplorazione del sé, la quest che ciascun individuo dovrebbe intraprendere per divenire adulto. Rispetto al denaro, è il contesto a essere mutato: il rapporto fra l’individuo e l’economia non è più personale, ma mediato dalle leggi economiche, l’organizzazione della società ne dipende strettamente (oggi quanto mai!). L’individuo singolo non è libero rispetto alle leggi dell’economia, ma si trova invischiato in una serie di rapporti di cui non è responsabile in quanto li trova preesistenti a sé come dati di fatto che egli, in quanto individuo, non può arbitrariamente modificare. Nelle fiabe, d’altro canto, è raramente all’opera una psicologia di massa, il protagonista è quasi sempre un eroe solitario che può al massimo avvalersi di aiutanti che cooperano alla riuscita d’imprese memorabili. Questo, come abbiamo visto, non significa che esse non contengano un insegnamento prezioso anche per noi; anzi, ci aiutano a svelare il sostrato profondo delle nostre azioni, che si agita sotto la sovrastruttura di procedure razionali. Tuttavia i fenomeni di massa rimangono quasi sempre fuori dall’orizzonte della fiaba, seppure con alcune vistose eccezioni, che tuttavia sono storicamente più vicine a noi. È così per Il pifferaio magico e per Le avventure di Pinocchio, che sono una miniera ricchissima di riferimenti al sociale.

Nel capitolo intitolato Inflazione e massa, sempre in Massa e potere, alle pag. 218-224, Elias Canetti analizza puntualmente un fenomeno tipicamente moderno come l’inflazione catastrofica che colpì la Germania degli anni ‘30 e che fu una delle cause dell’ascesa del Partito Nazista. Scrive Canetti:

Un’inflazione è un avvenimento di massa nel più particolare e preciso significato della parola. L’influenza disorientante che essa esercita sulla popolazione di tutto il paese non è affatto limitata al momento stesso dell’inflazione… gli sconvolgimenti che essa produce sono di natura così profonda che si preferisce tacerli e dimenticarli. Forse si teme anche di attribuire al denaro, il cui valore viene artificiosamente   stabilito dagli uomini, le facoltà di dar vita a una massa, facoltà che vanno molto oltre la loro destinazione e hanno in sé qualcosa di assurdo e d’infinitamente umiliante.

È importante procedere oltre in questa direzione e dire qualcosa sulle qualità psicologiche del denaro stesso.”

I simboli sono, per lo scrittore viennese, mezzi di riconoscimento fondamentali che fanno della massa un’entità sociale dotata di comportamenti propri che vanno oltre la sommatoria delle personalità dei singoli componenti la massa stessa e superano il meccanismo di proiezione e delega a un capo, inteso come padre simbolico; si direbbe che, per Canetti, la massa incorpori un plusvalore di comportamenti che ne fa un’entità a se stante, autonoma. Con parole diverse e naturalmente con intenti diversi, anche le considerazioni di Marx e specialmente di Lenin sulle masse, hanno qualcosa di analogo, nel senso che, pur agendo sul piano politico e quindi sovrastrutturale, la mobilitazione di massa può diventare una forza materiale a tutti gli effetti.5

La particolarità del denaro, però, sta proprio nella sua irriducibile unitarietà, caratteristica quest’ultima, che sta agli antipodi rispetto alla massa: la singola banconota e la singola moneta sono individui atomizzati, la somma di denaro è una somma di entità individuali e ci sono molti proverbi a ricordarcelo. La fusione che si crea in una massa, rispetto al denaro, non può superare del tutto questa barriera. Canetti fa degli esempi molto concreti:

“… Ogni moneta è nettamente delimitata e ha un proprio peso… Si tende a considerare la moneta come una persona afferrabile. La mano che si chiude su di essa, la tocca tutta, in tutti i suoi spigoli e in tutte le superfici piane… In un punto la moneta è superiore alla creatura vivente: la sua consistenza metallica, la sua durezza, le assicurano una durata «eterna»; essa non è distruttibile – tranne che dal fuoco. La moneta non cresce secondo la propria grandezza; essa è in accordo con il proprio conio e dunque deve restare ciò che è; non può divenire diversa… Il  mucchio di monete è chiamato tesoro fin dai tempi più antichi e presso la maggior parte dei popoli… non c’è dubbio che per alcuni uomini, i quali vivono esclusivamente per il loro denaro, il tesoro prenda il posto della massa umana. Molte storie di avari solitari vengono qui a proposito; essi sono la sopravvivenza mitica del drago delle fiabe, il quale vive soltanto per custodire, controllare, curare un tesoro. Si potrebbe obiettare che queste considerazioni sulla moneta e sul tesoro, non sono più attuali per gli uomini moderni; che dappertutto si usa la carta moneta; che i ricchi conservano il loro tesoro nelle banche nella forma più invisibile e più astratta. Ma l’importanza della copertura aurea per una buona valuta,… dimostrano che il tesoro non ha affatto perduto la sua antica importanza.”

Si potrebbe ulteriormente obiettare, rispetto al tempo in cui il libro fu scritto, che con la fine degli accordi di Bretton Woods, anche la copertura aurea non esiste più. È vero, naturalmente, ma questo fatto non risolve il problema del perché il dollaro sostituì l’oro; anzi, tale scelta ha contribuito non poco a generare nuove e pericolose illusioni. Tale decisione, infatti, ricacciava nell’astratto il problema senza risolverlo, perché il valore non sta nel segno numerico stampato sulla banconota, ma nella relazione fra quel valore e la produzione di beni e servizi; rompere la parità con l’oro significava solo occultare l’ultimo anello che legava l’economia di carta e nominale a quella reale. L’illusione di un valore non ancorato ad alcunché di concreto è un sintomo di alienazione, simile a quello di cui fu vittima l’esercito di Pompeo; oppure riflette l’atteggiamento degli ingenui e illusi protagonisti delle fiabe, che peraltro vengono sempre puniti da una legge più grande di loro. Le uniche differenze, fra la nostra povera epoca e quella di Pompeo, stanno nel fatto che il comandante in capo si mostrò un bel gradino al di sopra dei suoi ufficiali e dei suoi soldati, mentre da noi oggi sono i responsabili dell’economia e della politica mondiale a comportarsi come loro!

La differenza fra le favole della tradizione e quelle moderne, in tema di denaro e ricchezza, sta nel fatto che le seconde si ammantano di un linguaggio ‘scientifico’.

Credo sia necessario allora, seppure nel contesto di un saggio che si occupa di letteratura, soffermarci ancora un momento sulla questione della parità aurea, perché nelle sue pieghe è facile rintracciare il sostrato favolistico.

Gli accordi di Bretton Woods, sanciti nel 1948 nella cittadina statunitense omonima, stabilivano che fra riserve monetarie e quantità d’oro posseduta dalle banche centrali degli stati dovesse esserci un rapporto stabilito, seppure variabile fra Stati Uniti e stati esteri: i secondi potevano convertire le loro riserve monetarie in oro al prezzo di 35 dollari l’oncia, gli Usa a un prezzo inferiore. A questo si aggiunga che le riserve monetarie potevano eccedere la copertura aurea per un massimo di un terzo del valore in oro posseduto. In sostanza tale meccanismo impediva agli stati di dichiarare riserve fasulle, cioè semplicemente nominali. L’economista statunitense Ron Paul, in un saggio facilmente reperibile nei siti che si occupano di economia, ricostruisce molto bene cosa sia avvenuto con la fine degli accordi:

Il sistema post-Bretton Woods è stato responsabile per la globalizzazione dell’inflazione e dei mercati, e per la nascita della gigantesca bolla del dollaro mondiale. Quella bolla sta per esplodere, e stiamo vedendo cosa significa pagare le conseguenze per troppi errori economici fatti in precedenza. Ironicamente, negli ultimi 35 anni noi abbiamo beneficiato di questo sistema profondamente distorto. Poiché il mondo accettava dollari come se fossero oro, dovevamo semplicemente falsificare altri dollari, spendere oltre oceano (incoraggiando in maniera indiretta anche il trasferimento del nostro lavoro all’estero) e goderci una prosperità immeritata. Coloro che prendevano i nostri dollari, e ci davano in cambio dei servizi, non vedevano l’ora di poter tornare a prestare quei dollari a noi. Questo ci ha permesso di esportare la nostra inflazione e ritardare le conseguenze che ora stiamo iniziando a vedere. Ma non era comunque destinato a durare, e ora ci tocca pagare il conto. Il nostro debito estero deve essere pagato o liquidato. Gli altri debiti sono maturati proprio ora che il mondo è diventato più riluttante ad accettare dollari. La conseguenza di quella decisione è un’inflazione dei prezzi nel nostro paese, questo è ciò a cui stiamo assistendo oggi. L’inflazione all’estero è addirittura più alta che da noi, come conseguenza della volontà delle banche centrali estere di monetizzare il nostro debito… Questa bolla è diversa e più grande delle altre per un altro motivo. Le banche centrali del mondo si accordano segretamente per centralizzare la pianificazione dell’economia mondiale. Io sono convinto che degli accordi fra le banche centrali, per monetizzare il debito americano negli ultimi 15 anni, siano esistiti, per quanto in forma segreta e fuori dalla portata delle orecchie di chiunque, specialmente del parlamento americano, che non se ne preoccupa o semplicemente non capisce. Ora che il nostro “regalo” si esaurisce, i nostri problemi peggiorano. Le banche centrali e i diversi governi sono molto potenti, ma prima o poi i mercati si saturano, e quando la gente si ritrova in mano il sacco di dollari senza valore comincia a spendere in un’economia di tipo emotivo, scatenando la febbre inflazionaria. Questa volta – poiché abbiamo a che fare con così tanti dollari e così tante nazioni – la Fed è riuscita a “cartolarizzare” ogni crisi in arrivo, negli ultimi 15 anni, specialmente sotto la presidenza di Alan Greenspan alla Federal Reserve, che ha permesso alla bolla di diventare la più grande di tutta la storia. Militarismo all’estero, elargizione di sussidi statali, e 83 biliardi [trillion] di impegni in titoli stanno tutti per venire a termine.

L’analisi di Ron, pur imprecisa in alcuni dettagli di non poco conto, ci ripropone uno schema che si era già rivelato rovinoso nella Germania di Weimar, quando lo stato tedesco, a fronte della mancanza di liquidità, pensò di risolvere il problema stampando nuovi marchi in continuazione. Così facendo non fece altro che alimentare una catastrofica inflazione perché la moneta in circolazione non può eccedere di troppo il volume degli scambi reali di cui il denaro funge da mediatore e la necessità di sostituire le banconote usurate e non più valide. Nel periodo successivo la rescissione degli accordi di Bretton Woods è accaduta la stessa cosa. La corsa ad accaparrarsi dollari come riserva (quello che Ron chiama, con una formula ambigua, falsificare i dollari), non significa altro che la banca centrale statunitense ne stampava in continuazione per alimentare il circuito delle riserve degli altri stati e del proprio debito pubblico. Servono dollari? Eccoli stampati! Non siamo lontani dalla favola dell’asino che cacava monete, se a farlo – invece che un animale magico – è la zecca di stato!

Torniamo all’inflazione e lasciamo di nuovo la parola a Canetti, domandandoci con lui: “Cosa accade in un’inflazione?” La risposta è la seguente:

Improvvisamene l’unità di denaro perde tutta la sua personalità, e si trasforma in una massa crescente di unità; queste ultime hanno sempre meno valore quanto più grande è la massa. Si hanno d’improvviso in mano i milioni che si sarebbero posseduti volentieri; ma essi non sono più tali, conservano semplicemente il nome… E come è possibile contare fino a qualsiasi cifra, così il denaro può svalutarsi fino al più infimo grado… L’identificazione fra il singolo individuo e il suo marco è così confermata. Il marco ha perduto la sua solidità e il suo limite… ha sempre meno valore. L’uomo che vi aveva riposto la sua fiducia non può fare a meno di sentire come proprio il suo svilimento.”

Il senso di vergogna e svilimento, però, non appartiene soltanto agli individui, presi uno per uno: è la massa stessa a perdere le sue caratteristiche peculiari.

Nell’inflazione sopravviene anche un fenomeno… estremamente pericoloso, dinanzi al quale deve indietreggiare chiunque possieda una qualche responsabilità pubblica e possa prevederlo: una duplice svalutazione che proviene da una duplice equiparazione. L’individuo si sente svalutato perché l’unità su cui contava e dalla quale era egualmente considerato perde valore. La massa si sente svalutata perché il milione è svalutato… Quando i milioni salgono al cielo, un intero popolo – che consiste di milioni – non vale più nulla. Tale fenomeno spinge insieme uomini i cui interessi materiali altrimenti divergerebbero largamente. Il salariato ne è colpito come chi vive di rendita. Dall’oggi al domani si può perdere moltissimo o tutto ciò che era al sicuro in banca.”

A questo si aggiunga un altro particolare, potente sul piano simbolico. Il denaro circola, la circolazione monetaria per assonanza anche linguistica rimanda alla circolazione sanguigna. L’analogia appare evidente anche in molte espressioni idiomatiche: di chi ha molto speso per qualcosa, specialmente quando è costretto a farlo per necessità, si dice che si è svenato. L’inflazione è un’emorragia di massa e perciò genera un panico di massa: su di esso fecero leva i nazisti per conquistare il potere nel 1933.

Usura e capitale

Le rappresentazioni moderne più potenti del denaro, della psicologia di chi lo maneggia, degli effetti che le leggi economiche hanno sulla società e sugli individui, le troviamo in alcuni grandi romanzi dell’’800 e del ‘900. L’argent di Emile Zola è una delle opere più efficaci della narrativa di quegli anni. La poetica dello scrittore francese implicava un atteggiamento di ricerca sociale da parte del romanziere, qualcosa di più della verosimiglianza manzoniana (anche se Manzoni stesso con la storia della Colonna infame non è lontano da Zola), ma una vera e propria immersione in altre forme di conoscenza, l’utilizzo dello strumento dell’inchiesta, la costruzione del personaggio e del suo habitat in modo oggettivo. Per Zola la narrativa non può essere pura fiction, oppure semplice svolgimento di una trama con i suoi intrecci, ma deve essere rappresentazione che si avvale di una vasta documentazione extra diegetica. Egli è uno degli inventori del romanzo-saggio, che costituisce un canone importante della tradizione europea e annovera fra gli altri anche il Flaubert di Bouvard e Pecuchete che avrà il suo massimo esponente in Musil, agli inizi del ‘900. Non è questa la sede per mettere in evidenza le grandi differenze fra loro, ma solo di registrare un atteggiamento e un modo di concepire il romanzo.

Il protagonista de L’argent (Il denaro) è un giocatore di borsa, ma si potrebbe anche dire che la vera protagonista è proprio la Borsa in sé, con i suoi riti, la genia del tutto particolare di coloro che le girano intorno, la sua capacità di attrarre le vite e di fagocitarle dentro un meccanismo che diventa totalizzante. Fin dalle prime pagine del romanzo ciò che colpisce è proprio tale aspetto. Tutte le vite dei personaggi e quasi tutta la loro vita personale gravita intorno al palazzo della Borsa, il brulichio della grande città tentacolare s’intensifica e s’addensa intorno al palazzo delle transazioni.

Pubblicato nel 1891, L’argent è  il diciottesimo e ultimo libro della serie Rougon-Macquart. Il motore narrativo che governa lo svolgimento della trama è quello della speculazione finanziaria e degli scandali che ne derivano. L’eroe negativo è Aristide Saccard  – lo stesso de La curée (La caccia) -, fratello del ministro Eugène Rougon, che aveva ammassato una fortuna colossale con affari poco leciti. Dopo una sequela di rovesci, deve ripartire da zero, ma la sua ambizione è rimasta intatta; cambia il proprio nome precedente per rifarsi una verginità anche personale e ricomincia daccapo. La nuova svolta, che prelude alla sua effimera rinascita, è annunciata da una lettera proveniente da Costantinopoli:

La lettera del banchiere russo di Costantinopoli, che Sigismonde aveva tradotto, era un’inattesa risposta favorevole; la grande impresa vagheggiata poteva iniziare da Parigi.” 6

La grande impresa si chiamerà Banca Universale e sarà destinata a finanziare progetti in Medio Oriente: siamo sempre lì, verrebbe da dire!

Saccard vende la sua proprietà lussuosa del parco Monceau allo scopo di regolare i suoi creditori, quindi affitta due piani di un palazzo dove insedia la sede della banca.

Aristide entra in contatto con vecchie conoscenze fra cui la principessa d’Orviedo,          che tuttavia rifiuta di partecipare ai disegni dello speculatore. Allora egli rivolge le sue attenzioni a Jacques Hamelin, giovane ingegnere e a Caroline, sua sorella. Dopo un accordo siglato tra Jacques ed Aristide, l’ingegnere raggiunge Costantinopoli per ottenere concessioni, mentre l’uomo d’affari cerca d’inserirsi nell’entourage di alcuni uomini molto ricchi del milieu finanziario parigino. Nel frattempo Saccard seduce e possiede bestialmente Caroline.

La truffa è architettata per attirare piccoli e medi risparmiatori, ai quali si promettono guadagni facili e rapidi. I comunicati stampa, gli articoli e le voci sapientemente calibrate fanno volare i titoli della società e Saccard si trova di nuovo al vertice della gloria. Tale potenza borsistica, tuttavia, è costruita sulla sabbia: a questo si aggiunga il fatto che Saccard si è attirato l’inimicizia del banchiere Gundermann. Un giorno del 1869, col concorso di amici speculatori, dopo avere verificato che le casse della banca Universale sono a secco, quest’ultimo decide di lanciare un ultimo attacco borsistico ribassista vendendo le azioni della Banca universale che possiede e quelle che non possiede (vendita allo scoperto).

Il titolo crolla e Saccard reagisce facendo quello che tutti gli speculatori fanno in tali circostanze, sebbene non serva a nulla: acquista lui stesso i propri titoli per farli risalire di prezzo, ma in questo modo dà fondo a tutte le sue risorse finanziarie e si ritrova sul lastrico. Trascina nella sua caduta tutti i risparmiatori che gli avevano dato fiducia. Denunciato per frode viene condannato a cinque anni di prigione, ma riesce a lasciare la Francia e fuggire nei Paesi Bassi.

Nello scrivere questo romanzo, Zola si è ispirato agli scandali finanziari che non mancavano alla sua epoca. Al momento in cui scrive Il denaro è in pieno sviluppo quello di Panama, ma lo scrittore s’ispirò anche all’affaire dell’Unione generale (1881-1882), il cui protagonista fu il banchiere cattolico e legittimista Eugène Bontoux, la cui società fu rovinata dalla speculazione di un Rothschild. Bontoux  fu condannato proprio a cinque anni di prigione nel 1883, come accade al protagonista del romanzo di Zola. Si pensa che il personaggio di Saccard gli sarebbe stato anche ispirato dallo speculatore e industriale Hector de Sastres, che fu amico e protetto del ministro Jacques Louis Randon.

Lasciamo per il momento Zola e rivolgiamoci a un testo a noi vicinissimo.

L’orologio americano di Arthur Miller, dramma in due atti, scritto nel 1982 e ispirato da Hard Times di Teckel, è una riflessione a distanza di pochi decenni sulla crisi del ’29, ma essendo così contemporaneo, sorprende appunto per il ripetersi di situazioni analoghe. Miller analizza il meccanismo economico legato al trust, ovvero alla fiducia, piede d’argilla su cui si poggia l’intera economia; curiosamente, fra l’altro, la parola inglese significa anche cartello industriale, monopolio! Il tema principale dell’opera è la fine del sogno americano; tema che si ripropone oggi, dopo il fallimento di Chrysler e General Motors e gli scandali che hanno coinvolto le banche. È una satira sull’immaterialità del denaro, sulla spietatezza delle regole dell’economia. Tuttavia, il dramma non si limita a questo, ma prende in considerazione i rapporti sociali, su cui impattano le tragedie dell’economia. Alla lucida analisi dei legami familiari che caratterizzano la civiltà, si contrappone quella sul materialismo sfrenato che porta alla barbarie. Le origini della crisi del ’29 sono per Miller da ricercare in primo luogo in una generalizzata crisi morale che si riflette successivamente sulla sfera politica e infine su quella economica. La Prima Guerra Mondiale  viene analizzata come uno strumento capitalistico di riequilibrio del mercato:

Il mercato non rappresenta altro che uno stato d’animo.

La sovrapproduzione accompagnata da una scarsità di moneta fa sì che i magazzini siano pieni di merci che la gente, non avendo soldi, non può comprare. Il crollo dei prezzi diventa il sintomo della frattura del ciclo produttivo causato principalmente dalla gestione irrazionale del sistema creditizio da parte delle banche. La fiducia cessa e il crollo del sistema del trust porta a una svalutazione dei titoli azionari, al fallimento delle aziende, alla disoccupazione; senza stipendi non circola moneta e il sistema è destinato alla paralisi. Gli interessi sul credito sono per Miller il grande nemico. I grandi capitali non investiti che creano interessi da capogiro sono di per sé un atto economicamente immorale e vengono utilizzati dalle banche per speculazioni selvagge su oro, petrolio, costruzioni edilizie. I profitti gonfiati della borsa poi sono il germe del crollo di Wall Street. La Prima Guerra Mondiale fu il tragico tentativo di azzerare i debiti e crediti per creare una tabula rasa su cui ricostruire l’economia. Miller contrappone l’etica del valore all’etica del denaro e vede nella folla dei disoccupati, nei negozi vuoti, nella gente buttata in strada con materassi pentole e tegami, la conseguenza ovvia di tutti gli errori economici commessi. Il boom degli anni ‘20 fu, nella sua visione, una gigantesca truffa organizzata dagli straricchi per moltiplicare i loro capitali rapinando la gente. Gli avidi affaristi senza scrupoli portarono al crollo dei mercati perché, secondo Miller, ne avevano utilizzato le leggi al di là dell’etica del progresso comune e perseguendo unicamente l’arricchimento personale. In Miller l’etica protestante della ricchezza, come segno della grazia divina e della predestinazione alla salvezza, si contrappone all’etica ebraica, che  egli vede come Quoelet, segnata da un pessimismo di fondo che conserva connotazioni negative nella ricchezza come frutto di ingiustizia e idolatria. Due forze antitetiche si contrappongono: il capitalismo e il socialismo, la destra e la sinistra. La prima è una corrente di pensiero di stampo protestante e la seconda di stampo ebraico. L’etica ebraica vede nel denaro un bene/male per la sopravvivenza della comunità, la quantificazione di un concetto astratto che incarna tutti gli idoli, che sono adorati pur non esistendo. In questo, Miller riecheggia anche il contenuto dei saggi economici scritti da Ezra Pound nel 1933. L’etica protestante, base del sistema democratico americano, esalta invece della comunità  l’individuo, la libertà; Dio, in tale contesto, è visto come grazia e non come giudice.

Se la libertà, tuttavia, non è bilanciata dalla giustizia sociale ben presto qualsiasi economia crolla.

Il titolo del dramma si riferisce al tempo e al grido silenzioso delle folle disperate,

fino a quando sopporteremo tutto questo?

La pièce si conclude con questa domanda, che rimane tuttavia senza risposta: è Robertson, il personaggio alter ego di Miller stesso a porla, ma il sipario si chiude, perché per Robertson/Miller la stupidità umana è senza limite; se gli chiedono se furono Roosevelt e il New Deal a salvare l’America, egli scuote il capo e ricorda che fu la fede degli Americani nel futuro a salvarli.

Il sostrato sociale e le problematiche del dramma di Miller sono simili a quelli di Zola e si ripropongono oggi negli stessi termini, solo con effetti ulteriormente ingigantiti. Anche l’analisi di Miller è in piena consonanza con quella di Zola, solo che l’uso di strumenti d’analisi che si possono definire marxiani è in lui molto più parziale e meno consapevole che non nel naturalista francese. Quest’ultimo, pur non sposando completamente il pensiero di Marx, ne era tuttavia un profondo conoscitore, tanto che nel romanzo L’argent, un altro protagonista – Sigismonde – rappresenta molto bene i valori e gli atteggiamenti di un marxista. Nell’opera egli è il contrappunto morale della torva figura di Saccard, anche se la sua stessa vita gravita intorno alla Borsa, seppure per ragioni opposte: il suo appartamento, infatti, non è lontano dall’edificio. Nei dialoghi con Saccard, Sigismonde presenta il punto di vista dell’economia collettivista e formula previsioni di crolli finanziari futuri che rivelano una grande perspicacia. Saccard e Sigismonde rappresentano ancora due mondi che, pur contrapponendosi, possono ancora capirsi perché in quel capitalismo, il rapporto fra finanza e produzione era ancora visibile rispetto a oggi. Del resto è proprio Sigismonde a tradurre la lettera del banchiere russo per Saccard e il loro dialogo testimonia questa vicinanza discorde fra loro:

Il collettivismo è la trasformazione dei capitali privati, che speculano sulle lotte della concorrenza, in un capitale sociale unitario, sfruttato dal lavoro di tutti…”

“Oh!”, lo interruppe Saccard, “Questo cambierebbe moltissimo le abitudini di un bel po’ di gente!…” Saccard i sentiva sempre più a disagio. Se quel ragazzo che sognava ad occhi aperti, avesse detto il vero? Se avesse presentito l’avvenire? Gli argomenti che portava a sostegno delle sue teorie sembravano molto chiari e sensati. “Bah!,” mormorò per tranquillizzarsi, “Non sono cose che accadranno l’anno prossimo.” 7

Lo sguardo del marxista Sigismonde è proiettato al futuro, Saccard vive alla giornata anche se è ancora in grado di leggere le ragioni dell’altro.

Il naturalismo di Zola, tuttavia, è ben più deterministico e diverso dal modo di procedere di Marx, anche da un punto di vista metodologico; per di più lo scrittore francese ignora la dialettica hegeliana. Tuttavia, nel rappresentare  le conseguenze sociali della deriva finanziaria e nella messa a fuoco dei personaggi, Zola dimostra di avere una conoscenza realistica delle leggi economiche capitalistiche.

Miller è lontano da tutto questo, anche se si può dire che entrambi (seppure per ragioni diverse), condividano una visione pessimistica del futuro. Zola è pessimista per definizione, in quanto iper determinista nello stabilire nessi fra storia individuale, soma (in questo senso è addirittura lombrosiano), e comportamento sociale. Ecco per esempio come descrive una protagonista del romanzo:

Fu interrotto dall’arrivo di una donna enorme, Madame Méchian , ben nota agli habitué della Borsa, una di quelle miserabili e frenetiche giocatrici, che cacciano le grasse mani in ogni sorta di losche attività. La sua faccia da luna piena, gonfia e rossa, con i piccoli occhi azzurri, il naso perduto  nel traboccare delle guance, la minuscola bocca da cui usciva un’infantile vocina flautata, sembrava straripare dal vecchio cappello viola, …. e il seno gigantesco e il ventre idropico, facevano tendere fino a scoppiare il vestito di popeline verde, sbiadito e macchiato di fango.8

La figura sordida di Madame Méchian non ammette sfumature: essa è senza scampo e redenzione possibile, quasi un automa che non può agire diversamente da come fa.

Miller è pessimista per una forma di scetticismo naturale, corretto talvolta da slanci profondamente naive. L’orologio americano si conclude con un completo disastro, il sipario cala su una totale mancanza di risposte. Miller fa dire a Robertson che fu la fede degli americani nel futuro a salvare gli Usa; ma è una fede posticcia che nel testo teatrale non esiste e compare soltanto nel finale come escamotage. Del resto, attribuire alla semplice fede nel futuro la fuoriuscita dalla crisi è quanto meno risibile e anche ingenuo. Furono la Seconda Guerra Mondiale e i successivi piani di ricostruzione come il Marshall a permettere la ripresa su larga scala dell’economia capitalistica e se è vero che a un’opera d’arte non si chiede normalmente la coerenza è pur vero che il dramma di Miller si pone come realistico, in presa diretta con la realtà e non come un testo visionario.

Da esso traspare tutta l’ingenuità e il limite del pragmatismo statunitense, incapace di comprendere le leggi dello sviluppo capitalistico e infatti non è un caso che l’attuale crisi mondiale giri intorno agli stessi problemi denunciati da Miller. È questo in definitiva, il pregio maggiore di quest’opera che, non bisogna dimenticarlo, fu scritta nel 1980 e non a ridosso della grande Depressione! Miller aveva coltivato di nuovo il sogno americano dopo il disastro del ‘29, aveva combattuto il maccartismo ed è stato un militante assiduo del Partito Democratico: ma con questo dramma sembra però chiudere definitivamente i conti con tale illusione. A pochi decenni di distanza accadono le stesse cose e per gli stessi motivi: la coazione a ripetere è la spia di tale incapacità a capire. Sono cambiati soltanto le dimensioni degli effetti che la crisi provoca su un piano planetario, per il resto si tratta di un film gia visto che si ripete stancamente dalla prima crisi ‘globale’ alla borsa di Amsterdam nel lontano 1672! Saprà la cultura statunitense reagire in modo diverso dal passato? Dall’attenzione che oggi le opere di Marx hanno negli Usa si direbbe che sta nascendo una generazione di studiosi e di movimenti che affrontano in modo diverso dal passato la crisi in corso; si tratta di lavori in corso ancora sotterranei ma importanti.


5 Sui simboli di massa anche Wilhelm Reich  ha scritto pagine importanti, proprio riferendosi al nazismo: in particolare, al significato simbolico della croce uncinata e a quello delle coreografie, elaborate dall’architetto Walter Speer, che accompagnavano le manifestazioni di massa del Partito Nazista. In W. Reich Psicologia di massa del fascismo, Feltrinelli, Milano.https://psicologiadimassadelfascismo.wordpress.com/2015/08/27/svastika/

6 Èmile Zola: L’argent, (il denaro), Newton Compton, traduzione di Luisa Collodi; introduzione di Attilio Lolini, p. 70.

7 Op. cit. p. 45.

8 Op. cit. p. 32.

IL CESELLO ARRUGGINITO. Prima parte

Il denaro nelle rappresentazioni letterarie.

Introduzione

Il testo che ripubblico in questo blog, fa parte di un libro collettivo intitolato L’ideologia del denaro, tra psicoanalisi, letteratura e antropologia, a cura di Adriano Voltolin, edito da Bruno Mondadori. Il lavoro nacque all’interno del percorso di studio della Società di Psicoanalisi Critica. Il volume contiene saggi che affrontano la tematica del denaro da diversi punti di vista. Quello che spettava a me, come ambito di mia competenza era la presenza del denaro nella letteratura, un tema vastissimo e che tuttavia, non potevo affrontare senza entrare un poco nel merito dello specifico economico, anche perché uno dei testi da me presi in considerazione e cioè Il canto dell’Usura di Ezra Pound è sorprendente proprio per la capacità del poeta di rendere poetica una materia che sembra rifuggirne. Anche per questa ragione lo ripropongo nella rubrica Critica del pensiero unico e non in quelle più legate alla letteratura in senso stretto.

Del testo originale non ho cambiato nulla perché mi sembra quanto mai attuale. Tuttavia, all’inizio della premessa, esso contiene una rapida frase sul nesso fra baratto ed economia monetaria, che non mi sento più di sottoscrivere in quella forma sbrigativa. Mi sono convinto di ciò dopo avere letto due libri recentissimi che, facendo riferimento ad altrettante ricerche antropologiche sul campo, non ancora disponibili quando questo saggio fu scritto, hanno messo in discussione diversi luoghi comuni intorno alle questioni economiche, fra cui proprio la questione assai annosa del baratto. I due libri in questione sono L’alba di tutto di David Graeber e David  Wengrow (di cui in questo blog si trova già una breve presentazione)  e Il debito gli  ultimi 5000 anni di David Graeber. Infine, data la lunghezza del saggio, l’ho diviso in tre parti, lasciando l’ampia bibliografia alla fine della terza parte.         

Prima parte.

Premessa

Del denaro, della sua penuria o abbondanza, si parla e si scrive da sempre; soltanto la guerra e l’amore occupano uno spazio più ampio in letteratura. Dal momento in cui la circolazione monetaria sostituì il baratto, quanto d’arcano la contraddistingue ha occupato le menti e i cuori e fatto scorrere le penne sulla carta. La letteratura in materia è sterminata e occuparsi di tale argomento richiede prima di tutto, che si delimitino i binari entro i quali condurre un’esplorazione qualsiasi.

Mi sono ispirato a due diversi ordini di necessità: il primo è l’aderenza ai tempi in cui viviamo. La crisi capitalistica mondiale rende di bruciante attualità i discorsi sul denaro: se ne parla ovunque come mai di recente era accaduto, l’economia entra nelle case e nella vita quotidiana di tutti, sconvolge ordini sociali e famigliari; tutto questo pone un’esigenza di concretezza. Il primo criterio, dunque, è proprio quello di partire da ciò che la nuda e cruda realtà ci mette davanti agli occhi. Non è stato difficile trovare tre testi che sembrano scritti per questo. Il primo è di Èmile Zola, s’intitola L’argent (Il denaro) e fa parte del monumentale ciclo Rougon-Macquart, che consta di diciotto romanzi. Il titolo perentorio non necessita di molte note aggiuntive. Con gli altri due testi ci avviciniamo ai nostri tempi poiché si tratta di opere scritte  contemporaneamente o successivamente lo sconvolgimento provocato dalla Grande Depressione degli anni ’30, successiva alla crisi strutturale del 1929: Il Canto XLV, detto anche dell’Usura, dai Cantos di Ezra Pound e L’orologio americano di Arthur Miller, del 1982.

Questa la realtà; tuttavia, intorno denaro sono sempre fiorite le favole e anche oggi non si smette di raccontarle e di crederle. Del resto non c’è da stupirsi perché se è vero che di esso si scrive e si parla da sempre, è altrettanto vero che per millenni lo si è considerato esclusivamente in termini morali, oppure favolosi. Solo recentemente il denaro è stato oggetto d’indagine scientifica; precisamente dalla metà del Settecento in poi, quando l’economia smise di essere una questione di destino, di vacche grasse e magre, di maledizioni bibliche e successive cornucopie, per avviarsi verso la propria autonomia come scienza, seppure umana.

Uno sfondo arcano, tuttavia, permane e scriverne non può prescinderne. Intorno al denaro fioriscono le leggende, le mistificazioni interessate, si affollano gli imbonitori, proliferano le truffe, le illusioni e le depressioni; lo stesso gioco d’azzardo, che aumenta in modo esponenziale proprio nei momenti di maggiore crisi economica, sta a dimostrarlo. Bisogna tenerne conto e cercare d’interrogarsi sulla necessità di questa permanenza nella psicologia profonda degli individui e delle masse. Per farlo ho attinto all’immenso serbatoio delle fiabe, privilegiando alcuni tratti che in esse si ripetono, a qualche aneddoto e per ciò che riguarda tempi a noi più vicini ho scelto alcune pagine illuminanti tratte da Massa e Potere di Elias Canetti.

Nel pieno degli anni ’90 mi capitò di seguire un’inchiesta televisiva sulla nascente new economy, che allora nessuno chiamava ancora così. Il protagonista era un finanziere di rango che operava per una delle tante società che allora nascevano come funghi; uno di quei veri e propri guru della nostra epoca, che le definizioni giornalistiche indicano come gnomi della finanza. Si cominciava con una panoramica sui suoi appartamenti: case bellissime e senza pacchianerie, da vero signore. Seduto su un divano, però, il nostro moderno principe rivelava di lavorare, da sei anni a quella parte, per un numero variabile dalle 12 alle 16 ore al giorno (esattamente come il fruttivendolo sotto casa mia, che non chiude mai, nemmeno la mattina di Natale). Allo sgomento dell’intervistatrice egli rispondeva sorridendo che avrebbe continuato per altri due anni per poi ritirarsi e godersi finalmente la vita. L’inchiesta proseguiva e, dopo alcuni minuti dedicati ad altri protagonisti dell’economia globale, la macchina da presa inquadrava di nuovo il nostro personaggio. La rapidità della sequenza faceva pensare al telespettatore che si ritornasse al momento dell’intervista appena ascoltata; invece non era così. La giornalista, con grande abilità, aveva montato due spezzoni diversi, fra i quali la distanza temporale era di circa due anni. Alla reiterata domanda sul proprio futuro l’uomo, la seconda volta, rispondeva di non essere sicuro di ritirarsi.

Non bisogna essere il dottor Freud per capire che nel 99% dei casi questi uomini non se n’andranno mai perché il meccanismo della dipendenza agisce su di loro in forme ancor più forti, perché inconsce e nutrite dal senso di colpa. I guadagni sono talmente ingenti da creare dipendenza dalla società che permette loro di conseguirli; lasciare il campo avrebbe il sapore dell’ingratitudine, nonostante possano essere scaricati in qualsiasi momento dai loro datori di lavoro. A questo si aggiunga un altro fattore: i guadagni provenienti dalla speculazione, dai marchingegni dell’ingegneria finanziaria fino all’insider trading, largamente praticato nonostante le foglie di fico della legge, per la loro mole consistente e arbitrarietà, spingono a credere che l’accumulo di denaro si auto alimenti: quando con una semplice movimentazione di capitali, essi si raddoppiano in pochi giorni, come è accaduto per alcuni anni prima del crollo, lo scarico d’adrenalina permette di superare momentaneamente la fatica.

Questi uomini sono costretti a rimandare tutto al dopo e quello che colpiva sempre più in quell’intervista era la solitudine del protagonista, l’impossibilità d’avere rapporti stabili. Come i rapinatori di banca o i giocatori di professione essi non possono smettere, anche se sognano continuamente di farlo. L’abile giornalista fingeva di credergli e preparava molto bene le sue trappole; s’era messa nella posizione di quei personaggi femminili dei noir americani degli anni ’60, in cui il protagonista maschile dice alla bella di turno frasi del tipo: ‘faccio l’ultimo colpo e poi andiamo alle Bahamas, a Tahiti, alle isole Salomone’ ecc. ecc. La conclusione di quelle storie portava i loro protagonisti dritti dritti in un monolocale a Sing Sing, l’esito più probabile nel caso del finanziere è la consumazione rapida di ogni esperienza vitale, oppure una lunga terapia analitica; spesso entrambe le cose.

Come si possa reggere una vita del genere è facile da immaginare e tutti ne sono a conoscenza, salvo poi stracciarsi le vesti contro il narcotraffico.

Ebbene, uomini del genere, così manifestamente incapaci di capire quali conseguenze ha su loro stessi la vita che fanno, possono decidere di spostare capitali enormi da una parte all’altra del globo, chiudere e aprire società, realizzare ricchezze immense in pochi giorni o far fallire in due settimane un intero stato. Tuttavia può accadere anche il contrario: che a causa di un investimento sbagliato o del puro caso – come accadde qualche anno fa a un giovane guru inglese che aveva comprato alcune aziende giapponesi una settimana prima del terremoto di Kioto che le avrebbe rase al suolo – possano trovarsi senza nulla nel giro di una settimana.

Per ritrovare un analogo manifestarsi di tale alternanza fra disperazione ed euforia, senso di onnipotenza e annichilimento di ogni prospettiva, bisogna ricorrere alle  fiabe: una particolarmente famosa è quella dell’asino che cacava monete.

Asini che cacano monete, pesciolini d’oro e … altre bestie.

Il tavolino magico, l’asino d’oro e il randello castigamatti dei Fratelli Grimm è un testo assai complesso, la cui analisi richiederebbe un saggio intero. Riassumo la parte della vicenda che riguarda il tema del denaro.1 Il primo di tre fratelli, allontanati da casa dal padre, riceve in dono un asino magico che a comando caca monete d’oro. Naturalmente l’uomo pensa di avere risolto tutti i suoi problemi; non solo, ma diviene prodigo in modo del tutto sconsiderato, non curandosi minimamente di proteggere il prezioso segreto di cui beneficia, con il risultato che si fa rubare l’animale dall’oste presso il quale si era fermato per cenare. L’asino verrà, alla fine della fiaba, riconquistato dal fratello minore, grazie all’astuzia e alla capacità di non affidarsi semplicemente alla fortuna. Il primo dei due, infatti, ha una fiducia cieca nelle potenzialità delle facoltà magiche dell’asino, pensa che la fatica di vivere sia del tutto scomparsa, si specchia come un narciso nell’onnipotenza apparente che lo rende cieco rispetto all’inganno dell’oste. La dinamica della fiaba riflette molto bene le alterne fortune del gioco, compreso quello di borsa. Chi si affida solo alla buona sorte incappa fatalmente anche in quella cattiva, senza mezze misure: può avere tutto come può perdere tutto in un solo attimo.

Le fiabe più interessanti rispetto al tema che qui si tratta sono, tuttavia, quelle che hanno a che fare con l’avidità e la ricchezza. Sono molte e si trovano in tutte le culture: una particolarmente bella è Il pesciolino d’oro, di cui Pushkin ci ha lasciato una mirabile versione in prosa. Altre, di cui esistono diverse versioni, rappresentano molto bene le conseguenze dell’avidità. Una per tutte è quella intitolata Il pescatore e sua moglie.

Un uomo entra in possesso di un talismano magico che gli permette di esaudire ogni desiderio. Lo dice alla moglie e lei comincia ad avanzare richieste sempre più smodate, finché non chiede di diventare come dio: quando il desiderio viene formulato, la magia scompare e i due si ritrovano nella condizione di partenza.

Questa tipologia di fiabe rappresenta molto bene le conseguenze della ricerca spasmodica del godimento (che è cosa ben diversa dal desiderio e dalla sua realizzazione), ma anche l’impossibilità di sottrarsi a tale pulsione, una volta che si sia imboccata quella strada. La psicologia del nostro gnomo della finanza non è diversa da quella della moglie del pescatore!

Per concludere scelgo un’altra fiaba, ancora dei Fratelli Grimm, intitolata La giubba verde del diavolo, per i suoi echi faustiani. Eccone l’inizio:

C’erano una volta tre fratelli che allontanavano sempre il più piccolo di loro; quando vollero andarsene per il mondo, gli dissero: -Non abbiamo bisogno di te, vattene da solo-. Così lo abbandonarono ed egli dovette procedere solo; giunse in una gran brughiera ed era molto affamato. Nella brughiera c’era un cerchio di alberi: vi si sedette sotto e si mise a piangere. D’un tratto udì un rumore e, quando si guardò attorno, vide venire il diavolo con una giubba verde e un piede di cavallo. – Che cos’hai, perché‚ piangi?- disse. Allora egli gli confidò la sua pena e disse: – I miei fratelli mi hanno scacciato -. Disse il diavolo: – Voglio aiutarti: indossa questa giubba verde, ha delle tasche che sono sempre piene di denaro; puoi prenderne fin che vuoi. In compenso però voglio che per sette anni tu non ti lavi, non ti pettini non‚ preghi. Se muori in questi sette anni, sei mio; ma se rimani in vita, sarai libero e ricco fino alla fine dei tuoi giorni-.

Il protagonista segue puntualmente le indicazioni del diavolo, ma dopo un po’ di tempo tutti lo evitano a causa del suo aspetto orribile e dell’odore che emana. Per farsi accettare, allora, l’uomo compie atti di generosità continui. Di peregrinazione in peregrinazione, una sera, in un’osteria, sente piangere un uomo:

“… Il giovane gli domandò che cosa mai lo affliggesse tanto, e il vecchio disse che non aveva più soldi; era in debito con l’oste che l’avrebbe trattenuto finché‚ non avesse pagato. Allora il giovane dalla giubba verde disse: – Se è tutto qui, di denaro io ne ho a sufficienza: pagherò per voi -. E liberò l’uomo dai suoi debiti. Il vecchio aveva tre belle figlie e gli disse di scegliersene una in moglie come ricompensa. Ma quando giunsero a casa e la maggiore lo vide, si mise a gridare all’idea di sposare un essere così orrendo, che non aveva più aspetto umano e sembrava un orso. Anche la seconda fuggì via e preferì andarsene per il mondo. La terza invece disse: – Caro babbo, se gli avete promesso una sposa, ed egli vi ha aiutato nel momento del bisogno, vi ubbidirò -. Allora il giovane dalla giubba verde si tolse dal dito un anello, lo spezzò, ne diede metà alla fanciulla e tenne per s‚ l’altra; e nella prima scrisse il proprio nome, nell’altra il nome di lei, pregandola di serbare con cura la metà dell’anello. Rimase ancora un po’ di tempo con lei, e infine disse: – Ora debbo prender congedo, rimarrò lontano per tre anni, siimi fedele in questo periodo di tempo; quando tornerò celebreremo le nostre nozze. Se invece non torno sei libera, perché‚ io sarò morto, ma tu prega Dio che mi tenga in vita -. In quei tre anni le due sorelle maggiori della sposa si fecero beffe di lei e le dicevano che avrebbe avuto un orso per marito al posto di un uomo normale.”

L’uomo prosegue nel suo viaggio, comperando regali per la futura moglie e compiendo altri atti di generosità. Allora Dio s’impietosisce di lui e gli permette di arrivare indenne alla fine dei sette anni. Il giovane s’incontra con il diavolo e gli restituisce la giubba verde:

“… Poi se ne andò a casa, si ripulì per bene e si mise in cammino per recarsi dalla sua sposa. Quando giunse al portone d’ingresso, incontrò il padre; lo salutò e disse di essere lo sposo, ma quello non lo riconobbe e non voleva credergli. Allora egli salì dalla sposa, ma anch’ella non voleva credergli. Infine egli le domandò se avesse ancora la metà dell’anello. Ella rispose di sì e andò a prenderla; anch’egli prese la sua, l’accostò all’altra e si vide che le due parti combaciavano perfettamente: egli non poteva che essere il suo sposo E quand’ella vide che era un bell’uomo, si rallegrò, lo amò e celebrarono il matrimonio. Le due sorelle, invece, erano così furiose di aver perso quella fortuna, che lo stesso giorno del matrimonio l’una si annegò, mentre l’altra si impiccò. La sera, bussarono alla porta e si sentì un brontolio; quando lo sposo andò ad aprire, ecco il diavolo in giubba verde, che disse – Vedi, adesso ho due anime in cambio della tua! – “

La morale di questa fiaba è molto sottile. Non c’è atto di bontà che possa fare tornare i conti se si stabilisce un patto demoniaco con il denaro; neppure dio può farlo. Non ha alcuna importanza che le due sorelle siano rappresentate come cattive, perché questo accade in ogni fiaba. In questo caso, la novità è che c’è sempre un prezzo da pagare, anche quando a pagarlo è un malvagio! Tale prezzo può essere occulto, o altrove come nel caso dei meccanismi finanziari. Chi consegue ingenti guadagni speculativi non vede dove si è verificato il danno che fa da contrappeso al saldo positivo delle movimentazioni dei capitali che gestisce: non lo vede, ma il danno – da qualche parte – c’è sempre!

Queste fiabe tuttavia, ci suggeriscono anche altre considerazioni: prima di tutto che l’associazione fra escrementi, monete e diavolo è antichissima e nasce ben prima che Martin Lutero definisse il denaro sterco del demonio.2

Un altro esempio di comportamenti causati dall’avidità ci proviene dall’antichità e viene ripreso da Elias Canetti in Massa e potere, in un breve paragrafo alle pag. 107 e 108, intitolato Il tesoro.3 Si tratta di un aneddoto ricordato da Plutarco in La vita di Pompeo.

Durante una spedizione in Africa la flotta di Pompeo giunse nei pressi di Cartagine;  alcuni soldati s’imbatterono casualmente in un tesoro che li rese ricchi. Non appena la notizia si sparse fra i militari delle altre legioni, si diffuse la voce che i cartaginesi avevano nascosto ricchezze immense un po’ dappertutto e sotto terra. In preda a un delirio crescente l’esercito romano si sbandò, tutti si misero a scavare, le dimensioni del tesoro crescevano quanto meno se ne trovava traccia. Pompeo, prima preoccupato, decise poi di non intervenire per nulla. Osservava divertito e in disparte quanto stava avvenendo. Dopo qualche giorno il tutto si sgonfiò: improvvisamente ciò che sembrava solido, svanì di colpo. Il tesoro semplicemente non esisteva, la diceria si era auto alimentata e con la stessa rapidità si era sgonfiata di colpo come una bolla di sapone (o come la bolla finanziaria).4

Questo atteggiamento psicologico intorno al denaro o al tesoro, è ancora una volta lo stesso del giocatore d’azzardo, di cui sono note euforie e depressioni, strettamente dipendenti dall’alternanza casuale di vincite e perdite, di cui è del tutto in balìa. Più che non l’ovvia citazione de Il giocatore sono interessanti le interviste e le riflessioni di Tommaso Landolfi e di sua moglie Idolina in materia.


1 Tutte le citazioni riguardanti le Fiabe dei Grimm sono tratte dall’edizione Einaudi.

2 La maledizione del denaro colpisce sempre chi ne parla e ne scrive e dunque colpirà anche me! Il denaro è un’ascia bipenne senza manico per cui chi la impugna infligge a se stesso gli stessi danni che infligge agli altri. Il povero Martin Lutero, quando definì il denaro sterco del demonio aveva in mente, come tutti sanno il Papa di Roma e il commercio delle indulgenze. Non poteva sapere, in quel momento, che soltanto pochi decenni dopo l’etica protestante sarebbe stata la migliore culla per il nascente capitalismo

3 Tutte le citazioni dall’opera Massa e potere di Elias Canetti si riferiscono alla pubblicazione da parte della casa editrice Adelphi, per la traduzione di Furio Jesi, Milano Luglio 2002, undicesima edizione.

4 Varrà la pena di notare di sfuggita, che l’invenzione del tesoro legata a vicende guerresche o marinare, è un archetipo che viene riciclato anche ai nostri tempi: si pensi alle spedizioni alla ricerca d’improbabili tesori in navi affondate, come nel caso del Titanic e dell’Andrea Doria. La narrazione mitica, così vivida nelle parole di Plutarco, lo è altrettanto anche nella nostra realtà.

25 SETTEMBRE 2022

Sono finite le caselle

della scheda elettorale, è tempo

di cambiarla e mentre colmo il poco

spazio che dal Comune mi separa

l’apro e la guardo: era il duemila

quando intonsa e all’alba di un millennio

si apriva come un libro bianco,

gli spazi di cittadinanza

ben squadrati.

                      Li ho visti svanire

uno ad uno così che il tutto pieno

è solo una sequenza

di timbri e vuoti a perdere.

Con la nuova fra le mani,

che mi accompagnerà fino alla fine,

il ritorno è uno spazio troppo lungo,

il tempo una clessidra che va a ritroso…

TRE LIBRI

Tre libri, di cui due assai recenti: L’alba di tutto, una nuova storia dell’umanità di David Graeber e David Wengrow, pubblicato da Rizzoli e Una vita liberata, Oltre L’Apocalisse capitalista, di Roberto Ciccarelli e pubblicato da Derive e Approdi, mi sono sembrati decisivi per gli scopi che questa nuova rubrica cerca di perseguire. Il terzo  è L’immaginazione intermediale,  di Pietro Montani, pubblicato da Laterza nel 2010 e giunto nel 2019 alla settima edizione. Sono libri assai diversi fra loro, ma hanno in comune il gusto per la ricerca appassionata, rigorosa e documentata, ma decentrata rispetto a molto dibattito politico-culturale contemporaneo.

Il primo tenta un primo bilancio di quanto la paleo antropologia ha scoperto negli ultimi decenni. Ciò che rende però particolarmente interessante il libro, oltre la ricchissima documentazione e la relativa bibliografia, è l’approccio: una radicale doppia critica delle due favole antropologiche di Rousseau e di Hobbes che costruiscono insieme una medaglia a due facce. La prima basata sull’esistenza di un’età dell’oro popolata di selvaggi buoni, corrotti successivamente da tribunali, sacerdoti e leggi; la seconda – opposta alla prima – di un’umanità irriducibilmente ferina, che necessita di un potere arbitro imparziale che la regoli. Dalla presa di distanza da queste due narrazioni, entrambe tossiche, sebbene in gradazioni diverse, il libro si avventura in una vasta analisi dei reperti archeologici rinvenuti negli ultimi decenni e che possono essere meglio compresi anche a strumenti tecnologici non disponibili soltanto pochi decenni fa.

Una vita liberata affronta anch’esso una narrazione tossica contemporanea: un pensiero di tipo apocalittico che si presenta talvolta come critico ma che in realtà mistifica le responsabilità e le cause sociali profonde di quella che in ogni caso il libro stesso definisce come apocalisse capitalistica.  Partendo da una famoso slogan di Margreth Thatcher  – la società non esiste – che tuttavia Ciccarelli considera superficialmente interpretato, l’autore considera il pensiero apocalittico come rivoluzione passiva, nel senso che Gramsci attribuiva a quel termine, ripreso da Cuoco. L’importanza del libro di Ciccarelli sta nella sua capacità di contrastare i vissuti di impotenza e rassegnazione che la narrazione apocalittica si porta dietro ma senza esorcizzarla e minimizzarne la portata ma considerandola nelle sue diverse espressioni anche artistiche o veicolata tramite serial di varia natura. Questo particolare del libro di Ciccarelli ci porta al terzo, L’immaginazione intermediale,  uno studio che ha al proprio centro l’immagine nelle sue molteplici espressioni: dalla semplice fotografia documentale, al cinema alla televisione. L’indagine comincia mettendo in luce che un’immagine vada sempre in qualche modo certificata facendo ricorso ad altri mezzi o immagini stesse – questo il senso dell’aggettivo intermediale  – e non può essere accolta ingenuamente nel suo darsi. Gli esempi, ogni volta calzanti ed emblematici di cui Pietro Montani si serve, in particolare le analisi di alcuni film, permettono di arrivare alle astrazioni delle teorie estetiche e del linguaggio a partire da una concretezza che permette al lettore di valutare ogni volta la congruenza dell’esempio con la generalizzazione.