DI CHI È L’ERA?

Ezra Pound

A conclusione del lavoro critico su alcuni poeti e poete dell’universo letterario anglo statunitense, in quest’ultima parte viene affrontata una questione che è stata e continua a essere dibattuta da parte dei critici dei paesi di lingua inglse, ma che è  decisiva che chiunque si occupi della loro poesia.

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Nel numero speciale 26 del Wallace Stevens Journal del 2002, viene posta la seguente domanda: Pound/Stevens:Whose era? La domanda è anche il titolo del saggio introduttivo di Marjorie Perloff. Nel numero monografico della rivista ci si domanda, dunque, se il giudizio critico sulla poesia statunitense del ’900 possa essere sintetizzata come l’era di Stevens oppure quella di Pound.1 A proporre per primo il quesito fu Harold Bloom nel libro The poems of our climate, pubblicato a Londra nel 1977 in polemica con un altro libro di Hugh Kenner e intitolato The Pound Era. Nadia Fusini, nel suo saggio introduttivo alle Note verso la finzione suprema cita anche Frank Kermode, che sembra tenere una posizione intermedia nel senso che elogia molto le Note ma non si pronuncia sull’insieme dell’opera stevensiana; infine, il giudizio sintetico espresso da Northorp Fry, un altro decano della critica nordamericana, secondo il quale Stevens è: uno dei nostri poeti essenziali.2

In primo luogo e proprio leggendo il numero monografico, appare subito come la domanda sia un po’ troppo stretta anche per chi l’ha posta, dal momento che il nome di Eliot compare assai presto ed era inevitabile che ciò accadesse. Forse nell’interrogativo e sotto traccia (che emerge tuttavia qui e là anche in altri saggi), c’è anche il dover fare i conti con il senso di colpa nei confronti di Pound, per l’ostracismo che dovette subire e anche qualcosa di peggio: in certe università statunitensi il nome di Pound fu un tabù impronunciabile per lungo tempo.

Peraltro, se il punto di vista fosse quello europeo e si prendesse la Waste Land come emblema della crisi di un secolo o addirittura adottando il titolo di un libro assai famoso in quegli anni – Il tramonto dell’Occidente di Spengler –3 non vi è dubbio che per un europeo,  il ‘900 potrebbe essere definito come il secolo di Eliot.  

Tradizione e modernismo in Pound, Eliot, Stevens e Moore

Per Pound, le tradizioni sono una fonte continua di scoperta e ispirazione, per Eliot la tradizione era una scelta da compiere. Entrambi si rivolsero all’Europa ma le differenze sono notevoli. Pound sembra più che altro fuggire dagli Usa, trovando nel vecchio continente e in alcune sue regioni bellissime e periferiche – il Trentino e Rapallo –  l’alveo geografico protetto da cui poter spaziare verso ogni tradizione possibile. Il suo percorso mi ricorda, per analogia, la bottega del rigattiere. Pound ha seguito in modo estremo la prima parte della sentenza pronunciata da Borges  – un convitato di pietra sempre presente in questo studio –4 e cioè che per un argentino, come per uno statunitense, ovvero per due artisti appartenenti a nazioni giovani e senza tradizione, quest’ultima può essere trovata ovunque. Borges ha selezionato, reinventato, oppure inventato per selezionare, mentre Pound è stato un amorevole raccoglitore di tutto quanto incontrava nel suo peregrinare letterario. Il suo, tuttavia, non fu mai un atteggiamento di appropriazione, ma di salvaguardia, di custodia, di scoperta e anche di generosità nel mettere a disposizione di altri quanto andava raccogliendo un po’ dappertutto e, in fondo, senza una vera direzione. Del resto, lo sappiamo che nella bottega del rigattiere il kitsch e l’oggetto prezioso vivono l’uno accanto all’altro. La poesia di Pound è fatta di bagliori improvvisi, di intuizioni, di aforismi fulminanti all’interno di partiture complesse che s’avvicinano alla poesia visiva, come accade per certe incursioni – incomprensibili ai più – ma visivamente suggestive, dei caratteri cinesi e giapponesi nei suoi Cantos. Pasolini, durante un’intervista che gli fece e durante la quale Pound parlò peraltro assai poco, esprimendosi per brevissimi accenni distanti e lontani da tutto, sottolineava il dettato arcaico e barbarico della sua poesia, sia per la potenza che ne emanava, sia per una sorta di innocenza originaria, non mediata.5

Sarebbe perciò errato intendere come citazionismo il viaggio di Pound dentro i simboli e i tropi della poesia mondiale. L’amore per tutto quello che lo incuriosiva è un dato che va oltre la necessità di citare e Pound è stato anche per questo il miglior fabbro, espressione quanto mai felice, perché tutti sono passati in un modo o nell’altro dalla sua bottega di rigattiere e tutti se ne sono usciti con qualcosa. Si può dire che egli abbia nutrito, con la sua generosità, la poesia anglo americana di un secolo e basterebbe ricordare gli interventi fondamentali che suggerì a Eliot dopo avere letto la prima versione di Waste land. Si può obiettare a questa ricostruzione che anche in Pound si può rintracciare una tradizione prevalente, visto il richiamo a Dante – il primo miglior fabbro –  ma, ciò è vero con alcune precisazioni. Nel celebre Canto XLV, dell’Usura, egli si rifà a un cristianesimo talmente arcaico, da sfuggire a qualsiasi nuova codificazione.6

With Usura

With usura hath no man a house of good stone/each block cut smooth and well fitting/that design might cover their face,/

with usura/hath no man a painted paradise on his church wall/harpes et luz/or where virgin receiveth message/and halo projects from incision,/ with usura /seeth no man Gonzaga his heirs and his concubines/no picture is made to endure not to live with/but it is made to sell and sell quickly/with usura, sin against nature,/is thy bread ever more of stale rags/is thy bread dry as paper/ with no mountain wheat, /no strong flour/ with usura the line grows thick/wit usura is no clear demarcation/and no man can find site for his dwelling./Stone cutter is kept form his stone/weaver is kept from his loom/

WITH USURA/

wool comes not to market/sheep bringeth no gain with usura/Usura is a murrain, /usura/blunteth the needle in the maid’s hand/and stoppeth the spinner’s cunning. Pietro Lombardo/came not by usura, Duccio came not by usura/nor Pier della Francesca; Zuan Bellin’ not by usura/nor was ‘La Calunnia’ painted./Came not by usura Angelico; came not Ambrogio Praedis,/Came no church of cut stone signed: Adamo me fecit./Not by usura St. Trophime/Not by usura Saint Hilaire,/Usura rusteth the chisel/It rusteth the craft and the craftsman/It gnaweth the thread in the loom/None learneth to weave gold in her pattern;/Azure hath a canker by usura; cramoisi is unbroidered/Emerald findeth no Memling/Usura slayeth the child in the womb/It stayeth the young man’s courting/It hath brought palsey to bed, lyeth/between the young bride and her bridegroom/

                               CONTRA NATURAM

They have brought whores for Eleusis/Corpses are set to banquet/at behest of usura.

Con l’Usura

Con l’usura nessuno ha una casa di buona pietra/ciascun blocco finemente squadrato e adatto/a dipingerne la facciata,/con l’usura/nessuno avrà un paradiso affrescato sul portale di una chiesa/né harpes  et luz/o luogo dove la vergine ricevi il messaggio/e sia incisa l’aureola/con l’usura non ci sono Gonzaga, eredi e concubine/nessun dipinto è fatto per durare e vivere/ma per essere venduto e venduto in fretta/con l’usura, peccato contro natura,/il pane è avanzo irrancidito/secco come carta/niente segala, /niente farina buona/con l’usura il segno diviene greve/con l’usura non vi è confine certo/e nessuno può trovare la dimora in cui vivere/il tagliatore di pietra è allontanato dalla pietra/il tessitore dal suo telaio/

CON L’USURA/la lana non arriva al mercato/le pecore allevate non portano guadagno/l’usura pestilenza/Con l’usura/si ottunde l’ago nelle mani della ragazza/si arresta il telaio. Pietro Lombardo/non venne dall’usura, e Duccio non venne dall’usura/e neppure Pier della Francesca; Zuan Bellin non venne dall’usura/né fu dipinta La Calunnia./Non venne dall’usura Angelico; né Ambrogio Praedis/nessuna chiesa di pietra col marchio: Adamo me fecit./Né venne St. Trophime dall’usura/neppure st.HIlaire,/l’usura arrugginisce il cesello/arrugginisce l’arte e l’artigiano/corrode il filo del telaio/nessuno imparò a filare l’oro nel suo modello;/l’Azzurro ha un cancro con l’usura; il cremisi …./lo Smeraldo non trova il suo Memling/L’usura uccide il bambino nel grembo/trattiene il giovane nel corteggiamento/porta la paralisi nel letto, si sdraia/fra il giovane sposo e la sposa/

                                     CONTRA NATURAM

/Hanno portato le puttane  da Eleusi/cadaveri preparati per banchetto/agli ordini dell’usura.

Ciò che colpisce anche visivamente nel testo è la ripetizione ossessiva del termine usura, poi la ricchezza delle immagini. La parte più interessante sono il lessico e la grafia usate perché la lingua di questo testo non è l’inglese moderno, ma  quello arcaico – rusteth, findeth, per esempio – che si può far risalire a un’epoca in cui il Cristianesimo secondo Pound conservava una propria purezza originaria, non ancora inquinata dalla modernità, che per il poeta inizia proprio con i prestito di denaro a interesse. L’iconografia presente nel testo è più complessa perché spazia fino a Piero della Francesca e cioè in pieno Umanesimo, mentre sembra tenersi a una certa distanza dalle immagini che ricordano il pieno Rinascimento. Pound sogna un Cristianesimo che a rigore di logica dovrebbe essere precedente l’invenzione stessa del Purgatorio, dovuta alla necessità di salvare dalla dannazione assoluta un’intera categoria di professioni che si andavano imponendo: barattieri, banchieri, ecc. Il sogno rimane quello che è ma la potenza dei sui versi che rimane come monito nel tempo della necrofilia capitalistica che ci sovrasta.

Moore. Nei saggi dedicati all’opera d’arte, Karl Gustav Jung afferma fra l’altro che il grande artista è colui che fa sentire alla propria epoca ciò che più manca ad essa.8 È una definizione che calza a pennello per Moore e molto anche per Stevens. La prima natura riscoperta nel cuore di una civiltà che pensava di averla del tutto domata, è proprio la denuncia di un’illusione ottica assai pericolosa. Bisogna considerare, poi, che Marianne Moore morì nel 1972, ma che scrisse il corpus maggiore delle sue poesie in anni che vanno dal 1935 alla metà degli anni ’50, in un momento storico in cui – nonostante le distruzioni di due guerre mondiali – l’attenzione sui disastri ambientali non era ancora all’ordine del giorno. La sua natura e i suoi animali, però, sono tali perché colti nel loro habitat e con le loro caratteristiche di specie. Cani e gatti, uccelli in gabbia e altre specie troppo addomesticate non sono presenti nella sua poesia. Il suo modo di sentire il mondo animale e naturale è altrettanto lontano da certe pieghe ecologiste contemporanee, che cominciarono a imporsi successivamente alla sua morte. Pensando all’oggi, credo che sarebbe addirittura inorridita nell’osservare il processo sempre più irragionevole che attribuisce agli animali tratti antropomorfi che rasentano il grottesco e che sembrano voler trasportare le invenzioni di Walt Disney dal cartone animato alla realtà. Moore invita il lettore all’ammirazione e alla contemplazione del mondo animale, ma la natura per lei non è un giardino fiorito, ma piuttosto un’arena dove il conflitto e il confronto sono all’ordine del giorno; ma non la guerra, che appartiene solo agli umani. La sua profonda ammirazione del mondo animale può certo educare a un’etica del rispetto, ma prima di tutto a quella tipologia di rispetto che assegna a ciascuna specie il diritto di vivere secondo le proprie prerogative di speciazione.

La natura peraltro, è assai presente anche nella poesia di Stevens e in definitiva è proprio tale presenza in entrambi è fra le tematiche  che pongono fra i due ed Eliot una distanza irriducibile. Quanto al suo rapporto con la tradizione, Moore è forse la più eclettica, ma in un senso profondamente diverso dell’eclettismo di Pound. I suoi interessi per la divulgazione scientifica, per esempio, sono pari agli interessi letterari e questo le permette di usare un linguaggio poetico che ha un vasto retroterra nella scienza: l’esattezza di certe immagini viene da questo e Moore è fra i pochi poeti e poete del secolo scorso cimentarsi con linguaggi estranei alla letteratura in senso stretto.      

Eliot infine è il continuatore della tradizione che da Baudelaire passa per Laforgue, ma vi rimane intrappolato perché quella tradizione ha molti decenni alle sue spalle e non è già più la novità densa di futuro che era a metà del secolo precedente e lo stesso vale per l’ipocrita lettore, che Eliot riprende alla lettera come citazione. La dimensione urbana era stata esplorata in tutte le sue pieghe ed Eliot è l’ultimo a farlo e con lui essa diventa una totalità, dalla quale cerca di sottrarsi nei Quartetti dove, specialmente nell’ultimo e cioè in Little Gidding , è la provincia campestre e virtuosa a tornare al centro. Tuttavia, gli squarci di natura esistenti in Eliot si traducono quasi immediatamente in simboli religiosi: la rosa, il roveto ardente, o l’estate di San Martino. Oppure, ripensando ai versi iniziali di Waste land – Aprile è il mese più crudele – la natura è usata per farne immediatamente una metafora che sta per altro.

Quanto ai rapporti fra Eliot e Stevens, essi sono difficili da mettere a fuoco, prima di tutto per la voluta distanza che il secondo ha sempre posto fra sé e il mondo letterario del suo tempo. Eliot, in un’intervista riportata nell’edizione italiana dei Quartetti, a cura di Angelo Tonelli, l’intervistatore d’eccezione, il poeta polacco Milosz, lo sollecita a parlare di lui, ma egli finge di non accorgersene e passa oltre.9 Se si guardano i due percorsi, non vi è dubbio che la loro distanza sia assai grande e il fatto che qui e là si possano scorgere tematiche analoghe, appartiene di più al sentire comune di un’epoca che ad altro. Alcuni punti di partenza possono sembrare comuni – mi riferisco in particolare a Sunday Morning  se messo a confronto con alcune parti della Waste Land – A game of chess per esempio – ma sono somiglianze destinate a venir meno nel prosieguo dei loro percorsi. Stevens, al culmine della crisi di una civiltà, che anche lui sente ma con la quale non collude, si affida alla poesia e a dove essa lo porta, non a opzioni che le sono estranee. Gli esiti più alti del suo percorso si trovano alla fine della sua vita, sono cioè i frutti maturi di un’esistenza poetica che non è scesa a patti con il peso del mondo, ma è rimasta fedele a un’inspirazione originaria, che risponde solo a se stessa. Stevens, l’assicuratore anonimo, l’uomo della provincia americana, è forse l’unico poeta del ‘900, in Occidente, ad avere scommesso su una nuova sacralità della parola poetica, ma una sacralità tutta terrestre. Diverso il suo atteggiamento anche per quanto riguarda il rapporto fra poesia e interpretazione, poesia e critica. Anche Stevens si è cimentato con entrambe le discipline, ma se Eliot ha voluto sempre indicare ai critici cosa voleva dicessero di lui, Stevens fa esattamente il contrario e cioè li depista in continuazione. Memorabile, a mio avviso, è il modo in cui tiene tutti sulla corda, lasciando i critici discutere su un finto enigma: quella della famosa quarta sezione del poema Note verso la finzione suprema.

Harold Bloom


1 Il numero in questione è un’edizione speciale e monografica. I saggi esplorano diversi aspetti della questione e si aprono a valutazioni extra letterarie, come avviene per esempio nel saggio di Alan Filreis sull’atteggiamento di Stevens e Pound nei confronti della Guerra Fredda.

2 Wallace Stevens Note verso la finzione suprema a cura di Nadia Fusini, Arsenale editrice, Venezia 1987, pag. 9. La citazione viene ripresa anche alla pag. 49 nelle note al testo.

3 Il libro fu pubblicato nell’estate del 1918 e suscitò un’enorme impressione, dato anche il momento particolare della storia europea,  alla fine di una guerra disastrosa e di una pace che lo sarebbe stata ancora di più. 

4 In n questo stesso blog si trova un saggio su Borges dedicato però a uno solo dei suoi racconto:  Deutsche requiem.

5 Il link dell’intervista di Pasolini è facilmente reperibile su Youtube

6 Il canto dell’usura fu pubblicato nei Pisan Cantos.

8 Karl Gustav Jung, Scritti sulla letteratura e l’arte. Il testo è facilmente reperibile anche in rete.

9 T.S. Eliot. La terra desolata e Quattro quartetti.’ Traduzione e cura di Angelo Tonelli, Universale economica Feltrinelli, aprile 2000, introduzione e intervista.