INTERVISTA A VINCENZO CONSOLO

A cura di Franco Romanò

Premessa

Questa intervista fu pubblicata sulla rivista Il Cavallo di Cavalcanti nel 2008: ad essa seguirono altri incontro pubblici cui partecipò lo stesso Consolo allo Spazio Coop di via Arona. La ripropongo oggi nel blog per la sua ricchezza e attualità, con due precisazioni. Nella mia introduzione di allora notavo che molti dei suoi libri erano introvabili: per fortuna oggi la situazione è cambiata e questa è una buona notizia. La seconda precisazione. Nella parte finale, pur senza citarlo Consolo mette in evidenza i cambiamenti negativi indotti dal governo Berlusconi. Nel contesto di allora la sua frase era chiarissima, oggi è forse bene ricordarlo in modo esplicito.

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Mi accingo a incontrare Vincenzo Consolo con due pensieri in testa: prima di tutto che i suoi libri sono quasi introvabili, a parte quello d’esordio – La ferita dell’aprile – ristampato di recente da Mondatori. Per fortuna li avevo quasi tutti, e per qualcuno sono ricorso ad amici, ma mi sembra un cattivo segno dei tempi che si faccia fatica a trovare in libreria un autore che ha dato così tanto alla narrativa italiana. Il secondo pensiero riguarda la lingua. Nel prepararmi a intervistarlo mi sono ricordato di un saggio che T.S.Eliot dedicò in anni lontani alla poesia di Marianne Moore: in esso il grande poeta anglo statunitense afferma, fra l’altro (ricordo a memoria), che un poeta va prima di tutto valutato rispetto a quello che ha dato alla lingua d’appartenenza. Penso che questo sia estendibile anche ai narratori e nel caso di Vincenzo Consolo il giudizio di Eliot è quanto mai calzante e di bruciante attualità. Il poeta, infatti, avvertiva già in quegli anni lontani, che l’inglese correva il pericolo di un impoverimento dovuto alla sua estensione planetaria come lingua veicolare, sottoposta quindi a un processo di semplificazione e di impoverimento. Per ragioni diverse anche le altre lingue – e quella italiana in particolare – sono oggi minacciate (sebbene da altri e ben più distruttivi fattori) e questo sarà proprio uno dei temi dell’intervista.

Lo scrittore mi riceve nella sua bella casa milanese; l’ampio salone è pieno di libri e al tempo stesso molto luminoso, due caratteristiche che non sempre vanno a braccetto quando si entra nello studio di un artista della parola; chissà che la solarità della sua terra non abbia a che fare con questo! Entriamo subito in argomento e gli ricordo una frase contenuta in Fuga dall’Etna:

Franco Romanò:

Vorrei partire da questa sua affermazione: “Mi sono sempre sforzato, di sfuggire, nella vita, nell’opera, ai miti. La letteratura per me, ripeto ancora, è il romanzo storico-metaforico. E poiché la storia è ideologia, come insegna il Carr, credo nel romanzo storico ideologico,… cioè nel romanzo critico.” È una dichiarazione del ’93: ha qualcosa da aggiungere, o da modificare, a tale affermazione?

Vincenzo Consolo:

No, sono convinto di questa mia idea del romanzo storico metaforico, critico e nel momento stesso anche ideologico. Quanto alla parola romanzo, però, credo che oggi questo genere letterario non si possa più praticare; io parlo di narrazione piuttosto. Credo che il romanzo d’intreccio, oggi, non sia più possibile perché una volta l’autore aveva presente qual era il suo interlocutore. Si facevano persino delle indagini e si chiedeva agli scrittori a quale tipo di lettore pensavano. Una volta Calvino rispose alla domanda dicendo che pensava a un lettore che la sapesse più lunga di lui ed era assai difficile saperla più lunga di Calvino! Comunque c’era un lettore cui lo scrittore poteva pensare. Oggi in questa nostra società non è possibile pensare a un lettore e allora occorre spostarsi verso la narrazione…

FR:

E come si potrebbe definire la narrazione?

VC:

La narrazione scaturisce da qualcuno che ha fatto un’esperienza, ritorna e la racconta, come ha scritto Walter Benjamin in Angelus Novus. Il fatto di raccontare, di narrare, lo porta a un ritmo che sposta la prosa verso la forma poetica. È quello che ho cercato di fare nei miei libri, dove non c’è mai l’arresto, la riflessione, l’irruzione di quello che si chiama spirito socratico e cioè la filosofia, come era nella tragedia moderna di Euripide. Oggi questo non è possibile perché l’autore non sa più a chi rivolgersi. Io dico sempre che la cavea è vuota. Sulla scena non arriva più l’anghelos, il messaggero, che raccontava al pubblico presente ciò che era successo in un altro luogo e in un altro tempo. Così aveva inizio la tragedia. L’anghelos per me è lo scrittore che non può più apparire sulla scena e la narrazione è relegata al coro, che commenta e lamenta ciò che è avvenuto. Sono quindi per la narrazione e non più per il romanzo, tutti i miei libri di narrativa sono contrassegnati da questa prosa ritmica, a volte con il ricorso spesso alla rima e all’assonanza; questo è stato notato da diversi critici.

FR:

Andare verso la prosa lirica e la narrazione non è forse andare anche verso l’oralità, verso un senso arcaico della narrazione?

VC:

Sì, è anche tipico del mondo mediterraneo. Ce lo hanno insegnato gli aedi, Omero o chi è stato identificato come tale. Fra l’altro gli aedi erano ciechi perché avevano lo sguardo interno. Òmeros, in greco antico, significa ostaggio e ci si domanda ostaggio di chi? Io credo ostaggio della memoria, perché c’era la tradizione del racconto orale. In questo nostro tempo la memoria è minacciata dai mezzi di comunicazione di massa, dal potere economico e politico. L’interesse di questi poteri è di farci vivere in un infinito presente, per cui non sappiamo più da dove veniamo e non riusciamo a immaginare dove vogliamo andare. Quindi io credo che oggi più che mai il poeta, lo scrittore debbano conservare la memoria per cercare di salvarla. Sembra uno sguardo all’indietro ma credo che sia necessario essere ostaggi della memoria e perciò pratico il romanzo storico metaforico. Ho immaginato la trilogia a partire dal 1860 fino ai giorni nostri, ma la metafora era sul tempo storico che stavamo vivendo.

FR:

Quest’idea di romanzo si è affermata subito in lei o si è modificata nel tempo? Nel romanzo d’esordio La ferita dell’aprile, prevale ancora una narrazione più realistica. Gli stessi eventi storici entrano nel libro in modo diverso da come accadrà per esempio nel romanzo successivo Il sorriso dell’ignoto marinaio, che ha pure una forte carattere visionario.

VC:

Sì la visionarietà è una forma di fantasia…

FR:

Qualcuno ha parlato anche di incrocio fra memoria e profezia.

VC:

Sì. Per quanto riguarda il romanzo d’esordio, naturalmente era un libro di ricordi, il tono era ironico e talvolta sarcastico, era una ribellione ai padri e a tutto ciò in cui loro avevano mancato; ma dal primo, uscito nel ’63, al secondo sono passati tredici anni. Il mio silenzio era dovuto al fatto che stavo riflettendo su quella prima esperienza di restituzione dei ricordi personali e anche su quello che sarebbe stato il mio futuro letterario. A cavallo degli anni ’60 Pasolini ci disse cos’era successo in Italia, io avevo studiato molto e quindi ho intrapreso la strada del romanzo storico metaforico dopo la restituzione dei miei ricordi di adolescenza.

FR:

Lei è uno scrittore che ha dato molto alla lingua italiana. Cosa ci può dire su questo, specialmente sulla mescolanza fra l’italiano e i dialetti; cosa questa che mi è sempre apparsa molto interessante.

VC:

Sì, le dicevo che in quegli anni di silenzio avevo riflettuto molto sul momento storico che stavamo vivendo e anche sulla trasformazione della società italiana, quella che Pasolini chiamava la mutazione antropologica, che era anche e soprattutto una mutazione linguistica. La lingua italiana stava diventando orizzontale e anch’io ho sentito l’assillo che hanno tutti gli scrittori da Dante in poi… È sempre l’assillo delle lingua. Anch’io mi sono domandato in quale lingua scrivevo e ritornando in Sicilia con la mia memoria ho capito che lì – un po’ in tutta Italia, ma in Sicilia soprattutto perché c’è stata una stratificazione di civilizzazioni (io non le chiamo dominazioni) – c’erano dei giacimenti linguistici importanti. Ho pensato che andasse recuperata anche la memoria linguistica e quindi anche dei vocaboli che esistono nel dialetto siciliano, ma senza scadere nella regressione dialettale, secondo l’esempio che ci avevano dato il plurilinguismo gaddiano, oppure il romanesco pasoliniano. Io ho pensato che andassero recuperati vocaboli provenienti dall’arabo, dal greco dallo spagnolo e di italianizzarli, farli emergere ma innestandoli sempre nella lingua centrale. Oltre che della mia memoria linguistica mi sono servito dei vocabolari siciliani dei termini arabi nel dialetto siciliano. C’è per esempio un dizionario prezioso di padre Gabriele da Aleppo, sulle parole arabe presenti nel dialetto siciliano. Proprio per un’esigenza di memoria e anche di memoria linguistica, dal momento che questa nostra lingua, a causa della mutazione antropologica, stava perdendo purtroppo quella che Leopardi chiamava l’infinito che aveva in sé. Ecco io credo che sia un dovere dello scrittore, del poeta di recuperare anche la memoria linguistica.

FR:

Infatti leggere un romanzo come Retablo, per esempio, è anche un po’ immergersi in una storia della lingua. Sempre a questo proposito cosa ne pensa dei manifesti in difesa della lingua che periodicamente sono stilati?

VC:

Il manifesto serve come allarme, ma è un po’ una lotta con i mulini a vento. Questa nostra lingua è stata distrutta dai mass media; inoltre l’italiano, diversamente dal francese o dallo spagnolo che hanno dei bacini di parlanti molto vasti, è parlato solo in questa nostra stretta penisola. Siamo invasi continuamente dall’americanismo. Credo che lo scrittore abbia il dovere, al di là dei manifesti, di difendere questa nostra memoria linguistica e sapere cosa ci sta dietro. Una cosa che cerco di fare è anche operare una scrittura palinsestica – così la chiamo – e cioè una scrittura su altre scritture. Nella mia scrittura ci sono sempre citazioni e recuperi di altri scrittori o poeti, a volte più esplicite a volte meno.

Mi ricordo, a questo proposito, la polemica fra Leopardi e Niccolò Tommaseo – che non amava Leopardi – e definì la sua poesia un palinsesto mal cancellato. Il povero Leopardi si offese terribilmente e scrisse un saggio contro Tommaseo; ma la scrittura deve essere palinsestisca!

FR:

Rimanendo alla lingua, anche per lei si può parlare di plurilinguismo…

VC:

Sì qualcuno ha parlato, nel mio caso, anche di plurivocità, nel senso che riporto nella narrazione anche altre lingue. In Sicilia, per esempio, ci sono sette isole linguistiche. Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio ne riporto una che ancora esiste: il gallo italico o medio latino. Si tratta di una lingua che hanno portato i Normanni con le truppe mercenarie raccolte nella pianura padana: finita la riconquista, come accade agli immigrati, si sono chiusi nella loro comunità e hanno conservato la lingua. Ne parla anche Vittorini in Conversazione in Sicilia, precisamente del gran lumbardo che parlava con la ü francese. Nel finale del libro (Il sorriso dell’ignoto marinaio, ndr.) quando riporto le scritte sul muro dei carcerati, quelli sono esempi nella lingua gallo italica.

FR:
Un programma linguistico più dantesco che manzoniano…

VC:

Certo, certo. Dante parla delle due lingue: quella di primo grado che impariamo in casa e la seconda che lui definisce grammaticale. Lui dice però con un bel ossimoro che la più nobile è la lingua volgare, che era nata in Sicilia.

FR:

Retablo Mi porta a un’altra considerazione. In alcuni momenti mi ha ricordato Fiori blu di Queneau, con una differenza fondamentale però: la qualità pittorica del testo, assente invece in Queneau. Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio, i protagonisti sono tanti, ma anche in quel caso si parte da Antonello da Messina e dal suo quadro. Ecco, cosa rappresenta per lei la pittura?

VC:

Per me è un’esigenza di equilibrio fra svolgimento nel tempo e lo spazio. Per me la parola, come la musica, si svolge nel tempo, quindi ho bisogno di riferimenti iconografici e pittorici per equilibrare il tempo e lo spazio. Per me l’ispirazione della pittura è costante: a volte esplicita come è nei due romanzi che lei ha ricordato, a volte nascosta. C’è Guttuso e finanche pittori moderni come Ruggero Savinio, il figlio di Alberto. In Nottetempo, casa per casa, c’è tutto un brano in cui io leggo la pittura di Savinio in forma lirica. Sono delle figure che emergono dalle profondità delle spazio, come affreschi appena dissepolti. Mi interessano finanche pittori contemporanei; per esempio, uno che mi ha ispirato un’immagine è Mario Merz. Una volta vidi un quadro proprio in casa editrice Einaudi di cui ero collaboratore: in un suo quadro veniva raffigurata una lumaca che disegnava un tracciato che era una spirale e da lì sono partito.”Vidi una volta una lumaca…”

FR:

Milano e Palermo, Sicilia e Lombardia. C’è una continua tensione fra queste polarità e la sensazione che siano come due patrie dalle quali però lei si sente sempre anche un po’ esule.

VC:

Sì è proprio così, anzi più che esiliato mi sento estraneo negli anni. Ho fatto i miei studi a Milano e poi sono tornato in Sicilia perché avevo già concepito l’idea di diventare scrittore, dopo aver fatto il servizio militare. Avevo una laurea in legge, ma mi sono rifiutato di fare l’avvocato e ho insegnato diritto ed educazione civica nelle scuole agrarie. Ho insegnato per cinque anni e poi, riflettendo, ho pensato che quei ragazzi che si sarebbero diplomati in agraria sarebbero stati costretti a emigrare come i loro padri. Le racconto un episodio che non posso più dimenticare. Insegnavo nei monti Nebrodi, a Mistretta e Caronìa, che era poi l’antica Calacte… Mi colpì a Caronìa il numero di suicidi di donne che si era verificato in questo piccolo paese. Erano donne il cui marito era emigrato: la solitudine, lo sconforto le aveva portate a quel gesto. Riflettendo sulla loro vicenda anche la scuola mi sembrò una finzione. Consigliai molti di andare nelle scuole alberghiere, dove almeno avevano uno sbocco e non erano costretti a emigrare; alcuni l’hanno fatto. Poi però dopo cinque anni sono stato io a fare le valigie e a emigrare. Mi consigliai con due persone: Leonardo Sciascia e Lucio Piccolo. Quando ero libero andavo a Caltanissetta a trovare Sciascia e stavo lì dei giorni. Con Piccolo, invece, l’accordo era che andavo a trovarlo tre volte la settimana. Per me sono stati due riferimenti importanti. Ho anche fatto in modo di farli incontrare perché entrambi mi dicevano sempre di salutare l’altro. Sciascia una volta ha dichiarato che le due persone che più l’avevano colpito, fra le molte incontrate, erano Borges e Lucio Piccolo. Piccolo aveva una cultura sterminata. Mi diceva venga venga Consolo, che facciamo conversazione: la conversazione era che parlava sempre lui e io ascoltavo.

Lucio Piccolo e Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

Ho imparato molto. Insomma mi consigliai con loro e Piccolo mi disse no, no, non vada via perché quando si è lontani dai centri si ha più fascino. Lui parlava da barone che viveva isolato nella sua villa di campagna. Sciascia invece mi disse che se fosse stato giovane come me e non avesse avuto la famiglia, se ne sarebbe andato anche lui perché – mi disse – “qui non c’è più speranza.” Per me l’unica città possibile era Milano, ma quando tornai non la riconoscevo più. C’era stato il miracolo economico e ora c’era il ’68 e quindi molti fermenti. Si parva licet, ho avuto nei confronti di Milano lo stesso atteggiamento che ebbe Verga quando si trovò a Milano nel 1872, nel momento della prima rivoluzione industriale. Verga rimase spiazzato perché era un mondo che non conosceva e di cui gli mancava memoria e lingua. Però da quell’esperienza nacque la grande conversione verghiana. Anch’io rimasi spiazzato e quindi ho riflettuto su questa realtà milanese e su quello che stava accadendo. Da tutto questo nacque Il sorriso dell’ignoto marinaio, a tredici anni dal primo libro. Non sono tornato fisicamente in Sicilia come Verga, ma con la memoria sì.

FR:

Il Risorgimento è molto presente nei suoi libri e anche nelle opere di molti scrittori siciliani. Mi ha colpito molto il bassissimo profilo delle commemorazioni garibaldine.

VC:

C’è questa regressione verso i localismi e l’individualismo. Le racconto un episodio successo a Capo d’Orlando. Durante una manifestazione pubblica il sindaco ha fatto togliere da una piazzetta del paese la targa con il nome di Garibaldi, intitolandola poi al 4 di luglio. La data si riferisce a una battaglia navale che ci fu nelle acque di Capo d’Orlando fra arabi e normanni. L’anti italianismo è ormai dilagante. Il signor Lombardo, attuale Presidente della Regione Sicilia, ha chiamato Autonomia siciliana il suo movimento; ma la Sicilia è già una regione autonoma, lui intendeva un’altra autonomia e infatti ha fatto riferimento anche alla Lumbardia di Bossi. Siamo alla regressione, alla stupidità e all’ignoranza. Non capire cosa è stato questo evento memorabile che fu l’unificazione d’Italia, per cui morirono eroi e persone degnissime è molto grave. Garibaldi riuscì davvero a compiere il miracolo di unire questo paese campanilistico; che era poi il sogno dei grandi italiani da Virgilio a Dante a Machiavelli. Questa regressione localistica è tipica dei momenti bui della storia. Il Risorgimento aveva acceso molte speranza. Garibaldi era un socialista mazziniano, poi capì che l’unità era più importante, ma comprese che le cose non erano andate secondo le speranze e lui prese la via dell’esilio. Da quello scaturirono anche le rivolte, le vendette nei confronti di quelli che erano stati gli oppressori, i famosi gattopardi, i proprietari terrieri… La prima rivolta fu quella di Alcara di cui parlo nel mio romanzo. Non lo dico nel libro ma risulta che dopo avere domato la ribellione di Alcara gli emissari si spostarono a Bronte.

FR:

Infatti gli episodi sono molto simili.

VC:

Sì, sì, tutta la letteratura siciliana poi ha affrontato questo tema perché è un nodo cruciale. Da Verga a De Roberto. Con I vicerè De Roberto ci ha fatto capire cosa sia il trasformismo, fino a Pirandello e al nostro Lampedusa. Tutti hanno affrontato questo momento importante della storia nazionale .

FR:

Sciascia è stato per lei un punto di riferimento, ma nella sua narrativa e anche nella sua prosa, che non è mai del tutto disgiunta dalla narrazione, io trovo un riferimento anche alla tradizione europea del romanzo saggio e non solo a Sciascia.

VC:
Sì, il romanzo saggio; forse questo c’è di più in L’olivo e l’olivastro, la cui matrice, tuttavia, si trova nel nostos, il viaggio di ritorno, che è assolutamente antico. Colui che l’ha riproposto e insegnato di nuovo è stato Vittorini con Conversazione in Sicilia, che è un viaggio nella terra delle madri e della memoria, anche se poi se ne allontana di nuovo, sollecitato anche dalla madre stessa che lo esorta a fare il suo mestiere di tipografo e compositore di parole, cioè il suo dovere di intellettuale. Pensi che nel 1941 sono usciti contemporaneamente Conversazione in Sicilia e Don Giovanni in Sicilia di Brancati, che sono di segno opposto. In Vittorini c’è la rivisitazione del profondo della memoria e poi il ritorno ai suoi doveri di intellettuale. In Brancati c’è la regressione. Quando Giovanni Percolla ritorna dalla madre e dalle sorelle, mangia e poi si mette a letto a un certo punto afferma: “Un’ora di sonno è stata come un’ora di morte.” Il personaggio di Brancati rimane di nuovo prigioniero delle viscere materne.

FR:

Beh ci sta dietro il mito della grande madre mediterranea…

VC:

È curioso come tutta la nostra narrativa, a parte i grandi poemi come L’orlando Furioso e altri che hanno una geografia straordinaria, il romanzo dell’800 da Manzoni in poi, si svolge sempre in piccoli centri, nella piccola città, quel ramo del lago di Como, piuttosto che Vizzini o Acitrezza. Chi inaugura per la prima volta il movimento è proprio Vittorini e questo scaturiva anche dal rapporto che lui aveva con la letteratura americana. La letteratura inglese e americana è contrassegnata dal viaggio, dal movimento.

FR:

Lei è considerato un autore dal forte impegno civile; tuttavia, seguendola in alcune presentazioni mi ricordo anche il suo fastidio costante rispetto a una retorica dell’impegno. Cosa pensa dello scrittore che si impegna direttamente in politica, pensando anche all’esperienza di Sciascia stesso.

VC:

Mi sembrò allora a quel tempo da parte di Sciascia fosse doveroso accettare l’invito. Lui mi raccontò che dopo la sua elezione al Comune di Palermo, insieme a Guttuso e poi dopo le dimissioni, tutti lo invitarono a entrare nei rispettivi partiti. Lui accettò il radicale e mi disse che lo aveva fatto perché era il meno partito di tutti. Anch’io ebbi un invito in anni lontani a presentarmi al Senato per il PCI. Il segretario del partito mi telefonò dicendomi “ti devi presentare” e al mio rifiuto motivato con il fatto che dovevo lavorare mi disse “è un  tuo dovere”; ma io risposi che il mio dovere era quello di scrivere. Tuttavia penso che lo scrittore, come dice Roland Barthes, ha a disposizione anche la scrittura d’intervento, sui giornali, per esempio. Tutti i grandi l’hanno fatto: da Zola, che è stato il maestro con l’Affaire Dreyfus, a Pasolini, Moravia e Sciascia ecc. Io ho sempre praticato la scrittura d’intervento, ho scritto per L’ora di Palermo, l’ Unità, per Il Corriere della sera. Però la spettacolarizzazione mi disturba molto. Anche la manifestazione di Piazza Navona del giugno scorso, non mi è piaciuta, siamo all’indecenza. Gli intellettuali sono diventati i comici, oppure gli scrittori che fanno spettacolo. Purtroppo, se vivessero oggi, Pasolini, Sciascia, Moravia, non avrebbero più lo stesso impatto. I giornali sono in crisi , le case editrici sono in crisi, il nostro è un popolo che non legge più. Io ho definito quello italiano un popolo telestupefatto… È un’espressione che hanno ripreso in Francia: lo ha fatto Christian Salmon nella sua rubrica su Le Monde. Questo dei mass media e della televisione in particolare è stato una specie di tsunami provocato da questo signore che oggi è il capo del Governo. Anche il suo consenso è dovuto a questo mezzo di distruzione di massa che è la televisione, che è quanto di più volgare, stupido e ignorante che si possa immaginare.

FR:

Cosa c’è nei suoi programmi futuri?

VC:

È difficile parlare di programmi futuri. Sono tanti anni che taccio e non pubblico, scrivo di nascosto e nascondo. Ho un progetto di romanzo storico-metaforico che riguarda una storia di Inquisizione. Ho trovato dei documenti presso la biblioteca di Simancas in Spagna; naturalmente si svolge sempre in Sicilia e mi sembra che in questo momento di fondamentalismi religiosi di ogni tipo che rischiano di diventare teocrazie, che sono momenti terribili della storia umana, mi sembra che sia una storia da raccontare. Quando la smetterò di fuggire mi devo sedere a tavolino a scrivere questo libro.

RILKE – CVETAEVA – PASTERNAK

Rilke ritratto da Leonid Pasterenak

Introduzione

Il settimo sogno è un originale canzoniere amoroso in forma prosastica ed epistolare, in cui la commistione fra amour passion e amour de loinh è la cifra stilistica che lo contraddistingue e che rimanda all’analisi che Denis de Rougemont fa dell’archetipo che secondo lui è alla radice della concezione occidentale del sentimento amoroso: Tristano e Isotta.1 La forma particolare e originale del legame a tre fra Marina Cvetaeva, Boris Pasternak e Rainer Maria Rilke sta nel fatto che non si sono mai incontrati e che la loro tormentata e tormentosa relazione vive tutta sulla carta scritta, nel loro pensiero e sfera emotiva.2 Questo è il teatrino, a volte drammatico, a volte comico e in qualche caso miserevole, che peraltro contraddistingue la grande maggioranza degli epistolari amorosi che coinvolgono le vite di scrittori e artisti, tanto bravi e straordinari quando mettono i loro personaggi al centro di dialoghi e situazioni, tanto banalmente comuni quando diventano loro stessi i personaggi. Va da sé, inoltre, che esso è scritto da tre personalità fuori dall’ordinario. In ognuno di loro vi è qualcosa di abnorme: prima di tutto il perseguimento di un ideale romantico in cui arte e vita sono fusi insieme. A tale modello si sottrarrà Pasternak nel tempo della sua seconda vita artistica, Rilke morirà prima di poterlo fare, Cvetaeva vi soccomberà. Anche il 1926 ha la sua importanza, perché fu un anno emblematico nelle vite dei tre protagonisti. Rilke morì il 29 dicembre di quell’anno, Pasternak rinunciò definitivamente al progetto di raggiungere Cvetaeva in Francia; quest’ultima avrebbe poco dopo chiuso la sua stagione poetica. Il 1926, tuttavia, fu un anno cruciale anche per l’Urss e l’intera Europa, anche se gli effetti delle svolte in atto si sarebbero manifestati in modo tragico alcuni anni dopo. In Italia, il Fascismo si era ormai consolidato al potere dopo la crisi seguita all’assassinio di Matteotti e il varo delle leggi fascistissime nel biennio 1925-26. In Germania, la possibilità di una rivoluzione proletaria nella quale avevano sperato i bolscevichi al potere, era tramontata per la seconda volta nel 1923, mentre in Urss finiva il decennio eroico della Rivoluzione Bolscevica. Nell’anno successivo, quello del decennale, Stalin trionferà sui suoi oppositori interni al partito. Rivisti oggi sullo sfondo di queste vicende, i 4 mesi febbrili durante i quali l’epistolario prende forma appaiono come un tramonto boreale nel cuore di un’Europa che andava a rapidi passi in altre direzioni e verso nuove e più immani tragedie.

Le lettere del 1926

Premessa.

Da queste occorre partire e cercherò di farlo come se l’insieme di questa corrispondenza fosse una sorta di partitura teatrale che ha un prologo, uno sviluppo tematico che avviene in due momenti, separati da due intermezzi; infine l’epilogo tragico. Il tutto avviene in un arco di tempo talmente breve e concentrato, da poter dire che in fondo e del tutto casualmente, persino le unità di tempo e azione vengono rispettate; in un certo senso anche l’unità di luogo, visto che il mancato incontro finisce per proiettare nei testi medesimi il luogo per eccellenza in cui tutto avviene. 

Il prologo

Il 12 aprile, dopo l’esortazione ricevuta da suo padre Leonid, mentore occulto di questa triangolazione così particolare, Boris Pasternak scrive a Rilke una lettera piena di ammirazione.  Fra le altre cose, lo scrittore, che sa delle difficoltà in cui si dibatte Marina Cvetaeva a Parigi, lo mette al corrente della stima profonda che anche la poeta russa nutre per lui e lo invita a mandarle una copia delle Elegie duinesi. Infine, gli suggerisce di rispondergli tramite lei stessa oppure il padre Leonid. L’intento di Pasternak è duplice e molto concreto: dal momento che non esistevano rapporti diplomatici fra l’Urss e la Svizzera (dove Rilke risiedeva), la corrispondenza diretta era assai difficile: con Marina si sarebbe aperto dunque un secondo canale di facile comunicazione, dal momento che fra Urss e Francia esistevano normali rapporti diplomatici. In un’altra lettera, indirizzata questa volta a Marina, Boris dice di essere finalmente in grado di partire e di volerla raggiungere in Francia per poi recarsi insieme da Rilke. Il 3 maggio quest’ultimo scrive a Cvetaeva una lettera molto deferente, nella quale parla anche di Pasternak in termini lusinghieri. Cvetaeva risponde a Rilke il 9 maggio e a Pasternak (che le aveva inviato nel frattempo altre due lettere in data 20 aprile e 5 maggio), il 22. L’esaltazione di Pasternak per Cvetaeva cresce: è una passione che a volte si rivolge maggiormente alla poeta altre volte alla donna, in uno scambio fiammeggiante, confuso e simbiotico fra vita e arte. A questa esplosione di sentimenti lei non oppone un rifiuto, ma un atteggiamento che tende a lasciarli decantare. La lettera del 3 maggio di Rilke a Cvetaeva, è uno scritto assai deferente e formale nella sua prima parte. Si rivolge alla poeta con il Voi e, esaudendo la richiesta di Pasternak, le invia due copie delle sue ultime pubblicazioni, aggiungendo poi che presto ne invierà altre due per Pasternak : “se la censura li lascerà passare.

Poi aggiunge:

Sono così commosso dalla forza delle sue parole (di Pasternak ndr.), che oggi non riesco a scrivere più nulla, ma mandate il foglio qui accluso da parte mia, al Vostro amico di Mosca. In segno di saluto.”3

La lettera prosegue ricordando il suo viaggio in Russia di molti anni prima e l’amicizia con Leonid Pasternak. Poi accenna al suo soggiorno a Parigi durante l’anno precedente, dove alcuni amici gli avevano mostrato le poesie di Boris. Subito dopo, però, il tono usato da Rilke cambia repentinamente e tale mutazione pone fine al prologo.

Arte e vita

Ma perché – mi chiedo, perché non mi è riuscito allora d’incontraVi, Marina Ivanova Cvetaieva? Adesso, dopo la lettera di Boris Pasternak, credo che quell’incontro avrebbe potuto dare a entrambi, una profondissima, segreta, felicità. Potremo mai rimediare?”

La curatrice italiana del testo, Serena Vitale individua nell’aggettivo segreta e nella prontezza con cui Cvetaieva ne afferra il significato il “tragico leitmotiv dei loro rapporto.”4  

La lettera di risposta del 9 maggio è divisa a sua volta in due parti. Nella prima Cvetaieva, come aveva fatto anche Pasternak, dichiara immediatamente il suo debito letterario nei confronti di Rilke: 

Rainer Maria Rilke posso chiamarVi così? Ma Voi, poesia fatta carne, dovreste sapere…  che il Vostro nome non fa rima con la modernità… Viene dal passato o dal futuro, o da lontano...”

Dopo altre espressioni entusiastiche nei suoi confronti, scrive:

Non parlo dell’uomo Rilke (l’uomo è ciò cui siamo condannati!), ma del Rilke spirito che è anche più del poeta, è lui che io chiamo Rilke.”5

La lettera prosegue su questo tono fino al punto in cui affronta di petto il tema del loro mancato incontro:

Perché non sono venuta da Voi? Perché vi amo più di ogni altra cosa al mondo. È semplicissimo. E perché voi non mi conoscete. … E ancora, per voi sarò sempre una russa, …. C’è qui tutta la complessità della nostra troppo originale nazione: tutto ciò che in noi – il nostro Io – gli europei considerano russo… Lo stesso succede da noi con i cinesi, i giapponesi …” 6

La frase, di cui avevo già citato l’ultima parte, vista nel contesto della corrispondenza, assume altre valenze rispetto a quelle già indicate. Rilke, nella sua lettera, si attribuiva la responsabilità del mancato incontro: era una forma di gentilezza e di cavalleria, oppure lo pensava veramente? Fatto sta che, al contrario, Cvetaeva attribuisce a una propria scelta e al suo carattere russo il loro mancato incontro; sembra quasi che lei voglia metterlo in guardia rispetto a una complessità che forse all’altro sfugge. Infine, come va inteso quel Vi amo dopo ciò che aveva scritto prima rispetto all’uomo Rilke contrapposto al poeta e allo spirito? Dobbiamo prenderlo alla lettera oppure leggerlo come un esempio del romantico intrecciarsi fra amour passion e amour de loinh, o una metafora rivolta al poeta e non all’uomo?

In ogni caso, se Rilke avesse pensato a un incontro segreto fra loro due, la frase che segue sembra chiudere le porte a una tale possibilità:

Rainer Maria, nulla è perduto: l’anno prossimo (1927) arriverà Boris e verremo da voi, ovunque voi siate…

Tutto chiaro? Neppure per sogno perché alla fine di questa lettera ecco cosa scrive Cvetaeva:

Ho letto la tua lettera sulla riva dell’oceano e l’oceano leggeva con me….  Non ti disturba che lui l’abbia letta? Non ci saranno altri. Sono troppo gelosa (Gelosia – di te.).”7

La gelosia si riferisce solo al poeta o anche all’uomo? Perché ribadire una cosa che dovrebbe essere ovvia e cioè che nessun altro, se non l’oceano, leggerà le lettere che si scambiano loro due? Gli vuole far sapere, fra le righe, che non ne parlerà con Pasternàk? Le contraddizioni e i cambi di registro sono continui e, a volte, anche la sintassi sembra colta da un accesso di furore. Tale tumultuoso avvicendarsi di sentimenti che cozzano gli uni con gli altri, peraltro, è tipico di tutto il carteggio. La risposta di Rilke è del 10 maggio e questo fa sorgere il dubbio iniziale che egli abbia scritto prima di avere ricevuto quella di Marina, che è stata iniziata il giorno 9, ma completata il 10 e spedita quel giorno. Le apparenze ancora una volta ingannano, ma è anche evidente che uno dei due ha sbagliato a scrivere la data. Ecco come Rilke inizia la sua lettera del 10:

Marina, possibile che un attimo fa non foste qui? Oppure: dove ero io? Perché oggi … è soltanto il 10 maggio ed è strano che voi abbiate scritto questa data prima delle ultime righe della Vostra lettera… Voi pensate di avere ricevuto i miei libri il 10 (aprendo la porta come sfogliando le pagine) … ma proprio questo stesso giorno, il decimo di maggio, questo eterno giorno delle spirito, io ti ho accolto Marina, con tutta l’anima ,… sconvolta da te e dalla tua apparizione, quasi che il tuo oceano, che insieme a te leggeva, mi si fosse rovesciato addosso in un enorme flusso del cuore.

Non è davvero facile raccapezzarsi nel mezzo di questo linguaggio, ma due cose sembrano evidenti: Rilke aveva già letto la lettera di Cvetaieva, visto il suo accenno all’oceano, anche se rimane incerta la data di spedizione perché non può essere stata spedita e arrivata nel medesimo giorno: in questo profluvio di alti sentimenti sembra a volte che le lettere arrivino prima di essere state scritte! Nessun accenno a quel ti amo di Marina; anzi tutta la lettera si sintonizza sul tono usato da Cvetaieva. Siamo dentro la metafora, si sta parlando di un rapporto fra anime secondo i canoni più stringenti dell’amour de loinh. Serena Vitale ha ragione quando individua lo scorrere di un tragico leit motiv fra le righe di tutta la loro corrispondenza, ma forse tale tragicità sta in altro. Avviandosi alla conclusione, infatti, ecco come Rilke ritorna su un argomento toccato da Cvetaieva:

Ma stiamo parlando non dell’uomo Rilke e io stesso oggi sono in rotta con lui e con il suo corpo, con il quale prima riuscivo sempre a raggiungere un accordo così totale che spesso non capivo più chi di noi due fosse il poeta: …ma adesso l’anima è vestita in un modo e il corpo in un altro”.8

Quest’ultima parte della lettera, ancora una volta a tono, chiarisce forse definitivamente, che non vi è nessuna delusione dell’uomo Rilke il quale ha capito benissimo il significato di quel ti amo, almeno fino a questo punto della corrispondenza: ma le cose sono destinate a cambiare. Forse, nelle sue parole però, vi è qualcosa d’altro. Quando parla del proprio corpo con il quale si sente in rotta sta usando una metafora, oppure sta cercando di comunicarle qualcosa di più drammatico? Nella debordante lettera successiva, del 12 maggio, Cvetaieva parla d’altro e per un lungo tratto non è facile capire se le sia già arrivata la risposta di lui; lo si vedrà solo alla fine. Lo scritto è un lungo, disordinato e velocissimo viaggio nella poesia di Rilke, nel quale giudizi fulminanti si alternano a divagazioni non sempre facili da seguire, come quando scrive:

tu hai espresso i rapporti fra Giovanni e Gesù (inespressi in entrambi.)tu hai espresso i rapporti fra Giovanni e Gesù (inespressi in entrambi.)

Il centro del suo interesse, in questo scritto, sono proprio i Sonetti a Orfeo, più che non le Elegie:

Sono due notti che sprofondo nel tuo Orfeo...”

Dalla parte finale, si evince tuttavia che Cvetaieva non ha ancora ricevuto la lettera di lui perché si riferisce alla dedica contenuta in una lettera precedente.

Ci sfioriamo, con cosa? Con le ali...”

Commentando questo passaggio della dedica la poeta russa scrive:

Rainer, Rainer, tu mi hai detto questo senza conoscermi, come un cieco (veggente!). Le migliori frecce sono cieche… è arrivata adesso la tua lettera. Per la mia è ora di partire.

La freccia cui si allude non sarà per caso quella di Cupido? Lasciamo per il momento la cosa in sospeso. Il 13 maggio Cvetaieva scrive un’altra lettera, nella quale affronta tutti i temi che Rilke aveva ripreso qui e là in quella del dieci. Essa inizia con una citazione tratta da una delle elegie e subito dopo così prosegue:

E dunque: in modo assolutamente umano e con molta modestia: l’uomo Rilke. Ho scritto e mi si inceppava la lingua. Amo il poeta e non l’uomo. (Adesso sarai tu leggendo a incepparti.) Suona in modo estetico, cioè privo di anima, non spirituale,  (gli esteti sono quelli che non hanno anima ma solo cinque sensi… affilati…Posso scegliere io? Quando amo non posso e non voglio scegliere… Tu sei l’Assoluto. Finché non mi innamorerò di te (finché non ti conoscerò), giacché non ho nessun rapporto con te (non conosco la tua merce!) … No, Rainer, non sono una collezionista, amo l’uomo Rilke, giacché è lui che porta il poeta. Quando dico l’uomo Rilke, penso a quello che vive, che pubblica i suoi libri… penso alla moltitudine dei rapporti umani. Parlando dell’uomo Rilke penso a quella cosa per cui per me non c’è posto. Per questo tutto quanto ho detto dell’uomo e del poeta è puro rifiuto, rinuncia, perché non voglio che tu pensi che io voglia intromettermi nella tua vita… Il rifiuto per non dover poi soffrire.9

In questa lettera ci sono anche dei passaggi imbarazzanti: cosa significa la parola merce in tale contesto? Certi altri sembrano viziati da fraintendimenti assai seri (Rilke l’ha forse accusata, di essere una collezionista (di uomini immagino volesse dire. ndr)? L’ambivalenza viene riproposta continuamente a ogni paragrafo e la conclusione di una parte di questa lunga lettera suona così:

Caro, io sono molto obbediente. Se mi dirai: non scrivere, le tue lettere mi agitano, servo molto a me stesso – io capirò e sopporterò tutto”.10

Cosa ci fosse nelle precedenti lettere di Rilke che potesse farle scrivere una frase come questa non è chiaro; oppure è lei ad avere paura di continuare il carteggio e ancor più dei suoi sentimenti che stanno cambiando? Da questo momento in poi la lettera parla d’altro, con salti velocissimi da un argomento all’altro, senza una logica apparente che li tenga insieme. Sarebbe sbagliato tuttavia, notare solo questo perché, se si mettono l’una accanto all’altra tali affermazioni rapide e perentorie con altre di differenti lettere, il ritratto che Marina vuole dare di sé  ne esce ben delineato nei suoi tratti essenziali. Il suo parlare distratto e lontano da quella che comunemente si definisce realtà è in lei costante, così come l’affastellare, in una medesima frase, elementi disparati e casuali. Josip Brodskj in un saggio scritto su di lei dal titolo Nota in calce a una poesia ne fa un ritratto quanto mai acuto, in cui afferma fra l’altro:

… Per Cvetaeva la realtà è sempre un punto di partenza, mai di arrivo … Perciò si possono, specialmente in una lettera, affastellare gli elementi più disparati perché accomunati da un sentimento di sprezzatura nei loro confronti, che non concede alcuna rilevanza alle loro differenze.”11

Su questa osservazione di Brodskj, si chiude questo primo momento di sviluppo, cui seguono due intermezzi.

Primo intermezzo: l’amante

E Pasternak? Lo abbiamo lasciato in attesa delle risposte di Rilke, che non arrivano, e anche di altre lettere di Cvetaeva (e non arrivano pure quelle). Il 18 maggio, finalmente, riceve il famoso biglietto dedicato a lui e che il poeta boemo aveva messo nella lettera indirizzata a Marina e questo lo riempie di gioia: lo conserverà gelosamente per tutta la vita. Il 19 scrive a Cvetaeva.

Ieri ho ricevuto la tua trascrizione delle sue parole: il tangibile silenzio della tua mano. Non sapevo che una scrittura prediletta, tacendosi, potesse sollevare una simile musica funebre.”

La sensibilità di Pasternak è qui notevole, sebbene non dica all’inizio qual è il nucleo della sua delusione. Nel finale emerge il punto dolente: 

Io avevo pensato, se la sua risposta sarà acclusa alla lettera con la tua decisione, obbedirò soltanto alla mia impazienza, non a te né all’altra mia volontà. Ed è veramente bello che in quel momento voi due foste separati. Ma il fatto che tu ti sia separata da lui una seconda volta che insieme a lui sei arrivata non tu ma solo la tua mano, mi ha sconvolto e spaventato. Tranquillizzami… Marina.” 12

Contorto di certo, ma decifrabile. In sostanza Pasternak ha il sospetto che fra Cvetaeva e Rilke sia nata una corrispondenza che lo mette da parte. Cosa significa però quell’accenno al fatto che anche lei si sia separata da lui (da Rilke) una seconda volta? La lettera che Cvetaeva gli spedisce il 22,13 a prima vista, sembra una risposta a quella di lui del 19, ma le cose non stanno così e questo sarà fonte di equivoci a non finire. Nella prima parte, lo scritto è pieno di osservazioni come sempre rapidissime sui versi di Pasternak, poi continua con riflessioni che toccano i medesimi argomenti che Boris aveva trattato nella sua del 19. Tuttavia, poiché non è una risposta a quella di lui ma una riflessione autonoma, le argomentazioni di Marina assumono, agli occhi di Boris, dei significati in parte diversi rispetto a quelli che noi lettori onniscienti siamo nella condizione di capire meglio. Dopo avere ricordato quello che Pasternak le aveva scritto in una lettera di molto precedente: “Che cosa faremmo noi due se ci incontrassimo? Andremmo da Rilke“, Cvetaeva scrive:

“… Ma io ti dirò che Rilke è troppo preso, che non gli serve niente, nessuno… Rilke è un eremita, … Rilke ha superato Eckermann, non ha bisogno di intermediari fra Dio e il suo secondo Faust… Da lui sento soffiare su di me l’estremo gelo di chi possiede, e nei cui possedimenti, io, e a priori rientro...” Ohibò!14

Questo gruppo di lettere, a partire da quella del 19, è importantissimo perché solleveranno una montagna di fraintendimenti. Tuttavia, se pensiamo alla delusione profonda di Pasternak e alla sensazione di essere stato messo da parte, seppure non del tutto volontariamente, egli non si sbaglia affatto! La sua deduzione è indipendente dagli equivoci e dai fraintendimenti; questi ultimi, se mai, sono un’aggravante che aggroviglia ancora di più il suo vissuto e lo fa dubitare della limpidezza di Marina. Anche chi legge può avere qualche sospetto sulle reali intenzioni di Cvetaeva: si è davvero separata da Rilke una seconda volta, oppure sta cercando di convincere Pasternak a non cercare la relazione con il poeta perché vuole averne lei l’esclusiva?

Ho la vaga sensazione che tu mi stia allontanando da lui. E poiché io tenevo tutto insieme, questo significa che tu ti stai allontanando da me, anche se non nomini direttamente il tuo movimento.”

Seguono ampie dissertazioni letterarie, ma nella parte finale, ritorna sul tema dolente del rapporto fra loro tre in questo modo:

A Rilke adesso non scrivo. Lo amo non meno di te, mi dispiace che tu non lo sappiaCome mai non ti è venuto in mente di trascrivermi le dediche che ti ha fatto sui libri e in genere come è andata, ma anche delle lettere. C’eri tu al centro dell’esplosione, e di colpo ti sei fatta da parte.”15

Le gelosie che provoca l’amour de loinh sono terribili perché affollate di fantasmi! Il 23 maggio Cvetaieva risponde finalmente alla lettera di Pasternak del 19. Inizia con una lunga serie di divagazioni famigliari, poi il punto dolente emerge improvviso e rapido prima di approfondirsi:

Boris ti scrivo lettere sbagliate.”

Seguono altre divagazione e poi un discorso sul mare che lei non ama, che sembra essere una metafora letteraria per dire altro.  Verso la fine arriva al punto:

A Rilke non scrivo, è una tortura troppo grande. Mi fa perdere il filo mi distrae dalle poesie. Come trattare uno che è diventato il tesoro dei Nibelunghi? A lui non serve. E a me fa male. Non sono meno grande di lui (nel futuro) ma sono più giovane.”

Il 25 maggio, dopo avere ricevuto la lettera di Pasternàk, ne scrive subito un’altra in cui lo rimprovera di mettere se stesso davanti a tutto, ma non nega affatto la corrispondenza a due che c’è stata fra lei e Rilke; ma una frase nel finale che sembra escludere ogni nuovo contatto:

Di Rilke. Ti ho già scritto di lui. A lui non scrivo Adesso ho la pace della perdita totale – del suo volto divino – del rifiuto…”16

Si può pensare, leggendo la frase di cui sopra, che lei stia davvero ingannando Boris, tacendogli che la corrispondenza fra lei e Rilke non si è mai interrotta, ma ancora una volta i fatti smentiranno tale interpretazione. Nel momento in cui lei scrive della perdita totale e del rifiuto, Marina è convinta di quello che scrive, ma era caduta in un colossale equivoco, come si vedrà. Pasternak, peraltro, ha nel frattempo del tutto metabolizzato l’impossibilità di una relazione a tre: da un amore travolgente, nel giro di pochi giorni, si passa all’indifferenza. Come in Tristano e Isotta, quando i due non si cercano più, senza che se ne capisca fino in fondo la ragione:

Ti ringrazio calorosamente per tutto. Cancellami per qualche tempo dalla tua coscienza – per un paio di settimane ma non per più di un mese… Tra l’altro fino ad oggi non ho ringraziato Rilke per la sua benedizione. Dovrò rimandare anche questo...”17

Secondo intermezzo: l’equivoco.

Nella lettera del 17 maggio. Rilke aveva scritto a un certo punto:

Marina cara, tutto ciò riguarda me. Scusami… se di colpo smetterò di informarti di ciò che mi succede, tu devi scrivermi lo stesso ogni volta che avrai voglia di volare.”

La lettera si conclude così:

A non spedirti la mia foto del passaporto non mi ha costretto la vanità, ma la coscienza di quanto questa istantanea fosse casuale (anche una fotografia deve essere un Assoluto, perbacco! ndr), però l’ho messa accanto alla tua: abituarsi alla vicinanza dapprima sulla fotografia, d’accordo?”18

Potenza dell’amour de loinh!

Secondo Serena Vitale, con la quale concordo, Cvetaeva aveva letto nella prima delle frasi citate qui sopra un rifiuto da parte di Rilke. Cvetaeva aveva davvero inteso questo, ma si trattava di un equivoco del tutto ingiustificato, che a sua volta aveva alimentato, almeno in parte, tutto il polverone di fraintendimenti con Pasternak. Nella medesima lettera, infatti, Rilke le aveva pure detto di avere posto le due fotografie l’una accanto all’altra perché si abituassero alla vicinanza prima … – di che cosa se non di un incontro reale fra loro due? Credo che la spiegazione logica della frase usata da Rilke in quella lettera sia un’altra. Egli non era più sicuro di poterle scriverle perché le sue forze stavano venendo meno. Non c’era nessun rifiuto da parte sua; forse, soltanto un certo disagio nel comprendere che Cvetaeva non stava affatto capendo la situazione in cui lui si trovava. Dopo un silenzio di due settimane, lei torna a scrivergli il 3 giugno. Il tono è quello di sempre, pieno di entusiasmo e frasi amorose, di ambivalenze e di contraddizioni che diventano addirittura ingovernabili, tanto è l’ardore di questa lettera. In essa, fra l’altro, accenna a quello che lei ritiene essere un rifiuto da parte sua. Questa volta però, l’8 giugno, Rilke le risponde per le rime e sembra finalmente volere uscire dalla metafora in cui lui stesso – peraltro – si è chiuso per una vita intera. Abbandonerà finalmente il mondo degli dei per tornare fra gli esseri umani?

E così una mia parola gettata lì per caso che tu hai eretto davanti me, ha gettato questa enorme ombra e così ti sei allontanata da me…. Quella frase scritta da me non veniva dall’uomo di cui tu hai parlato a Boris… Troppo preso –  ah no Marina, libertà e leggerezza e solo l’imprevedibilità della risposta… E da qualche tempo probabilmente a causa delle mie condizioni fisiche io ho paura che qualcuna delle persone da me amate si aspetti da me una frase fortunata o la stessa perfezione del discorso… Oggi ti ho scritto una lunga poesia, seduto su un muro tiepido fra le vigne… Vedi, sono tornato.”19

Era tutto un equivoco, nessun rifiuto da parte di Rilke e la poesia cui allude è nientemeno che l’ultima delle Elegie, che le regala con una dedica. Leggendo questo passaggio, però, si può capire che quando Marina scriveva a Boris che Rilke non aveva più bisogno di nulla, non gli stava mentendo per gelosia e per volere soltanto per se stessa un rapporto con Rainer: lei era davvero convinta di essere stata rifiutata da Rilke! Il problema è che talvolta, la maledetta realtà si prende le sue rivincite sulle visioni oniriche e sulle suggestioni dell’amour de loinh! Lei incassa il colpo e gli risponde soltanto il 14 giugno: è una lettera di scuse, di grande amarezza, in cui mette di mezzo Pasternak quasi per discolparsi. Eppure, questa del 14 è la lettera in cui Cvetaeva riesce a dire di sé qualcosa che non le riuscirà di dire in molte altre occasioni.

Io siamo molte persone… forse innumerevolmente molte (moltitudine insaziabile) E una non deve sapere nulla dell’altra, disturba. Quando sono con mio figlio la cosa che ti scrive e ti ama non deve starmi accanto.

Alla fine, però, Cvetaeva sembra volere abbandonare davvero la metafora. Descrivendo le fotografie che ha ricevuto da lui ne individua una in cui vede questo:

“… Un uomo che parte e che per l’ultima volta …guarda il suo giardino Un uomo che  si lascia cadere fra le mani tutto il paesaggio (Rainer portami con te!)...”

Il ti amo che ritorna alla fine della lettera, sembra questa volta rivolto all’uomo. Rilke, dopo l’ultima lettera di Cvetaeva, le risponde con lentezza e lei di nuovo se ne adombra. In una nuova lettera a Rilke del 6 luglio, Cvetaeva parla di letteratura. Soltanto alla fine ritorna su loro due e forse indirettamente risponde a una frase di lui, quando aveva scritto che non sempre riesce a essere all’altezza di quanto ci si aspetta da lui:

Ma tu sei ancora anche un poeta, e dal poeta si attende de l’inedit …”20

Rilke risponderà il 28 luglio, molto tempo dopo, ma bisogna considerare che nel frattempo si era recato alla stazione di cura di Ragaz, dove lo attendevano i coniugi Thurm und Taxis. La lettera inizia con meravigliosa Marina e sembra fugare ogni dubbio. Riferendosi a Boris ammette che sia stato lui a indirizzarla verso di sé, ma poi “Sei apparsa tu pura e forte...”

Il prosieguo, dopo alcune osservazioni di carattere letterario, parla di nuovo di sé e della condizione in cui si trova. Dice di essere stato costretto ad andare a Ragaz per:

vedere i miei più vecchi e unici amici (Per quanto tempo ancora? Sono infatti di molti anni più vecchi di me…)

Quell’accenno alla tarda età degli amici e quel Per quanto tempo ancora è riferito a loro oppure è un modo metaforico di alludere alla sua di condizione? Marina risponde il 2 agosto e ribadisce in termini sempre più espliciti di volerlo raggiungere in nome di quel “nuovo io che può realizzarsi soltanto con te…, in te…” 21

Il 14 agosto lei gli scrive una nuova lettera dalla quale si evince che non ha ricevuto la sua del 28 luglio. Rilke le scrive il 19 agosto una lettera di grande amarezza. Le dice di essere meno sicuro di lei che si potranno incontrare, ma non le dice il perché. Le scrive pure che ha cercato sulla cartina quella piccola città dove lei gli aveva proposto d’incontrarsi. Lo vuole o non lo vuole? L’ambivalenza dei sentimenti è forte anche in lui, anche perché nella parte centrale della lettera emerge improvvisamente una preoccupazione che fin qui non era apparsa:

Il silenzio di Boris mi inquieta e mi amareggia: è possibile che la mia comparsa abbia sbarrato il passo al suo violento desiderio di te? E malgrado io capisca bene che cosa tu intendi quando parli delle due «non patrie» (che si escludono a vicenda), penso che tu sia severa e quasi crudele nei suoi confronti (e severa nei miei), esigendo che io non abbia mai e in nessun luogo altra Russia all’infuori di te! Protesto contro qualsiasi esclusione (essa ha radici nell’amore ma crescendo diventa di legno), mi prenderai così, anche così? “22

Rilke si rende conto per la prima volta della potenziale ambivalenza e anche ambiguità della situazione che si è creata fra loro tre, ma poi di nuovo, con il discorso delle due non patrie sembra riportare tutto nell’ambito letterario. Questa volta è lui che si sente escluso dal rapporto con Pasternàk e attribuisce a lei tale esclusione. Forse sarebbe bastato accorgersene prima e dirlo direttamente a lui, a Boris! Attribuire solo alla severità di Marina l’accaduto è troppo semplice perché implica una sicura e razionale volontà di raggiungere quello scopo; ma dovrebbe essere chiaro che in realtà non vi era in atto da parte di alcuno dei tre un’intenzione del genere. Il fatto è che vivendo dentro la metafora, prima o poi si fa di sé medesimi una metafora! In ogni caso, sembra ormai tardi per qualsiasi cosa. Forse alla fine uscirà la parola decisiva, quando Rilke, riferendosi alla possibilità di un incontro con Marina scrive:

Non rimandare fino all’inverno”23

ma purtroppo ancora una volta siamo nella metafora perché si tratta della citazione di un verso! Il 22 agosto Marina gli risponde dicendogli che se si vogliono davvero incontrare è lui che deve agire e lo invita a venire nella località che gli aveva indicato. Nella lettera, però, c’è un passaggio che la rende di nuovo ambivalente e indecifrabile:

Quanto più ci si allontana da me, tanto più si entra in me. Io non vivo in me stessa vivo fuori di me. Non vivo sulle mie labbra e chi mi bacia mi perde...”24

Rilke non le risponderà. Andrà a trovare (ed è il suo ultimo viaggio) Paul Valery a Ouchy, ma non si recherà al 3 di Boulevard de Grancy dove lei lo aspettava. L’ultima cartolina è di nuovo di Cvetaeva, il 7 novembre, con una vista su Bellevue a Parigi e dice semplicemente:

Caro Rainer! Io vivo qui. Mi ami ancora?”25

Rilke non le risponderà più, scriverà invece al vecchio amico Leonid Pasternak. Perché è arrabbiato con lei? No. La lettera spedita al padre di Boris, infatti, non l’ha scritta lui, ma la sua segretaria: egli sta salutando tutti gli amici, forse non è più in grado di farlo personalmente e quindi per pudore e per non farle capire cosa sta succedendo, non le dice nulla.

L’epilogo

Il 31 dicembre Cvetaeva scrive a Pasternak una lettera che inizia così:

Boris, Rainer Maria Rilke è morto.”26

Abituati come siamo al linguaggio barocco, questa lapidaria espressione suona come un urlo di dolore e di sgomento: è l’incipit di chi non si aspetta la notizia. I dettagli sulla sua morte, Rilke li affida ancora a Leonid Pasternak tramite la propria segretaria, Marina continua rivolgendosi a lui come se fosse ancora vivo. Boris non risponde alla lettera di Marina sulla morte del poeta. Un mese dopo, anche Cvetaeva riceverà una lettera dalla segretaria di Rilke, allegata a una copia del libro sulla Mitologia greca che il poeta aveva comperato per lei. Pasternàk risponderà alle reiterate lettere di Cvetaeva solo a febbraio e il tono, pur affranto e nonostante scriva che ora entrambi sono orfani, è segnato da una palpabile distanza. Per Pasternàk era la relazione fra loro tre la cosa più importante, ma forse vi è anche dell’altro. Continuarla solo con lei non avrebbe forse fatto risorgere i fantasmi di un possibile incontro reale di cui lui ormai aveva solo paura? Nella lettera del 9 febbraio,27 Cvetaeva sottolinea il tono burocratico della risposta di Pasternak e poi continua a parlare di poesia come se niente fosse. È una lettera lunghissima allegata alla quale c’è una sua poesia scritta nel giugno del ’26 e intitolata Tentativo di stanza. Infine, Cvetaeva accenna anche al requiem per Rilke che ha intenzione di scrivere e che avrà per titolo Novogodnee (Anno nuovo).28 Marina Cvetaeva cercherà di mantenere viva la corrispondenza e la relazione con Pasternak e non soltanto per ragioni letterarie. In fondo, seppure da lontano, lei li amava entrambi quei due uomini e in una lettera del ’30 scriverà a Pasternak una frase quasi analoga a quella che aveva scritto a Rilke nel ‘26 e cioè che Boris era la sola persona con cui avrebbe potuto ricostruire il proprio io sparso e disgregato in tanti pezzi. Pasternak non le risponderà più. Con Novogodnee, che Brodskj considera il vertice della poesia di Maria Cvetaeva,29 si chiude anche la sua stagione poetica: successivamente si dedicherà solo alla riflessione critica, mentre Pasternak inizierà una fase del tutto nuova del suo percorso artistico.

Ritratto di Mira Nakhman, 1913.

1 Denis De Rougemont, L’amore e l’occidente, Rizzoli, Milano 1998.

2 Cvetaieva, Pasternak, Rilke, Il settimo sogno. Lettere (1926), a cura di Konstantin Azadovskji, Elena ed Eugenji Pasternak. Edizione italiana a cura di Serena Vitale, Editori Riuniti, Roma, 1980.

3 Op.cit. Pag 19 e seguenti.

4 Ivi.

5 Op. cit. pp. 45-6.

6 Ivi.

7 Op. cit. pp. 47-8.

8 Op. cit. pag. 50-52.

9 Op.cit. pp. 52-57.

10 Ivi.

11 Iosif Brodskji, Il canto del pendolo, traduzione di Gilberto Forti, Adelphi, Milano 1987, pag. 238.

12 Op.cit. pp.65-70.

13 Op.cit. pp.71-74.

14 Ivi.

15 Op. cit. pag. 83.

16 Op. cit. pp. 81-84

17 Op. cit. pag. 78.

18  Op. cit. pp..60-64

19 Op. cit. pp. 93-4.

20 Op. cit. pag 136.

21 Op. cit. pp.153-56.

22 op. cit. pag. 160-1.

23 Ivi.

24 Op. cit. pp.162-3.

25 Op. cit. pag 165.

26 Op. cit. pp. 168-9

27 Op. cit. pag. 177.

28 Op. cit. pp. 177-88; l’intenzione di Cevetieva si trova scritta proprio nelle ultime righe della lettera.

29 Il testo di  Nuovo anno è pubblicato in Italia in diverse edizioni. Quella che ho scelto è compresa nella raccolta Marina Cvetaeva, A Rainer Maria Rilke nelle sue mani, a cura di Marilena Rea, con testo a fronte, Passigli Editori, 2012, pp. 44-57. Prediligo tale edizione perché raccoglie altre liriche e testi dedicati a Rilke, così da offrire un quadro più ampio del modo con cui Cvetaeva si è rapportata a lui durante tutta la vita. 

DI CHI È L’ERA?

Ezra Pound

A conclusione del lavoro critico su alcuni poeti e poete dell’universo letterario anglo statunitense, in quest’ultima parte viene affrontata una questione che è stata e continua a essere dibattuta da parte dei critici dei paesi di lingua inglse, ma che è  decisiva che chiunque si occupi della loro poesia.

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Nel numero speciale 26 del Wallace Stevens Journal del 2002, viene posta la seguente domanda: Pound/Stevens:Whose era? La domanda è anche il titolo del saggio introduttivo di Marjorie Perloff. Nel numero monografico della rivista ci si domanda, dunque, se il giudizio critico sulla poesia statunitense del ’900 possa essere sintetizzata come l’era di Stevens oppure quella di Pound.1 A proporre per primo il quesito fu Harold Bloom nel libro The poems of our climate, pubblicato a Londra nel 1977 in polemica con un altro libro di Hugh Kenner e intitolato The Pound Era. Nadia Fusini, nel suo saggio introduttivo alle Note verso la finzione suprema cita anche Frank Kermode, che sembra tenere una posizione intermedia nel senso che elogia molto le Note ma non si pronuncia sull’insieme dell’opera stevensiana; infine, il giudizio sintetico espresso da Northorp Fry, un altro decano della critica nordamericana, secondo il quale Stevens è: uno dei nostri poeti essenziali.2

In primo luogo e proprio leggendo il numero monografico, appare subito come la domanda sia un po’ troppo stretta anche per chi l’ha posta, dal momento che il nome di Eliot compare assai presto ed era inevitabile che ciò accadesse. Forse nell’interrogativo e sotto traccia (che emerge tuttavia qui e là anche in altri saggi), c’è anche il dover fare i conti con il senso di colpa nei confronti di Pound, per l’ostracismo che dovette subire e anche qualcosa di peggio: in certe università statunitensi il nome di Pound fu un tabù impronunciabile per lungo tempo.

Peraltro, se il punto di vista fosse quello europeo e si prendesse la Waste Land come emblema della crisi di un secolo o addirittura adottando il titolo di un libro assai famoso in quegli anni – Il tramonto dell’Occidente di Spengler –3 non vi è dubbio che per un europeo,  il ‘900 potrebbe essere definito come il secolo di Eliot.  

Tradizione e modernismo in Pound, Eliot, Stevens e Moore

Per Pound, le tradizioni sono una fonte continua di scoperta e ispirazione, per Eliot la tradizione era una scelta da compiere. Entrambi si rivolsero all’Europa ma le differenze sono notevoli. Pound sembra più che altro fuggire dagli Usa, trovando nel vecchio continente e in alcune sue regioni bellissime e periferiche – il Trentino e Rapallo –  l’alveo geografico protetto da cui poter spaziare verso ogni tradizione possibile. Il suo percorso mi ricorda, per analogia, la bottega del rigattiere. Pound ha seguito in modo estremo la prima parte della sentenza pronunciata da Borges  – un convitato di pietra sempre presente in questo studio –4 e cioè che per un argentino, come per uno statunitense, ovvero per due artisti appartenenti a nazioni giovani e senza tradizione, quest’ultima può essere trovata ovunque. Borges ha selezionato, reinventato, oppure inventato per selezionare, mentre Pound è stato un amorevole raccoglitore di tutto quanto incontrava nel suo peregrinare letterario. Il suo, tuttavia, non fu mai un atteggiamento di appropriazione, ma di salvaguardia, di custodia, di scoperta e anche di generosità nel mettere a disposizione di altri quanto andava raccogliendo un po’ dappertutto e, in fondo, senza una vera direzione. Del resto, lo sappiamo che nella bottega del rigattiere il kitsch e l’oggetto prezioso vivono l’uno accanto all’altro. La poesia di Pound è fatta di bagliori improvvisi, di intuizioni, di aforismi fulminanti all’interno di partiture complesse che s’avvicinano alla poesia visiva, come accade per certe incursioni – incomprensibili ai più – ma visivamente suggestive, dei caratteri cinesi e giapponesi nei suoi Cantos. Pasolini, durante un’intervista che gli fece e durante la quale Pound parlò peraltro assai poco, esprimendosi per brevissimi accenni distanti e lontani da tutto, sottolineava il dettato arcaico e barbarico della sua poesia, sia per la potenza che ne emanava, sia per una sorta di innocenza originaria, non mediata.5

Sarebbe perciò errato intendere come citazionismo il viaggio di Pound dentro i simboli e i tropi della poesia mondiale. L’amore per tutto quello che lo incuriosiva è un dato che va oltre la necessità di citare e Pound è stato anche per questo il miglior fabbro, espressione quanto mai felice, perché tutti sono passati in un modo o nell’altro dalla sua bottega di rigattiere e tutti se ne sono usciti con qualcosa. Si può dire che egli abbia nutrito, con la sua generosità, la poesia anglo americana di un secolo e basterebbe ricordare gli interventi fondamentali che suggerì a Eliot dopo avere letto la prima versione di Waste land. Si può obiettare a questa ricostruzione che anche in Pound si può rintracciare una tradizione prevalente, visto il richiamo a Dante – il primo miglior fabbro –  ma, ciò è vero con alcune precisazioni. Nel celebre Canto XLV, dell’Usura, egli si rifà a un cristianesimo talmente arcaico, da sfuggire a qualsiasi nuova codificazione.6

With Usura

With usura hath no man a house of good stone/each block cut smooth and well fitting/that design might cover their face,/

with usura/hath no man a painted paradise on his church wall/harpes et luz/or where virgin receiveth message/and halo projects from incision,/ with usura /seeth no man Gonzaga his heirs and his concubines/no picture is made to endure not to live with/but it is made to sell and sell quickly/with usura, sin against nature,/is thy bread ever more of stale rags/is thy bread dry as paper/ with no mountain wheat, /no strong flour/ with usura the line grows thick/wit usura is no clear demarcation/and no man can find site for his dwelling./Stone cutter is kept form his stone/weaver is kept from his loom/

WITH USURA/

wool comes not to market/sheep bringeth no gain with usura/Usura is a murrain, /usura/blunteth the needle in the maid’s hand/and stoppeth the spinner’s cunning. Pietro Lombardo/came not by usura, Duccio came not by usura/nor Pier della Francesca; Zuan Bellin’ not by usura/nor was ‘La Calunnia’ painted./Came not by usura Angelico; came not Ambrogio Praedis,/Came no church of cut stone signed: Adamo me fecit./Not by usura St. Trophime/Not by usura Saint Hilaire,/Usura rusteth the chisel/It rusteth the craft and the craftsman/It gnaweth the thread in the loom/None learneth to weave gold in her pattern;/Azure hath a canker by usura; cramoisi is unbroidered/Emerald findeth no Memling/Usura slayeth the child in the womb/It stayeth the young man’s courting/It hath brought palsey to bed, lyeth/between the young bride and her bridegroom/

                               CONTRA NATURAM

They have brought whores for Eleusis/Corpses are set to banquet/at behest of usura.

Con l’Usura

Con l’usura nessuno ha una casa di buona pietra/ciascun blocco finemente squadrato e adatto/a dipingerne la facciata,/con l’usura/nessuno avrà un paradiso affrescato sul portale di una chiesa/né harpes  et luz/o luogo dove la vergine ricevi il messaggio/e sia incisa l’aureola/con l’usura non ci sono Gonzaga, eredi e concubine/nessun dipinto è fatto per durare e vivere/ma per essere venduto e venduto in fretta/con l’usura, peccato contro natura,/il pane è avanzo irrancidito/secco come carta/niente segala, /niente farina buona/con l’usura il segno diviene greve/con l’usura non vi è confine certo/e nessuno può trovare la dimora in cui vivere/il tagliatore di pietra è allontanato dalla pietra/il tessitore dal suo telaio/

CON L’USURA/la lana non arriva al mercato/le pecore allevate non portano guadagno/l’usura pestilenza/Con l’usura/si ottunde l’ago nelle mani della ragazza/si arresta il telaio. Pietro Lombardo/non venne dall’usura, e Duccio non venne dall’usura/e neppure Pier della Francesca; Zuan Bellin non venne dall’usura/né fu dipinta La Calunnia./Non venne dall’usura Angelico; né Ambrogio Praedis/nessuna chiesa di pietra col marchio: Adamo me fecit./Né venne St. Trophime dall’usura/neppure st.HIlaire,/l’usura arrugginisce il cesello/arrugginisce l’arte e l’artigiano/corrode il filo del telaio/nessuno imparò a filare l’oro nel suo modello;/l’Azzurro ha un cancro con l’usura; il cremisi …./lo Smeraldo non trova il suo Memling/L’usura uccide il bambino nel grembo/trattiene il giovane nel corteggiamento/porta la paralisi nel letto, si sdraia/fra il giovane sposo e la sposa/

                                     CONTRA NATURAM

/Hanno portato le puttane  da Eleusi/cadaveri preparati per banchetto/agli ordini dell’usura.

Ciò che colpisce anche visivamente nel testo è la ripetizione ossessiva del termine usura, poi la ricchezza delle immagini. La parte più interessante sono il lessico e la grafia usate perché la lingua di questo testo non è l’inglese moderno, ma  quello arcaico – rusteth, findeth, per esempio – che si può far risalire a un’epoca in cui il Cristianesimo secondo Pound conservava una propria purezza originaria, non ancora inquinata dalla modernità, che per il poeta inizia proprio con i prestito di denaro a interesse. L’iconografia presente nel testo è più complessa perché spazia fino a Piero della Francesca e cioè in pieno Umanesimo, mentre sembra tenersi a una certa distanza dalle immagini che ricordano il pieno Rinascimento. Pound sogna un Cristianesimo che a rigore di logica dovrebbe essere precedente l’invenzione stessa del Purgatorio, dovuta alla necessità di salvare dalla dannazione assoluta un’intera categoria di professioni che si andavano imponendo: barattieri, banchieri, ecc. Il sogno rimane quello che è ma la potenza dei sui versi che rimane come monito nel tempo della necrofilia capitalistica che ci sovrasta.

Moore. Nei saggi dedicati all’opera d’arte, Karl Gustav Jung afferma fra l’altro che il grande artista è colui che fa sentire alla propria epoca ciò che più manca ad essa.8 È una definizione che calza a pennello per Moore e molto anche per Stevens. La prima natura riscoperta nel cuore di una civiltà che pensava di averla del tutto domata, è proprio la denuncia di un’illusione ottica assai pericolosa. Bisogna considerare, poi, che Marianne Moore morì nel 1972, ma che scrisse il corpus maggiore delle sue poesie in anni che vanno dal 1935 alla metà degli anni ’50, in un momento storico in cui – nonostante le distruzioni di due guerre mondiali – l’attenzione sui disastri ambientali non era ancora all’ordine del giorno. La sua natura e i suoi animali, però, sono tali perché colti nel loro habitat e con le loro caratteristiche di specie. Cani e gatti, uccelli in gabbia e altre specie troppo addomesticate non sono presenti nella sua poesia. Il suo modo di sentire il mondo animale e naturale è altrettanto lontano da certe pieghe ecologiste contemporanee, che cominciarono a imporsi successivamente alla sua morte. Pensando all’oggi, credo che sarebbe addirittura inorridita nell’osservare il processo sempre più irragionevole che attribuisce agli animali tratti antropomorfi che rasentano il grottesco e che sembrano voler trasportare le invenzioni di Walt Disney dal cartone animato alla realtà. Moore invita il lettore all’ammirazione e alla contemplazione del mondo animale, ma la natura per lei non è un giardino fiorito, ma piuttosto un’arena dove il conflitto e il confronto sono all’ordine del giorno; ma non la guerra, che appartiene solo agli umani. La sua profonda ammirazione del mondo animale può certo educare a un’etica del rispetto, ma prima di tutto a quella tipologia di rispetto che assegna a ciascuna specie il diritto di vivere secondo le proprie prerogative di speciazione.

La natura peraltro, è assai presente anche nella poesia di Stevens e in definitiva è proprio tale presenza in entrambi è fra le tematiche  che pongono fra i due ed Eliot una distanza irriducibile. Quanto al suo rapporto con la tradizione, Moore è forse la più eclettica, ma in un senso profondamente diverso dell’eclettismo di Pound. I suoi interessi per la divulgazione scientifica, per esempio, sono pari agli interessi letterari e questo le permette di usare un linguaggio poetico che ha un vasto retroterra nella scienza: l’esattezza di certe immagini viene da questo e Moore è fra i pochi poeti e poete del secolo scorso cimentarsi con linguaggi estranei alla letteratura in senso stretto.      

Eliot infine è il continuatore della tradizione che da Baudelaire passa per Laforgue, ma vi rimane intrappolato perché quella tradizione ha molti decenni alle sue spalle e non è già più la novità densa di futuro che era a metà del secolo precedente e lo stesso vale per l’ipocrita lettore, che Eliot riprende alla lettera come citazione. La dimensione urbana era stata esplorata in tutte le sue pieghe ed Eliot è l’ultimo a farlo e con lui essa diventa una totalità, dalla quale cerca di sottrarsi nei Quartetti dove, specialmente nell’ultimo e cioè in Little Gidding , è la provincia campestre e virtuosa a tornare al centro. Tuttavia, gli squarci di natura esistenti in Eliot si traducono quasi immediatamente in simboli religiosi: la rosa, il roveto ardente, o l’estate di San Martino. Oppure, ripensando ai versi iniziali di Waste land – Aprile è il mese più crudele – la natura è usata per farne immediatamente una metafora che sta per altro.

Quanto ai rapporti fra Eliot e Stevens, essi sono difficili da mettere a fuoco, prima di tutto per la voluta distanza che il secondo ha sempre posto fra sé e il mondo letterario del suo tempo. Eliot, in un’intervista riportata nell’edizione italiana dei Quartetti, a cura di Angelo Tonelli, l’intervistatore d’eccezione, il poeta polacco Milosz, lo sollecita a parlare di lui, ma egli finge di non accorgersene e passa oltre.9 Se si guardano i due percorsi, non vi è dubbio che la loro distanza sia assai grande e il fatto che qui e là si possano scorgere tematiche analoghe, appartiene di più al sentire comune di un’epoca che ad altro. Alcuni punti di partenza possono sembrare comuni – mi riferisco in particolare a Sunday Morning  se messo a confronto con alcune parti della Waste Land – A game of chess per esempio – ma sono somiglianze destinate a venir meno nel prosieguo dei loro percorsi. Stevens, al culmine della crisi di una civiltà, che anche lui sente ma con la quale non collude, si affida alla poesia e a dove essa lo porta, non a opzioni che le sono estranee. Gli esiti più alti del suo percorso si trovano alla fine della sua vita, sono cioè i frutti maturi di un’esistenza poetica che non è scesa a patti con il peso del mondo, ma è rimasta fedele a un’inspirazione originaria, che risponde solo a se stessa. Stevens, l’assicuratore anonimo, l’uomo della provincia americana, è forse l’unico poeta del ‘900, in Occidente, ad avere scommesso su una nuova sacralità della parola poetica, ma una sacralità tutta terrestre. Diverso il suo atteggiamento anche per quanto riguarda il rapporto fra poesia e interpretazione, poesia e critica. Anche Stevens si è cimentato con entrambe le discipline, ma se Eliot ha voluto sempre indicare ai critici cosa voleva dicessero di lui, Stevens fa esattamente il contrario e cioè li depista in continuazione. Memorabile, a mio avviso, è il modo in cui tiene tutti sulla corda, lasciando i critici discutere su un finto enigma: quella della famosa quarta sezione del poema Note verso la finzione suprema.

Harold Bloom


1 Il numero in questione è un’edizione speciale e monografica. I saggi esplorano diversi aspetti della questione e si aprono a valutazioni extra letterarie, come avviene per esempio nel saggio di Alan Filreis sull’atteggiamento di Stevens e Pound nei confronti della Guerra Fredda.

2 Wallace Stevens Note verso la finzione suprema a cura di Nadia Fusini, Arsenale editrice, Venezia 1987, pag. 9. La citazione viene ripresa anche alla pag. 49 nelle note al testo.

3 Il libro fu pubblicato nell’estate del 1918 e suscitò un’enorme impressione, dato anche il momento particolare della storia europea,  alla fine di una guerra disastrosa e di una pace che lo sarebbe stata ancora di più. 

4 In n questo stesso blog si trova un saggio su Borges dedicato però a uno solo dei suoi racconto:  Deutsche requiem.

5 Il link dell’intervista di Pasolini è facilmente reperibile su Youtube

6 Il canto dell’usura fu pubblicato nei Pisan Cantos.

8 Karl Gustav Jung, Scritti sulla letteratura e l’arte. Il testo è facilmente reperibile anche in rete.

9 T.S. Eliot. La terra desolata e Quattro quartetti.’ Traduzione e cura di Angelo Tonelli, Universale economica Feltrinelli, aprile 2000, introduzione e intervista.

ELIOT E L’ITALIA: OVVERO PRAZ, ELIOT, MONTALE

Questa parte del saggio fu pubblicata sull’annuario di Poesia Crocetti del 2002.

Eliot si è imposto lentamente in Italia. Non vi è alcuna sua influenza sull’avanguardia dei primi decenni del secolo, giudicata con sufficienza dai poeti più autorevoli del mondo anglo statunitense. Pound definiva il futurismo italiano un:

impressionismo accelerato, una schiuma vomitata da un vortice senza propulsione

e considerava ingenuo il ripudio della tradizione. 22

Quanto a Eliot, egli fu affascinato dalle affermazioni pirotecniche contenute nel Manifesto Futurista pubblicato da Le figaro nel 1909, ma non le prese mai alla lettera, anche se le userà con ironia e disincanto. La sua reazione anti romantica è più rivolta al tardo romanticismo inglese di poeti come Swimburne e Pater e ostile al sentimentalismo e all’autobiografismo nel linguaggio poetico; ma niente affatto demolitore della tradizione. Inoltre Eliot parte da Laforgue e dietro quest’ultimo ci sta Baudelaire; ma la sua visione della poesia attinge a un vasto patrimonio che si rifà all’antropologia e alle scienze e non soltanto alla tradizione letteraria. Infine il richiamo a Dante è quanto di più lontano si possa immaginare dai futuristi italiani.

Il nome del poeta comincia a circolare dopo il 1920, ma la fonte non è diretta: sono alcune riviste francesi a veicolarlo in Italia. La testimonianza di Montale è preziosa al riguardo. In un articolo del 1947 per la rivista L’immagine dal titolo Eliot e noi il poeta afferma:

Prima di allora [è il 1928 come dirà più avanti nello stesso articolo] non avevo letto di Eliot che una o due delle sue liriche giovanili, del periodo che fu chiamato laforguiano: Portrait of a lady e Prufrock.23

La rivista La Ronda lo ignora. È un nuovo periodico milanese nato nel 1925 (La Fiera letteraria) a occuparsi di lui. Si tratta di un foglio più eclettico e curioso, ma anche per i suoi redattori Eliot rimane un poeta difficile da digerire: Linati lo definisce:

poeta oscuro e critico perfetto.24

La svolta va ascritta all’opera di Mario Praz, il primo che dimostra di possedere gli strumenti culturali per cogliere l’importanza della poesia del poeta di Saint Luis. È il sostrato della poesia eliotiana ad affascinare lo studioso, uomo dai vasti orizzonti. È lui a tradurre Eliot per gli italiani; ma fa anche di più perché, da critico acuto qual è e da stratega delle lettere italiane di quegli anni in rapporto alla cultura europea, Praz diventerà il fabbro di una costruzione che avrà vita lunga e occuperà la scena nazionale, attraversando il primo novecento per approdare al secondo, quando Eliot s’imporrà definitivamente nel nostro paese.

È Mario Praz a proporre al poeta anglo statunitense la pubblicazione in Inghilterra di Arsenio. La poesia uscirà sulla rivista Criterion nel 1928. Il traduttore è lo stesso Praz e non si può non notare la stranezza, perché la prassi più consueta vuole che chi traduce un testo poetico sia un parlante la lingua di ricezione. Se fosse solo una stravaganza la cosa potrebbe non avere alcuna importanza; se non che, la versione inglese sembra fatta per forzare il testo montaliano fino a renderlo il più possibile affine, per atmosfera e stilemi, a una poesia di Eliot. Sebbene non sia il solo ad avere notato la cosa, cercherò di portare qualche prova per suffragare affermato, esaminando alcuni passaggi del testo e della traduzione a cominciare dall’inizio. 25

/I turbini sollevano la polvere/sui tetti, a mulinelli, e sugli spiazzi/deserti, ove i cavalli incappucciati/annusano la terra, fermi innanzi/ai vetri luccicanti degli alberghi./Sul corso, in faccia al mare, tu discendi/in questo giorno/or piovorno ora acceso, in cui par scatti/a sconvolgerne l’ore/uguali, strette in trama, un ritornello/di castagnette./

Praz traduce in questo modo:

/Dust, dust is blown about the roof, in eddies/It eddies on the roofs and on the places/Deserted, where are seen the hooded horses/Sniffing the ground, motionless/In front of the glistening lattices of the hotels./Along the promenade, facing the sea you slide,/Upon this afternoon of sun and rain,/Whose even close knit hours/Are shattered, so it seems, now and again/by a snappy refrain/of castanets./

Le peculiarità saltano subito all’occhio. L’attacco dà un’impronta molto decisa al testo grazie alle parole dust, eddies e roof, la cui iterazione è invece inesistente in Montale. È vero che il mulinello implica la polvere e anche il vorticare degli oggetti, ma la scelta operata da Praz di ripetere la stessa parola conferisce alla poesia quella particolare solennità che è tipica di molti attacchi eliotiani.

In The love song of J. Alfred Prufrock, ecco un esempio:

… /The yellow fog that rubs its back upon the window-panes,/The yellow smoke that rubs its muzzle on the window-panes,/

(La nebbia gialla che si gratta la schiena alle finestre,/il fumo giallo che si gratta il muso ai vetri delle finestre,/…) 26

Le citazioni potrebbero continuare a lungo perché l’iterazione è una caratteristica costante dello stile eliotiano.

Il procedimento di Montale va in senso addirittura opposto. Giocando sulla differenziazione dei significanti il poeta italiano sfrutta tutte le possibilità musicali della nostra lingua: mulinelli è parola che gli serve per un’allitterazione con cavalli nel verso successivo e non semplicemente per caricare di ulteriore senso l’uso precedente di turbini. Il testo di Montale è evocativo, mentre la traduzione di Praz è orientata nel senso della precisione e dell’esattezza. A parte l’arbitrarietà di ripetere ben tre vocaboli, anche l’uso del singolare roof, la prima volta, va nel senso della precisione; Montale usa il plurale tetti perché il suo paesaggio, per usare una metafora cinematografica, è visto in piano medio, non in primo piano come avviene in Eliot. Per il poeta anglo statunitense l’immagine o l’oggetto sono individuati e messi a fuoco. Ancora due versi di questa prima strofa:

/in questo giorno/ or piovorno ora acceso …/.

Praz traduce con:

 /Upon this afternoon of sun and rain/.27

A parte la bizzarria di questo giorno che diventa del tutto arbitrariamente un pomeriggio, la versione inglese elimina gli elementi aulici (piovorno), che Montale, un po’ artificiosamente, si porta appresso per poter costruire la rima con giorno, spezzando però il verso, così da renderne più martellante e ritmica la dizione. Anche ammettendo che un equivalente inglese di piovorno si possa trovare solo in un dizionario storico, Praz prende un po’ troppo la palla al balzo, eliminando anche la melodia dei versi. L’or ora montaliano, infatti, serve a dare un ritmo plastico all’alternanza dei diversi tempi atmosferici; insomma, mentre Montale gioca su ritmo, melodia e contrappunto, seguendo il suo istinto musicale che deriva anche dai suoi studi da baritono e dunque nutrito dal gusto melodrammatico così tipicamente italiano. Praz, invece, prosciuga il testo dai suoi tratti retro, rendendolo così più moderno. Nel prosieguo il traduttore ricorre più volte ancora alle iterazioni indebite, come quando usa per due volte le parole waves e moments nella seconda strofa. In questa parte tuttavia, un altro particolare balza all’occhio ed è la traduzione di nembo, che Praz traduce con wirlwind. La parola inglese indica il mulinello, il vortice, uno stato di turbolenza. È vero che tutta la poesia è percorsa dal movimento turbinoso degli elementi naturali che fanno da contrappunto all’immobilità di Arsenio, ma la parola ha pur sempre, in poesia, il suo primato e in questo caso Montale usa nembo.

Il poeta italiano ricorre spesso a parole auliche: abbiamo visto piovorno, ora nembo, figge nell’ultima parte. Anche il ricorso a parole tronche (fremer invece di fremere), si richiama a una tradizione classica, che fa da contrappunto all’introduzione di parole moderne e dal suono stridente: le castagnette della prima strofa e l’acetilene nella penultima. Già nei primi poemetti, i procedimenti iterativi conferiscono drammaticità e caricano di senso il dettato eliotiano e vorrei citare a questo proposito i versi che nel Prufrock si richiamano all’Ecclesiaste:

/And indeed there will be time/For the yellow smoke that slides along the street/Rubbing its back uopon the window-panes;/There will be time, there will be time,//To prepare the face to meet the faces that you meet;/There will be time to murder and create,/…

(E in effetti ci sarà tempo/per il fumo giallo che scivola lungo la strada/grattandosi il dorso ai vetri delle finestre;/ci sarà tempo, ci sarà tempo per preparare/una faccia per incontrare le facce da incontrare;/ci sarà tempo per uccidere e creare/…)28

In Montale, invece, il contrappunto fra parole della tradizione poetica e altre consapevolmente moderne risponde essenzialmente a esigenze linguistico musicali, con rimandi a luoghi ed episodi biografici. Viste da vicino le differenze sono più evidenti delle somiglianze, a meno di non ridurre tutto al comune uso, in entrambi, delle dramatis personae; sebbene, anche in questo caso, le diversità nel modo di farlo siano profonde perché diversi, sono i personaggi e perché l’uso che Eliot fa delle maschere non rimane lo stesso. Confrontiamo, per esempio, l’Arsenio di Montale con Prufrock e con  la Lady del Portrait.

Il personaggio montaliano discende un viale che porta sul lungomare, mentre il cielo è percorso dalla turbolenza tipica delle cittadine mediterranee in primavera. Il paesaggio è luminoso nonostante il vento e l’atmosfera tempestosa. Arsenio è un osservatore solitario, spiritualmente immobile, ma anche i suoi movimenti fisici sono impacciati. La vita gli scorre a fianco, rappresentata da elementi talvolta improbabili e curiosi (l’orchestrina di violini zigani); oppure dall’immagine tipicamente marina dei gozzi in rada. Arsenio continua la sua passeggiata fino a che la pioggia non scroscia improvvisa; anch’essa simbolo di una vitalità che non sembra scuoterlo. Il poeta, infatti, si rivolge a lui, nel finale con questi versi:

…/e se un gesto ti sfiora, una parola/ti cade accanto, quello è forse, Arsenio,/nell’ora che si scioglie, il cenno d’una/vita strozzata per te sorta, e il vento/la porta con la cenere degli astri./29

Consideriamo ora l’inizio di Prufrock e l’attacco della seconda parte di Portrait of a lady.

/Let us go then, you and I,/ When the evening is spread out against the sky/ Like a patient etherised upon a table;/ Let us go, through half deserted streets,/ The muttering retreats/ Of restless nights in one-night cheap hotels/ And sawdust restaurants with oyster-shells:/ Streets that follow like a tedious argument/ Of insidious intent/ To lead you to an overwhelming question…/ Oh, do not ask, “What is it?”/ Let us go and make our visit.// In the room the women come and go/Talking of Michelangelo.

( Andiamo dunque, tu ed io,/quando la sera è stesa contro il cielo/come un paziente anestetizzato sul tavolo;/andiamo, per certe strade semi deserte, /rifugi borbottanti/di notti inquiete in locande da una notte/e ristoranti con segatura e gusci d’ostrica:/ strade che seguono come una discussione noiosa/ dall’intenzione insidiosa/ per condurti a una domanda ineluttabile …/No, non chiedermi qual è./ Andiamo piuttosto, facciamo la nostra visita.// Le donne vanno e vengono nei salotti/parlando di Michelangelo Buonarroti./) 30

Sebbene il tedio, la proustiana paresse, ma anche lo spleen baudleriano, accomuni queste figure ad Arsenio, molto altro le differenzia. Il monologo di Prufrock ha un interlocutore diretto, il tu che si accompagna al protagonista. La drammatizzazione muove entrambi i personaggi e il poeta diviene un regista di scena, mentre nell’Arsenio di Montale è un io diretto a rivolgersi a lui nel finale. Diverso è poi lo scenario. I personaggi di Eliot si muovono nella città che Baudelaire ha intuito per primo come impasto di sordido e di sublime, di esperienza routinière e di possibilità d’incontri fuori dal comune. Eliot assume questa lezione e ridisegna la materia del poeta francese trasformandola in un inferno trasportato nell’al di qua. Lo vediamo dagli hotels che, nonostante le apparenti affinità sono invece affatto diversi. Alberghi a ore per incontri fugaci quelli del poeta inglese; più consueti quelli di Montale, dove i cavalli incappucciati danno alla scena tratti ottocenteschi, ma di un ottocento diverso da quello industriale e fuligginoso dei bassifondi parigini o londinesi.

Le due maschere eliotiane devono compiere una visita in un salotto borghese, dove impera il vaniloquio. È già presente in Eliot quel sentore di una società di massa intrisa di consumismo culturale e narcisismo salottiero, dove il protagonista è un demi monde che orecchia e ripete; del tutto assente in Montale.

In Portrait of a lady la protagonista è un equivalente femminile di Prufrock; cambia invece il modo della rappresentazione:

/ Now that lilacs are in bloom/She has a bowl of lilacs in the room/And twists one in her fingers while she talks./ “Ah my friend, you do noto know, you do not know/What life is, you who holds it in your hands;”/(Slowly twisting the lilacs stalks)/ “You let it flow from you, you let it flow,/And youth is cruel, and has no more remorse/And smiles at situations which it cannot see.”/ I smile, of course,/ and go on drinking tea.

(/Ora che i lillà sono in fiore/essa ha un vaso di lillà nella stanza/e ne attorciglia uno fra le dita mentre parla./”Ah, amico mio voi non sapete, non sapete/ cos’è la vita, dovreste tenerla in mano;”/ (Attorcigliando lentamente gli steli dei lillà.)/ “Voi lasciate che scorra, la lasciate scorrere,/ e la gioventù è crudele, non ha rimorsi/ e sorride delle situazioni che non vede.”/Io sorrido, naturalmente,/ e continuo a bere./) 31

Introducendo il virgolettato, Eliot non compie semplicemente un’operazione di tipo stilistico. Il monologo di Browning diventa dialogo drammatizzato, in un’alternanza di versificazione, dove gli intercalari fra i dialoghi sembrano quasi delle note di regia. Nel finale il poeta ride dei suoi personaggi e della pantomima messa in scena da questa lady, depositaria di pseudo verità; ma la presa di distanza è già avvenuta. Con Gerontion, Eliot, in un certo senso, uccide il personaggio di Prufrock per poterlo resuscitare spogliato dai tratti di compiaciuta identificazione che restano evidenti nelle prime produzioni. Quest’ultimo poemetto, infatti, annuncia il poema maggiore. La sintesi di questo percorso sarà proprio La terra desolata, dove gli elementi precedenti vengono fusi di nuovo e tenuti insieme da un sentimento tragico della crisi che si è, nel tempo, approfondito. L’ironia e lo scherzo sono presenti nel poema eliotiano, ma non sono più l’elemento dominante. Rimane il mondo infernale, ma si può convenire con Luigi Berti quando, riprendendo un’osservazione di Stephen Spender sulle affinità e differenze fra i due poeti, afferma a proposito della città che:

nella luce di questa poesia è evidente che come Baudelaire vi scorgeva tutto ciò che poteva essere condannato, Eliot, forse più modestamente, vi cerca tutto ciò che può essere salvato.32

Nel 1950, riflettendo proprio su questo percorso, in un saggio dal significativo titolo What Dante means to me (Ciò che Dante significa per me) e ristampato nel 65 nella raccolta di saggi To criticize the critic and other writings Eliot scriverà:

Credo che da Baudelaire imparai per la prima volta un precedente per le possibilità poetiche, mai sviluppate da un poeta nella mia lingua … della possibilità di fondere ciò che è realisticamente sordido e il fantasmagorico, la possibilità di giustapporre i fatti e il fantastico. Da lui come da Laforgue […] capii che il tipo di esperienza che aveva avuto un adolescente in una città industriale americana poteva essere materiale di poesia, e che la fonte di nuova poesia poteva trovarsi in ciò che era stato fin qui considerato intrattabile, sterile, impoetico33

Diverso il procedimento di Montale. Arsenio, pur avendo dei tratti che ricordano le dramatis personae eliotiane, rimane un episodio isolato, quasi estraneo alle atmosfere di Ossi di seppia. Tuttavia, si potrà obiettare che sono Le occasioni, e non l’opera d’esordio, quella che dalla critica è stata più avvicinata alla poesia di Eliot; anche se, come abbiamo visto, la pubblicazione di Arsenio in Gran Bretagna è un passaggio rilevantissimo nel rapporto fra Montale ed Eliot, sempre mediato da Mario Praz.

Vi accenna Mengaldo, ma anche altri hanno sottolineato tale contiguità. Barberi Squarotti si mantiene invece in una posizione più guardinga, limitandosi a osservare il superamento del soggetto. Secondo altri fra cui Eugenio Scarpati, il debito di Montale nei confronti di Eliot:

è culturale prima che poetico. 34

Il poeta stesso, dirà, riferendosi alle Occasioni, di una maggiore oggettività e pulizia, rispetto agli elementi spuri e soggettivi ancora presenti nell’opera precedente. Anche in questo caso, tuttavia, i dubbi rimangono forti. Una prima considerazione che s’impone è di carattere strutturale. Manca in Montale l’intento poematico, presente in Eliot, seppure nella forma aperta e cinematografica della costruzione a sketches. Visto nella sua prospettiva storica il poema eliotiano appare oltretutto più unitario di quanto non vedessero i suoi primi critici, colpiti dalla novità della partitura. Non solo la figura di Tiresia, ma anche la sequenza delle scene e il fitto intreccio di rimandi interni, costituiscono un insieme semantico molto strutturato. Infine, l’uso quasi esclusivo del tempo verbale al presente indicativo e il ricorso frequente alla drammatizzazione servono a cogliere tutto in presa diretta. La stratificazione dei significati non è data dalla memoria soggettiva dell’autore ma dalla compresenza oggettiva di elementi diversi e talvolta disparati; come quando, nel visitare una città gravida di storia, possiamo vedere nella stessa piazza una rovina arcaica, una chiesa del ‘500 e un palazzo in vetro e acciaio.    

Vediamo Le occasioni. Così inizia il primo testo, intitolato Vecchi versi.

/Ricordo la farfalla ch’era entrata/dai vetri schiusi nella sera fumida/su la costa raccolta, dilavata/dal trascorrere iroso delle spume./

La parola chiave di questo attacco è ricordo. Il tempo presente del verbo non è qui in presa diretta, ma introduce il punto di vista della memoria soggettiva; la scena successiva è evocativa, l’oggetto farfalla diventa subito simbolico. Nel prosieguo la memoria affolla la scena di altri personaggi: la madre del poeta, il tavolo ingombro dalle carte da gioco, i bambini che dormono. Siamo dunque in un interno, cui fanno da contrappunto: il faro pulsante dell’isola del Tino, il rombo sordo del mare delle Cinque Terre. La farfalla diviene l’elemento che porta la natura dentro questo tranquillo interno di una casa borghese. La sua presenza si fa minacciosa:

/Era un insetto orribile dal becco/aguzzo, gli occhi avvolti come d’una/ rossastra fotosfera, al dosso il teschio/umano; e attorno dava se una mano/tentava di ghermirlo un acre sibilo/ che agghiacciava./

Questo segno perturbante, che ricorda assai l’Acherontia Atropos di Gozzano,  sconvolge appena lievemente la scena, creando un forte momento epifanico; ma lo fa nel senso soggettivo proustiano non in quello oggettivo eliotiano. La farfalla di Montale assomiglia più alla madeleine. Il finale celebra un tema che appartiene alla poesia di tutti i tempi. La farfalla muore al contatto della luce e precipita su tavolo:

…/e fu per sempre/con le cose che chiudono in un giro/sicuro come il giorno,…/. 35

Il tema è quello della inesorabilità del destino che accomuna cose, animali, esseri umani. La caducità, colta nell’essere minaccioso e fragile di questa farfalla, viene estesa in questo bellissimo aprirsi finale del testo a ogni cosa, vivente o inanimata che sia; ma chi compie questo prodigio è ancora una volta, la memoria, parola chiave di questa parte. È la memoria a ingigantire il volo effimero di questa farfalla che viene associata al ricordo di una giovane morta precocemente – Annetta – che sarà anche la protagonista de La casa dei doganieri:

 /la memoria/in sé le cresce, sole vive d’una/vita che disparì sotterra: insieme/coi volti famigliari che oggi sperde/non più il sonno ma un’altra noia; accanto/ai muri antichi, ai lidi, alla tartana/ che imbarcava/ tronchi di pino a riva ad ogni mese,/al segno del torrente che discende/ancora al mare e la sua via si scava./ 36

L’elemento nuovo che Montale introduce è quello della noia che spegne queste vite, si direbbe, prima che abbiano compiuto il loro corso; questa novità si può collegare al tedio e all’immobilità di Arsenio e delle maschere eliotiane, ma è troppo poco per spingere le somiglianze oltre un certo limite. Non è qui in gioco, naturalmente, il valore di questa poesia e le suggestioni che essa sa riproporre su un tema così alto, ma l’affinità o meno con i procedimenti eliotiani. Piuttosto, è il Gozzano di Farfalle che viene alla mente.

Infine, due poesie intitolate Dora Markus e a un celebre Mottetto.

/Fu dove il ponte di legno/mette a Porto Corsini sul mare alto/e rari uomini, quasi immoti, affondano/o salpano le reti. Con un segno/della mano additavi all’altra sponda/invisibile la tua patria vera./Poi seguimmo il canale fino alla darsena/della città, lucida di fuliggine,/nella bassura dove s’affondava/una primavera inerte, senza memoria./ 38

Non mancano temi eliotiani in questo inizio: la primavera inerte, la lucida fuliggine, i rari uomini quasi immoti. Tuttavia è ancora una volta la memoria a tenere insieme tutto questo, il ricordo di un incontro con questa donna, di cui vi è una labile traccia in una lettera di Roberto Bazlen.

Dora, dal canto suo, ricorda il personaggio della signora nel boudoir di The game of chess (Una partita a scacchi), ne La terra desolata, ma ancora una volta le differenze sono più vistose. Così il testo di Montale:

…/Non so come stremata tu resisti/in questo lago/d’indifferenza ch’è il tuo cuore; forse/ti salva un amuleto che tu tieni/vicino alla matita delle labbra,/al piumino, alla lima: un topo bianco,/d’avorio; e così esisti!/.

Così quello di Eliot:

…/The glitter of her jewels rose to meet it,/From satin cases poured in rich profusion./ In vials of ivory and coloured glass/ Unstoppered, lurked her strange synthetic perfumes,/Unguent, powdered, or liquid – troubled, confused/…

(/lo scintillio le si levava incontro/ da astucci di raso versato a profusione;/ in fiale d’avorio e vetro colorato/dischiuse i suoi profumi stavano in agguato/ sintetici e strani/ unguenti ciprie e liquidi – turbavano e confondevano/…). 39

Sono gli oggetti a essere molto simili, ma è diverso il loro senso. Dora esiste attraverso di essi, come dice il poeta, mentre la signora del boudoir ne è pesantemente gravata. Nel prosieguo il sovraccarico di oggetti preziosi fra i quali la signora si muove descrivono in realtà una prigione dorata. Ed è allora che scatta una delle più commoventi e tragiche correlazioni dell’intero poema. Fra gli oggetti del boudoir vi è un quadro, il cui tema è il mito di Filomela, violentata da un re barbaro e trasformata in usignolo, condannato a cantare in gabbia. La relazione fra la rappresentazione nel quadro e la condizione di prigioniera introduce una drammatica messa in scena in forma di dialogo della nevrosi di cui soffre la donna.

Torniamo alla Dora Markus di Montale:

…/La tua irrequietudine mi fa pensare/agli uccelli di passo che urtano ai fari/ nelle sere tempestose:/ è una tempesta anche la tua dolcezza,/ turbina e non appare,/ e i suoi riposi sono anche più rari./ 40

Anche l’irrequietudine di Dora ha tratti nevrotici, ma essa rimane quello che è: una donna probabilmente mai incontrata, vista attraverso lo sguardo di un poeta che è anche un uomo. Nella seconda poesia a lei dedicata viene evocata la sua terra, la Carinzia, un luogo quasi esotico e lontano, irraggiungibile come forse la stessa Dora Markus. In definitiva il tema di Montale è l’incontro mancato con quella donna, ma non la condizione epocale di incomunicabilità fra uomini e donne in una relazione d’amore.

E veniamo al Mottetto

/La canna che dispiuma/ mollemente il suo rosso/ flabello a primavera;/ la rèdola nel fosso, su la nera/ correntìa sorvolata di libellule;/e il cane trafelato che rincasa/ col suo fardello in bocca,// oggi qui non mi tocca riconoscere;/ ma là dove il riverbero più cuoce/ e il nuvolo s’abbassa, oltre le sue/ pupille ormai remote, solo due/ fasci di luce in croce./ E il tempo passa./ 41

Il mottetto è nettamente diviso in due parti, sottolineate anche dalla più ampia spaziatura esistente fra la prima e la seconda. La prima scena ci presenta una serie di elementi vitali e primaverili: il susseguirsi delle stagioni e il ridestarsi della natura dopo l’inverno da un lato, l’attività dell’animale domestico ma ancora libero dall’altro. In questo contesto non privo di un sentore di arcadia campestre, s’insinua improvviso un elemento di morte suscitato dal nuvolo che si abbassa. Ancora una volta è il ricordo di due pupille ormai remote a sospendere sia il movimento, sia la primavera. La trasfigurazione finale che muta gli occhi di questa donna in due fasci di luce in croce non allude, nonostante le apparenze, ad alcuna redenzione perché non vi è rientro nella natura secondo il ciclo vita morte rinascita, ma neppure una scelta decisa verso la soluzione cristiana del resto guardata da Montale con scettico agnosticismo se non proprio con rifiuto. La chiusa, un dantesco colpo di maglio, allude alla condizione di transito di ogni cosa, ma s’impone per la sua forte connotazione ritmica e musicale, senza ulteriori apporti di senso. In realtà, considerando il Mottetto nel suo insieme, il poeta gioca sul contrasto piuttosto che sulla correlazione. La morte che si insinua, mediata dalla memoria, non è in dialettica con la vitale descrizione della prima parte, ma semplicemente vi si giustappone. Ciò che rende suggestiva questa poesia è la concentrazione di epifanie in uno spazio testuale così breve; sono momenti che hanno un forte valore intrinseco, secondo i canoni migliori della poesia simbolista, dalla quale non si distaccano. I singoli fotogrammi di questa scena, il lampo finale che dissolve tutto in una luce accecante e il richiamo al tempo lineare che trascorre ci portano in due direzioni precise: da un punto di vista filosofico verso l’esaltazione del tempo come istante epifanico piuttosto che come lunga durata alla Bergson e poeticamente verso il Mallarmè più rarefatto. Senza dimenticare mai, tuttavia, che il verso oggi qui non mi tocca riconoscere, con cui si apre la seconda parte del Mottetto, introduce un punto di vista squisitamente soggettivo.

Nei saggi raccolti sotto il titolo Il bosco sacro composti dal 1917 al 1920 riferendosi al processo che porta alla poesia, Eliot lo definisce in questo modo:

Si tratta di un processo di concentrazione, di una cosa nuova che ne risulta da moltissime esperienze che alla persona pratica e attiva non sembrerebbero tali … Le esperienze non sono rievocate … Il cattivo poeta è di solito incosciente laddove dovrebbe essere cosciente e cosciente dove dovrebbe essere incosciente. Tutti e due gli errori tendono a farlo personale.

È veramente curioso, a questo punto, rilevare come un poeta così legato alla biografia e ad alcuni luoghi privilegiati, venga associato a Eliot che critica apertamente l’irruzione di elementi biografici nel linguaggio poetico!

Negli studi di un italianista come Frederik Jones, forse perché più distaccato e capace di vedere le cose da una prospettiva più decentrata, ho trovato una ricostruzione convincente del percorso montaliano. Per lo studioso inglese il punto di partenza del poeta ligure è proprio Gozzano, da cui lo differenzia però

la fede continua e sostenuta nella validità dell’atto decisivo, capace di rievocare associativamente attraverso la memoria, le esperienze passate.

Continua ancora Jones: “… I suoi ricordi esteticamente sono spesso simili a certe evocazioni delle vecchie stampe gozzaniane, ma Montale ha su Gozzano il vantaggio di credere che la rappresentazione del patrimonio esistenziale del poeta possa avvenire in due modi: mediante immagini sia statiche sia dinamiche.

Nel merito più diretto della sua poesia essa:

Deve essere vista come una dialettica della memoria fondata su una religione nettamente immanente di sopravvivenza oltre la morte … Per lui una persona morta può essere immaginata solo come un insieme di atti incapsulati nel ricordo dei vivi … Tale conclusione è molto vicina alla teoria mallarmeana dell’essere ideale, ma in sostanza la sua forte carica emotiva l’avvicina piuttosto alle teorie proustiane della rievocazione memoriale ….

In tutto questo in nome di Eliot non compare mai. 42

Dal 1928 comincia una relazione intensa fra Montale ed Eliot, che culminerà anche in un paio di incontri e di cui Praz sarà l’assiduo tessitore. L’ambiente fiorentino è condizionato da questo sodalizio: l’esordio di poeti come Luzi, Bigongiari e Betocchi avviene in quest’atmosfera. Fino al ‘37 Praz e Montale saranno i soli traduttori di Eliot in Italia e i testi eliotiani suggestionano fortemente il poeta italiano. Negli interventi critici del poeta ligure sul suo interlocutore, Montale insiste sulla musicalità dei versi di Eliot, ma lascia in secondo piano i riferimenti culturali. Senza nulla togliere alla qualità musicale del poeta di oltre Manica, non è tuttavia per questo che si ricordano i suoi versi e comunque il suo rapporto con la musica è differente; le variazioni di Eliot sono jazzistiche, la sua cultura musicale, se vogliamo mantenere questo paragone, è eclettica e risente anche delle sue origini statunitensi. La musica di Montale è quella melodica e talvolta patetica del melodramma italiano e persino dell’operetta e in certe sonorità si possono riscontrare anche echi di poeti come Metastasio. Montale sembra assumere il calco eliotiano, ma non entra nel merito di problemi di poetica e quando lo fa le differenze sono evidenti. Due passaggi mi sembrano alquanto rivelatori. Dice Eliot:

L’unico modo di esprimere un’emozione in forma d’arte, consiste nel  trovare un correlativo oggettivo; in altre parole una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi che costituiscono la formula di quella particolare emozione …

Dice Montale:

Non si dà poesia senza artificio; il poeta non deve soltanto effondere il proprio sentimento, ma altresì lavorare la sua materia verbale fino a un certo momento e dare alla propria intuizione quello che Eliot chiama un correlativo oggettivo.”43

Eliot parla d’emozione in senso universale e non biografico, si riferisce a un vasto universo di riferimenti, non parla di effusione del sentimento, ma specialmente non usa la parola artificio. Per lui il correlativo oggettivo è necessario per dare il massimo di universalità possibile e d’impersonalità all’esito artistico, dove la parola va intesa nel senso del rigore della rappresentazione e non come è stato detto troppe volte nel senso della freddezza emotiva. Quando Eliot pensa al duro lavoro sul verso, ha in mente il fabbro e cioè il modo di operare dell’artigiano che se mai è un virtuoso, ma non un artificioso. In questo contesto, l’omaggio che Montale rivolge alla formula eliotiana, appare strumentale e infatti troverà modo di liberarsene anni dopo. Nella Intervista immaginaria. Sulla poesia del 1946 il poeta dirà fra l’altro, a proposito de Le occasioni, che esse erano l’espressione di:

… Un modo nuovo, non parnassiano, di immergere il lettore in medias res, un totale assorbimento delle intenzioni nei risultati oggettivi. Anche qui fui mosso dall’istinto non da una teoria (quella eliotiana del correlativo oggettivo non credo esistesse ancora nel ’28, quando il mio Arsenio fu pubblicato sul Criterion)…

Questa dichiarazione contiene una mistificazione e una palese inesattezza. Il poeta dice di essere stato mosso dall’istinto nell’andare in una certa direzione: si può credergli, visto che aveva parlato in altro contesto della poesia come artificio? Istinto e artificio mal si conciliano. Quanto all’inesattezza non è vero che nel ’28 la teoria del correlativo oggettivo non esistesse, in quanto essa fu formulata in un saggio del 1919; ma non è neppure vero che Montale la ignorasse! È lui stesso a lasciarlo intendere nella recensione scritta per un libro di Corrado Pavolini del 1929, quando riferendosi proprio al correlativo oggettivo lo presenta come quella:

famosa definizione che tende a fare di ogni lirica moderna un oggetto di poesia (il correlativo oggettivo) secondo la nota teoria di Eliot. 44

A parte l’interpretazione discutibile del dettato eliotiano, se la formula gli era così ampiamente nota nel ’29, è difficile pensare che la ignorasse completamente nel ’28! E comunque Montale se ne scorda nel ’46, mentre se ne ricordava benissimo nel ’31: perché? Forse perché per tutti gli anni ’30 le ali del grande anglo statunitense potevano essere un ottimo usbergo per il giovane (e poco noto in Europa) poeta italiano, mentre nel ’46 le stesse ali, divenute ancora più estese, potevano risultare ingombranti. In questo contesto l’intervista immaginaria che il poeta rivolge a se stesso va vista come un tentativo di dare organicità al proprio percorso, costruendo una propria originalità anche di poetica.

Concluderei questa parte ricordando un intervento di Oreste Macrì, letto in occasione del convegno internazionale sulla poesia di Montale tenutosi nel 1982. Soffermandosi proprio sui rapporti con Eliot lo studioso afferma:

È un momento cruciale questo dell’incontro con la poesia più che con la poetica di Eliot, sul quale Montale proietterà tutte le sue complesse e contraddittorie istanze, alla ricerca di una nuova sintesi superiore abbracciante i dati del lirismo e della prosa, del generico e del particolare del continuo e del salto,… della storia e dell’universale. I primi termini sono considerati dei dati …. L’universale ha gli stessi diritti del particolare; un mito, un simbolo, un rito antichissimi si possono sincronizzare e amalgamare in un contesto contemporaneo … Fu questa la riforma eliotiana, rielaborata da Montale alla buona, a punti di spillo, casualmente, con l’empiria e il buon senso dell’uomo della strada.” 45

La vera fortuna di Eliot in Italia inizia nel secondo dopoguerra, quando aumentano, fino a diventare numerosissimi, gli studi su di lui; specialmente dopo l’attribuzione del Nobel, avvenuta nel 1948. Da un semplice esame della bibliografia si evince subito come sia la sua opera di drammaturgo a tenere ancora banco. Il poeta è in seconda linea e della sua produzione poetica molti studi sono dedicati alle opere giovanili e alla Waste Land mentre quelli dedicati ai Quartetti sono in netta minoranza. Saranno le traduzioni successive di Sanesi, Tonelli e altri a renderli più noti, ma siamo negli anni’80 e ’90.

Un altro filone della critica si occupa di Eliot in quanto esponente di prestigio della cultura cristiana: si pensi ai lavori di Margherita Guidacci, Angelo Romanò e specialmente a quelli di Luigi Berti che insistono su opere meno considerate da altri, quali, per esempio Ash-Wednesday o pièce teatrali molto rappresentate in quegli anni come Assassinio nella cattedrale o Cocktail party.

Le ragioni per cui continua a piacere sono dovute a uno strano melange che riguarda certamente la sua poesia e la sua poetica, ma anche il personaggio che egli sembra incarnare: quello dimesso e scettico, tipicamente moderno, del poeta agli antipodi del vate romantico o d’annunziano.

Filtrata dalla vicenda montaliana, il modo in cui il poeta viene accolto risente ancora di più di quella predisposizione simbolista, tardo ermetica, oppure crepuscolare che continuava e per certi aspetti continua a gravare sulla poesia italiana. La sua diventa da un lato una poetica dell’aridità che fa tutt’uno con la figura dimessa del poeta uomo comune, prototipo di quell’uomo senza qualità che è una figura tipica dell’anti eroe novecentesco. Dall’altro lato una poetica dell’oggetto, che è cosa diversa dal correlativo oggettivo.

La citazione di un brano del saggio di Silvio Ramat sulla poesia di Bartolo Cattafi mi sembra a questo proposito emblematica, non tanto per quanto egli dice sul poeta siciliano ma per il modo di intendere Eliot:

Il mutamento operatosi nel rapporto soggetto-oggetto va posto in relazione a un processo tipico della letteratura novecentesca. È un processo che aveva conosciuto in Eliot e, contemporaneamente in Montale, la sua stagione decisiva, dando luogo in termini di riepilogo critico alla formula eliotiana del correlativo oggettivo.46

Oltre che a dare per scontato il parallelismo fra i due autori Ramat mette l’accento sullo spostamento fra soggetto e oggetto, a favore di quest’ultimo, intendendo con questo il superamento dell’io lirico o il suo decentramento. Non è questo però che interessa al poeta anglo-statunitense; tale dibattito sarà molto presente nella scena italiana. Per Eliot il correlativo oggettivo è un vero e proprio flusso che si manifesta in concrezioni semantiche ricche di rimandi interni, estrema forza sintetica e profondità antropologica, mentre la poetica dell’oggetto è, nelle sue espressioni migliori come è per esempio nei Mottetti montaliani, una sequenza di epifanie isolate le une dalle altre, quasi sempre legate alla soggettività di chi scrive e un’esperienza biografica sempre più o meno presente direttamente nel testo.

Sono questi in definitiva i modi in cui la poesia italiana assumerà la lezione eliotiana. Nei poeti italiani del secondo Novecento, dove sono riscontrabili tracce della sua poetica, è la selezione circoscritta di temi e oggetti corrispondenti ad operare, declinati in senso intimistico e minimalista; oppure assurti a emblemi di romanzi famigliari.

In Giudici, come in altri (perché il problema riguarda un ambito più vasto), si assiste addirittura al trionfo, non della poetica eliotiana, ma delle sue prime maschere, con le quali il poeta sembra identificarsi in toto, forzandone i tratti patetici. Accade così che il poeta proletario, che secondo la definizione di Giancarlo Ferretti sarebbe il protagonista della poesia di Giudici, è in realtà un hollow man piccolo borghese, erede decaduto e sempre più patetico dei protagonisti delle poesie dei maggiori poeti crepuscolari (Gozzano in Piemonte, Corazzini a Roma); oppure del travet che conobbe il punto massimo di celebrazione del suo decoro nel Demetrio Pianelli di Emilio De Marchi. 47

Siamo lontani dal crollo di una civiltà: crollano piccoli mondi personali e tutto si sminuzza fino alla polvere. Non siamo più allo specchio infranto, i cui pezzi, però, rimangono lì dove sono come evidenza visibile di una catastrofe: ogni piccolo pezzo diviene una totalità separata dagli altri.

Mario Praz

22 Questa presa di posizione di Pound è contenuta in una serie di articoli di polemica che la Review of the great English verse conduceva riguardo alle interpretazioni del movimento imagista, cui il poeta apparteneva. Essa è riportata nel libro  T. S. Eliot in Italia, 1925-1963 saggi e bibliografia’ di Laura Caretti. Bari, Adriatica Editrice, Biblioteca di studi inglesi, 1968. Pag. 13.

23 Le riviste in questione sono Commerce e Le navire d’Argent. La citazione di Montale si trova alla pagina 27 del testo  T.S. Eliot. La terra desolata e Quattro quartetti.’ Traduzione e cura di Angelo Tonelli, Universale economica Feltrinelli, aprile 2000. Pag. 33.

24 È il titolo di un articolo scritto da Linati per Il Corriere della sera del 13-1-1926.

25 Così si esprime per esempio Laura Caretti nel saggio dal titolo Eliot in Italia: “Si potrà così notare che Praz abbia in un certo qual modo interpretato in chiave eliotiana il testo di Montale e che sia anche ricorso in più punti alla accentuazione di alcuni tipici mezzi stilistici del poeta inglese.” Pag. 59.

26 Il testo di Arsenio è riportato da Eugenio Montale. L’opera in versi a cura di Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini, collana I Millenni, Giulio Einaudi editore pag. 81. La traduzione di Praz si trova nel testo già citato di Laura Caretti: T.S Eliot in Italia,  Pag. 58 e 59.

27 Ivi.

28 Da ‘T.S. Eliot. Poesie 1905/1920 per la cura e la traduzione di massimo Bacigalupo. Grandi Tascabili economici Newton Poesia. Newton Compton Editore. Pag. 30-31.

29 Tutte le citazioni tratte da poesie di Montale, oppure le note collegate ai testi sono ricavate Da I Millenni: Eugenio Montale. L’opera in versi. Edizione critica a cura di Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini. Einaudi Editore 1980.

30 I brani citati dalle due opere eliotiane si trovano in T. S. Eliot. Poesie 1905-1920, a cura e traduzione di Massimo Bacigalupo. Newton Compton editore 1995, pag. 30 e 41.

31 Op. cit. Pp. 30-41.

32 In T.S. Eliot. Poesie. Traduzione e prefazione di Luigi Berti, Guanda Editore, 1941 pag. 11.

33 In T.S. Eliot. Poesie. Traduzione e prefazione di Luigi Berti, Guanda Editore, 1941 pag. 11.

34 Da Atti del convegno internazionale sulla poesia di Eugenio Montale,  Librex editore. Anno 1982. I brani citati sono alle pagine 171 e seguenti per Barberi Squarotti, che intitola il suo intervento Montale o il superamento del soggetto. La citazione di Scarpati è alla pag. 255. Il citato saggio di Pier Vincenzo Mengaldo su Montale si trova in Poeti italiani del 900, Grandi classici Mondadori, 2001, pag. 517 e seguenti.

35 Eugenio Montale, Opera in versi I Millenni, edizione critica a cura di Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini, Einaudi, 1980, pp-112-13.

36 Ivi.

38 Op.cit. pag.125.

39 T:S: Eliot, Waste Land La terra desolata.

40 Eugenio Montale, op. cit. pag.125.

41 Op. cit. pag.151.

42 Tutte le citazioni sono tratte da La poesia italiana contemporanea da Gozzano a Quasimodo di Frederic Jones. D’Anna editrice, pagine 326-331-332-333. La citazione di Eliot da Il bosco sacro, rimanda a una nota  precedente, la numero 10 dell’introduzione che si trova nel blog..

43 La formulazione così chiara e sintetica della teoria del correlativo oggettivo, si trova nel saggio del 1919 Hamlet and his problem, dedicato alla tragedia shakespeariana. La traduzione qui riportata è di Luciano Anceschi ed è riportata nel testo di Laura Caretti T.S. Eliot in Italia alla pagina 75. Eugenio Motale in La Gazzetta del popolo del 4-11-1931.

La citazione si trova in Intenzioni. Intervista immaginaria . In questo caso l’ho ricavata dal testo di Giorgio Zampa intitolato Eugenio Montale. Sulla poesia, dove l’intervista si trova alla pagina 564.

44 Ivi.

45 Dal saggio di Oreste Macrì in Atti del convegno internazionale sulla poesia di Eugenio Montale’ Anno 1982, pag.421-22. Mi riferisco all’introduzione, scritta da poeta stesso, al testo T.S. Eliot tradotto da Montale. Collana All’insegna del pesce d’oro. Editore Vanni Scheiwiller, 195

46 Ivi.

47 Giancarlo Ferretti: La letteratura del rifiuto. A cura di Giorgio Barberi Squarotti, Giovanni Getto e Edoardo Sanguineti. Mursia editore. Il saggio in questione si sofferma più volte sulla figura del poeta proletario e va dunque considerato nel suo insieme.

T.S. ELIOT: IL TEMPO E LA STORIA

Apocalypse

La questione del tempo e del luogo, come abbiamo già visto abbondantemente, è cruciale fin dall’esergo eracliteo del Quartetti qui di seguito e nei primi cinque versi della prima sezione citati in precedenza:

Benché la parola sia comune a tutti, la maggioranza degli uomini vive come se ciascuno di essi avesse una saggezza particolare … La via che sale e la via che discende sono una medesima cosa.18 

All’inizio della prima sezione dell’ultimo Quartetto – Little Gidding –  Eliot riprende un tema molto celebrato di Waste land:

Midwinter spring is its own season/Sempiternal though sodden towards, sundown,/

(Primavera cresciuta  a mezzo inverno/è la sola stagione sempiterna/)19

Dall’aprile mese più crudele il poeta trova un approdo in questa immagine, in cui forse si può intravedere anche l’estate di San Martino.

La stagione sempiterna non può essere l’estate, perché la pienezza non appartiene agli umani, è solo un inganno. Nel caso di Eliot si può di certo parlare di una poesia del tempo di povertà molto più che per altri. Una volta indicato il tempo atmosferico e i colori di questo quartetto, autunnale seppure temperato, altrettanto importante è il luogo. Little Gidding, è il nome di un villaggio che fu sede di una delle più importanti comunità religiose inglesi, fondata nel 1600. Durante tutto il secolo, il villaggio fu visitato da personalità illustri del cristianesimo britannico; tuttavia non fu solo questo, ma anche il luogo dove il fuggiasco Re Carlo cercò rifugio prima di essere di essere arrestato e poi decapitato dalle truppe puritane e repubblicane di Cromwell. La storia entra quindi nel testo possiamo vedere nella scelta anche un modo da parte di Eliot per marcare la sua lontananza dalla rivoluzione repubblicana e puritana. Sempre nella prima sezione si chiarisce meglio in che modo: 

If you came this way,/taking the route you would be likely to take/From the place you would be likely to come from,/In you came this way in may time you would find the hedges/White again in May, with voluptuary sweetness./It would be the same and the end of the journey…

(Se tu in questi luoghi fossi giunto,/per una via qualunque, partendo da un luogo qualunque/in qualsiasi stagione e in ogni tempo,/sarebbe stato uguale …)

La comunità di Little Gidding, vista in modo retrospettivo, è per Eliot il luogo che ha riscattato il 1600 dai suoi orrori. Nella conclusione del primo movimento, il paese sede della comunità diventa l’Inghilterra intera, ma potrebbe essere qualunque luogo.

Simboli e riferimenti s’inseguono nel testo: da un famoso motto di Maria Stuarda, si passa a una figura storica del misticismo britannico, Giuliana di Norwick. La storia ha una duplice valenza nella partitura dei Quartetti: mentre la contemporaneità viene vista da Eliot nella sua concretezza e mai elusa, il passato viene rivisitato solo attraverso il filtro della comunità cristiana.20 Credo che in questa asimmetria vada riconosciuto prima di tutto la natura del suo misticismo, che il poeta traduce in una suggestiva raffigurazione rovesciata dell’Angelo della Storia di Walter Benjamin: quest’ultimo corre in avanti e ha gli occhi rivolti all’indietro, così da vedere l’immane distruzione che il suo procedere si lascia alle spalle. L’angelo di Eliot, corre all’indietro, ma i suoi occhi sono puntati sia sul passato alla ricerca di una prefigurazione di salvezza, sia davanti, così da vedere le distruzioni e le immani tragedie del momento: un angelo Giano quello di Eliot. Il rapporto con l’escatologia cristiana assume una declinazione molto particolare. Le origini statunitensi di Eliot mostrano la grana che sta sotto l’apparenza: la sua educazione avvenne pur sempre in un ambiente prevalentemente protestante. Che Dio è allora quello del poeta? Più che Gesù di Nazareth o quello dei Vangeli, è piuttosto il Dio dell’Apocalisse di Giovanni. Se il tempo storico non può essere redento, è tutta la vicenda umana a non poterlo essere. Eliot è però convinto che si possano rintracciare i segni, seppure intermittenti, di una prefigurazione futura della città di Dio e questo può avvenire solo all’interno della comunità cristiana: l’immagine della Tenda di Dio piantata nel mondo che si trova nelle visioni apocalittiche di Giovanni, può aiutare a comprendere la presenza di queste comunità che sono la prefigurazione di quanto accadrà alla fine dei tempi: Little Gidding è una di esse. Il mondo per Eliot è sempre uguale, la contemporaneità comprende in sé ed è sintesi – come ripete più volte nei suoi versi – di presente, passato e futuro. I tre momenti sono mescolati in un intreccio inesplicabile, che soltanto guardando all’indietro rivela qualcosa. Perciò i segni di questa prefigurazione non possono essere visti nel presente. Il Dio di Eliot è apocalittico sia nel senso proprio del termine e cioè di rivelazione, sia nell’altro senso – come nozione corrente – e cioè di catastrofe apocalittica che riguarda l’intera storia mondana. Eliot scelse l’Europa, non solo l’Inghilterra, perché scelse prima di tutto la tradizione cristiana europea, inscindibile dalla sua poetica, dal momento che ne costituisce il nerbo, intorno al quale ruotano come intorno a un sole: il neohegelismo di Bradley, l’antropologia di Frazer, il folklore britannico, qualche maldestra incursione nel salotto di Madame Blavatskj. È la cultura di un conservatore europeo cristiano, con punte reazionarie, qualche traccia di antisemitismo e di manie esoteriche, che ripete in termini moderni il ciclo dantesco. Dall’immersione nell’inferno metropolitano (Prufrock e i primi poemi) al purgatorio di Waste Land, fino all’ascesa e il tentativo di una nuova sintesi nei Quartetti. Ripercorrendo oggi l’intera sua opera, essa appare datata in tutte le sue parti. Essa s’inscrive in una narrazione del ‘900 che è diventata nel tempo un’icona ma anche un guardarsi allo specchio, per quanto infranto esso sia, tanto da assumere anche un aspetto di manierismo narcisista, che si coglie nelle sue citazioni, che sono citazioni e niente altro. La contemplazione della decadenza, alla fine, è diventata un meta discorso, al quale Eliot cerca di sottrarsi nei Quartetti, esorcizzando però il fatto che in definitiva, il cristianesimo europeo, in tutte le sue componenti, non è stato una risposta alla crisi di civiltà ma un aspetto della medesima: non bastano due guerre mondiali, dove i popoli cristiani si sono scannati come belve a sancirlo?22 Eliot cercherà di fare un passo indietro (o avanti) rispetto alla visione apocalittica che ispira l’ultimo Quartetto – Little Gidding – affermando, al contrario, che era ancora possibile ricreare la comunità cristiana anche nel presente storico. Il tentativo si risolse in una modesta proposta nel momento in cui il poeta pretese addirittura di trasportarla dal piano poetico a quello sociale. L’illusione di ristabilire una neo medioevalista comunità cristiana non poteva che cadere nel nulla.

Little Gidding

18 Ivi.

19 Op. cit. pag.63.

20 È facile notare che, qualora si fosse interrogati su che cosa ricordiamo del ‘600 inglese e quali siano i nomi e le vicende che per primi ci vengono alla mente pensando a quel secolo, pochi storici e forse neppure molti credenti indicherebbero ai primi posti Little Gidding e Giuliana di Norwick. Si ricorderebbero la morte d’Elisabetta, di Giacomo I e quella di Shakespeare, la cui celebrità costruita nel secolo precedente è ormai affermata; si ricorderebbero  di John Donne e di John Milton, di Cromwell e della decapitazione di Carlo. Molti si ricorderebbero Locke e Hobbes e anche di Newton, che muove i suoi primi passi nel secolo. Se proprio si dovessero nominare dei gruppi religiosi probabilmente si citerebbero i Diggers e i Levellers. Tutto questo non viene considerato nell’orizzonte eliotiano e non ritengo ragionevole né esaustiva l’obiezione che alla poesia non si debba chiedere la fedeltà alla storia: prima di tutto perché per Eliot medesimo non è così e tutta la sua riflessione sul correlativo oggettivo lo dimostra.  

22 Credo sia utile ricordare il dibattito che ci fu in merito alla necessità di inserire  un richiamo alle radici cristiane dell’Europa nello statuto che fonda l’Unione Europea. La proposta fu giudicata irricevibile, direi del tutto opportunamente, dal momento che le radici europee, assai meticce e frutto di contaminazioni disparate, o vengono nominate tutte (cosa assai difficile), oppure lasciate alla sensibilità di ciascuna cultura senza ulteriori precisazioni.

T. S. ELIOT: I QUARTETTI

East Coker

Nel secolo della relatività dei concetti di spazio/tempo, Eliot ritrova l’eterno come archetipo e su di esso proietta lo scenario del secolo tragico che sta alle nostre spalle. Versi come:

O Dark dark dark. They all go into the dark/The vacant interstellar spaces, the vacant into the vacant/ The captains, merchant bankers, eminent men of letters,/The generous patrons of art, the statesmen and the rulers,/Distinguished civil servants, chairmen of many committees,/ Industrial lords and petty contractors,/ all go into the dark.

(O tenebra tenebra tenebra. Loro/tutti vanno nelle tenebre, nei vuoti/spazi interstellari, il vuoto/va nel vuoto, capitani uomini/d’affari, eminenti letterati generosi/patroni delle arti, uomini di stato/ e governanti, insigni/funzionari, presidenti/di molti comitati, signori/dell’industria e piccoli/imprenditori,/tutti vanno nelle tenebre, e tenebre./) 7

colpiscono profondamente chi li legge per la loro semplicità, per l’immediatezza del loro impatto sonoro e d’immagine, per gli echi che rimandano. Questo è già stato detto eppure risuona come nuovo, non l’abbiamo mai udito in questa forma, sebbene ci sia familiare. Il letterato o chi è abituato a leggere molta poesia sentirà immediatamente l’eco di riferimenti scontati: dal memento mori, al Gongora di alcuni sonetti. Anche chi letterato non è sentirà in questi versi l’eco di qualcosa di profondo e smisurato. Cosa crea questo effetto? Penso che abbiamo qui a che fare con un procedimento che consiste nell’accostare due concretezze in una similitudine asimmetrica. L’elenco di personaggi normalmente considerati impoetici (presidenti, funzionari, piccoli imprenditori ecc.) si accoppia all’altrettanto concreta indicazione di un orizzonte (la tenebra) come luogo e destino di ciò che è stato nominato in precedenza. Tornando allora alla concretezza dell’elenco precedente, ci rendiamo conto della sua finitezza e storicità; dunque della sua intrinseca limitatezza. Quell’elenco di figure che, in altri contesti, incarnano il massimo della potenza mondana, vengono da questi versi sigillati e ricondotti alla loro piccolezza. Sono due concretezze diverse che si accostano; quella di ciò che è infinitamente piccolo (pur apparendo potente) e quella di ciò che è infinitamente grande. Poste l’una vicina all’altra esse creano un corto circuito mentale ed emozionale insieme, oltre che la forza delle immagini. La precisione di Eliot nell’elencare fa risaltare questi figure e le rende  immediatamente riconoscibili; non abbiamo a che fare solo con il concreto e l’astratto, tanto meno con il generico, ma neppure con qualcosa di spiritualistico e disincarnato. È solo dopo avere dato concretezza a ognuna di queste figure e al destino che le attende che il poeta può liberare la sua poesia fino a estendere la visione a quella che chiamiamo convenzionalmente condizione umana:

And all we go with them, into the silent funeral/

(E noi tutti andiamo con loro/nel funerale silenzioso/) 8

Torniamo ancora una volta per un momento a queste figure che corrono verso la tenebra. In esse riconosciamo facilmente la mondanità del ‘900; non manca nessuno e c’è da credere che se Eliot fosse stato vivo nel pieno degli anni ’90, il suo scrupoloso elencare non avrebbe trascurato operatori di Internet, gnomi della finanza, funzionari della Big Science, guru della Silicon Valley, anchor men televisivi, brokers e riviste di informatica. È la potenza del mondo e dei suoi burocrati e funzionari, che sfilano sotto i nostri occhi; vedendo il loro destino ultimo Eliot li riduce a ombre e li fa rientrare nella condizione che ci vuole sottoposti a una legge più grande dell’umana potenza; ma c’è anche qualcosa di più perché se pensiamo bene a questo elenco e lo riportiamo all’oggi, capiremmo subito come alcune di quelle figure sono già passate in giudicato. In sostanza, la potenza mondana muta più in fretta di quanto non si creda, anche all’interno del suo codice. Con la sua precisa nominazione Eliot dice indirettamente che il poeta troppo attento al mondo o che scambia l’attualità per la storia, può finire in un vicolo cieco e non potrà certo scrivere una grande poesia. Ciò che importa però non è tanto la ripetizione di una verità che il sermone cristiano ha tramandato nei secoli con le modalità che gli sono proprie, ma la rappresentazione scenica, l’effetto di contrasto fra tempo storico ed eternità, tempo umano e tempo cosmico; la percezione di entrambi è immediata e concreta perché incarnata nella storia così come in figure emblematiche.

Eliot ha descritto questo procedimento con l’espressione di correlativo oggettivo, un concetto complesso che è il risultato di un lento distillato di riflessioni.

Se si guarda al testo poetico va detto che con esso si ritorna alla concretezza della similitudine per arrivare alla metafora e all’allegoria. Nel procedimento di Eliot la metafora non è una similitudine cui siano stati elisi i connettivi, perché essa stessa è il punto di partenza; così come lo era in John Donne, cui Eliot deve più che qualcosa, anche se quando si pensa a lui i riferimenti sono solitamente altri, Dante in primo luogo.

La prima sezione dei Four Quartets, intitolata Burnt Norton, ripropone il nesso fra luogo, tempo storico ed eternità. Nell’esplorare tale relazione Eliot si trova nel mezzo di una contraddizione: per lui, nella storia così come nella politica che la produce, non vi può essere redenzione. Il poeta, dunque, deve aprirsi a una dimensione che travalica la vicenda umana. È da questo che nasce una concezione del tempo che Eliot vede come un’unità fra passato e futuro che precipita sempre nel presente:

/Time past and time future/What might have been and what has been/Point to one end, which is always present./  9

(Il tempo passato e il tempo futuro/ciò che poteva essere e ciò che è stato/Tendono a un solo fine, che è sempre presente./)

È una concezione vicina a quella espressa da Jung nei saggi sulla sincronicità; senza per questo ipotizzare alcuna influenza diretta o indiretta, sebbene la questione vada almeno accennata.

La definizione che Eliot stesso ha dato di correlativo oggettivo, si trova un passaggio celeberrimo e molto citato dei suoi scritti teorici. Nei saggi raccolti sotto il titolo Il bosco sacro composti dal 1917 al 1920, così scrive:

Si tratta di un processo di concentrazione, di una cosa nuova che ne risulta da moltissime esperienze che alla persona pratica e attiva non sembrerebbero tali … Le esperienze non sono rievocate … Il cattivo poeta è di solito incosciente laddove dovrebbe essere cosciente e cosciente dove dovrebbe essere incosciente. Tutti e due gli errori tendono a farlo personale.” E più oltre così continua: “L’unico modo di esprimere un’emozione in forma d’arte, consiste nel trovare un correlativo oggettivo; in altre parole una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi che costituiscono la formula di quella particolare emozione 10

Se restiamo alla lettera e allo spirito della citazione il correlativo oggettivo eliotiano non ha nulla a che vedere con il ricordo e la memoria in senso soggettivo (e la differenza con Montale, associato spesso ma arbitrariamente a lui, è cruciale), ma neppure con le epifanie joyciane o proustiane.

La memoria soggettiva, volontaria o involontaria che sia, presuppone un soggetto e un dato (oppure un oggetto ricordato), che riguardano soltanto la persona che ricorda. Naturalmente il grande poeta sa rendere universale le emozioni indipendentemente dal punto di partenza, ma qui non è in gioco il valore di un testo in sé, ma la comprensione di un procedimento: che rimane differente, perché il correlativo oggettivo necessita di una soggettività dal ruolo diverso. Il problema sta proprio nel soggetto che seleziona gli oggetti a partire da sé, mentre nel correlativo oggettivo il punto di partenza è dato da una concatenazione di oggetti o stratificazioni che portano in sé dei significati, che sono esposti allo sguardo e che hanno una relativa autonomia da chi li osserva.

Il caso più emblematico di procedimento soggettivo è quello ben noto della madeleine proustiana, un oggetto attraverso il quale il soggetto può accedere a un rimosso, facendolo rivivere; ma la madeleine di Proust sarà sempre la sua, mentre London Bridge o Burnt Norton non sono ricordi personali di T. S. Eliot, ma luoghi continuamente esposti alla vista che in un certo momento appare non semplicemente per ciò che mostra a tutti, ma trasfigurato.

Il correlativo oggettivo è altra cosa anche perché ha prima di tutto a che fare con lo spazio entro il quale sono collocati degli oggetti che portano su di essi il marchio della stratificazione delle età, come accade ai tronchi degli alberi quando vengono tagliati; mentre la madeleine proustiana ha a che fare solo con il tempo, la rimozione e lo psichico.

L’inizio della seconda sezione di Burnt Norton, più precisamente i primi quindici versi, sono un esempio emblematico del modo di operare del correlativo oggettivo eliotiano. Il primo verso è una citazione di Mallarmè, tratta da un testo che è un omaggio a Baudelaire:

/Garlic and sapphires in the mud/.

(/Aglio e zaffiri nel fango./)

In questo modo il poeta stabilisce una genealogia, una catena che instaura una fraternità poetica rivolta ai suoi sodali più vicini nel tempo: i modernisti di cui fa parte anche Laforgue, che ispirò i testi giovanili di Eliot.

Aglio, zaffiro e fango, tuttavia, sono anche tre parole molto concrete; c’è un carro che avanza faticosamente in questi versi, trattenuto da tre elementi che costituiscono la natura organica:

/Garlic and sapphires in the mud/Clot the bedded axle-tree./

(/Aglio e zaffiri nel fango./S’aggrumano sul mozzo confitto./)

Preso nel suo insieme il distico è una concrezione di senso e costituisce, come vedremo, il primo termine di paragone di una similitudine. I versi seguenti indicano una situazione intermedia:

 /The trilling wire in the blood/

(/Il filo vibrante del sangue/)

può essere il segno lasciato dal carro, metafora della condizione umana. Tuttavia questo filo non è soltanto doloroso perché:

/Sings below inveterate scars /11

(/Canta sotto le vecchie ferite/)

L’ossimoro rappresentato in questo sangue che canta, chiude una prima fase.

Il lenimento del dolore, il peso della storia, confluiscono in questo intreccio fra similitudine e metafora. I tre versi successivi diventano il secondo termine di paragone della similitudine: la raffigurazione e rappresentazione del corso degli astri. Anche in questi versi troviamo una condensazione che per forza sintetica richiama il primo distico:  

/The dance along the artery/The circulation of the lymph/are figured in the drift of stars/Ascend to summer in the tree/.12

(/La danza lungo l’arteria/la circolazione della linfa/Han figura nel corso degli astri,/raggiungono l’estate nell’albero./)

La concretezza della dizione (corso degli astri è un’espressione molto comune), richiama sia i segni dello zodiaco sia le costellazioni. Ancora una volta due concretezze asimmetriche creano un effetto di moltiplicazione del senso. Lo zodiaco e le costellazioni diventano il luogo su cui si proiettano le vicende umane; come su una tela simile a quella dove Aracne aveva rappresentato le vicende che riguardavano gli dei. Il soggetto del passaggio alla seconda parte è una danza complessa, attraverso l’arteria in cui circola la linfa vitale. Essa ha il potere di ascendere nell’albero e noi – elemento umano che compare per la prima volta nel testo – ascendiamo più in alto dell’albero stesso. In tale ascesa:

/We move above the moving tree/In light upon the figured leaf/And hear upon the sodden floor/Below, the boarhound and the boar/Pursue their pattern as before/But reconciled among the stars./ 13

(/Noi muoviamo al di sopra dell’albero/In moto/nella luce sopra le foglie/Istoriate/E udiamo sul suolo bagnato/ Lì sotto, il veltro e il cinghiale/Continuare la trama di sempre/ ma riconciliati tra gli astri./)

Ancora una volta torna in questi versi che chiudono i primi quindici una forte concentrazione di elementi concreti e simbolici. Eliot cita Dante, suo primo maestro, ma ciò che importa è quel piano acquitrinoso che segue la legge di sempre. Siamo qui in presenza di una spiritualità impastata con il fango, il peso della storia; non un’entità disincarnata. Il mondo segue la legge di sempre, ma proiettato sulla sfera celeste esso appare riconciliato perché ricondotto a un ordine superiore. Tale ordine, tuttavia, non è semplicemente quello cristiano: non si tratta in sostanza di un’assunzione al cielo. La ciclicità cui si allude in questi versi coniuga la sapienza antica dello zodiaco con il mito cristiano; ma in una mescolanza che la poesia rende inestricabile.

L’inizio della seconda sezione termina dunque con l’indicazione di un luogo, o meglio di due mondi – l’uno terrestre, l’altro celeste – che diventano i due termini di paragone di questo fitto intreccio di similitudini, ma anche di metonimie.

Nel prosieguo, tale luogo della proiezione diviene l’immobile punto dell’universo che ruota, il perno di ogni senso; simile al punto di Lagrange fra la Terra e la Luna, dove le forze gravitazionali s’equivalgono così da creare una sorta di culla astrale. È il punto della rigenerazione, molto vicino al concetto di vuoto per il Tao Te Ching; ma può essere anche interpretato come motore immobile. Più che un dio personale siamo in presenza dell’energia cosmica:

 /And the still point of the turning world. Neither flesh nor fleshless;/ Neither from not towards; at the still point, there the dance is,/ But neither arrest or movement. And do not call it fixity,/ Where past and future are gathered. Neither movement from nor towards,/ Neither ascent nor decline. Except for the point, the still point,/ There would be no dance, and there is only the dance./

(/Al punto fermo del mondo che ruota. Né corporeo, né incorporeo;/Ne muove dà né verso; al punto fermo. Là è la danza,/Ma né arresto né movimento. E non la chiamate fissità,/Quella dove sono riuniti il passato e il futuro. Né moto da né verso,/Né ascesa né declino./Tranne che per il punto, il punto fermo./Non ci sarebbe la danza, e c’è solo la danza./)

Nel prosieguo della ricompaiono tutti gli elementi che ripropongono la drammaticità irrisolta del rovello eliotiano.

/But only in time can the moment in the rose-garden, The moment in the harbour where the rain beat,/The moment in the draughty church at smoke fall/ Be remembered; involved with past and future./ Only through time time is conquered./ 14

(/Ma solo nel tempo il momento nel giardino delle rose./Il momento sotto la pergola dove la pioggia batteva,/Il momento nella chiesa piena di correnti d’aria all’ora che il fumo ristagna,/Possono essere ricordati, mischiati al passato e al futuro,/Solo col tempo si conquista il tempo./

È nel tempo, nel momento in cui si manifesta la rosa, ma non si tratta del tempo storico.

La terza sezione dei Quartets, East Cocker, può da sola costituire una sintesi dell’opera. I primi nove versi solenni, già citati, delineano uno scenario di grande suggestione e potenza. Gli echi che rimandano sono tanti, alcuni già ricordati. Il tono, per esempio, ricorda l’Ecclesiaste, ma anche il verso più solenne di John Donne e addirittura una eco dei suoi sermoni. Eppure la sorpresa permane. È vero che abbiamo già udito queste parole e sarà lo stesso Eliot a ricordarcelo in un verso:

/You say I am repeating/ Something  I have said before. I will say it again./

(/Dici che sto ripetendo/Qualcosa che ho già detto. Lo dirò ancora./)

Riflettendo ancora sulla concretezza della similitudine possiamo constatare che l’effetto della concatenazione diviene sempre più rarefatto e sottile; ma sempre legato a quella concretezza iniziale. L’effetto ottenuto da Eliot è lo stesso del gettare un sasso in uno stagno. I cerchi d’acqua diventano sempre più tenui quanto più ci si allontana dal punto d’impatto. Probabilmente la loro espansione è indefinita e se avessimo strumenti di misurazione potremmo verificarlo, ma anche senza di essi sappiamo intuitivamente che così è. La concretezza e la materialità di quel gesto iniziale produce un’espansione che diviene rarefatta. Mutatis mutandis, la forza della similitudine porta con sé le sottigliezze della metafora, ma le porta non astrattamente ma concretamente in sé. La rarefazione non nasce dal nulla o da un puro volo della fantasia, ma ha un ancoraggio preciso che mai viene meno e dunque non perde la sua incarnazione.

A partire da:

/I said to my soul…/

(/Dissi alla mia anima…/)

la sezione riprende il tono solenne dei primi nove versi, ma vi è anche un cambio di scena suggerito da Eliot stesso con la metafora del teatro. L’Io che viene messo in scena qui è paradossalmente impersonale. Eliot non usa noi oppure un altro pronome personale di cui la lingua inglese solitamente si serve per il pronome impersonale perché in questo caso l’io sta proprio per l’umanità intera ridotta alla sua piccolezza. Le similitudini che seguono, piuttosto elementari, si addicono proprio alle dimensioni di questo io-noi. Siamo piccoli in preda a piccoli espedienti di suggestione: siamo sgomenti persino a teatro quando cambia scena, perché avevamo sospeso il giudizio e creduto a quei colli di cartone che vedevamo; così come è sufficiente un treno fermo fra due stazioni della metropolitana per gettarci nel panico. Torniamo ora a quel distico che ci siamo lasciati alle spalle: il nono e il decimo, che chiude la sfilata delle ombre in questo modo:

/And we all go with them, into the silent funeral,/ Nobody’s funeral, for there is no one to bury./ 15

(/E tutti andiamo con loro, nel funerale silenzioso/Il funerale di nessuno, perché nessuno è da seppellire./)

Esso fa da cerniera fra i primi nove e il nuovo attacco che abbiamo già visto. È veramente necessario tale stacco da un punto di vista poetico, oppure abbassa il tono senza aggiungere altro al senso profondo di questa sezione? L’immagine del funerale silenzioso era già implicita e concretissima nella sfilata. Eliot pensa alla resurrezione nel verso finale?

La quarta sezione di East Cocker riporta al centro la figura del Cristo come chirurgo e la terra ritorna ad essere la valle di lacrime. Non sono però due Eliot; ancora una volta si ripropone qui il suo solito dilemma. Il poeta vede certamente nella conversione il modo di resistere agli aspetti deteriori della modernità, ma il ricorso al mito cristiano come elemento portante della tradizione occidentale appare a volte come una sovrapposizione alla sua poesia, altre volte come un dei tanti elementi; un mito, appunto, una narrazione non diversa da altri miti. È per questo, in definitiva, che la sua poesia è intrisa di elementi esoterici, spazia indefinitamente anche oltre la simbologia biblica.  

La quinta sezione può essere considerata una dichiarazione di poetica in versi. L’inizio è un richiamo esplicito alla Commedia

So here I am, in the middle way, having had twenty years,/Twenty years largely wasted, the years of entre deux guerres,

(/Così qui mi trovo, nel mezzo della vita, avendo avuto/ vent’anni – /vent’anni in gran parte sciupati, gli anni dell’entre deux guerres – /)

La consapevolezza della crisi in cui il poeta si trova e che richiama la crisi personale di Dante medesimo, assume qui degli accenti drammatici che hanno perso ogni orpello collusivo, ancora presente in Waste land, dove il sentimento della crisi non si è ancora confrontato con la seconda tragedia secolare: non bisogna mai dimenticare che questa parte dei Quartetti fu scritta nel 1942. Lo sgomento e lo smarrimento sono espressi in versi che sembrano azzerare la sezione precedente dove il chirurgo e cioè Cristo, sembrava ancora poter risanare le ferite della storia. Invece ora sperimenta:

Is a wholly new start, and a different kind of failure,/Because one has only learnt to get the better o f the words/For the thing on no longer has to say,  or the way in which one is no longer disposed to say it. And so each venture/Is a new beginning, a raid on the inarticulate/With shabby equipment always deteriorating…/ In a general mess f imprecision of feeling/Undisciplined squash  of emotions.

(/… una nuova e completa partenza, un genere diverso di /sconfitta,/perché uno ha imparato soltanto le più esatte parole/per la cosa che ormai non ha da dire, e nel modo nel quale /a dirla non è più disposto. E così ogni avventura/è un nuovo principio, un irrompere inarticolato/un equipaggiamento lacero e sempre alterato,/nel generale disordine dell’impreciso sentire,/schiere indisciplinate di emozione …/)

Il ritmo distorto, jazzistico fino all’esasperazione, fatto di cesure che si sforzano di aderire al caos che sta rappresentando sono un’irruzione che disarticola ogni parola possibile.16 Che fare allora? Nell’ultima parte, più pacata, il poeta ritrova il linguaggio solenne dell’Ecclesiaste:

There is a time for the evening under starlight A time for the evening under lamplight

(/C’è un tempo per la sera sotto al luce stellare,/un tempo per la sera sotto la lampada accesa/)

Nella chiusa si compie la metamorfosi dall’uomo che ha attraversato mille esperienze al vecchio:

Old men ought to be explorers/Here and there does not matter/We must still and still moving/Into another intensity/For a further union, a deeper communion,/Through the dark cold and the empty desolation,/The wave cry, the wind cry,  the vast waters/of the petrel and the porpoise. In my end is my beginning.

(/I vecchi dovrebbero esplorare/ non importa qua o là/noi dobbiamo esser quieti e quieti muovere in un’altra intensità/per una più intima unione, per una comunione più profonda/attraverso il rigore tenebroso e la vuota desolazione,/Nell’onda che grida, nel vento che urla, nelle acque immense/dell’Orca e della Procellaria. Nella mia fine è il mio principio.) 17

L’irruzione della storia e di un presente drammatico, si chiude a questi punto con un ritorno circolare su se stessa. Sarà nell’ultimo dei Quartetti che Eliot compirà un passo successivo e in qualche modo definitivo.

Funzionari

7 Da La terra desolata e Quattro Quartetti. Traduzione e cura di Angelo Tonelli, introduzione di Milosz, Feltrinelli 2000 pag. 11.  I saggi introduttivi alle sue opere sono tutti assai interessanti. A parte quelli già citati e che lo saranno nel prosieguo, importanti sono quelli scritti da Roberto Sanesi.

8 Op. cit. pag. 11.

9 Op. cit. pag. 12-13

10 T.S. Eliot, Il bosco sacro, Saggi sulla poesia e la critica, traduzione di V. Di Giuro e A. Orbetello, Bompiani 2016.

11 T.S. Eliot, Quattro Quartetti, Burnt Norton seconda sezione.

12 Ivi.

13 Ivi.

14 Ivi.

15 Ivi.

16 Attilio Brilli, è forse il critico italiano che ha più evidenziato che i Quartetti hanno una struttura sia concettuale sia musicale. In alcuni casi il primo tempo presenta due temi contrastanti eppure connessi tra loro. Rimando all’analisi da lui compiuta per approfondire tale tematica sebbene a me sembri che la variazione jazzistica, più che non il riferimento alla partitura di una sinfonia, sia l’elemento musicale più presente nella sua opera. Eliot è un modernista convinto anche quando critica la modernità e non mi sembra un caso, peraltro, che l’ultimo dei Quartetti – Little Gidding – sia stato musicato da Stravinskij e da Sofia Gubaidulina, esponenti dell’avanguardia musicale novecentesca. 

17 T.S. Eliot. Quattro quartetti, Traduzione di Roberto Sanesi, Book editore ed eredi Sanesi, Milano 2002, pag.46.

T. S. ELIOT, GIANO NOVECENTESCO

Introduzione

Il dilemma e l’ambivalenza in cui si dibatte l’intera opera di T.S.Eliot hanno accompagnato decenni di riflessioni sulla poesia, ma sono diventati anche il limite che ci sta sempre più distanziando dalla modernità e dalla post modernità.

Intorno al nome di Eliot, inoltre, si gioca un discorso tutto italiano che riguarda il modo in cui la sua opera è stata recepita da noi e ancor più l’accostamento che è stato proposto fra il poeta anglo statunitense ed Eugenio Montale.

Eliot è stato un personaggio icona delle lettere novecentesche, ma occorre andare un po’ più indietro nel tempo per trovare alcuni presupposti della sua opera.

Fu Hugo Von Hofmannsthal, nella Lettera di Lord Chandos, a proporre per primo un’immagine che s’imporrà negli anni successivi la fine della Prima Guerra Mondiale e che diventerà, con il tempo, uno slogan e un’icona del ‘900: lo specchio infranto e la conseguente moltiplicazione dei punti di vista come metafora della disintegrazione di un mondo e di una civiltà fondati su una solida identità.1 Che tale unitarietà e solidità esistessero davvero, prima di quel tempo, è assai discutibile e infatti tale punto di partenza è anche in parte il frutto di un equivoco, perché von Hofmannsthal fa parte di quella schiera di intellettuali della finis Austriae che colsero per primi la crisi dell’Impero austro ungarico, rimanendone però dentro i suoi recinti. La Gran Bretagna era lontana anni luce da quel mondo, eppure la Waste land è sembrata incarnare, pochi decenni dopo lo scrittore mitteleuropeo, la metafora dello specchio infranto; non solo perché un verso della prima parte riecheggia l’espressione usata da Von Hofmannsthal,2 ma per il modo stesso in cui il Novecento ha percepito se stesso.

Il poema aperto, disincantato, l’uso di registri linguistici diversi, il tono allusivo che chiama il lettore a una complicità un po’ pelosa, sono diventati nel tempo gli emblemi di tante crisi diverse fra loro, per finire nella constatazione dolente, ma più spesso compiaciuta, del relativismo e del nichilismo.

A questo quadro La terra desolata e ancora di più le opere giovanili di Eliot, quali The love song of J. Alfred Prufrock, Portrait of a lady, nonché l’immagine sintetica degli hollow men, hanno dato il loro potente contributo. Così ne parla Attilio Brilli:

The waste land, pubblicata nel 1922 … è forse l’opera del Novecento che ha maggiormente influenzato intere generazioni di poeti … La terra desolata è per antonomasia la poesia dell’angoscia e dell’alienazione. Essa mantiene integro il suo fascino di drammatica testimonianza di un’epoca nella forma frammentaria, ove l’unità è il frutto della cooperazione del lettore … ormai avvezzo e quasi naturalmente scaltrito ad operare all’interno di un sistema di agganci e di allusioni culturali.3

Si può dire che queste poche parole esprimano coerentemente uno degli assi di lettura dell’intero Novecento. La sua influenza è stata così vasta da travalicare i confini delle arti e si può convenire con Czeslav Milosz quando afferma che certe atmosfere dei film di Antonioni e Fellini:

sembrano la traduzione di una poesia di Eliot 4

Eppure, svoltato il crinale del cambio di secolo da oltre un ventennio, è lecito domandarsi se tale lettura, non sia ormai troppo datata. E se è vero che, come afferma Brilli:

pochi poemi hanno influenzato come questo intere generazioni di poeti 5

va anche detto che all’ordine del giorno di oggi non sembra più esserci la modernità in quanto tale, neppure per criticarla; nel suo inferno ci siamo scesi molte volte, il cosiddetto abisso è stato esplorato. Il postmodernismo, peraltro, ha rielaborato in forme parodistiche e paradossali i materiali della modernità, ma di fronte al caos sistemico di oggi, al ritorno delle guerre come modo di soluzione dei conflitti, abbiamo bisogno d’altro per cercare di tornare a significare il mondo in cui viviamo.

Eliot e l’eredità del ‘900.

Eliot ha rivendicato nei suoi scritti teorici la necessità di non leggere la sua opera in modo storicistico o evoluzionistico: non vi è sviluppo in essa, né progressione, a meno di sposare la tesi di un Eliot prima della conversione e di un secondo dopo la stessa. Il poeta di Saint Luis non è Manzoni; anzi, le parti della sua opera in versi più esplicitamente e dichiaratamente ispirate dalla conversione cattolico-anglicana, quali per esempio i Cori de La Rocca, sono testi minori; mentre per l’autore de I promessi sposi avviene il contrario.

Nell’opera poetica di Eliot vi è la presenza costante di alcuni temi sui quali egli ritorna, mantenendo rispetto a essi un’ambivalenza che non verrà mai meno, sebbene nell’Eliot giovane prevalga la messa a punto delle sue dramatis personae preferite: il dandy salottiero, la signora annoiata, i protagonisti del demi monde culturale di massa: The Love song of Alfred Prufrock, Portrait of a Lady. Questi testi vengono successivamente metabolizzati e resi drammatici nella Waste Land e in Hollow men.6

Quando mi avvicinai per la prima volta a Eliot da studente delle scuole superiori, il poeta era in seconda linea, almeno in Italia; a quel tempo egli trionfava come autore di teatro e ricordo una memorabile rappresentazione di Assassinio nella cattedrale cui assistemmo come classe. I Quartetti non venivano mai citati, The waste land sì, ma la lessi per la prima volta da studente universitario. Dovevano passare ancora molti anni e molte riletture prima di imbattermi nei Quartetti. Da allora in poi si rafforzò in me la convinzione che i Quartetti fossero l’opera più importante scritta da Eliot, ma anche quella che permette maggiormente di capire il limite novecentesco  dell’intero suo percorso e non soltanto di una parte di esso.

T. S. Eliot


1 . Allora … tutto quanto esiste mi appariva come una grande unità: il mondo spirituale e quello fisico non mi sembravano giustapporsi, né l’essere cortese né quello animale, né l’arte e la non arte, la solitudine e la compagnia;”  Dopo aver così descritto lo stato unitario del mondo, alcune pagine più avanti così prosegue la lettera: “… come una volta avevo visto in una lente di ingrandimento una zona della pelle del mio mignolo e mi era parsa una pianura con solchi e buche, così ora mi accadeva con gli uomini e le loro azioni … Ogni cosa mi si frazionava, e ogni parte ancora in altre parti, e nulla più si lasciava imbrigliare in un concetto.”

Da Lettera di Lord Chandos, introduzione di Claudio Magris, traduzione di Magda Vidusso Feriani, biblioteca Universale Rizzoli 1974. Pag. 37 e 43.

2 /A heap of broken images, where the sun beats,/… (/un cumulo di frante immagini, là dove batte il sole./) Da La sepoltura dei morti, in ‘T.S. Eliot. La terra desolata e Quattro quartetti.’Traduzione e cura di Angelo Tonelli, Universale economica Feltrinelli, aprile 2000. Pag. 33.

3 Attilio Brilli, introduzione a Quattro quartetti. Traduzione di Filippo Donati. Garzanti editore 1986. Pag. vii.

4 Da T. S. Eliot La terra desolata e Quattro quartetti, traduzione e cura di Angelo Tonelli. Introduzione di Czeslav Milosz. Universale Economica Feltrinelli . Aprile 2000, pag.11.

5 Attilio Brilli. Introduzione a Quattro Quartetti, Traduzione di Filippo Donati. Garzanti editore 1986. Pag. vii.

6 I critici cattolici insistono  molto sull’importanza di  Ash-Wendnesday (Mercoledì delel ceneri).

WALLACE STEVENS: LE LEZIONI DI POETICA

Gaston Bachelard

Introduzione

Con questa parte, la settima,  si conclude il saggio sull’opera di Wallace Stevens. Il prossimo autore di cui mi occuperò in questa rubrica sarà T. S. Eliot e con lui terminerà il percorso di anglistica e americanistica che comprende anche Marianne Moore e William Blake. Su quest’ultimo non aggiungerò nulla mentre sugli altri tre e su alcuni convitati di pietra pubblicherò un saggio conclusivo sui modi di attingere alle diverse tradizioni letterarie. 

——

Esiste una tematica centrale negli scritti di poetica di Stevens, che funga da attrattore? Ce ne sono a mio avviso quattro di cui una però preminente: il rapporto fra realtà e immaginazione, il vero rovello della poetica stevensiana. La seconda è il rapporto fra poesia e pittura; la terza, che si avvicina alla speculazione filosofica, è l’idea del mondo come meditazione. L’ultima emerge con chiarezza da uno solo di questi saggi dal titolo Effetti dell’analogia ed è l’importanza che il poeta assegna alla similitudine come figura retorica. 

Lo stile di questi saggi è ellittico, la divagazione vi regna sovrana, ma alla fine, quando con le sue sintesi egli stringe le fila del discorso, ecco che si ritorna all’uno o all’altro degli attrattori.

In quanto lettore, Stevens era una spugna, ma anche svagato. Quando sembra che le sue letture siano approfondite per l’acutezza di certi giudizi, si scopre poi che tutto questo è assai vivo nel testo poetico, ma se si va oltre non si trova nulla o poco; oppure che il poeta è riuscito a dissimulare molto bene.

Vi sono a mio giudizio due filosofi e pensatori europei contemporanei a lui che Stevens aveva ben presenti: Henry Bergson e Gaston Bachelard. Al primo dedica anche una citazione in uno dei saggi de L’angelo necessario,83 il secondo è più sotto traccia ma altrettanto importante.

Per entrambi i filosofi e per Stevens, la realtà fisica è la base imprescindibile di ogni forma di conoscenza e quando Bergson afferma che la percezione non aggiunge nulla all’immagine percepita, riscontriamo un’assonanza con l’affermazione di Stevens che l’immaginazione non aggiunge nulla all’oggetto, ma lo intensifica. In Bachelard, addirittura, è la realtà fisica a suggerire le metafore più ardite e illuminanti, a questo proposito, sono le pagine che egli dedica alla scoperta del fuoco.84

Un’altra assonanza con Bergson possiamo riscontrarla nel modo di trattare la memoria da parte di entrambi e nel concetto di flusso che in parte si sovrappone a quello di durata. Abbiamo visto come in Stevens il processo decreativo non sia un passaggio da ciò che è creato al nulla, ma a ciò che creato non è o non lo è ancora. Il flusso, in secondo luogo, porta all’endless poem, cioè al poema senza fine, che non significa incompiuto e neppure senza una conclusione, ma che allude alla tendenziale inarrestabilità del flusso. Vale forse la pena di notare come la parola morte compaia pochissimo nei testi di Stevens; anzi, ricordo una sola forte presenza nella sezione finale di Peter Quince at the clavier, oppure indirettamente in Omone rosso che legge e in alcuni testi dedicati al soldati defunti in guerra. Sia Bergson, sia Bachelard, sia Stevens, sono diffidenti quando non ostili nei confronti dell’invenzione e della fantasia, mentre considerano la scoperta e l’immaginazione veramente importanti. Nel caso dei due filosofi farò riferimento solo ai testi e a un saggio pubblicato sul Wallace Stevens Journal e che ritengo esaustivo (specialmente per quanto riguarda i rapporti con Bergson).85 Quanto a Stevens, per capire cosa lui intende nel contesto della poesia e della critica letteraria, mi servirò di due citazioni in momenti e situazioni diverse, accostandole. La prima è tratta da una conferenza compresa nella raccolta L’Angelo necessario e suona in questo modo:

… Una delle caratteristiche dell’arte moderna è la sua intransigenza. In questo, essa assomiglia alla politica moderna … Un’altra caratteristica dell’arte moderna è che essa è plausibile. Ha una spiegazione per ogni cosa. Anche l’assenza di spiegazioni diventa una spiegazione. Picasso rimane sorpreso quando gli chiedono cosa significhi un quadro  e dice che i quadri non sono concepiti per avere un senso. Questo spiega tutto. Un’altra caratteristica dell’arte moderna è il suo settarismo … Anche nella poesia moderna abbiamo la stessa incapacità di scendere a compromessi … Per illustrare questo punto dividerò la poesia moderna in due categorie: la prima categoria è moderna per ciò che dice, la seconda lo è per la sua forma. La forma non interessa particolarmente i poeti del primo gruppo. … Oggi si vede moltissima poesia, grazie forse a Un coup de dès di Mallarmé, in cui l’interesse per la forma si risolve solo nell’uso di lettere minuscole al posto delle maiuscole, su originali chiusure di verso, di troppa o troppo poca punteggiatura … Per la prima categoria che si concede una forma ordinaria, è persino dannoso suggerire che i suoi poeti sono meno artificiali di quelli della seconda … Ognuna delle due categorie, mostra una totale intransigenza nei confronti dell’altra.86

La seconda citazione è una sentenza, pubblicata per la prima volta insieme ad altre e ad alcuni aforismi, sulla rivista View nel 1940, cui ne seguirono altri nel ’42:

L’errore fondamentale del surrealismo è che inventa e non scopre. Un mollusco che suona la fisarmonica è un’invenzione non una scoperta. L’osservazione dell’inconscio, per quanto sia possibile osservarlo, dovrebbe svelare cose di cui prima eravamo inconsapevoli, non le cose famigliari di cui siamo ben consapevoli, più la fantasia. 87

Ancora una volta Bergson può soccorrerci. Anche per lui la metafisica intuizionale è fondamentale nella scoperta scientifica, ma niente è più nefasto alla scienza dell’invenzione. La scienza non inventa, scopre: sebbene nel formulare una teoria o un’ipotesi possa partire da una metafora o da un’intuizione matematica, essa deve poi trovare una concretizzazione nella realtà fisica, altrimenti rimane una congettura priva di sostanza. 

Cosa rimprovera Stevens, allora, alle avanguardie europee? In primo luogo gli eccessi e la mancanza di misura; in secondo luogo, nella sentenza di cui sopra, che la mancanza di misura impedisce di distinguere fra invenzione e scoperta, perché l’invenzione, in sostanza, non tiene conto della realtà fisica dell’oggetto e lo manipola. Su quanto afferma sull’inconscio si dovrebbe rimanere più a lungo, ma mi sembrano queste le distinzioni prima di tutto decisive. L’immaginazione ha una funzione di scoperta, mentre la fantasia è arbitraria, sebbene possa essere un punto di partenza. Da quanto detto sopra si può capire meglio la distanza che separa Stevens dal postmodernismo, che in fondo non è altro che un’accentuazione di tutti gli aspetti deteriori delle avanguardie storiche, senza conservare quelli virtuosi. Si può comprendere forse meglio, allora, la predilezione di Stevens per la similitudine e l’analogia, ma anche lo stile paratattico del suo linguaggio. L’accostamento, che porta all’analogia e alla similitudine piuttosto che alla metafora, lascia i diversi elementi accostati in uno stato di fluidità maggiore, di oscillazione del senso, ma anche di maggiore libertà di ciascun elemento di ritornare a essere quello che è al di fuori della connessione e dell’accostamento. Il procedimento paratattico di Stevens va allora messo in relazione con il suo concetto di decreazione che è appunto un passaggio da ciò che è creato all’increato o al non ancora creato. Lo abbiamo visto sempre in alcuni snodi della sua poesia: nell’ottava sezione di Sunday Morning, ma anche nel passaggio dalle figure dei due leoni poi al canonico Aspirina per approdare all’Angelo necessario: l’accostamento paratattico può essere sciolto per creare di nuovo le condizioni di una successiva ricreazione, alla quale però nuovi apporti non cancellano del tutto gli apporti precedenti. Accostamento paratattico, analogia e decreazione sono gli elementi combinati di un processo metamorfico continuo. L’analogia, peraltro, ci riporta anche a Bachelard che ne fa largo uso. Non per caso, dunque, uno dei saggio più importanti di Stevens s’intitola proprio Effetti dell’analogia.88

Conclusioni in divenire

Per Stevens, lo abbiamo visto, le tradizioni cui attingere sono molte, anche se alcune sono prevalenti; esse non sono un peso, né una fonte ingenua di scoperta, ma un oggetto di riflessione e di meditazione. Il procedimento decreativo, la metamorfosi, la rinuncia alle antinomie – per dirla con le sue parole non o, o (aut aut) ma e, e, la scelta del che ripete più volte dando a questa espressione il valore di un’adesione senza tentennamenti alla nuda vita, sono le architravi della sua poetica e da questo scaturisce il suo rifiuto a vivere la storia del ‘900 come un cultore dell’abisso. Allora vale forse la pena di domandarsi non quanto della tradizione occidentale Stevens conservi, ma dove si affaccia alla fine la sua ricerca. Da parte della critica che si è occupata di lui affiora qui e là la parola zen, seppure per ridimensionarne la portata. Guido Carboni nella sua ricognizione sui possibili referenti della poesia stevensiana, si esprime così:

Quando Stevens inizia la sua meditazione pensare il paradosso doveva essere ancor più difficile perché non c’erano molti strumenti a disposizione. Non c’erano le speculazioni di Bateson sul rapporto mente e natura, non le riflessioni sul metodo di Cartesio … né quella di Maturana sull’autopoiesi … C’era naturalmente lo zen, cui molti scrittori contemporanei o appena più giovani di Stevens si andavano avvicinando, ma non se ne trova traccia diretta in lui, il suo orientalismo è un fatto degli inizi della sua carriera poetica e appare come assolutamente estetico.92

Non concordo con l’ultima parte perché la grande poesia ha sempre un valore conoscitivo e non la si può ridurre a un valore puramente estetico. Se Carboni, dopo avere evocato lo zen, pare metterci una pietra sopra, il dubbio sembra venire anche a Massimo Bacigalupo che nell’introduzione all’Opus Posthumus, a proposito della poesia dal titolo The course of the particular, di cui ci siamo occupati afferma:

L’eroe di Stevens è la mente umana alla ricerca di un modus vivendi anche minimo, e questo non può darsi se non attraverso il superamento dell’inimicizia fra mente e materia … ma non si tratta di riesumare l’organicismo deistico dei romantici … bensì di preparare l’uomo alla sua cancellazione escludendo rigorosamente ogni protezione antropomorfica … cancellazione che si compie … e si fonda sulla convinzione che solo attraverso la disperazione, un azzeramento quasi zen del significato, passi la vita di ciò che è sufficiente.93

Questa affermazione mi sembra assai interessante e a mio modesto parere bisogna imboccare con maggiore coraggio questa strada, senza fare per questo del poeta un antesignano delle mode degli anni ‘60 o di quelle attuali. Il secondo spunto viene dal titolo stesso di una delle sue opere finali: Il mondo come meditazione. Le parole che un poeta sceglie non sono casuali e la parola meditazione ha un peso e una consistenza particolari. La sua poesia è stata spesso definita una poesia di ossimori. Questa costatazione, quasi ovvia, va tuttavia precisata meglio perché se prendiamo questi versi:

… Fra origine e ritorno//C’è un’assenza in realtà/ Le cose come sono. O così pare/,94

ci rendiamo subito conto di essere in presenza non di una semplice figura retorica. Quello di Stevens è un vero e proprio ossimoro concettuale, cioè un paradosso, e proprio il ricorso ai paradossi, poco comune nella poesia occidentale, si presta a un accostamento a certi modi orientali di manifestare il pensiero: i koan giapponesi ne sono l’esempio più illustre. Stevens era un profondo conoscitore del teatro e della cultura giapponesi e lo è rimasto per tutta la vita. Infine, in certi passaggi da un verso all’altro vi sono allusioni al concetto di vuoto come lo intende il buddismo e cioè in modo assai diverso da quello che la parola potrebbe evocare per noi occidentali. Il vuoto, anche nella concezione del Tao, per esempio, non è il nulla ma uno spazio libero dove si forma qualcosa: pensato in questi termini è un concetto assai prossimo a quello di decreazione in Stevens, cioè il passaggio dal creato all’increato ma anche al non ancora creato. Lo si potrebbe descrivere anche come il silenzio che circonda la parola poetica prima del suo sorgere e dopo.

Infine in rapporto alle cose, il suo mondo irreligioso non è ostile al mistero, ma non porta sulle tracce del divino, almeno nel senso che questa espressione ha assunto, dopo Heidegger. Come va intesa allora questa sua non ostilità al mistero e forse anche sacro? Nel senso che tutto ciò che abita il mondo è per Stevens animato, possiede una sua propria musica, persino la roccia, metafora di una durezza che resiste all’immaginazione. C’è un alone che circonda le cose ed esso può essere inteso anche come una sorta di danza dionisiaca della materia, senza che questo ricada in un credo di tipo panteistico, poiché anche per i panteisti ciò che si manifesta nella natura rimane pur sempre il dio personale, dalle sembianze alla fine antropomorfe, seppure immanenti.

Il canto della terra è per Stevens una qualità fine della materia che l’immaginazione sa cogliere perché entrambe sono parti di uno stesso cosmo non più scindibile in una neutra realtà oggettiva e nello sguardo esterno del cogito che la osserva e la manipola. Siamo dunque distanti da Cartesio, che Stevens tuttavia conosce bene, tanto da farne spesso l’oggetto di versi ironici anche se non sempre appropriati e fondati in parte sull’equivoco di considerare Cartesio come il primo degli illuministi. Cartesio, invece, dedicò l’intera sua vita alla res extensa, più che al cogito e cioè, paradossalmente, proprio a quella realtà fisica e organica dalla quale anche per Stevens non si può prescindere. Tornando allora con una breve parentesi ai suoi referenti filosofici, oltre ai nomi già citati, alcune sue descrizioni entusiastiche di fenomeni naturali ricordano da vicino proprio un filosofo e poeta dell’antichità: Lucrezio. 

Ci sono due terre promesse alla fine del poema infinito di Stevens: una è quella stessa raggiunta da lui nel suo approdo a New Haven e nell’Opus Posthumus; la seconda più nebulosa, la intravvediamo arrampicandoci sulle sue spalle ed è una zona di confine. Perché è indubbio che Stevens arriva in un punto dove, parafrasando un verso delle sue Note, il pensiero non può più progredire in quanto tale. L’abbandono delle antinomie ci avvicina a un modo diverso di sentire anche se mi rendo conto che parlare contemporaneamente di zen e di un alone quasi animistico intorno alle cose significa accennare a due modalità molto differenti. Mi fermerò allora alla considerazione che l’endless poem di Wallace Stevens sembra alludere alla necessità di fuoriuscita dal pensiero occidentale, piuttosto che ritornare ai suoi miti originari, ignorando la modernità, che invece Stevens non ha mai smesso di attraversare. I grandi spiriti artistici, vedono i tempi nuovi con grande anticipo e forse la presunta difficoltà della sua poesia sta proprio in questo annuncio. Se è così il tempo lo rischiarirà.

Henry Bergson

83 Op. cit. pp. 113-4

84 Gaston Bachelard, L’intuizione dell’istante, la Psicoanalisi del fuoco, Edizioni Dedalo, Bari 1973.

85 Mi riferisco al numero 1 della primavera del 2002 che contiene un saggio di Temenuga Trifonova dal titolo The poetry of matter: Stevens and Bergson: pp-41-69.

86 I rapporti fra la poesia e la pittura . Tutte le citazione sono tratte dal capitoletto intitolato  Terzo, pp.239-42.

87 Materia poetica, in Aurore d’autunno, a cura e traduzione di Nadia Fusini, Adelphi Milano 2014, pp.27. Naturalmente, questa sentenza lapidaria di Stevens, non può essere adoperata per una critica di fondo al Surrealismo, ma per certi suoi aspetti certamente sì. Del resto, se si considera un autore come Walter Benjamin – che certamente Stevens non conosce – che del Surrealismo è stato un grande estimatore tanto da scrivere sul movimento uno dei suoi saggi più importanti, alcune sue critiche molto severe rivolte a Breton hanno delle assonanze con l’affermazione di Stevens. Anche Benjamin non amava le invenzioni gratuite, specialmente quando sconfinavano nell’esoterismo. Le assonanze, in ogni caso, si fermano qui: Stevens avrebbe considerato aberrante quello che Benjamin amava di più del surrealismo e cioè il suo rapporto con le politiche rivoluzionarie.     

88 Wallace Stevens L’angelo necessario, a cura di Massimo Bacigalupo, Coliseum, 1988, pp. 181-206

92 Wallace Stevens, Mattino domenicale, a cura di Renato Poggioli, Postfazione di Guido Carboni, Einaudi 1982, pag.170

93 Wallace Stevens, Harmonium, a cura di Massimo Bacigalupo,  saggio introduttivo. Suggerisco la lettura dell’intera introduzione di Bacigalupo. Einaudi, collana i Millenni,  Torino 1994.  

94 La frase è una delle più comuni, ripetuta in varie forme sia in conferenze sia in versi come in questo caso.

WALLACE STEVENS: IL MONDO COME MEDITAZIONE

Jorge Santayana

In quest’ultima parte del saggio sulla poesia di Stevens vengono esplorati alcuni territori meno frequentati ma niente affatto minori e specialmente ci si avvia verso le sue lezioni di poetica. Il mondo come meditazione non è soltanto un insieme di testi poetici, ma anche un modo di essere che permette di aprire due altri capitoli nel viaggio affascinante a fianco del poeta di Hartford. Il primo riguarda la cultura orientale.

La storia di questo rapporto viene da lontano, addirittura dagli esordi, quando il giovane Stevens, travestito da dandy, si aggirava per il Greenwich Village. Fu allora che incontrò per la prima volta il teatro giapponese. La fascinazione fu così forte che si cimentò anche con la scrittura teatrale: ben tre opere di cui non mi occuperò sia perché non sono disponibili in italiano e poco ritrovabili anche in lingua originale e in secondo luogo perché, come sostiene più di un critico, Stevens scrisse quelle pièce solo per farci capire che non era un drammaturgo. La fascinazione e lo studio della cultura orientale, invece, non vennero meno, ma si rivolsero a quella che era la sua arte, la poesia, anche se un occhio particolare lo si dovrà riservare anche al secondo dei suoi grandi amori e cioè la pittura. Utamaro e le sue belle sono presenti nella poesia degli esordi. Tale fascinazione per l’oriente in senso lato e per il Giappone in particolare lo si può cogliere, sotto traccia, nella sua poesia e in modo costante nel tempo, tanto da costituire un altro dei percorsi che rompono la sequenza diacronica del suo poetare. Vedremo nelle conclusioni come molto altro del pensiero orientale è presente in lui in modo più implicito e nascosto. Inizio l’esplorazione da un testo intitolato Tredici modi di guardare a un merlo . La sua composizione è assai originale, anche alla sola vista. Si tratta di brevissimi flash numerati. Ne riproduco alcuni:

1.

Fra venti monti innevati/la sola cosa in movimento/era l’occhio del merlo.

2.

Ero di tre opinioni,/come un albero/in cui stanno tre merli./

3.

Il merlo vorticava nei venti d’autunno./Era una parte piccola della pantomima.

In questi primi c’è un elemento dominante ed è la qualità pittorica, che ricorda certe stampe giapponesi e cinesi. Il bianco e il nero sono i colori dominanti. Nel primo e nel terzo prevale la notazione oggettiva e descrittiva: in quello di mezzo l’osservatore entra nel testo, creando una similitudine implicita. L’asimmetria fra le opinioni dell’osservatore e i tre merli introduce la meditazione nel testo, crea un chiasmo. Altri due qui di seguito ci portano in uno scenario ancora diverso:

5.

Non so cosa preferire,/la bellezza delle inflessioni/o la bellezza delle implicazioni,/il merlo che fischia/o subito dopo.

6. Ghiaccioli riempivano la lunga finestra/con vetro barbarico./L’ombra del merlo/l’attraversava, avanti e indietro./Lo stato d’animo/rintracciava nell’ombra/una causa indecifrabile./

L’osservazione oggettiva rimane nel campo della stampa giapponese, ma la soggettività dell’osservatore registra un dilemma che ha attraversato la poesia di Stevens dall’inizio alla fine e di cui abbiamo già visto esempi molto belli e significativi nelle opere della maturità: il contrasto fra ciò che ci appartiene come umani e ciò che ci è estraneo, o almeno che non è nostro nel mondo che abitiamo: la presenza animale, per esempio. L’ombra del merlo diviene così indecifrabile. Questo motivo ritorna nell’undicesimo flash, l’inquietudine diviene paura e il Connecticut non è lontano, come atmosfere e paesaggi, dal Tennessee.

XI

Attraversò il Connecticut/in una carrozza di vetro./Una volta, una paura lo trafisse,/in quanto scambiò/l’ombra del suo equipaggio/per tre merli.

Nell’ultimo flash il ritorno alla semplice contemplazione si apre già a quel sentimento di accettazione che diventerà più maturo e consapevole nelle opere finali.   

Era sera  tutto il pomeriggio,/Nevicava/E doveva nevicare/Il merlo sedeva nei rami di cedro./67

Un secondo testo, assai importante è Studio di due pere del 1938. Anche questa poesia è fatta di piccoli flash, di cui ne riporto soltanto uno.

Studio di due pere.

Opusculum paedagogum./Le pere non sono violoncelli,/nudi o bottiglie,/Non somigliano a niente altro./68

Le valenze di questo testo sono molteplici e vanno ben oltre il riferimento alla cultura orientale. Giocando sulla misura simile a quella dell’Aiku giapponese, Stevens pronuncia una sentenza che riempirà di contenuti nelle sue lezioni di poetica e negli aforismi.

Il secondo capitolo della meditazione di Stevens in versi e nelle riflessioni, ci porta a un tema lasciato in sospeso: la relazione fra il poeta di Hartford e il sentimento religioso

In The Rock, una delle ultime opere, c’è un lungo testo, un’elegia, che Stevens dedica al suo mentore: George Santayana. La poesia s’intitola To an old philosopher in Rome. Santayana trascorse gli ultimi anni della sua vita fino alla morte, avvenuta nel 1952, tre anni prima di quella di Stevens proprio a Roma.69 Stevens considerò sempre il suo vecchio docente come un maestro. Santayana insegnava ad Harvard quando il giovane Wallace s’iscrisse alla prestigiosa università. Di origine ispanica, era nato a Boston e aveva scelto gli Usa come luogo di esilio ed elezione. Di formazione cattolica, politicamente e culturalmente fu sempre su posizioni aristocratiche e quindi avverso sia agli aspetti modernisti dell’americanismo, sia al romanticismo idealistico dei filosofi come Emerson o Thoreau; infine avverso al pragmatismo tipicamente americano, nel quale vedeva un corruzione del senso. Uno strano europeo, dunque, che scelse gli Usa solo per rifiutare ogni aspetto dell’American way of life. L’evoluzione del suo pensiero avrà molti tratti in comune con quella del suo allievo. Santayana fu un uomo molto influente nella formazione dei giovani universitari del primo ‘900, ma la sua opera è stata dimenticata nonostante fosse nota fino agli anni ’30. Il suo antiamericanismo aristocratico, in una terra in cui l’aristocrazia poteva esistere solo come frammento europeo sempre più rarefatto, fanno di lui un alieno in quella cultura e questo spiega probabilmente il suo oblio nel momento in cui, dopo la Seconda Guerra Mondiale, la cultura statunitense diventerà egemone e dominante. Ci sono caratteristiche del pensiero e dello stile di Stevens, tuttavia, che lo rendono altrettanto alieno rispetto agli Usa. Peraltro, anche il loro rapporto con la religione è altrettanto controverso.

Garth Greenwell, in un saggio dal titolo A Home against One’s Self: Religious Tradition and Stevens’Architecture of thought (Una casa contro il proprio sé: Tradizione religiosa e architettura del pensiero in Stevens, sottolinea come si possono trovare nel poeta di Hartford citazioni che autorizzano qualsiasi interpretazione, riguardo al suo atteggiamento rispetto alla religione.70 Pur concordando in prima istanza, penso che sia possibile – seguendo il percorso di Stevens in parallelo a quello di Santayana – arrivare a una diversa approssimazione.

Il mondo irreligioso in cui Stevens ci aveva portati alla fine del suo poemetto più simbolista – Mattino domenicale – viene in qualche modo smentito o confermato alla fine della sua quest? To an old philosopher in Rome è solo un omaggio al maestro o qualcosa di più, una riconciliazione finale con il pensiero religioso in senso lato cristiano?  

Una celeberrima affermazione del poeta di Hartford suona così:

i grandi poemi dell’Inferno e del Paradiso sono stati scritti, ora dobbiamo scrivere i poemi della terra.”71

Accanto ad essa un’altra affermazione altrettanto perentoria  suona invece:

No one believes in the church as an institution more than I do.”

“Nessuno crede nella chiesa come istituzione più di quanto non faccia io.” 72

A quale di queste due frasi credere e sono poi così contraddittorie? Credo che, rifacendomi al testo poetico, si possano tenere separate senza preoccuparsi per il momento della loro reale o apparente contraddittorietà. To an old philosopher in Rome e un altro testo ricordato anch’esso da Greenwall (St. Armourer Church from the Oustside), vengono solitamente citati per avanzare l’ipotesi di un tardo ritorno alla cristianità.

Nei testi citati e anche in altri dello stesso periodo emerge la profonda nostalgia di Stevens per la possibilità di credere, almeno nel solco della scommessa pascaliana. Del resto, perché stupirsene? Tutta la sua opera è una quest dentro il pensiero occidentale e di ciò il cristianesimo costituisce gran parte; se consideriamo poi l’attitudine tipica di Stevens a ritornare continuamente agli stessi tropi e snodi, non stupisce che alla fine della sua vita sia tornato a queste domande fondamentali. Tuttavia, pensando all’omaggio rivolto a Santayana, il testo a lui dedicato potrebbe essere semplicemente un tenero accompagnamento del suo maestro, giunto alla soglia della fine e anche lui nostalgicamente legato, come vedremo, alla stessa possibilità. Cosa vede però il poeta in tale fine? Gli oggetti comuni che hanno accompagnato la sua vita e che Santayana medesimo ricordava spesso:

…/The bed, the books, the chair,, the moving nuns,/The candle as it evades the sight, these are/The source of happiness, in the shape of Rome,/A shape within the ancient circles of shapes,/And these beneath the shadow of a shape./

(/Il letto, I libri, la sedia, le monache che passano,/la candela mentre si sottrae alla vista, queste sono/fonti di felicità nella forma di Roma,/una forma entro gli antichi cerchi delle forme,/e questo sotto l’ombra di una forma/)73

Siamo in un convento ma anche questo non deve trarci in inganno e già il testo lo dice alludendo all’ombra di una forma. La poesia, inoltre, è un accompagnamento da lontano, come spesso avviene per Stevens, che mai si mosse dagli Stati Uniti; anzi che visse la gran parte della sua vita in uno spazio inferiore ai 100 chilometri quadrati (a parte la settimana che ogni anno lo vedeva ospite di amici, insieme alla moglie, in Florida), come se ci fosse in questo una presa di distanza dal nomadismo intellettuale così tipicamente statunitense. Dopo altre descrizioni come quella che ho citato, ecco che il poeta si rivolge a lui, al maestro:

…/ speak to your pillow if it was yourself./Be orator but with an accurate tongue/And without eloquence, o half-asleep/Of the pity that is the memorial of this room,/….

(/Parla al tuo guanciale come fosse te stesso,/sii oratore ma con lingua accurata,/senza eloquenza, oh semi addormentato,/della pietà che è monumento di questa stanza,/)

E più avanti:

/The sounds drift in. The buildings are remembered./The life of the city never lets go, nor do you/Ever want to. It is a part of the life in your room./Its domes are the architecture of your bed,/The bells keep on repeating solemn names./

(/I suoni arrivano fiochi. Gli edifici sono ricordi./la vita della città non smette mai, né tu mai/lo vorresti. È parte della vita nella stanza./Le cupole sono le architetture del tuo letto./ le campane vanno ripetendo nomi solenni./) …

Infine la conclusione:

…/It is a kind of total grandeur at the end,/With every visible thing enlarged and yet/No more than a bed, a char and mobbing nuns,/The immensest theatre, the pillar of the porch,/The book and candle in your ambered room//Total grandeur of a total edifice,/Chosen by an inquisitor of structures/For himself. He stops upon the threshold,/As if the design of all his words takes  form/And frame from  thinking and is realized./

(/E’ una sorta di grandezza totale alla fine:/tutto il visibile accresciuto e insieme/non più di un letto, una sedia, monache che passano,/il teatro più immenso, il portico con pilastri,/il libro e la candela nella sua stanza ambrata,//grandezza totale di un edificio totale/prescelto da un inquisitore di strutture/per sé. Si ferma sulla soglia,/quasi l’intento di ogni sua parola assume forma/e fattezza del pensiero si realizza./)74

Santayana giunse, alla fine della sua vita, a voler morire in un convento, ma da non credente! Lo rileva anche Greeenwall e ricorda che, secondo Harold Bloom, Stevens lesse questa scelta del filosofo come un tropismo del pathos75 e non appunto una scelta di fede. Penso si possa avanzare l’ipotesi che Stevens abbia visto in Santayana, suo alter ego morale e spirituale, qualcosa che poteva illuminare anche lui stesso e se si seguono i due pensieri in parallelo, tale scelta diventa assai plausibile. Entrambi hanno percorso l’intero arco della civiltà occidentale (Stevens di più perché il richiamo agli dei precedenti e al mondo greco e romano sono sempre presenti sotto traccia), entrambi hanno valutato il valore della fede, ma alla fine del loro percorso, riconoscono la grandezza del mito cristiano, ma lo intendono entrambi come mito fra i miti. L’omaggio che Santayana rivolge a Roma e a uno degli edifici più simbolici della civiltà cristiana (il convento nel suo caso, insieme all’eremo e alla chiesa), sono l’omaggio a una civiltà e non alla lettera della fede: quel convento, infatti, come abbiamo visto nei versi di Stevens e ancora più nel finale della poesia, non è pieno di dei e neppure delle loro tracce, per citare il famoso slogan di Heidegger, ma di libri, di monache che vanno e vengono, di tranquilla e serena attesa della fine. Sembra logico pensare che nei versi dedicati al suo vecchio maestro, Stevens ci ha lasciato un segno che riguarda lui medesimo, che a quella soglia arriverà pochi anni dopo.  

Quanto alla sua seconda frase in cui richiama il proprio attaccamento alla chiesa come istituzione, essa potrebbe avere un altro significato. In tale affermazione Stevens parla da uomo appartenente a quell’ambiente statunitense di high middle class che poteva trovare nel vecchio aristocratico Santayana quel residuo di una cultura d’antan: l’America agiata del primo decennio del secolo. Forse fu questa appartenenza la ragione di quella particolare intesa che si avverte anche nell’epistolario che Stevens intrattenne con Marianne Moore, con la quale s’incontrò una sola volta a un convegno, ma che poteva capire benissimo, anche nelle sue diverse eccentricità. In sostanza, la high middle class non ha mai dimenticato che la Chiesa come istituzione è pur sempre il coagulo concreto e istituzionale della filosofia del popolo e un popolo che alla religione si affida, è meno incline ad assumere comportamenti ribelli o rivoluzionari. L’appartenenza di Stevens a questo modo di essere e a questo stile, prima ancora che a una classe in senso prettamente economico, è quello tipico di conservatori che lo sono per un dna che portano in sé, liberi anche di prendere posizioni suggestivamente lontane da quel cliché senza per questo fuoriuscirne: è il caso di certi interventi di Stevens.76 È un atteggiamento che ha a che fare con abitudini di vita, letture, bon ton e buen vivir. Tutto questo appartiene loro con una punta di maggiore sobrietà nel caso di Moore, per via della rigida educazione presbiteriana. Tale appartenenza alle istituzioni tipiche di quel mondo, ha un rapporto con la fede che può essere assai elastico.

Frederick Jameson, nel suo monumentale libro sul postmodernismo pubblicato nel 1991, così si esprime nel primo paragrafo, a proposito delle arti del ‘900: 

… Thus abstract expressionism in painting, existentialism in philosophy, the final forms of representation in the novel, the films,…  or the modernist school of poetry (as institutionalized and canonized in the works of Wallace Stevens) all are now seen as the final, extraordinary flowering of a high-modernist impulse which is spent and exhausted with them.

Perciò l’espressionismo astratto in pittura, l’esistenzialismo in filosofia, le forme finali di rappresentazione nel romanzo, i films … o la scuola modernista in poesia (così come è stata istituzionalizzata e canonizzata da Wallace Stevens), sono ora tutte viste come la finale straordinaria fioritura di un impulso modernista alto, che si è spento ed esaurito con loro.77

Quando Jameson parla di Stevens in questo modo non lo intende forse come l’ultimo dei classici, cioè appartenente alla grande cultura borghese, dissolta in Europa da due guerre mondali prima che dalle avanguardie artistiche, come troppo spesso si dice invertendo l’ordine di grandezza dei fattori, mentre negli Usa essa aveva ancora una vitalità che si sarebbe esaurita con quella generazione? Anche se è sempre possibile che ci sia un ultimo classico che viene dopo l’ultimo classico precedente, di certo non possiamo trovarlo in Andy Warhol, nella Beat Generation, negli urli di Ginzberg, nonostante la loro drammatica forza espressiva, nelle sbronze letterarie di Kerouac e Gregory Corso, oppure nel solitario Ferlinghetti che di quella generazione fu l’editore, ma che personalmente si tenne sempre alla larga dai loro eccessi. Forse possiamo ritrovarla in alcuni narratori, ma rimane profonda l’intuizione di Jameson: quella generazione di poeti e scrittori statunitensi, cui si possono aggiungere i nativi come William Carlos Williams, Robert Frost, Cormac McCarthy, Don De Lillo, oppure l’Arthur Miller di Morte di un commesso viaggiatore, furono gli ultimi rappresentanti della cultura borghese nelle sue vette più eccellenti. Chi venne dopo e si ribellò a certi suoi stilemi, o chi uscì come dissidente dalle società del socialismo reale, dimostra fra l’altro che il tentativo di superare la grande cultura borghese è assai arduo, fallito in alcuni tentativi quale per esempio il realismo socialista. Quanto agli uomini o alle donne come Stevens e Moore, non si può pretendere che superassero i limiti dell’ideologia personale e della loro classe. Facile rimproverare loro che proprio l’affluente sistema capitalistico statunitense avrebbe dissolto ogni vincolo sociale e cultura, aprendo le porte al postmodernismo, cui il ribellismo impotente e anche un po’ sciocco della Beat Generation offrì una sponda – appunto ribelle – ma niente affatto rivoluzionaria. Quanto accadde dagli anni ’80 in poi è lì a dimostrarlo e le conseguenze le vediamo tutte oggi con estrema chiarezza. Se mai si potrebbe aprire un altro filone di ricerca e cioè se la cultura musicale nera, Pete Seeger, Bob Dylan, Joan Baez, Bruce Springteen, Patty Smith, poeti e scrittori come Audre Lord, James Baldwin e Toni Morrison, possano rappresentare il germe di un percorso capace di conciliare cultura popolare di massa e alta cultura; ma questa ricerca esula dai limiti di questo studio.

Stevens morì nel 1955 quando ancora, uno come lui, che non ha mai accarezzato l’idea di una trasformazione radicale della società statunitense, poteva coltivare il sogno di un’alta cultura in una società di buone regole e bon ton. Marianne Moore, morendo nel 1972, si rese conto che ciò era sempre meno possibile: smise allora di scrivere, ritirandosi nella propria solitudine, ma senza sbattere porte. Del resto, lei che era stata editrice della rivista Dial e quindi in qualche modo militante, se n’era resa conto ben prima quando, pur pubblicandolo, aveva severamente rimproverato Ginzberg  per i suoi eccessi linguistici e non.

Stevens, infine, come tutti gli statunitensi dell’epoca, aveva un reale timore del possibile scoppio di una guerra nucleare con l’Unione Sovietica. Tuttavia, in lui non vi fu mai alcun cedimento al millenarismo apocalittico statunitense. Anzi, proprio perché aveva una paura reale e non nascosta della possibilità di una guerra atomica, il suo esempio è ancora più significativo. Le aberrazioni del millenarismo politico, l’invocazione addirittura dell’Armageddon da parte di consiglieri di stato deliranti, che continuano a essere anche oggi una parte rilevante dell’americanismo reale non trovarono in lui e in Marianne Moore una sponda. Espressioni come la missione degli Usa nel mondo e i toni mistici che tale espressione si porta dietro sono estranee al suo linguaggio e questo non è poco. 78


67 Wallace Stevens Harmonium, a cura di Massimo, Einaudi Torino 1994, pp. 116-21

68 Op. cit. pag. 271.

69 Stevens morì nel 1955 a causa di un tumore.

70 Garth Greenwell, The Wallace Stevens Journal, volume 33 numero e Autunno 2009, pag. 147.

71 Wallace Stevens, L’Angelo necessario, a cura di Massimo Bacigalupo.

72 La seconda citazione è tratta dalla lettera 348. Io l’ho ripresa dal saggio di Grath Greenwell intitolato A Home against one’s  self. Religious tradition and Stevens. Architecture of thought. Il saggio è pubblicato sul numero due  Volume 33 del Wallace Stevens Journal, pubblicato dalla Wallace Stevens Society, Usa 2009, alla pagina 148.

73 Wallace Stevens, Harmonium, a cura di Massimo Bacigalupo, Einaudi Torino 19994, pp. 558-9

74 Op. cit. pp. 562-3

75 Op. cit. pag. 153 alla fine. Il saggio di Greenwall, in ogni caso è nella sua interezza assai importante. 

76 Mi riferisco a interviste varie, al dialogo che ebbe con critici che appartenevano all’ambito della sinistra e persino a un singolare omaggio a Stalin durante una conferenza dal titolo Il nobile Cavaliere e il suono della parole, che si trova nella raccolta di saggi più volte citata, dal titolo generale L’angelo necessario.

77 Frederick Jameson: Postmodernism, or, The Cultural Logic of Late Capitalism Verso, 1991, paragrafi iniziali.

78 Sull’uso del linguaggio apocalittico da parte di politici e consiglieri di stato statunitensi è utile leggere il libro di David Noble intitolato La Religione della tecnologia, Edizioni di Comunità, Torino 2000.

WALLACE STEVENS: LE OPERE DELLA MATURITÀ

Angelo della realtà

L’anello di congiunzione fra le Note e le opere della maturità sono le Autore d’autunno.  Il titolo stesso ci indica una direzione: gli splendori dell’estate si sono attenuati ma non sono scomparsi, l’autunno è il tempo dell’intimità, ma non del ritiro; piuttosto quello della maturità dei frutti.

Il poema è suddiviso in dieci stanze, ciascuna formata da otto terzine. In esso Stevens ripercorre tutti i temi più importanti della sua poesia. Due sono le sezioni su cui mi soffermerò: la prima e l’ottava. Data l’importanza ne citerò larghe parti. Cominciamo dalla prima stanza:

/This is where the serpent lives, the bodiless./ (/Qui vive il serpente, l’incorporeo./).52

Il qui cui si riferisce il poeta è il luogo che anche noi abitiamo, è la terra. In essa Stevens vede un serpente, animale di cui è fin troppo facile ricordare il significato simbolico: il qui del poeta non è dunque semplicemente il nostro habitat fisico, ma un luogo che fu teatro di una caduta originaria, di una rottura dell’armonia, un tema che era presente fin dagli esordi di Stevens, in quella lirica breve intitolata Anecdote of the jar di cui di è scritto nell’introduzione; ancora una volta però, tale caduta non va intesa in senso metafisico e religioso e neppure, semplicemente, come la ripetizione di quanto scritto in quel lontano testo del 1919.

Il serpente è incorporeo. Cosa sta a significare questo ossimoro?:

/His head is air. Beneath his tip at night/Eyes open and fix on us in every sky.// Or is this another wriggling out of the egg,/Another image at the end of the cave,/Another bodiless for the body’s slaugh?//

(/D’aria è la testa. Sotto la punta a notte/Occhi s’aprono e ci fissano in ogni cielo.// O è un altro dimenìo fuori dall’uovo,/Un’altra immagine in fondo alla caverna,/Un altro incorporeo dopo che il corpo s’è spogliato?/

La testa del serpente è fatta d’aria, non solo perché la sua immagine è stata spesso vista in cielo – basterà ricordare la cosmogonia azteca che Stevens conosceva perché a essa accenna in un poema, ma anche perché è un animale intorno al quale si sono formate delle idee mentali che l’associano naturalmente al male e al peccato originale. Il serpente non ha un nido solo nella terra ma anche in cielo ed anche nelle nostre teste, dove diventa il signore dell’intrico:

/In another nest, the master of the maze/Of body and air and forms and images,/Relentlessly in possession of happiness.//This is his poison: that we should disbelieve/Even that. His meditations in the ferns,/When he moved so slightly to make sure of sun,//Made us no less than sure. We saw in his head,/Black beaded on the rock, the flecked animal,/The moving grass, the Indian in his glade./

(In un altro nido, il signore dell’intrico/Di corpo e d’aria e forme e immagini,/Implacabile nel possesso della felicità.//Questo è il suo veleno: che anche a lui/ Smettessimo di credere. Le sue meditazioni tra le felci,/Quando si muoveva appena per assicurarsi il sole,//Ci fecero di lui non più sicuri. Vedevamo nella testa,/Perla nera contro la roccia, l’animale screziato,/L’erba mossa, l’Indiano nella prateria53

Il serpente non è solo l’animale, ma anche l’idea mentale che ne abbiamo, nella quale si coagulano le nostre paure: questo è il veleno cui bisogna smettere di credere se vorremo di nuovo afferrare la visione originaria del serpente come di ogni altra cosa.  Nelle sezioni successive che iniziano spesso con Farewell to an idea? (Addio a un’idea) Stevens ci esorta di nuovo ad abbandonare tutte le costruzioni mentali o filosofiche intorno alle cose, a spogliarcene. Torna ancora una volta l’invito a quella sospensione del giudizio, a porsi di fronte all’oggetto come se lo conoscessimo per la prima volta. L’ottava stanza è quella della svolta che anticipa, con il suo tono diverso, quelli che saranno i grandi poemi finali. Il tono in realtà era già mutato e la stessa prima stanza ne è testimonianza: i temi sono gli stessi, ma il linguaggio usato non è più quello alto delle note, ma si è fatto più sommesso e discorsivo, Tuttavia, è proprio nell’ottava sezione che tale passaggio diviene più chiaro:

/There may be always a time of innocence./There is never a place. Or if there is no time,/If it is not a thing of time, nor of place,//Existing in the idea of it, alone,/In the sense against calamity, it is not/Less real. For the oldest and coldest philosopher,//There is or may be a time of innocence/As pure principle. Its nature is its end,/That it should be, and yet not be, a thing//That pinches the pity of a pitiful man,/Like a book at evening beautiful but untrue,/Like a book on rising beautiful and true.// It is like a thing of ether that exists/almost as predicate. But it exists,/It exists, it is visible, it is it is.// So then, these lights are not a spell of light,/A saying out of a cloud, but innocence./An innocence of the earth and no false sign//Or symbol of malice. That we partake thereof,/Lie down like children in this holiness,/As if awake, we lay in the quiet of sleep,//As if the innocent mother sang in the dark/Of the room and on an accordion, half-heard,/Created the time and place in which we breathed…

(/Sempre ci sarà dell’innocenza un tempo./Mai un luogo. O se non c’è tempo,/Se non è cosa né di tempo, né di luogo,//Vivente nell’idea, lì soltanto, nel senso/Contro la sventura non è/ Meno reale. Per il più antico e freddo dei filosofi,//C’è o ci può essere come puro principio/Un tempo dell’innocenza. La sua natura il fine,/Che possa essere o non essere, una cosa/Che risveglia la pietà dell’uomo pietoso,/Come un libro di sera bello ma insincero,/Come un libro all’alba bello e sincero./ E’ come una cosa d’etere che esiste/Quasi fosse un predicato. Ma esiste,/Esiste, è visibile, è, è.//E dunque queste luci non sono malia di luci,/Miracoli di nuvola, ma innocenza./Un’innocenza della terra, non un segno falso//Né un simbolo maligno. Ne siamo parte,/Come bimbi stiamo in questa santità,/Come se svegli stessimo quieti nel sonno,// Come se la madre innocente cantasse al buio/Nella stanza, e alla fisarmonica sottovoce/Creasse il tempo e il luogo in cui respiravamo/)54

Nadia Fusini, parlando di questa ottava sezione, scrive che il tempo in cui vive questo essere a metà fra veglia e sonno ricorda il limbo. Come metafora di un luogo che sta a metà strada fra umano e divino, mi sembra assai calzante. A tale intuizione, ne aggiungerei una seconda: definire l’innocenza un tempo e non un luogo. Ancora una volta Stevens rifiuta il concetto di favoloso altrove che è naturalmente legato a un luogo e così anche il paradiso. L’innocenza può essere solo un tempo, nel luogo essa è perduta per sempre e ancora una volta ritorna l’immagine di quella giara sulle colline del Tennessee. Tuttavia questa sezione finale delle Aurore ci permette di fare qualche passo in più nel decifrare il rapporto di Stevens con la tradizione e il modo diverso di considerarla rispetto ad altri della sua stessa generazione, Eliot e Pound in primis. Abbiamo visto come molte delle liriche iniziano con Farewell to an idea (Addio a un’idea). Dal serpente come incarnazione del male, alla caverna platonica, al romanzo famigliare, sono tutte esortazioni a liberarsi delle costruzioni mentali nate intorno a quei concetti. Alla fine di questo percorso una nuova figura si affaccia: è L’angelo necessario della terra, sintesi delle figure precedenti ed è importante proprio per questo ricostruire la genesi che lo portò a scrivere il testo poetico. Lo spunto iniziale è suggerito al poeta dall’osservazione di un quadro di Tal-Coat. Stevens amava farsi spedire quadri dall’Europa ed era Paul Vidal che di solito si occupava della faccenda. Il dipinto in questione rappresenta tazze e bicchieri, bottiglie e un vaso di vetro con una piccola fronda. L’opera non si distingue per particolari spunti immaginativi, ma ecco che Stevens vede qualcosa che modifica la sua e nostra percezione dell’oggetto. Egli ribattezza il dipinto Angelo circondato dai paesani. Le terrine diventano dei contadini e la bottiglia di vetro veneziano con la piccola fronda assume le sembianze di un angelo che illumina la scena e la riscatta dalla sua povertà apparente.55

Compiuta questa prima metamorfosi, la seconda porta alla nascita di una poesia senza titolo, dove appare un’entità alata che si mostra e scompare, mai del tutto eterea mai del tutto incarnata. Balzano alla mente gli angeli di Klee, ma anche quella voce che improvvisamente ci parla nei momenti cruciali della nostra vita e che fu messa in scena in modo magistrale da Wim Wenders ne Il cielo sopra Berlino.56 È proprio questo angelo a rappresentare l’immaginazione e la sua stessa visione, che diviene immagine della creazione e conferisce un valore nuovo a tutto ciò che esiste.

Tale immagine ci porta a quella che definirei una religiosità dell’innocenza che pervade l’opera de Stevens e in particolare i suoi grandi poemi della maturità. Il testo completo della poesia recita:

/Yet I am the necessary angel of earth,/ Since, in my sight, you see the earth again,// Cleared of its stiff and stubborn, man-locked set,/ And, in my hearing, you hear its tragic drone// Rise liquidly in liquid lingerings,/ Like watery words awash; like meanings said// By repetitions of half-meanings. Am I not,/ Myself, only half of a figure of a sort,// A figure half seen, or seen for a moment,, a man/Of the mind, an apparition apparelled in//Apparels of such lightest look that a turn/Of my shoulder and quickly, too quickly, I am gone?//

(/Eppure sono l’angelo necessario della terra/ Perché la terra nel mio sguardo rivedete, //Libera dalla sua dura e ostinata maniera umana,/E, nel mio udire, udite il suo tragico rombo// Liquidamente sollevarsi nei suoi liquidi indugi,/Come acquee parole nell’onda; come sensi detti// Con ripetizioni e approssimazioni. Non sono forse,/Io stesso una sorta di figura approssimativa,// Una figura intravista, o vista un istante, un uomo/ Della mente, un’apparizione apparsa in// Apparenze tanto lievi a vedersi che se appena/Volgo la spalla, subito, ahi subito, svanisco?//) 57

Le Aurore d’autunno (inverno 1948) aprono il ciclo delle ultime opere, alcune delle quali saranno pubblicate dopo la sua morte. Sempre del 1948 è un altro testo importante: Large red Man reading (Omone rosso che legge). Del 1949 è An ordinary evening in New Haven (Una serata qualunque a New Haven) e del 1950 Angel sorrounded by Paysans (Angelo circondato dai contadini). Infine The Rock (La roccia), un gruppo di 25 poesie scritte dal 1950 e pubblicate nel 54. Infine Opus Posthumous scritte dal 1950 fino all’anno della sua morte (1955); fra queste vi è anche il ciclo di poesie dal titolo The World as Meditation (Il mondo come meditazione), tradotte per la prima volta in Italia nel 1986 e ora comprese in Harmonium.

In queste opere tornano tutti i temi della poesia stevensiana e questo non è sorprendente; ma avviene anche un processo di selezione in due sensi. In primo luogo viene via via abbandonato il tono alto e solenne di cui si sente ancora una eco nelle Aurore d’autunno e specialmente nelle due sezioni precedentemente ricordate e commentate. L’intimità colloquiale è la cifra preponderante e corrisponde a quella curvatura verso l’umano di cui scriveva Nadia Fusini. In secondo luogo, su alcune delle sue tematiche più decisive, per esempio il rapporto fra realtà e immaginazione, Stevens ritorna con pochi tratti sintetici. In altri testi, più tematiche vengono toccate. Un esempio è Vacancy in the park:

/March … Someone has walked across the snow,/Someone looking for ho knows not what.//It is like a boat that has pulled away/From a share at night and disappeared./It is like a guitar left on a table/By a woman, who has forgotten it.//It is like the feeling of a man/Come back to see a certain house.//The four winds blow through the rustic arbor,/Under its mattresses of vines./

(/Marzo … Qualcuno ha camminato fra la neve/Qualcuno che cercava ma non sapeva cosa.//È come una barca che si è allontanata/dalla spiaggia di notte ed è scomparsa./È come una chitarra lasciata sul tavolo/Da una donna, che se n’è scordata./È come lo stato d’animo di un uomo/ritornato a vedere una certa casa.//I quattro venti soffiano attraverso la rustica pergola,/Sotto le sue matasse rampicanti./ 58

Il tema di questa lirica sono le tracce. Marzo, seguito dai puntini di sospensione, introduce il lettore nel setting della lirica: siamo alla fine dell’inverno, la primavera è vicina, ma il paesaggio è ancora immobile, in letargo, si potrebbe dire. L’orma del piede sulla neve, che diventa chitarra abbandonata nel secondo verso, cede il passo nel terzo e nei successivi a immagini d’abbandono e a sentimenti rarefatti. Nella durezza dell’inverno che permane, tali elementi presenti/assenti sono il modo che Stevens assegna all’umano nell’equilibrio del cosmo. Queste tracce visibili non sono simboli di una verità nascosta e misteriosa, ma una tenera presenza che risuona insieme a tutto il resto. I quattro venti che sibilano restituiscono a tutto ciò che umano non è la sua forza, il suo respiro, la sua musica. La chitarra, che fu un oggetto così importante da cui decenni prima e che aveva preso le mosse dalla meditazione di Stevens intorno al nesso realtà immaginazione, è qui abbandonata perché c’è una musica che non può suonare: è quella prodotta dal sibilo di questi venti che passano fra i rampicanti e si tratta di una musica che possiamo sì ascoltare ma che non ci appartiene. Quella musica abita il mondo come lo abitiamo noi, ma non è nostra, l’umano ha qui ceduto il passo a qualcosa che era prima di noi; tuttavia non è scomparso, la chitarra c’è sempre e ci sarà di nuovo qualcuno che la farà risuonare. Tali tracce sono inconfondibilmente umane, non sono tracce del divino, sono i segni di un umano assente ma anche capace di lasciare la sua impronta, il suo segno nel paesaggio, con il quale convive omeostaticamente, in equilibrio.

La seconda lirica, molto celebrata e compresa nell’Opus posthumus, è intitolata The course of the particular (Il corso del particolare.) Essa riprende i motivi di Vacancy in the park, ma anche quelli presenti in un testo assai più vecchio, quasi degli esordi e verrà ripreso successivamente anche in La Roccia.

/Today the leaves cry, hanging on branches swept by wind,/Yet the nothingness of winter becomes a little less./It is still full of icy shades and shapen snow.//The leaves cry…One holds off and merely hears the cry./It is a busy cry, concerning someone else./And though one says that one is part of everything,//There is a conflict, there is a resistance involved;/And being part is an exertion that declines;/One feels the life of that which gives life as it is./The leaves cry. It is not a cry of divine attention,/Nor the smoke-drift of pulled-out heroes, nor human cry./It is the cry of leaves that do not trascend themselves,//In the absence of a fantasia, without meaning more/Than they are in the final finding of the air, in the thing/Itself, until, at last, the cry concerns no one at all./

(/Oggi le foglie gridano, appese a rami che il vento scuote,/Eppure il nulla dell’inverno diviene un poco meno./E’ ancora pieno di ombre gelide e nivee forme.// Le foglie gridano … Ci si discosta, si ascolta solo il grido./E’ insinuante riguarda qualcun altro./E per quanto si dica che siamo parte di un tutto,//La cosa implica un conflitto, una resistenza;/E l’essere parte è uno sforzo che diminuisce:/Si sente la vita che dà la vita così come è.//Le foglie gridano. Non é un grido di attenzione divina,/Nè il fumo di eroi sfiatati, né grido umano./E’ il grido di foglie che non trascendono se stesse,//In una assenza di ogni fantasia,senza significare più/Di quel che sono nella percezione ultima dell’aria, nella cosa/In sé, infine il grido non riguarda più nessuno./)59

In questa poesia si raggiunge ancora una volta una vetta molto elevata della poesia di Stevens. Ciò che il poeta ode è quel suono particolare che nasce dalla combinazione fra un forte vento e l’attrito offerto dalle foglie. Quel grido lo riguarda, ma in che senso? Non è suo, non è umano né divino, è un grido di foglie che non hanno alcuna fantasia. Il grido, però, solleva una contraddizione perché, pur essendo parte di un tutto, si manifesta in esso qualcosa che l’umano può solo cogliere, che non è suo e che alla fine non lo riguarda e come lui nessun altro. Cosa è quel grido allora? È il canto delle cose come sono, è il canto della terra, ancora una volta, per l’ennesima volta, ma con un apporto in più perché il tono del poeta è più pacificato e tranquillo.

Questo tema che ha che fare con il rapporto fra realtà e immaginazione, ma anche con ciò che è umano e ciò che non lo è. Pur essendo tangente la sua tematica fondamentale, tale accentazione, fa di questi pochi testi disseminati nel tempo una specie di cammeo all’interno dell’intera sua opera, anche perché si tratta di testi assai preziosi e raffinati, con un gioco di rime e assonanze particolarmente dense e che non sempre si possono cogliere in pieno nelle traduzioni. Vorrei allora paragonare i due testi citati più sopra ad altri tre. Il primo è del poeta ai suoi esordi, siamo addirittura nel 1916 e la poesia s’intitola Dominion of black (Dominio del nero):

/At night by the fire,/The colors of the bushes /And of the fallen leaves,/Repeating themselves,/Turned in the room,/Like the leaves themselves,/Turning in the wind. /Yes: but the color of the heavy hemlocks/Came striding./And I remembered the cry pf the peacocks.//The colors of their tails/Were like the leaves themselves/Turning in the wind,/In the twilight wind./They swept over the room,/Just as they flew from the boughs of the hemlocks/ Down to the ground./I heard them cry against the twilight/Or against the leaves themselves/Turning in the wind,/Turning as the flames/Turned in the fire,/Loud as the hemlocks/Full of the cry of the peacocks?/Or was it a cry against the hemlocks?//Out of the window,/I saw how the planets gathered/Like the leaves themselves/Turning in the wind./I saw how the night came,/Came striding like the color of the heavy hemlocks./I felt afraid./And I remembered the cry of the peacocks.//

(/Di notte, accanto al fuoco,/i colori dei cespugli/ delle foglie cadute,/ripetendosi,/rotavano nella stanza,/come le stesse foglie/rotanti nel vento./Sì, ma il colore dei pesanti abeti/entrò a lunghi passi./E ricordai il grido dei pavoni./ I colori delle loro code/erano come le foglie stesse/rotanti nel vento,/nel vento crepuscolare./Trascorrevano sulla stanza,/proprio come volavano dai rami degli abeti/giù a terra./Li sentii gridare, i pavoni./Era forse un grido contro il crepuscolo/o contro le stesse foglie/rotanti nel vento,/rotanti come le fiamme/rotavano nel fioco,/rotanti come le code dei pavoni/rotavano nel rumoroso fuoco,/rumoroso come gli abeti,/pieni del grido dei pavoni?/O era un grido contro gli abeti?//Dalla finestra vidi i pianeti congiungersi/come le stesse foglie/rotanti nel vento./Vidi la notte venire, /venire a lunghi passi come il colore dei pesanti abeti./Ebbi paura./E ricordai il grido dei pavoni.//)60

Il secondo appartiene alle ultime opere di Stevens e s’intitolano Il senso ordinario della cose.

/After the leaves have fallen, we return,/To a plain sense of things. It is  as if/We had come to an end of the imagination,/Inanimate in an inert savoir./is difficult even to chose the adjective/For this blank cold, this sadness without cause./The great structure has become a minor house./No turban walks across the lessened floors./The greenhouse never so badly needed paint./The chimney is fifty years old and slants to one side./A fantastic effort had failed, a repetition/In the repetitiousness of men and files.//Yet the absence of the imagination had/Itself to be imagined. The great pond,/The plain sense of it, without reflections, leaves,/Mud water like dirty glass, expressing silence//Of a sort, silence of a rat come out to see,/The great pond and its waste of the lilies, all this/Had to be imagined as an inevitable knowledge,/Required, as a necessity requires.//

(/Cadute le foglie ritorniamo/a un senso ordinario delle cose. È come se/avessimo esaurito l’immaginazione,/inanimi in un savoir inerte.//È difficile scegliere persino l’aggettivo/per questo freddo vacuo, questa tristezza senza causa. La grande struttura è diventata una casa modesta./Nessun turbante percorre i pavimenti immiseriti.//La serra ha più che mai bisogno di una riverniciatura./Il comignolo ha cinquant’anni e pende da una parte./Uno sforzo fantasioso è fallito, una ripetizione/nella ripetitività di uomini e mosche.//Eppure l’assenza dell’immaginazione doveva/ essere essa stessa immaginata. La grande vasca,/il suo senso ordinario, senza riflessi, foglie,/fango, acqua come vetro opaco,espressione di un erto//silenzio, il silenzio di un topo uscito a guardare,/la grande vasca e la rovina delle ninfee, tutto ciò/doveva essere immaginato come una conoscenza inevitabile,imposta, come impone una necessità.//) 61

Infine l’ultimo che, forse, è addirittura l’ultima poesia scritta da Stevens; ma anche se così non fosse, possiamo considerarla il suo testamento spirituale, ma non definitivo, perché l’allusione all’endless poem, è un invito ai lettori ma anche agli altri poeti a continuare. Diciamo che la morte del poeta pone il suo sigillo su questo testo, ma al tempo stesso noi riconosciamo in esso quanto egli ci ha lasciato in eredità lungo il suo intero percorso: non è dunque un testo sorprendente per ciò che esso esprime, ma ancora una volta per la capacità di distillare in modo sempre cangiante, quella che è la sua verità. Il testo ha un titolo talmente emblematico da non richiedere alcuna nota aggiuntiva: Of Mere Being (Del mero essere):

/The palm at the end of the mind,/Beyond the last thought, rises/In the bronze distance,//A gold-feathered bird/Sings in the palm, without human meaning,/Without human feeling, a foreign song.//You know then that it is not the reason/That makes us happy or un happy./The bird sings/Its feather shine.//The palm stands on the edge of space,/The wind moves slowly in the branches./The bird’s fire-fangles feathers dangle down.//

(/La palma alla fine della mente,/oltre l’ultimo pensiero, sorge nella distanza bronzea,//un uccello dalle piume d’oro/canta nella palma, senza senso umano,/senza sentimento umano, un canto strano.//Sai allora che non è la ragione/a rendere felici o infelici./L’uccello canta, le piume splendono.//La palma svetta al limite dello spazio./Il vento muove piano nei rami./Le piume di fuoco ciondolano giù./)62

Che cos’hanno in comune questi testi? Prima di tutto la presenza in essi delle foglie e dei gridi o di suoni che non sono umani: da quello dei pavoni del 1916, a quello elle foglie che stridono, fino alle foglie cadute del senso ordinario delle cose. Le tracce sono un secondo elemento, diverse ma decisive sempre. Si potrebbe parlare delle tracce come di una serie di metonimie che emergono più volte nell’opera stevensiana. Infine le voci animali, i suoni di questi altri da noi che e specialmente quel topo che è uscito a guardare. Per Stevens hanno sempre qualcosa di misterioso e irriducibile, quasi mai di fraterno, a differenza della sua grande sodale Marianne Moore che invece s’identifica con il mondo animale. La sintesi di questo gruppo di testi e di queste metonimie è forse nel Soliloquio finale dell’amante interiore:

/Light the first light of evening, as in a room/In which we rest and, for small reasons think/The world imagined is the ultimate good.//This is, therefore, the intensest rendezvous./It is in that thought that we collect ourselves,/Out of all the indifferences, into one thing://Within a single thing, a single shawl/Wrapped tightly round us, since we are poor, a warmth,/A light, a power, the miraculous influence.//Here, now, we forget each other and ourselves./We feel the obscurity of and order, a whole,/A knowledge, that which arranged, the rendezvous,//Within its vital boundary, in the mind./We say God and the imagination are one…/How high that highest candle lights the dark.//Out of this same light, out of the central mind,/We make a dwelling in the evening air,/In which being there together is enough./

( /Accendi la prima luce della sera, come in una stanza/in cui riposiamo e, con poca ragione, pensiamo/il mondo immaginato è il bene supremo.//Questo è dunque il più intenso appuntamento./È in tale pensiero che ci raccogliamo/fuori da ogni indifferenza, in una cosa://entro una sola cosa un solo scialle,/che ci stringiamo intorno, essendo poveri: un calore,/Luce, potere, l’influsso prodigioso.//Qui, ora, dimentichiamo l’un l’altro e noi stessi./Sentiamo l’oscurità di un ordine, un tutto,/un conoscere, ciò che fu? l’appuntamento//entro il suo confine vitale, nella mente./Diciamo che Dio e l’immaginazione sono tutt’uno … /Quanto in alto l’altissima candela irraggia il buio.//Di questa luce stessa, della mente centrale,/facciamo un’abitazione nell’aria della sera,/tale che starvi insieme è sufficiente.//)63

La chiave è proprio il verso finale: tanto che starvi insieme è sufficiente. L’umano ha imparato a convivere e a riconoscere il suo luogo e il suo tempo:  Tutto quello che c’è è qui aveva detto Stevens in un’altra occasione ed è in questo luogo ed in questo tempo che a noi è dato di vivere; ma questo non è più un tempo di povertà come troppe volte si insiste, è piuttosto quel limbo o quello stato di semiveglia di cui abbiamo visto una memorabile rappresentazione nell’ottava sezione di Aurore d’autunno. Il suono della terra, il canto della terra non avrà e non conoscerà le altezze dell’inno o del paradiso, ma sarà ugualmente rassicurante, caldo, amichevole. Il suo canto della terra non ascende verticalmente al cielo se non per un arco che poi ripiega di nuovo verso la terra, lo si potrebbe descrivere forse come un movimento ondulatorio che trasfigura le cose, che le trascende per un attimo per poi ritornare ad esse. In questo senso mi sembra superficiale l’accostamento (in verità è un problema della critica italiana più che di altre) fra la poesia di Stevens e la filosofia di Heidegger. L’opera del filosofo tedesco s’inscrive nella tradizione della metafisica occidentale, mentre la poesia di Stevens non porta a una nuova o vecchia metafisica perché la sua curvatura ultima piega sempre verso la terra. Il canto della terra è distante dalle tracce lasciate dagli dei di Heidegger.64 Allo stesso modo mi sembra fuorviante l’accostamento di Stevens a Rilke. Pur con tutta la cautela del caso, visto che non sono nella condizione di apprezzare pienamente il poeta tedesco per la mia insufficiente conoscenza di quella lingua, mi sembra che i toni alti in Rilke siano il telos costante della sua poesia, mentre i toni alti di Stevens sono il passaggio necessario per raggiungere una meta diversa, quella dei suoi poemi finali. Vista nella sua continua metamorfosi la poesia di Stevens ha un vettore differente, anche se in poemi come Mattino domenicale o le Notes toward a supreme fiction si possono avvertire assonanze rilkiane. In ogni caso, gli studiosi americani che si sono occupati di Stevens, Bloom in primis, hanno insistito molto sulle ascendenze statunitensi piuttosto che europee: Bloom parla di Ralph Waldo Emerson, di William James, di Whitman, di una tradizione molto autoctona e per quanto riguarda l’Europ è Platone che ritorna spesso, mentre per la contemporaneità si parla talvolta di Nietzsche e Valery.

L’eterno e il quotidiano: una sera qualunque a New Haven

Il tratto distintivo del poema Una sera qualunque a New Haven, ciò che gli dà unità e cifra stilistica è il timbro della voce. New Haven è un poema conviviale, una meditazione che si fa parola discorsiva e colloquiale. Leggendolo, canto dopo canto, ci si sente portati a recitarlo a bassa voce, come quando si parla rilassati con quei pochi amici con i quali si possono scambiare le confidenze più intime: anche per questo è, fra i poemi di Stevens, quello che meno si presta a estrapolazioni. New Haven è anche il poema della piena riconciliazione con la poesia e i suoi modi ed è poema della maturità; voce autunnale che diviene canto della terra nel suo offrirsi più comune e semplice. In questo poema l’accettazione delle cose nel loro darsi empiricamente è piena e serena. Infatti, l’autunno per Stevens non è una stagione triste, ma rappresenta al contrario la pienezza della vita.

Quanto ai temi della meditazione sono i soliti: ritroviamo la caverna platonica, la tensione costante fra realtà e immaginazione, la poesia come cosa fra le cose, il colore azzurro della chitarra. Cosa rappresenta, allora, questo poema nel percorso poetico di Stevens? Da un lato è l’ennesimo punto di svolta e la porta che introdurrà all’Opus Posthumous, a The rock, cioè agli ultimi testi, scritti vicini alla sua morte; ma segna anche il ritorno a tutte le sue tematiche, in una sorta di ciclicità che è al tempo stesso bilancio di un’esperienza poetica. 

La vita di Stevens finisce ma la sua poesia allude, proprio nel suo farsi (e dunque ben prima di quel riconoscimento del valore di cui Stevens non si cura), a un processo che per sua natura non s’interrompe. Il poeta di Hartford non pronuncia in versi quel luogo comune tante volte ripetuto: la poesia è eterna. Ciò è vero, ma non è di questo che stiamo parlando e che appartiene alla sfera sempre opinabile del giudizio critico che si stratifica nel tempo e che solo in esso può trovare il proprio consolidamento. Ciò che qui si vuole mettere in evidenza è che l’organismo poetico stevensiano è nel suo farsi nel tempo costruito in modo tale da evidenziare un movimento metamorfico in atto, potenzialmente ininterrotto, ma non nel senso dell’infinito; piuttosto in quello di una circolarità che si espande, di un universo in espansione di cui la realtà fisica costituisce l’aspetto più fenomenico, dal quale non si può mai prescindere. La sua espansione è una quest verso la quale incamminarsi. Potenzialmente senza soluzione di continuità questo viaggio porta a un’intensificazione della realtà stessa, senza che nulla però di essa vada perso o venga superato in senso deterministico; tutto ritorna anche se nel ritorno non vi è mai una sovrapposizione perfetta, il mutamento è un piccolo scarto.

In Una sera qualunque a New Haven tale modalità raggiunge una sintesi stilistica  particolarmente efficace. In esso, infatti, sono compresenti tre momenti diversi che sembrano stare agli antipodi ma che si rimandano invece l’uno con l’altro. New Haven è una località anonima in quanto luogo fisico, ma nel nome evoca il Paradiso (Heaven). È un luogo apparentemente senza attrattive, ma talvolta è possibile assistere in esso – come ad Hartford – a quel fenomeno naturale estremo che sono le aurore boreali. Ecco qui rappresentato il paradosso stevensiano nella sua nuda essenza: non il paradiso, non il favoloso altrove, ma l’anonimo che per un momento risplende come se fosse il paradiso, come Bergamo in cartolina, un altro verso formidabile di Stevens, che ci lascia oltretutto nel dubbio se stia parlando di una località statunitense (come la Paris Texas di Wenders), oppure proprio della città lombarda. La nona stanza rappresenta molto bene tutto questo:

/We keep coming back and coming back/To the real: to the hotel instead of the hymns/ that fall upon it out of the wind. We seek// The poem of pure reality, untouched/By trope and deviation, straight to te word,/Straight to the transfixing object, to the object//at the exactest point at which it is itself,/Transfixing by being purely what it is,/A view of New Haven, say, through the certain eye,//The eye made clear of the uncertainty, with the sight/Of simple seeing, without reflection. We seek/Nothing behind reality. Within it,/Everything, the spirits alchemicana/Included, the spirit that goes roundabout,/And through included, not merely the visible,/The solid, but the movable, the moment,/The coming on of feasts and the habits of saints,/The pattern of the heavens and high, night air.//

(/Non facciamo che tornare e ritornare/Alla realtà, all’albergo e non agli inni/che il vento vi trasporta. Cerchiamo/La poesia della realtà, vergine /Di tropi e di deviazioni, diritta alla parola,/Diritta all’oggetto che trafigge, l’oggetto//al punto esatto in cui è se stesso,/Trafiggente in quanto è ciò che è, nient’altro/New Haven mettiamo, vista da un occhio certo//Un occhio purgato di ogni incertezza, la vista/Del semplice vedere, senza riflesso. Non cerchiamo/nulla oltre la realtà. In essa//Tutto, comprese le alchimerie dello spirito,/ Compreso spirito che si muove in cerchio/E di traverso, non solo il visibile,//Il solido, ma il mobile il momento, /L’avvento delle feste, dei riti santi,/Il disegno dei cieli e la parola alta, notturna.//)65

È il tono a fare qui la differenza. Il poeta diventa il commensale al banchetto della vita: cioè di tutto ciò che è umano ma anche di ciò che non lo è, o chi si nutre di tavolini che si muovono durante le sedute spiritiche. Non solo la natura organica è per lui degna di attenzione, anche quella inorganica: la pietra, la roccia. Tutto ha una vita che risuona, al poeta spetta il compito, se ne è capace, di avvicinare il più possibile la parola a questo suono, captarlo, tradurlo, così da far risuonare quel canto della terra cui egli mira. E sembra davvero di poterlo immaginare, nel leggere il poema di New Haven, immortalato in quel suo autoritratto che è la poesia Omone rosso che legge. Autoritratto perché, con simpatica ironia, egli allude proprio alla propria massiccia molte corporea e ai suoi capelli; non vi è dubbio che sia proprio lui e che con questo testo abbia in qualche modo voluto mettere la sua firma sul grande affresco che ha tessuto per una vita intera. Il testo però è anche qualcosa di più perché ci permette di avvicinarci (almeno per quello che è il dettato poetico) al suo rapporto con il sacro, il divino, la materia religiosa. Stevens si ritrae come lettore delle sue stesse poesie, ma non siamo in un auditorium o in un teatro; piuttosto in un ambiente domestico, intimo. Qual è però il suo pubblico?

/There were ghosts that returned to earth to hear his phrases/As he sat there, reading aloud, the great blue tabulae/There were those that from the wilderness of stars that had expected more./There were those that had returned to hear him read from the poem of life,/of the pans above the stove, the posts on the table, the tulips among them./They were those who should have wet to step barefoot into reality,/That would have wept and been happy, have shivered in the frost,/And cried out to feel it again, have run fingers over leaves and against the most coiled Thorns,/have seized on what was ugly/And laughed, as he sat there reading, from out of the purple tabulae, the outlines of beings an its expressing, the syllables of the law:/poiesis poiesis, the literal characters, the vatic lines,/Which in these ears, in those thin, those spended hearts/Took on colors, took upon shape and seized the things as they are/And spoke the feeling of them, which was what they ha lacked./

(/C’erano spettri tornati sulla terra per sentire le sue frasi/Lui seduto che leggeva ad alta voce le grandi tabulae azzurre./Erano quelli del deserto delle stelle che avevano atteso di più/C’era chi tornava per sentirlo leggere il poema della vita/della pentola sulla stufa, la brocca sul tavolo, i tulipani/Erano quelli che avrebbero pianto pur di entrare scalzi nella realtà,/Avrebbero pianto di gioia, tremato di freddo nel gelo,/E gridando pur di sentirlo ancora, avrebbero accarezzato con le dita le foglie,/le spine più acuminate afferrandosi al brutto,/E ridendo, mentre lui seduto leggeva , dalla tabulae di porpora,/i lineamenti dell’essere, le sue espressioni, le sillabe della legge:/Poiesis, poiesis, le lettere i caratteri, i versi ispirati/Che in quegli orecchi, in quei cuori sottili, esausti, /Prendevano forma colore, e la misura delle cose come sono/E dicevano per loro l’emozione, che era ciò che era loro mancato./)66

Sono i morti che, se potessero, vorrebbero ritornare a pregustare di nuovo il calore semplice delle cose di tutti i giorni, la pentola sul fuoco, il conversare insieme. Non sono i vivi che vanno verso il favoloso altrove, l’aldilà come terra promessa, ma il contrario. Dopo tremila anni di viaggi nell’Ade oppure in Inferni e in Paradisi, questo sorprendente statunitense fa il viaggio contrario e riporta i morti qui in mezzo a noi! Non so se in questo vi sia pure una eco del folklore statunitense prima che esso divenisse un’americanata e cioè le tradizioni  legate alla notte di Halloween il 31 ottobre – data conosciuta anche come il Capodanno delle donne. Il senso del canto della terra è in questa poesia più limpido che mai! Stevens ha messo alla prova il linguaggio poetico, portandolo al limite estremo. Così come Lucrezio scrisse un poema scientifico e naturalistico in versi, Stevens si cimenta con il tono filosofico e anche con i suoi eterni rovelli. Poeta controcorrente, dunque, ma anche ben mimetizzato, mai esposto al ludibrio scontato dei cultori dell’abisso, dei narcisisti del niente che hanno imperversato in larga parte del ‘900 e ai quali propose una volta di venire con lui a fare un picnic nelle rovine.

Aurora boreale.


52 Op. cit. pp.44-5

53 Op. cit. pp.44-7

54 Op. cit. pp.56-9

55La ricostruzione completa della genesi di questo testo si trova Wallace Stevens L’angelo necessario, a cura di Massimo Bacigalupo, traduzione di Gino Scatasta, Coliseum editore, Roma 1988 pag.23/24.

56 Gli angeli sono una presenza in tutto il film Wenders, ma mi riferisco in particolare a una scena iniziale, quando a un uomo morente l’angelo sussurra all’orecchio la poesia di Peter Handke  Invocazione del mondo: /Come fui sul monte e arrivai/al sole dalla nebbia della valle/il fuoco ai bordi del pascolo/le patate nella cenere/il capannone delle barche sul lago/la croce del sud/l’oriente lontano/il grande nord/l’ovest selvaggio/il grande lago dell’orso/le isole Tristan da Cunha/

57 Wallace Stevens Harmonium , Poesie 1915-1955, a cura di Massimo Bacigalupo, traduzioni di Massimo Bacigalupo, Glauco Cambon, Renato Poggioli e Giovanni Giudici, Millenium, Einaudi, Torino, 1994, pp.546-7

58 Wallace Stevens, Collected poems, Faber and Faber, Londra 1984, pag.511. La traduzione è mia.

59 Wallace Stevens, Harmonium, a cura di Massimo Bacigalupo, pp. 594-5

60 Op.cit. pp.9-11

61 Op. cit. pp. 554-5

62 Op.cit. pp. 608-9

63 Op.cit. pp.570-1

64 La questione del rapporto fra la poesia di Stevens e la filosofia di Heidegger è stata posta talvolta dalla critica europea e ripresa con maggiore frequenza in Italia, ma è a mio avviso, almeno in parte, fuorviante. Il filosofo era fra l’altro l’inventore di formule assai affascinanti e qualcuna di esse affascinò di certo anche Stevens. L’espressione che indica nei poeti coloro che inseguirebbe le tracce lasciate dagli dei in fuga, fra le più suggestive create da Heidegger, non appare tuttavia adeguata per descrivere il percorso poetico di Stevens, anche perché tale espressione non può essere disgiunta dall’altra e cioè che l’essere umano a seguito della fuga degli dei dal mondo abiterebbe un luogo di povertà. L’uso che anche Stevens fa talvolta della parola povertà in alcuni testi è del tutto diverso, perché è diverso il telos che lo muove. L’intento di Stevens non è la ricerca di una metafisica secondo le linee del pensiero occidentale, ma piuttosto di riconciliare l’umano con la realtà fisica del suo habitat, che tuttavia non è soltanto suo.

65 Wallace Stevens, Una sera qualunque a New Haven, in Aurore d’autunno,  a cura di Nadia Fusini, Arsenale editrice, Venezia 1987, pag. 191

66 Op. cit. pp.70-3.