DI CHI È L’ERA?

Ezra Pound

A conclusione del lavoro critico su alcuni poeti e poete dell’universo letterario anglo statunitense, in quest’ultima parte viene affrontata una questione che è stata e continua a essere dibattuta da parte dei critici dei paesi di lingua inglse, ma che è  decisiva che chiunque si occupi della loro poesia.

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Nel numero speciale 26 del Wallace Stevens Journal del 2002, viene posta la seguente domanda: Pound/Stevens:Whose era? La domanda è anche il titolo del saggio introduttivo di Marjorie Perloff. Nel numero monografico della rivista ci si domanda, dunque, se il giudizio critico sulla poesia statunitense del ’900 possa essere sintetizzata come l’era di Stevens oppure quella di Pound.1 A proporre per primo il quesito fu Harold Bloom nel libro The poems of our climate, pubblicato a Londra nel 1977 in polemica con un altro libro di Hugh Kenner e intitolato The Pound Era. Nadia Fusini, nel suo saggio introduttivo alle Note verso la finzione suprema cita anche Frank Kermode, che sembra tenere una posizione intermedia nel senso che elogia molto le Note ma non si pronuncia sull’insieme dell’opera stevensiana; infine, il giudizio sintetico espresso da Northorp Fry, un altro decano della critica nordamericana, secondo il quale Stevens è: uno dei nostri poeti essenziali.2

In primo luogo e proprio leggendo il numero monografico, appare subito come la domanda sia un po’ troppo stretta anche per chi l’ha posta, dal momento che il nome di Eliot compare assai presto ed era inevitabile che ciò accadesse. Forse nell’interrogativo e sotto traccia (che emerge tuttavia qui e là anche in altri saggi), c’è anche il dover fare i conti con il senso di colpa nei confronti di Pound, per l’ostracismo che dovette subire e anche qualcosa di peggio: in certe università statunitensi il nome di Pound fu un tabù impronunciabile per lungo tempo.

Peraltro, se il punto di vista fosse quello europeo e si prendesse la Waste Land come emblema della crisi di un secolo o addirittura adottando il titolo di un libro assai famoso in quegli anni – Il tramonto dell’Occidente di Spengler –3 non vi è dubbio che per un europeo,  il ‘900 potrebbe essere definito come il secolo di Eliot.  

Tradizione e modernismo in Pound, Eliot, Stevens e Moore

Per Pound, le tradizioni sono una fonte continua di scoperta e ispirazione, per Eliot la tradizione era una scelta da compiere. Entrambi si rivolsero all’Europa ma le differenze sono notevoli. Pound sembra più che altro fuggire dagli Usa, trovando nel vecchio continente e in alcune sue regioni bellissime e periferiche – il Trentino e Rapallo –  l’alveo geografico protetto da cui poter spaziare verso ogni tradizione possibile. Il suo percorso mi ricorda, per analogia, la bottega del rigattiere. Pound ha seguito in modo estremo la prima parte della sentenza pronunciata da Borges  – un convitato di pietra sempre presente in questo studio –4 e cioè che per un argentino, come per uno statunitense, ovvero per due artisti appartenenti a nazioni giovani e senza tradizione, quest’ultima può essere trovata ovunque. Borges ha selezionato, reinventato, oppure inventato per selezionare, mentre Pound è stato un amorevole raccoglitore di tutto quanto incontrava nel suo peregrinare letterario. Il suo, tuttavia, non fu mai un atteggiamento di appropriazione, ma di salvaguardia, di custodia, di scoperta e anche di generosità nel mettere a disposizione di altri quanto andava raccogliendo un po’ dappertutto e, in fondo, senza una vera direzione. Del resto, lo sappiamo che nella bottega del rigattiere il kitsch e l’oggetto prezioso vivono l’uno accanto all’altro. La poesia di Pound è fatta di bagliori improvvisi, di intuizioni, di aforismi fulminanti all’interno di partiture complesse che s’avvicinano alla poesia visiva, come accade per certe incursioni – incomprensibili ai più – ma visivamente suggestive, dei caratteri cinesi e giapponesi nei suoi Cantos. Pasolini, durante un’intervista che gli fece e durante la quale Pound parlò peraltro assai poco, esprimendosi per brevissimi accenni distanti e lontani da tutto, sottolineava il dettato arcaico e barbarico della sua poesia, sia per la potenza che ne emanava, sia per una sorta di innocenza originaria, non mediata.5

Sarebbe perciò errato intendere come citazionismo il viaggio di Pound dentro i simboli e i tropi della poesia mondiale. L’amore per tutto quello che lo incuriosiva è un dato che va oltre la necessità di citare e Pound è stato anche per questo il miglior fabbro, espressione quanto mai felice, perché tutti sono passati in un modo o nell’altro dalla sua bottega di rigattiere e tutti se ne sono usciti con qualcosa. Si può dire che egli abbia nutrito, con la sua generosità, la poesia anglo americana di un secolo e basterebbe ricordare gli interventi fondamentali che suggerì a Eliot dopo avere letto la prima versione di Waste land. Si può obiettare a questa ricostruzione che anche in Pound si può rintracciare una tradizione prevalente, visto il richiamo a Dante – il primo miglior fabbro –  ma, ciò è vero con alcune precisazioni. Nel celebre Canto XLV, dell’Usura, egli si rifà a un cristianesimo talmente arcaico, da sfuggire a qualsiasi nuova codificazione.6

With Usura

With usura hath no man a house of good stone/each block cut smooth and well fitting/that design might cover their face,/

with usura/hath no man a painted paradise on his church wall/harpes et luz/or where virgin receiveth message/and halo projects from incision,/ with usura /seeth no man Gonzaga his heirs and his concubines/no picture is made to endure not to live with/but it is made to sell and sell quickly/with usura, sin against nature,/is thy bread ever more of stale rags/is thy bread dry as paper/ with no mountain wheat, /no strong flour/ with usura the line grows thick/wit usura is no clear demarcation/and no man can find site for his dwelling./Stone cutter is kept form his stone/weaver is kept from his loom/

WITH USURA/

wool comes not to market/sheep bringeth no gain with usura/Usura is a murrain, /usura/blunteth the needle in the maid’s hand/and stoppeth the spinner’s cunning. Pietro Lombardo/came not by usura, Duccio came not by usura/nor Pier della Francesca; Zuan Bellin’ not by usura/nor was ‘La Calunnia’ painted./Came not by usura Angelico; came not Ambrogio Praedis,/Came no church of cut stone signed: Adamo me fecit./Not by usura St. Trophime/Not by usura Saint Hilaire,/Usura rusteth the chisel/It rusteth the craft and the craftsman/It gnaweth the thread in the loom/None learneth to weave gold in her pattern;/Azure hath a canker by usura; cramoisi is unbroidered/Emerald findeth no Memling/Usura slayeth the child in the womb/It stayeth the young man’s courting/It hath brought palsey to bed, lyeth/between the young bride and her bridegroom/

                               CONTRA NATURAM

They have brought whores for Eleusis/Corpses are set to banquet/at behest of usura.

Con l’Usura

Con l’usura nessuno ha una casa di buona pietra/ciascun blocco finemente squadrato e adatto/a dipingerne la facciata,/con l’usura/nessuno avrà un paradiso affrescato sul portale di una chiesa/né harpes  et luz/o luogo dove la vergine ricevi il messaggio/e sia incisa l’aureola/con l’usura non ci sono Gonzaga, eredi e concubine/nessun dipinto è fatto per durare e vivere/ma per essere venduto e venduto in fretta/con l’usura, peccato contro natura,/il pane è avanzo irrancidito/secco come carta/niente segala, /niente farina buona/con l’usura il segno diviene greve/con l’usura non vi è confine certo/e nessuno può trovare la dimora in cui vivere/il tagliatore di pietra è allontanato dalla pietra/il tessitore dal suo telaio/

CON L’USURA/la lana non arriva al mercato/le pecore allevate non portano guadagno/l’usura pestilenza/Con l’usura/si ottunde l’ago nelle mani della ragazza/si arresta il telaio. Pietro Lombardo/non venne dall’usura, e Duccio non venne dall’usura/e neppure Pier della Francesca; Zuan Bellin non venne dall’usura/né fu dipinta La Calunnia./Non venne dall’usura Angelico; né Ambrogio Praedis/nessuna chiesa di pietra col marchio: Adamo me fecit./Né venne St. Trophime dall’usura/neppure st.HIlaire,/l’usura arrugginisce il cesello/arrugginisce l’arte e l’artigiano/corrode il filo del telaio/nessuno imparò a filare l’oro nel suo modello;/l’Azzurro ha un cancro con l’usura; il cremisi …./lo Smeraldo non trova il suo Memling/L’usura uccide il bambino nel grembo/trattiene il giovane nel corteggiamento/porta la paralisi nel letto, si sdraia/fra il giovane sposo e la sposa/

                                     CONTRA NATURAM

/Hanno portato le puttane  da Eleusi/cadaveri preparati per banchetto/agli ordini dell’usura.

Ciò che colpisce anche visivamente nel testo è la ripetizione ossessiva del termine usura, poi la ricchezza delle immagini. La parte più interessante sono il lessico e la grafia usate perché la lingua di questo testo non è l’inglese moderno, ma  quello arcaico – rusteth, findeth, per esempio – che si può far risalire a un’epoca in cui il Cristianesimo secondo Pound conservava una propria purezza originaria, non ancora inquinata dalla modernità, che per il poeta inizia proprio con i prestito di denaro a interesse. L’iconografia presente nel testo è più complessa perché spazia fino a Piero della Francesca e cioè in pieno Umanesimo, mentre sembra tenersi a una certa distanza dalle immagini che ricordano il pieno Rinascimento. Pound sogna un Cristianesimo che a rigore di logica dovrebbe essere precedente l’invenzione stessa del Purgatorio, dovuta alla necessità di salvare dalla dannazione assoluta un’intera categoria di professioni che si andavano imponendo: barattieri, banchieri, ecc. Il sogno rimane quello che è ma la potenza dei sui versi che rimane come monito nel tempo della necrofilia capitalistica che ci sovrasta.

Moore. Nei saggi dedicati all’opera d’arte, Karl Gustav Jung afferma fra l’altro che il grande artista è colui che fa sentire alla propria epoca ciò che più manca ad essa.8 È una definizione che calza a pennello per Moore e molto anche per Stevens. La prima natura riscoperta nel cuore di una civiltà che pensava di averla del tutto domata, è proprio la denuncia di un’illusione ottica assai pericolosa. Bisogna considerare, poi, che Marianne Moore morì nel 1972, ma che scrisse il corpus maggiore delle sue poesie in anni che vanno dal 1935 alla metà degli anni ’50, in un momento storico in cui – nonostante le distruzioni di due guerre mondiali – l’attenzione sui disastri ambientali non era ancora all’ordine del giorno. La sua natura e i suoi animali, però, sono tali perché colti nel loro habitat e con le loro caratteristiche di specie. Cani e gatti, uccelli in gabbia e altre specie troppo addomesticate non sono presenti nella sua poesia. Il suo modo di sentire il mondo animale e naturale è altrettanto lontano da certe pieghe ecologiste contemporanee, che cominciarono a imporsi successivamente alla sua morte. Pensando all’oggi, credo che sarebbe addirittura inorridita nell’osservare il processo sempre più irragionevole che attribuisce agli animali tratti antropomorfi che rasentano il grottesco e che sembrano voler trasportare le invenzioni di Walt Disney dal cartone animato alla realtà. Moore invita il lettore all’ammirazione e alla contemplazione del mondo animale, ma la natura per lei non è un giardino fiorito, ma piuttosto un’arena dove il conflitto e il confronto sono all’ordine del giorno; ma non la guerra, che appartiene solo agli umani. La sua profonda ammirazione del mondo animale può certo educare a un’etica del rispetto, ma prima di tutto a quella tipologia di rispetto che assegna a ciascuna specie il diritto di vivere secondo le proprie prerogative di speciazione.

La natura peraltro, è assai presente anche nella poesia di Stevens e in definitiva è proprio tale presenza in entrambi è fra le tematiche  che pongono fra i due ed Eliot una distanza irriducibile. Quanto al suo rapporto con la tradizione, Moore è forse la più eclettica, ma in un senso profondamente diverso dell’eclettismo di Pound. I suoi interessi per la divulgazione scientifica, per esempio, sono pari agli interessi letterari e questo le permette di usare un linguaggio poetico che ha un vasto retroterra nella scienza: l’esattezza di certe immagini viene da questo e Moore è fra i pochi poeti e poete del secolo scorso cimentarsi con linguaggi estranei alla letteratura in senso stretto.      

Eliot infine è il continuatore della tradizione che da Baudelaire passa per Laforgue, ma vi rimane intrappolato perché quella tradizione ha molti decenni alle sue spalle e non è già più la novità densa di futuro che era a metà del secolo precedente e lo stesso vale per l’ipocrita lettore, che Eliot riprende alla lettera come citazione. La dimensione urbana era stata esplorata in tutte le sue pieghe ed Eliot è l’ultimo a farlo e con lui essa diventa una totalità, dalla quale cerca di sottrarsi nei Quartetti dove, specialmente nell’ultimo e cioè in Little Gidding , è la provincia campestre e virtuosa a tornare al centro. Tuttavia, gli squarci di natura esistenti in Eliot si traducono quasi immediatamente in simboli religiosi: la rosa, il roveto ardente, o l’estate di San Martino. Oppure, ripensando ai versi iniziali di Waste land – Aprile è il mese più crudele – la natura è usata per farne immediatamente una metafora che sta per altro.

Quanto ai rapporti fra Eliot e Stevens, essi sono difficili da mettere a fuoco, prima di tutto per la voluta distanza che il secondo ha sempre posto fra sé e il mondo letterario del suo tempo. Eliot, in un’intervista riportata nell’edizione italiana dei Quartetti, a cura di Angelo Tonelli, l’intervistatore d’eccezione, il poeta polacco Milosz, lo sollecita a parlare di lui, ma egli finge di non accorgersene e passa oltre.9 Se si guardano i due percorsi, non vi è dubbio che la loro distanza sia assai grande e il fatto che qui e là si possano scorgere tematiche analoghe, appartiene di più al sentire comune di un’epoca che ad altro. Alcuni punti di partenza possono sembrare comuni – mi riferisco in particolare a Sunday Morning  se messo a confronto con alcune parti della Waste Land – A game of chess per esempio – ma sono somiglianze destinate a venir meno nel prosieguo dei loro percorsi. Stevens, al culmine della crisi di una civiltà, che anche lui sente ma con la quale non collude, si affida alla poesia e a dove essa lo porta, non a opzioni che le sono estranee. Gli esiti più alti del suo percorso si trovano alla fine della sua vita, sono cioè i frutti maturi di un’esistenza poetica che non è scesa a patti con il peso del mondo, ma è rimasta fedele a un’inspirazione originaria, che risponde solo a se stessa. Stevens, l’assicuratore anonimo, l’uomo della provincia americana, è forse l’unico poeta del ‘900, in Occidente, ad avere scommesso su una nuova sacralità della parola poetica, ma una sacralità tutta terrestre. Diverso il suo atteggiamento anche per quanto riguarda il rapporto fra poesia e interpretazione, poesia e critica. Anche Stevens si è cimentato con entrambe le discipline, ma se Eliot ha voluto sempre indicare ai critici cosa voleva dicessero di lui, Stevens fa esattamente il contrario e cioè li depista in continuazione. Memorabile, a mio avviso, è il modo in cui tiene tutti sulla corda, lasciando i critici discutere su un finto enigma: quella della famosa quarta sezione del poema Note verso la finzione suprema.

Harold Bloom


1 Il numero in questione è un’edizione speciale e monografica. I saggi esplorano diversi aspetti della questione e si aprono a valutazioni extra letterarie, come avviene per esempio nel saggio di Alan Filreis sull’atteggiamento di Stevens e Pound nei confronti della Guerra Fredda.

2 Wallace Stevens Note verso la finzione suprema a cura di Nadia Fusini, Arsenale editrice, Venezia 1987, pag. 9. La citazione viene ripresa anche alla pag. 49 nelle note al testo.

3 Il libro fu pubblicato nell’estate del 1918 e suscitò un’enorme impressione, dato anche il momento particolare della storia europea,  alla fine di una guerra disastrosa e di una pace che lo sarebbe stata ancora di più. 

4 In n questo stesso blog si trova un saggio su Borges dedicato però a uno solo dei suoi racconto:  Deutsche requiem.

5 Il link dell’intervista di Pasolini è facilmente reperibile su Youtube

6 Il canto dell’usura fu pubblicato nei Pisan Cantos.

8 Karl Gustav Jung, Scritti sulla letteratura e l’arte. Il testo è facilmente reperibile anche in rete.

9 T.S. Eliot. La terra desolata e Quattro quartetti.’ Traduzione e cura di Angelo Tonelli, Universale economica Feltrinelli, aprile 2000, introduzione e intervista.

WALLACE STEVENS: LE LEZIONI DI POETICA

Gaston Bachelard

Introduzione

Con questa parte, la settima,  si conclude il saggio sull’opera di Wallace Stevens. Il prossimo autore di cui mi occuperò in questa rubrica sarà T. S. Eliot e con lui terminerà il percorso di anglistica e americanistica che comprende anche Marianne Moore e William Blake. Su quest’ultimo non aggiungerò nulla mentre sugli altri tre e su alcuni convitati di pietra pubblicherò un saggio conclusivo sui modi di attingere alle diverse tradizioni letterarie. 

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Esiste una tematica centrale negli scritti di poetica di Stevens, che funga da attrattore? Ce ne sono a mio avviso quattro di cui una però preminente: il rapporto fra realtà e immaginazione, il vero rovello della poetica stevensiana. La seconda è il rapporto fra poesia e pittura; la terza, che si avvicina alla speculazione filosofica, è l’idea del mondo come meditazione. L’ultima emerge con chiarezza da uno solo di questi saggi dal titolo Effetti dell’analogia ed è l’importanza che il poeta assegna alla similitudine come figura retorica. 

Lo stile di questi saggi è ellittico, la divagazione vi regna sovrana, ma alla fine, quando con le sue sintesi egli stringe le fila del discorso, ecco che si ritorna all’uno o all’altro degli attrattori.

In quanto lettore, Stevens era una spugna, ma anche svagato. Quando sembra che le sue letture siano approfondite per l’acutezza di certi giudizi, si scopre poi che tutto questo è assai vivo nel testo poetico, ma se si va oltre non si trova nulla o poco; oppure che il poeta è riuscito a dissimulare molto bene.

Vi sono a mio giudizio due filosofi e pensatori europei contemporanei a lui che Stevens aveva ben presenti: Henry Bergson e Gaston Bachelard. Al primo dedica anche una citazione in uno dei saggi de L’angelo necessario,83 il secondo è più sotto traccia ma altrettanto importante.

Per entrambi i filosofi e per Stevens, la realtà fisica è la base imprescindibile di ogni forma di conoscenza e quando Bergson afferma che la percezione non aggiunge nulla all’immagine percepita, riscontriamo un’assonanza con l’affermazione di Stevens che l’immaginazione non aggiunge nulla all’oggetto, ma lo intensifica. In Bachelard, addirittura, è la realtà fisica a suggerire le metafore più ardite e illuminanti, a questo proposito, sono le pagine che egli dedica alla scoperta del fuoco.84

Un’altra assonanza con Bergson possiamo riscontrarla nel modo di trattare la memoria da parte di entrambi e nel concetto di flusso che in parte si sovrappone a quello di durata. Abbiamo visto come in Stevens il processo decreativo non sia un passaggio da ciò che è creato al nulla, ma a ciò che creato non è o non lo è ancora. Il flusso, in secondo luogo, porta all’endless poem, cioè al poema senza fine, che non significa incompiuto e neppure senza una conclusione, ma che allude alla tendenziale inarrestabilità del flusso. Vale forse la pena di notare come la parola morte compaia pochissimo nei testi di Stevens; anzi, ricordo una sola forte presenza nella sezione finale di Peter Quince at the clavier, oppure indirettamente in Omone rosso che legge e in alcuni testi dedicati al soldati defunti in guerra. Sia Bergson, sia Bachelard, sia Stevens, sono diffidenti quando non ostili nei confronti dell’invenzione e della fantasia, mentre considerano la scoperta e l’immaginazione veramente importanti. Nel caso dei due filosofi farò riferimento solo ai testi e a un saggio pubblicato sul Wallace Stevens Journal e che ritengo esaustivo (specialmente per quanto riguarda i rapporti con Bergson).85 Quanto a Stevens, per capire cosa lui intende nel contesto della poesia e della critica letteraria, mi servirò di due citazioni in momenti e situazioni diverse, accostandole. La prima è tratta da una conferenza compresa nella raccolta L’Angelo necessario e suona in questo modo:

… Una delle caratteristiche dell’arte moderna è la sua intransigenza. In questo, essa assomiglia alla politica moderna … Un’altra caratteristica dell’arte moderna è che essa è plausibile. Ha una spiegazione per ogni cosa. Anche l’assenza di spiegazioni diventa una spiegazione. Picasso rimane sorpreso quando gli chiedono cosa significhi un quadro  e dice che i quadri non sono concepiti per avere un senso. Questo spiega tutto. Un’altra caratteristica dell’arte moderna è il suo settarismo … Anche nella poesia moderna abbiamo la stessa incapacità di scendere a compromessi … Per illustrare questo punto dividerò la poesia moderna in due categorie: la prima categoria è moderna per ciò che dice, la seconda lo è per la sua forma. La forma non interessa particolarmente i poeti del primo gruppo. … Oggi si vede moltissima poesia, grazie forse a Un coup de dès di Mallarmé, in cui l’interesse per la forma si risolve solo nell’uso di lettere minuscole al posto delle maiuscole, su originali chiusure di verso, di troppa o troppo poca punteggiatura … Per la prima categoria che si concede una forma ordinaria, è persino dannoso suggerire che i suoi poeti sono meno artificiali di quelli della seconda … Ognuna delle due categorie, mostra una totale intransigenza nei confronti dell’altra.86

La seconda citazione è una sentenza, pubblicata per la prima volta insieme ad altre e ad alcuni aforismi, sulla rivista View nel 1940, cui ne seguirono altri nel ’42:

L’errore fondamentale del surrealismo è che inventa e non scopre. Un mollusco che suona la fisarmonica è un’invenzione non una scoperta. L’osservazione dell’inconscio, per quanto sia possibile osservarlo, dovrebbe svelare cose di cui prima eravamo inconsapevoli, non le cose famigliari di cui siamo ben consapevoli, più la fantasia. 87

Ancora una volta Bergson può soccorrerci. Anche per lui la metafisica intuizionale è fondamentale nella scoperta scientifica, ma niente è più nefasto alla scienza dell’invenzione. La scienza non inventa, scopre: sebbene nel formulare una teoria o un’ipotesi possa partire da una metafora o da un’intuizione matematica, essa deve poi trovare una concretizzazione nella realtà fisica, altrimenti rimane una congettura priva di sostanza. 

Cosa rimprovera Stevens, allora, alle avanguardie europee? In primo luogo gli eccessi e la mancanza di misura; in secondo luogo, nella sentenza di cui sopra, che la mancanza di misura impedisce di distinguere fra invenzione e scoperta, perché l’invenzione, in sostanza, non tiene conto della realtà fisica dell’oggetto e lo manipola. Su quanto afferma sull’inconscio si dovrebbe rimanere più a lungo, ma mi sembrano queste le distinzioni prima di tutto decisive. L’immaginazione ha una funzione di scoperta, mentre la fantasia è arbitraria, sebbene possa essere un punto di partenza. Da quanto detto sopra si può capire meglio la distanza che separa Stevens dal postmodernismo, che in fondo non è altro che un’accentuazione di tutti gli aspetti deteriori delle avanguardie storiche, senza conservare quelli virtuosi. Si può comprendere forse meglio, allora, la predilezione di Stevens per la similitudine e l’analogia, ma anche lo stile paratattico del suo linguaggio. L’accostamento, che porta all’analogia e alla similitudine piuttosto che alla metafora, lascia i diversi elementi accostati in uno stato di fluidità maggiore, di oscillazione del senso, ma anche di maggiore libertà di ciascun elemento di ritornare a essere quello che è al di fuori della connessione e dell’accostamento. Il procedimento paratattico di Stevens va allora messo in relazione con il suo concetto di decreazione che è appunto un passaggio da ciò che è creato all’increato o al non ancora creato. Lo abbiamo visto sempre in alcuni snodi della sua poesia: nell’ottava sezione di Sunday Morning, ma anche nel passaggio dalle figure dei due leoni poi al canonico Aspirina per approdare all’Angelo necessario: l’accostamento paratattico può essere sciolto per creare di nuovo le condizioni di una successiva ricreazione, alla quale però nuovi apporti non cancellano del tutto gli apporti precedenti. Accostamento paratattico, analogia e decreazione sono gli elementi combinati di un processo metamorfico continuo. L’analogia, peraltro, ci riporta anche a Bachelard che ne fa largo uso. Non per caso, dunque, uno dei saggio più importanti di Stevens s’intitola proprio Effetti dell’analogia.88

Conclusioni in divenire

Per Stevens, lo abbiamo visto, le tradizioni cui attingere sono molte, anche se alcune sono prevalenti; esse non sono un peso, né una fonte ingenua di scoperta, ma un oggetto di riflessione e di meditazione. Il procedimento decreativo, la metamorfosi, la rinuncia alle antinomie – per dirla con le sue parole non o, o (aut aut) ma e, e, la scelta del che ripete più volte dando a questa espressione il valore di un’adesione senza tentennamenti alla nuda vita, sono le architravi della sua poetica e da questo scaturisce il suo rifiuto a vivere la storia del ‘900 come un cultore dell’abisso. Allora vale forse la pena di domandarsi non quanto della tradizione occidentale Stevens conservi, ma dove si affaccia alla fine la sua ricerca. Da parte della critica che si è occupata di lui affiora qui e là la parola zen, seppure per ridimensionarne la portata. Guido Carboni nella sua ricognizione sui possibili referenti della poesia stevensiana, si esprime così:

Quando Stevens inizia la sua meditazione pensare il paradosso doveva essere ancor più difficile perché non c’erano molti strumenti a disposizione. Non c’erano le speculazioni di Bateson sul rapporto mente e natura, non le riflessioni sul metodo di Cartesio … né quella di Maturana sull’autopoiesi … C’era naturalmente lo zen, cui molti scrittori contemporanei o appena più giovani di Stevens si andavano avvicinando, ma non se ne trova traccia diretta in lui, il suo orientalismo è un fatto degli inizi della sua carriera poetica e appare come assolutamente estetico.92

Non concordo con l’ultima parte perché la grande poesia ha sempre un valore conoscitivo e non la si può ridurre a un valore puramente estetico. Se Carboni, dopo avere evocato lo zen, pare metterci una pietra sopra, il dubbio sembra venire anche a Massimo Bacigalupo che nell’introduzione all’Opus Posthumus, a proposito della poesia dal titolo The course of the particular, di cui ci siamo occupati afferma:

L’eroe di Stevens è la mente umana alla ricerca di un modus vivendi anche minimo, e questo non può darsi se non attraverso il superamento dell’inimicizia fra mente e materia … ma non si tratta di riesumare l’organicismo deistico dei romantici … bensì di preparare l’uomo alla sua cancellazione escludendo rigorosamente ogni protezione antropomorfica … cancellazione che si compie … e si fonda sulla convinzione che solo attraverso la disperazione, un azzeramento quasi zen del significato, passi la vita di ciò che è sufficiente.93

Questa affermazione mi sembra assai interessante e a mio modesto parere bisogna imboccare con maggiore coraggio questa strada, senza fare per questo del poeta un antesignano delle mode degli anni ‘60 o di quelle attuali. Il secondo spunto viene dal titolo stesso di una delle sue opere finali: Il mondo come meditazione. Le parole che un poeta sceglie non sono casuali e la parola meditazione ha un peso e una consistenza particolari. La sua poesia è stata spesso definita una poesia di ossimori. Questa costatazione, quasi ovvia, va tuttavia precisata meglio perché se prendiamo questi versi:

… Fra origine e ritorno//C’è un’assenza in realtà/ Le cose come sono. O così pare/,94

ci rendiamo subito conto di essere in presenza non di una semplice figura retorica. Quello di Stevens è un vero e proprio ossimoro concettuale, cioè un paradosso, e proprio il ricorso ai paradossi, poco comune nella poesia occidentale, si presta a un accostamento a certi modi orientali di manifestare il pensiero: i koan giapponesi ne sono l’esempio più illustre. Stevens era un profondo conoscitore del teatro e della cultura giapponesi e lo è rimasto per tutta la vita. Infine, in certi passaggi da un verso all’altro vi sono allusioni al concetto di vuoto come lo intende il buddismo e cioè in modo assai diverso da quello che la parola potrebbe evocare per noi occidentali. Il vuoto, anche nella concezione del Tao, per esempio, non è il nulla ma uno spazio libero dove si forma qualcosa: pensato in questi termini è un concetto assai prossimo a quello di decreazione in Stevens, cioè il passaggio dal creato all’increato ma anche al non ancora creato. Lo si potrebbe descrivere anche come il silenzio che circonda la parola poetica prima del suo sorgere e dopo.

Infine in rapporto alle cose, il suo mondo irreligioso non è ostile al mistero, ma non porta sulle tracce del divino, almeno nel senso che questa espressione ha assunto, dopo Heidegger. Come va intesa allora questa sua non ostilità al mistero e forse anche sacro? Nel senso che tutto ciò che abita il mondo è per Stevens animato, possiede una sua propria musica, persino la roccia, metafora di una durezza che resiste all’immaginazione. C’è un alone che circonda le cose ed esso può essere inteso anche come una sorta di danza dionisiaca della materia, senza che questo ricada in un credo di tipo panteistico, poiché anche per i panteisti ciò che si manifesta nella natura rimane pur sempre il dio personale, dalle sembianze alla fine antropomorfe, seppure immanenti.

Il canto della terra è per Stevens una qualità fine della materia che l’immaginazione sa cogliere perché entrambe sono parti di uno stesso cosmo non più scindibile in una neutra realtà oggettiva e nello sguardo esterno del cogito che la osserva e la manipola. Siamo dunque distanti da Cartesio, che Stevens tuttavia conosce bene, tanto da farne spesso l’oggetto di versi ironici anche se non sempre appropriati e fondati in parte sull’equivoco di considerare Cartesio come il primo degli illuministi. Cartesio, invece, dedicò l’intera sua vita alla res extensa, più che al cogito e cioè, paradossalmente, proprio a quella realtà fisica e organica dalla quale anche per Stevens non si può prescindere. Tornando allora con una breve parentesi ai suoi referenti filosofici, oltre ai nomi già citati, alcune sue descrizioni entusiastiche di fenomeni naturali ricordano da vicino proprio un filosofo e poeta dell’antichità: Lucrezio. 

Ci sono due terre promesse alla fine del poema infinito di Stevens: una è quella stessa raggiunta da lui nel suo approdo a New Haven e nell’Opus Posthumus; la seconda più nebulosa, la intravvediamo arrampicandoci sulle sue spalle ed è una zona di confine. Perché è indubbio che Stevens arriva in un punto dove, parafrasando un verso delle sue Note, il pensiero non può più progredire in quanto tale. L’abbandono delle antinomie ci avvicina a un modo diverso di sentire anche se mi rendo conto che parlare contemporaneamente di zen e di un alone quasi animistico intorno alle cose significa accennare a due modalità molto differenti. Mi fermerò allora alla considerazione che l’endless poem di Wallace Stevens sembra alludere alla necessità di fuoriuscita dal pensiero occidentale, piuttosto che ritornare ai suoi miti originari, ignorando la modernità, che invece Stevens non ha mai smesso di attraversare. I grandi spiriti artistici, vedono i tempi nuovi con grande anticipo e forse la presunta difficoltà della sua poesia sta proprio in questo annuncio. Se è così il tempo lo rischiarirà.

Henry Bergson

83 Op. cit. pp. 113-4

84 Gaston Bachelard, L’intuizione dell’istante, la Psicoanalisi del fuoco, Edizioni Dedalo, Bari 1973.

85 Mi riferisco al numero 1 della primavera del 2002 che contiene un saggio di Temenuga Trifonova dal titolo The poetry of matter: Stevens and Bergson: pp-41-69.

86 I rapporti fra la poesia e la pittura . Tutte le citazione sono tratte dal capitoletto intitolato  Terzo, pp.239-42.

87 Materia poetica, in Aurore d’autunno, a cura e traduzione di Nadia Fusini, Adelphi Milano 2014, pp.27. Naturalmente, questa sentenza lapidaria di Stevens, non può essere adoperata per una critica di fondo al Surrealismo, ma per certi suoi aspetti certamente sì. Del resto, se si considera un autore come Walter Benjamin – che certamente Stevens non conosce – che del Surrealismo è stato un grande estimatore tanto da scrivere sul movimento uno dei suoi saggi più importanti, alcune sue critiche molto severe rivolte a Breton hanno delle assonanze con l’affermazione di Stevens. Anche Benjamin non amava le invenzioni gratuite, specialmente quando sconfinavano nell’esoterismo. Le assonanze, in ogni caso, si fermano qui: Stevens avrebbe considerato aberrante quello che Benjamin amava di più del surrealismo e cioè il suo rapporto con le politiche rivoluzionarie.     

88 Wallace Stevens L’angelo necessario, a cura di Massimo Bacigalupo, Coliseum, 1988, pp. 181-206

92 Wallace Stevens, Mattino domenicale, a cura di Renato Poggioli, Postfazione di Guido Carboni, Einaudi 1982, pag.170

93 Wallace Stevens, Harmonium, a cura di Massimo Bacigalupo,  saggio introduttivo. Suggerisco la lettura dell’intera introduzione di Bacigalupo. Einaudi, collana i Millenni,  Torino 1994.  

94 La frase è una delle più comuni, ripetuta in varie forme sia in conferenze sia in versi come in questo caso.

WALLACE STEVENS: LA POESIA SFIDA IL PENSIERO

Poets in the city: Wallace Stevens

Le Notes toward a supreme fiction (Note verso una finzione suprema) sono una meditazione in versi scritta nel 1942. L’opera è suddivisa in tre parti, intitolate: It must be abstract (Deve essere astratta), It must change (Deve cambiare) e It must give pleasure (Deve dare piacere.) Queste tre sezioni sono a loro volta suddivise in dieci stanze di 21 versi ciascuna suddivisa in sette terzine. Non sono esperto di numerologia, ma diversi critici hanno sottolineato la non casualità di tali scelte. Alle tre sezioni indicate avrebbe dovuto seguirne una quarta dal titolo It must be human (Deve essere umana), che il poeta non scrisse.

La metrica è solenne, il tono è alto: sono tutti blank verse, a volte maggiorati di un piede. È la misura più classica della poesia inglese, paragonabile all’endecasillabo, nel quale spesso Stevens sconfina, peraltro. L’uso della terzina, poi, con il suo andamento concatenato che ricorda anche il passo lento e costante di un viaggiatore che s’incammina verso una meta, sono una spia ulteriore dell’intenzione del poeta. Il richiamo dantesco è presente nel testo, ma non dobbiamo intenderlo in senso metafisico, né come citazionismo. Le Note, come ben afferma Nadia Fusini nel suo studio dedicato a quest’opera, sono una vera e propria quête, cioè un viaggio iniziatico, la cui meta però non sono le altezze del paradiso, ma quello che Stevens definirà come Canto della terra.28 L’anno in cui il poema è stato composto è per gli Usa la fine dell’illusione di star fuori dal conflitto mondiale: dopo Pearl Harbour i preparativi sono divenuti frenetici e le ultime resistenze della popolazione sono cadute. Non vi è una traccia diretta degli eventi storici nel poema – Stevens lo farà in un altro testo – ma se si torna al discorso dei due leoni, della necessità cioè che il leone del liuto non sia una pura fantasticheria ma un severo confronto con la pressione esercitata dal leone del reale, forse non è causale che la meditazione probabilmente più alta dell’intero percorso compiuto dal poeta, si collochi proprio in quel momento storico. L’inizio e cioè i primi sei versi della prima sezione indicano il tema del poema:

/Begin, ephebe, by perceiving the idea/Of this invention, this invented world,/The inconceivable idea of the sun.//You must become an ignorant man again/And see the sun again with ignorant eye/And see it clearly in the idea of it.//

(/Comincia, o efebo, col percepir l’idea/Di questa invenzione, questo mondo inventato,/L’inconcepibile idea del sole.//Devi tornare l’uomo ingenuo che eri/E vedere il sole con occhio ingenuo/ E vederlo chiaramente nell’idea.//)

Tale invocazione, non si rivolge alla musa o a figure trascendentali, ma a un efebo, immagine di una verginità dello spirito, tendenzialmente ermafrodito. Continuando sempre con la prima sezione e sempre rivolto all’efebo Stevens scrive:

/Never suppose an inventing mind as source/Of this idea not for that mind compose/ A voluminous master folded in his fire.//How clean the sun when seen in its idea/Washed in the remotest cleaness of a heaven/That has expelled us and our images …/

(/Non supporre mai una mente che crea all’origine/Dell’idea non creare per quella mente un ingombrante/Padrone avvolto in lingue di fuoco.//Com’è terso il sole se visto nell’idea/Purificato nella remota chiarità di un cielo/Liberatosi delle nostre immagini e di noi …//) 29

È solo tornando all’idea originaria del sole, che noi possiamo vederlo nella sua essenza, senza caricarlo di simboli o di idee che l’umano ha elaborato intorno alla stella: torna in questi versi una eco dell’ottava sezione di Sunday Morning.

Il tema è la meditazione sulla poesia, i suoi strumenti, il suo valore conoscitivo e il suo ruolo nella contemporaneità. La polarità immaginazione-realtà è qui in seconda linea perché la necessità primaria è porsi di fronte all’oggetto sgombri da ogni pregiudizio o idea precedente: questo il senso dell’esortazione a tornare ingenuo, rivolta all’efebo.30 È ancora una volta il tema dell’ultima sezione di Mattino domenicale, che da meditazione finale di quel percorso, diventa nelle Note punto di partenza. In Stevens, come dice ancora Nadia Fusini:

Il senso si costruisce così, per insistenza, ripetizione, ritorno31

Tuttavia un altro elemento va considerato oltre a questi: si tratta delle variazioni che il poeta introduce ogni volta che ritorna ai luoghi topici della sua poesia, variazioni che con il tempo non solo chiariscono sempre di più, con apporti continui di senso, la ricchezza della sua trama poetica, ma che diventano delle vere e proprie metamorfosi in atto. È quest’ultima caratteristica che diviene essenziale anche per chi legge: abbiamo sì la sensazione di tornare sempre laddove siamo già stati, ma il procedimento decreativo di Stevens non è una tela di Penelope, è una costruzione che si modifica ogni volta senza mai buttare via tutto quello che si era raggiunto in precedenza, ma conservandone invece una parte per trasformarla. Si tratta piuttosto di liberarsi di volta in volta delle scorie, salvando però il nucleo centrale dell’intuizione. Tale procedimento non porta all’accumulo, ma alla necessità di cambiamento che viene indicata nella seconda sezione delle Note (It must change). Torniamo però alla prima sezione intitolata Deve essere astratta. L’idea di astrazione, in Stevens, va intesa diversamente da come normalmente si pensa a questa parola, specialmente in relazione alla filosofia. Il poeta esorta l’efebo a liberarsi, nel guardare il sole, di tutte quelle ombre della lingua e del pensiero che impediscono alla visione di afferrarne la prima idea, l’idea originaria del sole. Piuttosto che di astrazione, siamo qui in presenza di un procedimento di spoliazione o rarefazione progressiva, di un invito a sospendere tutte le affermazioni fatte intorno alle cose reali, così da poterle vedere nella loro nuda essenza. È solo quando avremo tolto questi orpelli del pensiero, le scorie di cui si è detto più sopra, che – secondo Stevens – la realtà si risveglierà, al di là di ogni metaforica evasione; le cose, allora, cominceranno a parlare la loro lingua, a risuonare della loro musica: è il canto della terra.

Lo stile stevensiano, fatto di ripetizioni e accostamenti paratattici, ci permette d’introdurre un discorso che riguarda la tradizione. Vi sono concetti e parole che hanno una storia e anche un peso, se noi accettiamo di considerare il punto di vista di una tradizione che si estende a tutte le civiltà poetiche. Per rimanere in occidente, un lessico apparentemente così comune come quello usato da Stevens (il sole, il giorno e la notte), può essere accolto da uno sguardo ingenuo solo se si libera delle troppe costruzioni di senso. Le parole chiave di questa prima sezione girano intorno al tema dell’idea prima, dell’origine, su cui grava il peso della storia, ma anche quello della nostra semplice presenza di umani in un mondo che non è solo nostro. A volte il pensiero poetante di Stevens sfugge nella meditazione pura, non sempre facile da seguire, creando immagini concettuali  sorprendenti e a volte oscure, che sfociano però sempre in soluzioni che creano nuove immagini di grande limpidezza espressiva. Così nella quarta stanza Adamo è già padre di Cartesio, nel senso che la razionalizzazione matematico geometrica del mondo inizia già nell’Eden e quanto agli umani:

We are the mimics. Clouds are padagogues//… (/Noi siamo i mimi. Le nuvole i nostri maestri./) 33

L’umano turba l’idea prima e svolge un ruolo ambivalente che tormenterà il poeta per tutta la vita. Nella chiusa della quinta stanza, seppure con un tono ironico, la presenza dei sapiens sapiens rompe l’equilibrio naturale:

/These are the heroic children whom times breeds//Against the first idea – to lash the lion,/Caparison elephants, teach bears to juggle//…

(/Questi sono i giovani eroi che l’epoca genera//Contro la prima idea – per frustare il leone/Bardare l’elefante, domesticare l’orso nel circo.//) 34

Gli umani come progetto sbagliato della natura? Ci sono scienziati che lo sostengono, ma vennero tutti dopo.

Tuttavia, nella settima stanza, il destino degli umani si muta in qualcosa di diverso, cioè in un accesso possibile che sa ancora aprirsi a quell’andare fortuito verso le cose, che metta fra parentesi la ragione; allora:

/The truth depends on a walk around a lake … (/La verità dipende da una passeggiata/intorno al lago…)

e  nella chiusa della medesima:

/Perhaps there are moments of awakening./Extreme, fortuitous, personal in which//We more than awaken, sit on the edge of sleep,/As on an elevation, and behold/The academies like structures in a mist.//

(/Forse ci sono momenti di risveglio,/Estremi, fortuiti, personali, quando/…/Più che svegli, sediamo sull’orlo del sonno,/ Come su un’altura, e guardiamo/le accademie come fossero strutture di nebbia./) 35

Nell’ultima stanza Stevens si rivolge di nuovo all’efebo e torna all’umano, ma un umano che ha perso i suoi orpelli e che ritroveremo nelle opere della maturità: non più l’eroe che combatte (e siamo nel 1942!), ma l’uomo comune. Riporto l’intera sezione nella traduzione di Nadia Fusini:

/The major abstraction is the idea of man/And major man is the exponent, abler/In the abstract than in his singular,//More fecund as principle than particle,/Happy fecundity, flor-abundant force,/In being o more than an exception, part.//Though an heroic part, of a commonal,/The major abstraction is the commonal, /The inanimate, difficult visage. Who is it?//What rabbi, grown furious with human wish,/What chieftain, walking by himself, crying/Most miserable, most victorious,//Does not see the separate, figures one by  one,/And yet see the only one, in his old coat, /His slouching pantaloons, beyond the towns,//Looking for what was, where it used to be?/Cloudless the morning. It is he. The man/In his old coat, those sagging pantaloons,/it is of him, ephebe, to make, to confect,/the final elegance, non to console/Nor sanctify, but plainly to propound. //

(/L’astrazione maggiore è l’idea di uomo/E l’uomo maggiore il suo esponente, più capace/Nell’astratto che nel singolo caso,//Più fecondo come principio che come particella,/Felice abbondanza forza flor-abundante,/In quanto parte più che eccezione,//parte anche se eroica di ciò che è comune./L’astrazione più grande è il volto/Difficile, anonimo, dell’uomo comune. Chi è?//Quale rabbino, invasato di umano fervore/Quale capitano che cammini solo, piangente,/Il più miserabile, o il più vittorioso,//Non vede queste figure staccate, una per una?/E tuttavia una sola, un vecchio cappotto,/Un paio di pantaloni sgualciti, di là dal villaggio,//In cerca di ciò ch’è stato, com’era una volta.//Senza nubi il mattino. È lui l’uomo ravvolto/Nel vecchio cappotto, i pantaloni cascanti,//Di lui, efebo, dovrai fabbricare, ad arte/Confezionare l’eleganza finale, non per consolare/Né consacrare, ma solo presentare./)36

La seconda sezione s’intitola Deve cambiare. L’idea di metamorfosi è una presenza costante nell’opera di Stevens, ma in questo caso viene nominata espressamente. Dalla pittura l’accento si sposta sulla scultura, un’arte del tutto particolare, nel senso che la durezza dei suoi materiali evoca la pesantezza della staticità e quindi il contrario del cambiamento. Nella terza stanza la scultura è quella che immortala il generale Du Puy e sarà un’altra statua – quella di Bartolomeo Colleoni scolpita da Verrocchio – a occupare larga parte di uno dei suoi saggi più importanti.37

 /The great statue of general Du Puy/Rested immobile, though neighboring catafalques/Bore off the residents of its noble Place.//The rights, uplifted foreleg of the horse/Suggested that, at the final funeral,/The music halted and the horse stood still.//On Sundays, lawyers in their promenades/Approached this strongly-heightened effigy/To study the past, and doctors, having bathed//Themselves with care, sought out the nerveless frame/Of a suspension, a permanence, so rigid,/That it made their General a bit absurd,//Changed its true flesh to an inhuman bronze./There never had been, never could be, , such /A man. The lawyers disbelieved, the doctors,//Said that as keen, illustrious ornament,/As a setting for geraniums, the General,/The very Place Du Puys, in fact, belonged//Among our more vestigial states of mind./Nothing had happened because nothing had changed./Yet the General was rubbish in the  end.

(/La grande statua del generale Du Puy rimase /Immobile, mentre i vicini catafalchi inghiottivano/I residenti della nobile piazza.//La zampa destra del cavallo alzata/ Suggeriva che all’atto conclusivo del funerale/La musica/s’era arrestata e il cavallo ristette immobile.//La domenica gli avvocati passeggiando/Accostavano l’effigie austera in alto levata/Per studiare il passato, e i dottori,//Dopo accurati lavacri,indagavano la struttura/Inerte sospesa a una permanenza tanto rigida/Che rendeva il generale alquanto ridicolo,//E mutava la carne vera in bronzo inumano./Non c’era mai stato, né avrebbe potuto, un uomo/Così gli avvocati dubitavano, i dottori//Dicevano che il generale, la piazza Du Puy stessa,/Erano l’ornamento illustre, perfetto/Per i gerani, il vanto, la testimonianza//Tra le vestigia del nostro intelletto./Nulla era accaduto poiché nulla era mutato./Eppure il generale finì nell’immondizia.//)38

Una sottile ironia percorre l’intero testo, evocando al tempo stesso l’immutabilità della storia e il suo peso: la statua sopravvive a tutti coloro che hanno popolato quella piazza, ma solo come immagine sinistra d’immutabilità. Vale forse la pena di ricordare che non è estranea all’ironia il ricorso stesso a una figura come un generale tutto sommato anonimo, nel quale si possono anche identificare due personaggi diversi, anche se penso che si riferisca a quello che ebbe una parte importante nella Rivoluzione Francese. Nella stanza che segue, la quarta, Stevens contrappone alla staticità della scultura, l’immagine degli opposti che danno vita la cambiamento:

/Two things of opposite nature seem to depend/One another, as a man depends/On a woman, day on night, the imagined//On the real. This is the origin of change./Winter and spring, cold copulars, embrace/And forth the particulars of rapture come.//

(/Due cose di opposta natura sembrano dipendere/L’una dall’altra, come l’uomo dipende/Dalla donna,/il giorno dalla notte, l’immaginato//Da ciò che è reale. Questa è l’origine del mutamento/L’inverno e la primavera, gelidi congiunti, s’abbracciano/E alla luce nascono i particolari dell’estasi./)

La chiusa della sezione è ancora più esplicita:

/The partaker  partakes of that which changes him./The child that touches takes character from the thing,/The body, it touches. The captain and his men//Are one and the sailor and the sea are one./Follow after, O my companion, my fellow, my self,/Sister and solace, brother and delight.//

(/Chi partecipa ha parte in ciò che lo muta./Il bimbo che tocca prende il carattere della cosa,/Del corpo che tocca. Il capitano e i suoi uomini//Sono tutt’uno e così il mare e i marinai./Seguita tu compagno, mio prossimo, me stesso, /Sorella e sostegno, fratello e diletto.//) 39

In questi versi Stevens rovescia la figura dell’ipocrita lettore di Baudelaire, ripreso da Eliot, per farne una figura del tutto diversa. Penso che il poeta di Hartford, in ogni caso, avesse in mente il secondo e non il primo perché, pur essendo identiche, le due formule hanno un senso diverso, dal momento che una citazione ha comunque un altro valore rispetto all’originale. Il verso di Baudelaire smascherava il linguaggio aulico e la figura sacrale del poeta contrapposta all’uomo comune, rovesciando al tempo stesso il linguaggio amoroso nel suo controcanto e invitando il lettore a uscire egli stesso dall’inganno e dalla complicità con il poeta. L’ipocrita lettore di Eliot, invece, s’inscrive nel solco del Tramonto dell’Occidente, per citare il libro di Spengler. Quello che Stevens propone al lettore è un patto di tipo nuovo, che spazza via ogni indulgenza verso il narcisismo del decadere, che del verso di Baudelaire hanno fatto in troppi, proponendo invece un patto di fratellanza e di sorellanza fondato sulla comune appartenenza al genere umano.40

Nella quinta stanza, all’inizio, Stevens ritorna al tema delle cose che permangono dopo di noi (un tema carissimo anche a Borges), ma in questo caso, esse a differenza della statua, esse sono un esempio di mutamento:

/On a blue Island in a sky-wide water/The wild orange trees continued to bloom and to bear,/Long after the planter’s death. A few limes remained,//Where his house had fallen, three scraggy trees weighted /With garbled green. These were the planter’s turquoise/And his orange blotches, these were his zero green,//A green backed greener in the greenest sun./…

(/Su un’isola azzurra in un ampio cielo d’acqua/gli aranci selvaggi seguitarono a dar fiore e frutto,/molto tempo dopo la morte del piantatore. Rimanevano//dov’era caduta la sua casa, tre scabri alberi di cedrina/grevi di mutilo verde./ Erano le chiazze turchesi e arance/del piantatore, erano il suo verde assoluto./…) 41

L’agricoltura, la base di ogni vita, delle stagioni che ritornano, i colori fulgidi ma anche normali di una natura che il lavoro umano non ha distrutto, ma valorizzato. Le stanze finali andrebbero citate tutte e per intero, sia per la loro bellezza, sia per la densità che esprimono. In esse, precisamente nell’ottava, appare rapidamente un’altra delle figure di Stevens, Nanzia Nunzio, la sposa di Ozymandias, che rimanda a Shelley. Metafora dell’incontro fra uomo e donna ma anche di realtà e immaginazione, il matrimonio non può essere mai del tutto raggiunto ma sempre sul punto di esserlo. Il poeta romantico inglese, evocato in questa sezione, torna della decima e ultima con la citazione del vento occidentale come fattore di mutamento continuo, di rimescolamento e metamorfosi ininterrotta.

La terza sezione s’intitola Deve dare piacere ed è fra le tre la più complessa e anche quella in cui il pensiero poetante entra ed esce dai confini che lo separano dalla filosofia. Il piacere di cui il poeta intende trattare è di ordine estetico e conoscitivo. La figura centrale di questa parte è il canonico Aspirin, non lontano dall’Angelo, anzi, tappa di avvicinamento a questa figura che il poeta metterà compiutamente in scena alla fine di Auroras of autumn.

Per delineare i contorni del piacere che la poesia deve dare Stevens ricorre a una serie di esempi, fra i quali scelgo per primo quello della festa.

/We drank Meursault, ate lobster Bombay with mango/Chutney. Then the Canon Aspirin declaimed/of his sister, in what a sensible ecstasy/She lived in her house…

(/Bevemmo Meursault, mangiammo aragosta Bombay/con salsa di mango. Poi il Canonico Aspirina declamò/della sorella/in quale estasi composta/abitasse la sua casa/)

Quando leggiamo questi versi, non sappiamo chi sia il soggetto della narrazione. L’iniziale noi si riferisce a un gruppo generico di persone. Con il secondo verso il Canonico Aspirina diviene protagonista del testo, ma è qualcun altro che sta parlando di lui. Il linguaggio è colloquiale e piano, il setting facile da definire: una festa importante, vista la preziosità dei cibi.  

Il Canonico Aspirina declama, una parola altisonante e in apparenza distante dall’atmosfera famigliare e ciò che egli declama è ancora più sorprendente: come sua sorella viva felice nella propria casa. Per lei, la sorella, tutto questo rappresenta una concreta estasi, un’altra coppia di termini di una certa importanza. Tuttavia, ancora  una volta, i protagonisti del canto sono destinati a cambiare rapidamente, ma è sempre qualcun altro che parla di volta in volta di loro. La sorella del Canonico è ora divenuta la figura in primo piano, solo che – come vedremo presto – è assente. Questa prospettiva tridimensionale costruita attraverso il linguaggio rimanda alla pittura: 

/…She had two daughters, one/Of four, and one of seven, whom she dressed/The way a painter of pauvred colors paints.// But still she painted them, appropriate to their poverty…./ 

(/Aveva due figlie, una /di Quattro anni l’altra di sette, che abbigliava/come dipinge un pittore parco di colore./Ma pur le dipingeva, in maniera conforme/alla loro povertà./)

Il dipingere, in questo caso, diviene metafora della poesia e sembra che Stevens stia suggerendo che anche la poesia può essere fatta di elementi poveri e prendere ispirazione dalle cose più comuni; per esempio una serata famigliare e colloquiale.  C’è di più: i colori, le forme, gli strumenti, sono appropriati alla loro povertà. Quanto al modo di procedere del testo è anch’esso assai pittorico e al lettore sembra quasi di assistere alla composizione di un affresco: prima un dettaglio sulla tavola imbandita, poi un personaggio, poi un altro. Solo alla fine del canto, forse, riusciremo ad afferrare il senso dell’intera composizione? Ci aspetteremmo qualcosa di più sulla sorella; invece, dopo aver continuato a descrivere i colori usati da lei, il Canonico tace. 

/The Canon Aspirin, having said these things,/Reflected, humming an outline of a fugue/Of praise, a conjugation done by choirs.//Yet when her children slept, his sister herself/Demanded of sleep, in the excitements of silence/Only the unmuddled self of sleep, for them/ 

(/Il Canonico Aspirina, dette queste cose, rifletté, canticchiando una fuga abbozzata/di elogio, una coniugazione per cori//Però quando le bimbe dormivano, sua sorella/chiese per se stessa il sonno/nel giubilo del silenzio/per loro soltanto l’io inconfuso del sonno./) 42

Questi versi sono davvero sorprendenti e polisemantici! Non solo tutto quanto precede è un parlare di assenti, ma nel momento in cui la sorella – vera protagonista della serata e della festa che si svolge proprio a casa sua – si materializza, lo fa per porre fine alla serata. La fuga improvvisata dal Canonico, anticipa quel momento di silenzio ed esaurimento del parlar conviviale, che precede i saluti di congedo. La composizione finale della scena ci fa comprendere, come in una retrospettiva, che la serata era andata avanti da molto tempo e che la sorella si era assentata proprio per mettere a letto le due figlie.

Fermiamoci un momento e poniamoci una domanda. I versi di cui sopra sono tratti dalla quinta stanza. Se Stevens, nella stanza successiva, avesse cambiato scenario, nessuno – credo – potrebbe pensare che quella precedente non sia risolta. La sua complessità, la tridimensionalità e le qualità pittoriche sono tutti elementi adeguati e coerenti con la situazione. Tuttavia, il Canonico Aspirina (un personaggio metafora della poesia stessa) non può fermarsi a questo.

La terza sezione s’intitola Deve dare piacere, ma si tratta di un piacere diverso da quello che può scaturire dalla rappresentazione di una festa conviviale, sebbene anche da questo la poesia possa partire. Del resto, Stevens lo aveva scritto nel primo canto di questa terza sezione:

/To sing jubilas at exact, accustomed times,/……./To speak of joy and to sing of it, borne on/the shoulders of joyous men,… This is a facile exercise …

(/Cantar jubila a scadenze esatte e fisse,/… parlar di gioia e cantarne,/portati a spalla da uomini gioiosi … Questo è un facile esercizio …/) 43

Anche condividere una festa può essere un facile esercizio. Ciò che accade nella sesta sezione è la trasformazione alchemica di quell’esperienza concreta, in sé già preziosa, in una metamorfosi che trasfigura la sostanza dell’esperienza festa, ora che essa è finita. Il silenzio che segue e che era stato anticipato dalla intonazione di una fuga, diviene il preludio a qualcosa d’altro. Il Canonico – tornato nel frattempo a casa sua e in procinto di addormentarsi – vive l’esperienza della solitudine, quel vuoto che segue gli incontri conviviali piacevoli.

/The nothingness was a nakedness, a point,// Beyond which fact could not progress as fact./

(/Il nulla fu una nudità, un punto/Oltre il quale il fatto in quanto fatto naufragava./)

Il piacere di condividere una festa non può essere esteso in modo indefinito, in quanto evento concreto, ma solo essere trasfigurato e tale processo ha a che fare con un materiale diverso, di tipo mentale. Si tratta di intonare il nudo fatto con la sua trasfigurazione e allora cosa vede il Canonico Aspirina?

/So that he was the ascending wings he saw/And moved on them in orbits’ outer stars/Descending to the children’s bed, on which// They lay. Forth then with huge pathetic force/Straight to the utmost crown of the night he flew./The nothingness was a nakedness, a point// Beyond which thought could not progress as thought./…

(/Così egli divenne le ali stesse della visione che vedeva/e ascese alle orbite più lontane delle stelle/discese al letto delle bimbe, dove/esse dormivano. Poi con impeto di passione/volò diritto al culmine della notte/Il nulla fu una nudità, un punto/oltre il quale il pensiero come tale naufragava./) 44

Le orbite delle stelle più lontane e il letto delle bambine sono i due estremi di una più ampia armonia che va oltre il pensiero perché è fusione fra la sostanza materiale delle cose e la sostanza materiale della mente. Tale più ampia consapevolezza non proviene dal pensiero o da un occhio che guarda dal di fuori e che domina la scena, ma da una percezione che sta internamente sia alle cose comuni, sia a quelle più vertiginose: le stelle più lontane (metafora delle altezze cui può aspirare la poesia) e il letto dove dormono le nipotine hanno la stessa importanza. In questi due canti Stevens non si limita a riproporre uno dei leit motiv  più celebrati della sua opera e cioè il confronto fra il leone del liuto e il leone della pietra, di cui si è già scritto a proposito del poemetto L’uomo e la chitarra azzurra.

Nella parte conclusiva del sesto canto, il poeta fa un passo in più:

/He had to choose. But it was not a choice/Between excluding things. It was not a choice// Between, but of. He chose to include the things/That in each other are included, the whole, /The complicate, the amassing harmony.//

(/Dovette scegliere ma non fu una scelta /fra termini che si escludono. Non fu una scelta fra/ma di. Scelse di includere le cose/che s’includono a vicenda, l’intero/ la complessa, l’affollata armonia./) 45

Questi sono i versi chiave. Nel suo volo, il Canonico Aspirina viene messo di fronte a una delle antinomie tipiche del pensiero occidentale e si rende conto che la visione le comprende entrambe. Invece di insistere sulla mancanza che il poeta avverte dopo avere condiviso con altri l’esperienza a tutti comune, scopre l’impossibilità di separare l’esperienza comune dall’immaginazione. La sintesi è una nuova armonia in cui le figure stesse dei due leoni vengono superate. Essa è una quarta dimensione che potremmo paragonare al puro colore della pittura astratta, quando ogni sembiante figurativo si è dissolto. Tuttavia, il materiale della mente e quello dell’immaginazione non sono fatti di una sostanza diversa rispetto alle normali cose. Un chiaro di luna e un tramonto ci scuotono anche prima della loro trasfigurazione in versi memorabili. Se non fosse così la metamorfosi non sarebbe neppure possibile. Perciò la realtà non è solo il fardello del mondo, ma anche la sorgente di ogni ispirazione. Il poeta è un demiurgo e questo implica anche un passaggio nel silenzio e nella solitudine, un momento di vuoto; ma solo un momento, perché quando la metamorfosi è compiuta, nulla è andato perso. Soltanto separando perdiamo qualcosa, sia nel caso in cui rimaniamo legati e prigionieri alla lettera degli avvenimenti, sia perseguendo le rotte delle stelle come fuga, cadendo così in un vuoto spiritualismo. Il poeta demiurgo vola fra queste due polarità, ma Stevens ci sta forse suggerendo che per chiunque tale esperienza è possibile. Naturalmente siamo distanti dal modo ridicolo in cui una formula apparentemente simile è venuta in auge nel post modernismo italiano della fine degli anni ’90 e cioè che chiunque è poeta; ma nel senso che chiunque può raggiungere il concreto materiale della propria mente e della propria immaginazione, nei modi diversi accessibili a ciascuno. Quando siamo commossi fino alle lacrime, quando siamo colpiti da un ricordo improvviso, tale emozione non è differente da un processo di trasfigurazione. Il nudo fatto non è più presente in quel momento, ma è capace di agire a distanza di tempo e di luogo. Che tipo di esperienza è questa? È forse separabile da quel volto, quella voce, quel tramonto che hanno provocato il ricordo e fatto scattare quell’emozione? La poesia è più intensa, il poeta demiurgo è partecipe di esperienze comuni come tutti ma anche memorabili per chiunque, così che tutti possiamo a nostra volta rispecchiarci nelle medesime; altrimenti non potremmo. Probabilmente la grande poesia è quella in cui è attiva anche una capacità di sospendere il giudizio, di accedere a una dimensione astratta e per Stevens astratto non è l’opposto di concreto ma un andare verso un’esperienza concreta come se la si facesse per la prima volta. In definitiva, qual è allora la differenza fra il condividere il piacere di una festa e la poesia che la trasfigura? E fra il poeta e la persona comune nel sentire un’emozione? Abbiamo visto come per Stevens è un demiurgo, ma egli accompagna la parola a un aggettivo molto particolare: debole.

/The man-hero is not the exceptional monster,/But he that of repetition is most master./

(/L’uomo eroe non è il mostro eccezionale;/ma colui che della ripetizione è il miglior mastro./) 46

Soltanto tornando più volte alla stessa esperienza e raffinandola sempre di più è possibile intensificarne il senso: ma ripetere è l’opposto del separare e chi separa troppo cade in quello che i greci definivano hybris, l’arroganza, l’imporre ordine. Il nome del canonico – Aspirina – appare al fine del percorso, niente affatto una bizzarria. L’aspirina, con la sua debole effervescenza, scioglie comunque gli acidi e le incrostazioni, permette alla visione di togliere all’esperienza comune ciò che è troppo comune, per farla risplendere di una luce diversa: il debole demiurgo e l’aspirina condividono tale peculiarità e anche il poeta deve rinunciare alla propria di finzione, eccetto che in un caso:

…../ the fiction of an absolute-Angel,/Be silent in your luminous cloud and hear/The luminous melody of proper sound./ 

(/la finzione di un Angelo assoluto,/sii silente nella tua nube luminosa e ascolta/la luminosa melodia del suono appropriato./) 47 

Nella figura dell’Angelo precipitano (e uso il termine nel significato di reazione chimica) tutte le altre figure di cui di volta Stevens si è servito: ora è diventato l’Angelo della realtà che condivide la sostanza umana e quella divina, che altro non è se non  la parte eccedente noi stessi, ma che a noi ritorna sempre, senza allusioni a un favoloso altrove.

Stevens, coerentemente a quanto veniva scoprendo, rinunciò a darci una definizione esaustiva della Finzione Suprema, limitandosi a fornircene alcune Note, sebbene abbia lasciato qualche traccia della direzione che avrebbe preso la parte non scritta del Poema. Come Mosè egli ha puntato il suo dito verso la terra Promessa della Finzione Suprema. L’armonia molteplice è la contemplazione pacata e accolta del confine, cioè del limite: lo sguardo che da lì e per un attimo coglie l’intero, stando però un passo indietro. Qualcosa di simile deve aver sentito Michelangelo Buonarroti quando, nell’affrescare la Cappella Sistina, lasciò uno spazio vuoto fra il dito di Dio e quello dell’uomo.

Questa terza sezione del poema è quella nella quale Stevens raggiunge i toni più alti, le vette più estreme. Proprio in questo punto, però, la meditazione s’interrompe e la famosa quarta sezione, It must be human, rimane nella penna del poeta. Perché? Ed è proprio vero poi? Su tale mancanza i critici si sono arrovellati e hanno pure interrogato lo stesso Stevens, il quale – con il suo solito modo disarmante – ha risposto in modo a mio avviso esauriente, esponendo i motivi per cui la sezione quarta non fu scritta nella forma in cui lui stesso all’inizio aveva in mente: oppure, come sono propenso a credere, che abbia finto di avere in mente. Seguiamo il suo ragionamento. In una lettera all’amico Henry Church Stevens scrive:

Il nucleo della faccenda è espresso nel titolo…  E in un’altra lettera a Simons: Non ho certamente definito la finzione suprema, le note si limitano ad affermare alcune caratteristiche necessarie ad una finzione suprema48

E continua più avanti, sempre rivolta a Montague:

Per molto tempo ho pensato di aggiungere alle note altre sezioni, una in particolare – Deve essere umana -…Che il lavoro di un uomo rimanga incompiuto, è spesso un fatto intenzionale. Ad esempio, se devo pensare ad una finzione suprema, non riesco ad immaginare niente di più fatale che il definirla categoricamente e senza le necessarie cautele.” 49

A furia di pensarlo come un poeta oscuro, capita di equivocare la chiarezza di Stevens anche quando parla in prosa: forse basterebbe avere il semplice coraggio di prenderlo alla lettera. Quando il poeta afferma che il nocciolo della questione sta nel titolo, dice il vero perché il titolo è lì a dirlo. Le sue non sono Note about, circa oppure on (sulla)  finzione suprema, ma toward. Cosa significa la parola inglese usata da lui? Significa verso, indica cioè una direzione ma non il raggiungimento di una meta specifica, nella forma almeno della meditazione sulla propria poesia e poetica. In un’altra dichiarazione Stevens dice qualcosa di più che illumina definitivamente la questione anche a questo proposito, che illumina il senso delle note. Stevens sente di avere raggiunto il limite oltre il quale il pensiero poetante rischia di diventare filosofia pura e semplice, perciò la definizione di finzione assoluta non può essere raggiunta in poesia; ma manchiamo forse d’indicazione sulla terra promessa della finzione suprema? Niente affatto. Dopo avere toccato il vertice del linguaggio e dello stile alto e dopo essersi allontanato dall’umano troppo umano cioè, dopo avere indicato la via di una spoliazione della tentazione di rendere tutto antropomorfo, dopo avere indicato nell’idea prima della cosa il suo punto di arrivo, Stevens, vuole reintegrare l’umano in tutto questo, un umano però cosciente dei suoi limiti, ma anche della sua grandezza nell’insieme del cosmo.

Nadia Fusini ha bene intravisto questo percorso quando afferma nell’opera già citata:

C’è una curva che si descrive, una traiettoria che piega verso la terra. Comprendiamo che la finzione suprema, se fosse dato raggiungerla, avrebbe quell’inclinazione verso l’umano. 50

Ma non è forse vero – allora – che la quarta sezione non è affatto mancante ma che è stata scritta da Stevens in un altro modo, come una messa in pratica – se così si può dire – di quanto aveva intuito nei punti più alti delle Note? Se posso usare una analogia un po’ ardita direi che lo Stevens che giunge al punto più alto delle note è un Mosè alato che indica la terra promessa e che lo Stevens che scrive il poema le Aurore d’autunno, Un giorno qualunque a New Heaven, The rock e l’Opus postumus, è un Mosè che ha perso le ali ma che non ha rinunciato ad entrare nella terra promessa e che anzi ha compreso che per raggiungerla doveva farlo in altro modo, magari a piedi e anche senza farsi troppo riconoscere. E quale è la terra promessa cui Stevens finalmente approda? Semplicemente quella cui la sua poesia tende fin dagli inizi, in un processo di metamorfosi continua grazie alla quale la meta diventa sempre più chiara al poeta stesso: quel canto della terra e quel linguaggio semplice delle cose colte nella loro essenzialità, la luce che emana anche ciò che è comune e quotidiano.

Nei suoi grandi poemi finali ha raggiunto questa misura e infatti il tono altissimo delle Note cede il passo a quello meditativo e più sommesso, ma non basso: è lo splendore tenue ma costante della maturità autunnale, la luce che non abbaglia ma che rende tutto intimo e confortevole, è il tono di un umano finalmente reintegrato e riconciliato con le cose, persino con la roccia, cioè con il nocciolo duro e più ottuso della terra. La poesia di Stevens fa risplendere tutto questo della sua luce che non è più quella delle vertigini, che evocano:

il favoloso altrove che non esiste e che se anche esistesse non ci servirebbe qui dove siamo” 51

ma il canto di ciò che è più comune: della materia che risuona, della realtà che ha la sua musica. Nei suoi poemi finali Stevens dà a ciò che è più comune la dignità di essere parte di un cosmo.


28 Nadia Fusini, Note sulla finzione suprema, Arsenale editrice, Venezia 1987, pag.33.

29 Op. cit. pp. 29-30

30 Quella che Stevens mette in atto è un invito alla sospensione del giudizio che diventerà ancora più chiaro in opere successive e in particolare in Aurore d’autunno. Il criterio della sospensione del giudizio ha una lunga storia nella filosofia occidentale. Se modernamente può essere fatta risalire a Kant e a come il filosofo tratta l’aspetto fenomenico dell’esperienza e poi nel ‘900 a Husserl, nell’antichità greca lo troviamo in Sesto Empirico. Stevens non ci lascia tracce evidenti dei suoi possibili riferimenti a questi autori o altro, tuttavia il modo di procedere sembra avere qualche ancoraggio a tali autori, in particolare quelli più antichi, insieme a Husserl.

31 Nadia Fusini, Op. cit. pag. 10.

33 Op. cit. pp.64-5

34 Op. cot. pp. 66-7

35 Op. cit. pp.70-1

36 Op.cit. pp. 77-8. Fusini a piè pagina del testo inglese e della sua traduzione cita molto opportunamente alcuni passaggi di lettere che Stevens indirizzò a Church e a Herringman e che si ricollegano a questo testo, ma che sono pure espressioni assai note che Stevens ha usato in altri contesti. Una l’abbiamo già citata, ma riproporla qui mi sembra assai significativo: “Caro Church, per me il gioiello inaccessibile è la vita ordinaria, la vita tutta, e la poesia non è che la difficile ricerca di questo.”

37 Wallace Stevens L’Angelo necessario, a cura di Massimo Bacigalupo, Coliseum editore, pp.77-112.

38 Wallace Stevens, Note verso la finzione suprema, a cura di Nadia Fusini, Arsenale editrice, pp 84-5

39 Nadia Fusini, op. cit. pp.86-7.

40 Charles Baudelaire, I fiori del male, in Tutte le poesie, a cura e traduzione di Claudio Rendina con saggio introduttivo di Giacinto Spagnoletti, Club del Libro Fratelli Melita, La Spezia 1972, pp.50-1.

41 In questo caso ho preferito la traduzione di Massimo Bacigalupo in Wallace Stevens Harmonium, Einaudi pag. 465.

42 Op. cit. pp.480-1

43 Op.cit. pp. 474-5

44 Op. cit. pp. 480-1

45 Su questo passaggio decisivo occorre soffermarsi molto, anche perché le differenze nelle traduzioni sono rilevanti. Il testo in lingua originale, le giustifica tutte, ma esse non sono ovviamente neutre l’una rispetto all’altra. Mi riferisco in particolare all’ultimo verso: The complicate, the amassing harmony. Ho scelto la traduzione di Nadia Fusini che rispetta prima di tutto la presenza della virgola fra l’aggettivo complicate e ciò che segue. Può sembrare un dettaglio insignificante, ma non lo è affatto perché a mio giudizio Stevens voleva proprio distaccare i due concetti: l’armonia in altre parole non è complessa perché affollata, ma neppure il contrario. Detto ciò, alla traduzione affollata io avrei preferito la parola molteplice, ma è del tutto ragionevole che Fusini abbia fatto la sua scelta perché in una lettera a Simons riportata in calce alla traduzione, Stevens usa gli stessi termini anche in prosa.Non mi convincono invece le traduzioni che vedono nell’aggettivo amassing qualcosa che ha a che fare con l’accumulo. Da Nadia Fusini pp.112-13.

46 Wallace Stevens Note verso la finzione suprema, terza parte, stanza nona. La traduzione è mia

47 Wallace Stevens, Note verso la finzione suprema, in Harmonium, a cura di Massimo Bacigalupo, I millenni Einaudi, Torino, pp. 484-5

48 Wallace Stevens, Note verso la finzione suprema, a cura di Nadia Fusini, Arsenale editrice, Venezia 1987, pag 53. Il corredo di lettere che Fusini mette in calce alle tradizioni è preziosissimo. Ho mescolato in questo caso due citazioni da lettere diverse, ma si può dire che in ognuna di queste missive, Stevens ritorna più volte sullo stesso argomento precisandolo sempre di più.  

49 Op. cit. pag 154 nota 22

50 Ivi.

51 L’espressione è usata da Nadia Fusini nella sua introduzione alle Aurore d’autunno, Adelphi, Milano 2012, pag 42. Fusini ricorda l’assonanza con un’analoga espressione usata da Kafka.

WALLACE STEVENS: DAL GIARDINO INCANTATO AI DUE LEONI

Blue Guitar

Sunday morning (Mattino domenicale) è l’opera più simbolista scritta da Stevens. ll poemetto è del 1923 ed è diviso in otto brevi sezioni. Il setting è un giardino nel quale una dama medita solitaria una domenica mattina:

Complacencies of the peignoir, and late/ Coffee and oranges in a sunny chair,/And the green freedom of a cockatoo/Upon a rug mingle to dissipate/The holy hush of ancient sacrifice/.

(Lusinghe di vestaglia, ad ora tarda/ Caffè ed arance sulla sedia al sole,/La verde libertà di un pappagallo,/Su un tappeto si fondono a disperdere/Silenzi d’un arcaico sacrificio.) 14

Rispetto allo scenario di Wordsworth, il giardino di Stevens è il luogo di una natura addomesticata ed elegante, che si manifesta anche nella presenza di un pappagallo, un animale esotico, ma anche imprigionato. Il gioco dei rimandi simbolici è raffinato, la dama dovrebbe recarsi a messa come vuole la sua tradizione religiosa, ma preferisce una meditazione solitaria, mentre il richiamo della divinità è lontano, non più in grado di muovere passioni. Nelle sezioni successive Stevens rivisita i diversi aspetti del tema. È un excursus che va dal dio cristiano agli dei precedenti del Pantheon occidentale, dentro una partitura testuale densa, con rime interne raffinate, nel metro più classico della poesia inglese, il blank verse. Gli echi e in particolare quello di Wordsworth sono presenti in più di un testo ma in particolare nella parte conclusiva della quinta sezione:

…/She makes the willow shiver in the sun/For maidens who were wont to sit and gaze/Upon the grass, relinquished to their feet./She causes boys to pile new plums and pears/On disregarded plate. The maidens taste/And stray impassioned in the littering leaves.

(/Ma essa fa tremare al sole il salice/Per le fanciulle avvezze a contemplare/I prati abbandonati ai loro piedi./Essa fa sì che ammucchino i ragazzi/pere e susine sui vassoi. Gustandone,/fra vie di foglie assorte errano le vergini./) 15 

Nelle sette sezioni del poema è riflesso anche il tema biblico dei sette giorni della creazione, se non che Stevens aggiunge un’ottava e ultima sezione, con la quale imprime una svolta al suo pensiero poetante. Usando un procedimento che Stevens medesimo ha definito decreativo 16, egli spezza la catena simbolica, sottrae gli oggetti al disegno interpretativo dato fino a quel momento e li restituisce nella loro nuda realtà all’occhio e all’orecchio del lettore; non al nulla dunque, ma all’increato, cioè alla loro sostanza come elementi, fisici o meno, che vengono liberati dalla catena simbolica entro la quale erano stati inscritti, anche dalla tradizione letteraria. Data la sua importanza riprodurrò la sezione ottava per intero:

/She hear, upon the water without sound,/A voice that cries: “The tomb in Palestine/is not the porch of spirit lingering./It is the grave of Jesus where he  lay”. We live in an  the old chaos of the sun,/Or old dependency of day and night,/Or island solitude, unsponsored and free,/of that wide water, inescapable./Deer walk upon our mountain, and the quail/Whistle about us their spontaneous cries;/Sweet berries ripened in the wilderness;/And, in the isolation of the sky,/At evening, causal flocks of pigeons make/Ambiguous undulations as they sink,/Downward to darkness, on extended wings./

(/Essa ode sull’acqua senza suono/Una voce che dice: “In Palestina/luogo non v’è d’indugio per gli spiriti,/Ma solo per la tomba di Gesù”./O sole, noi viviamo nel tuo caos, /Nel vincolo del giorno e della notte,/In un’isola libera e deserta,/Orfana in un oceano senza scampo./Sui nostri monti vanno i daini, e il fischio/Delle quaglie spontaneo ci risponde./Dolci bacche maturano nei boschi,/Passano rari stormi di colombi,/Che ambiguamente oscillano su tese/Ali quando sprofondano nel buio./) 17

Stevens è giunto al limite estremo della parabola simbolista, ma con questa sezione  si congeda da quella poetica e da questo momento la sua meditazione riprende per approdare a esiti diversi. Il mondo nel quale Stevens ci porta con l’ultima sezione del poema è un mondo irreligioso e di misteriosa bellezza. Il sole, il giorno e la notte ritrovano il loro significato originario, scandiscono i tempi del vivere, legano l’umano a una radice primordiale che preesiste all’umano, ma liberi anche dalla catena simbolico-religiosa costruita intorno ad essi. Il sole assume un ruolo fondamentale nella settima sezione:

Supple and turbulent, a ring of men/Shall chant in orgy on a summer morn/Their boisterous devotion to the sun,/Not as a god, but a god might be,/naked among them , like a savage source./

(… Un mattino d’estate agile e fiera, Un’orgiastica ronda di creature/canterà al sole inni di fedeltà:/Non un iddio, ma degno d’esser dio/nudo fra loro come una sorgiva …/) 18

Questo vero e proprio inno al sole, che ha evidenti tratti pagani, assume una notevole importanza nell’ultima sezione considerata in precedenza, perché apre le porte a un mondo irreligioso. Al Cristianesimo della croce, egli contrappone la vitalità dei riti pagani precedenti e ancora una volta in questa danza orgiastica di uomini e fenomeni naturali, non ritroviamo affatto Keats, ma ancora una volta Wordsworth, seppure in un contesto completamente diverso. Il romantico inglese, a differenza di Stevens, non rompeva la catena simbolica che per lui era la tradizione protestante inglese, ma celebrava la natura per contrapporla alla nascente società industriale. Per Stevens l’approdo a questo mondo irreligioso sembra qui definitivo anche se vedremo successivamente che le cose sono più complesse. Le immagini di una natura splendente, ma non titanica come era in Wordsworth, il ritorno a elementi così primari del vivere in senso puramente fisico (il sole, la notte, il giorno), sono l’avvio di un percorso del tutto nuovo, che emergerà nel tempo, costruendosi passo dopo passo.19 Quella che viene sicuramente abbandonata con quest’opera, è la poetica simbolista e anche quel rischio di estetismo che il simbolismo porta sempre con sé. Tale abbandono coincide, per Stevens, con un cambiamento radicale di prospettiva: è la poesia stessa a divenire oggetto della sua poesia e con essa l’immaginazione. Cosa sono entrambe? E quale rapporto hanno con la realtà?

La prima realizzazione matura in un testo poetico della meditazione stevensiana intorno al rapporto fra realtà e immaginazione si trova nel poemetto The man and the blue guitar (L’uomo e la chitarra azzurra), pubblicato nel 1937, ma già in Peter Quincy at the clavier, (1915), si era cimentato con il tema. La prima sezione del poemetto contiene un verso che diventerà celebre nel tempo e costituirà una specie di icona: le cose come sono.

The man bent over his guitar,/A shearsmen of sorts. The day was green.//They said: “You have a blue guitar,/ you do not play things as they are”.//The man replied: “Things as they are/ are changed upon the blue guitar.//And they said again:”But play, you must,/A tune beyond us, yet ourselves,//A tune upon the blue guitar/Of things exactly as they are.”/

(/L’uomo chinato sulla sua chitarra/Nella verde giornata. Forse un sarto.//Gli dissero:“Sulla chitarra azzurra /Tu non suoni le cose come sono.”//Egli disse: “Le cose come sono/Si cambiano sulla chitarra azzurra.”//Risposero:“Ma tu devi suonare/un’aria che sia noi e ci trascenda,//Un’aria sopra la chitarra azzurra/Delle cose così come esse sono.) 20

Questo primo testo si rifà alla lirica Introduzione che apre I canti dell’Innocenza e dell’Esperienza di William Blake. La scena ha qualcosa di analogo ma la diversa scelta dei personaggi è assai interessante. Blake immagina un suonatore di piffero cui appare una figura angelica e cioè un bimbo su una nuvola che gli rivolge un invito: Suona una canzone dell’Agnello!. La scena è agreste come si evince facilmente dal testo, il suonatore stesso potrebbe essere un pastore. Il pifferaio accoglie l’invito ma successivamente il bimbo gli consiglia di fare di quelle canzoni un libro. Il suonatore allora abbandona lo strumento musicale e:

…And I pluck’d a hollow reed,//And I made a rural pen,/And I stain’d the water clear ,/And I wrote my happy songs,/Every child may joy to hear.!!

(Ed io staccai una canna vuota,/E ne feci una penna agreste/E macchia la limpida acqua/E scrissi le mie canzoni felici/Che ogni bimbo può sentire con gioia./21

Nella poesia di Stevens abbiamo un sarto, dunque un artigiano. In entrambi i casi abbiamo a che fare con persone semplici e con le cose come sono, cioè l’icona di una realtà persino modesta, ma che la chitarra azzurra però deve cambiare. Il tema viene svolto in diversi modi nelle sezioni successive con alcune parole chiave che si ripetono, finché non arriviamo a un primo snodo che ci riporta anche ai motivi che avevano ispirato Mattino domenicale e che ritroviamo proprio nei versi conclusivi della quinta  sezione:

Exceeding music must take the place/Of empty heaven and its hymns,/Ourselves in poetry must take that place,/even in the chattering of your guitar./

(La musica trascende e tiene luogo/Del cielo vuoto e dei suoi inni. Il loro//Posto prendiamo noi nella poesia,/E nelle ciarle della tua chitarra.) 22

La musica è metafora della poesia e prende il posto degli inni religiosi rivolti a un cielo ormai vuoto di dei. Nella dodicesima sezione, il suonatore si rivolge al suo pubblico in questi termini:

Tom-tom, c’est moi. The blue guitar/ and I are one. The orchestra //fills the high wall with shuffling men/High as the hall. The whirling noise/ of a multitude dwindles, all said,/To his breath that lies awake at night./…

(Tom-tom, c’est moi. Io e la chitarra azzurra/ siamo una cosa unica. L’orchestra// Riempie l’aula di gente scalpicciante, /Alta fino al soffitto. Il vorticoso// Clamore d’una turba si riduce/Solo a un alito vigile di notte.) 23

Qual è l’elemento sorprendente di questi versi che peraltro continua a ritornare? È l’azzurro, che non siamo abituati ad associare all’oggetto in questione e cioè una chitarra: ma siamo proprio sicuri che Stevens alluda al colore dello strumento fisico e non invece a qualcos’altro? I versi successivi, il primo distico ci danno una risposta quasi ovvia: è la musica ciò cui il poeta allude e l’azzurro24 esprime una qualità dell’oggetto che lo trascende e lo trasfigura pur non potendo prescinderne. La trascendenza cui porta la musica, tuttavia, non ha nulla di metafisico, non porta ai cieli vuoti. Tuttavia nella sezione di cui sopra è avvenuta anche una piccola metamorfosi perché il suonatore e l’oggetto chitarra sono diventati una cosa sola. Il sarto della prima sezione, cioè l’immagine dell’uomo comune nella sua semplicità, è diventato altro perché ha incorporato in sé lo strumento e la sua musica; anche lui si è colorato d’azzurro pur rimanendo un uomo semplice. Nella diciannovesima sezione del poemetto, troviamo un primo momento di sintesi, dove Stevens paragona realtà e immaginazione a due leoni:

/That I may reduce the monster to/Myself, and then may be myself// In face of the monster, be more than part/Of it, more than the monstrous player of// One of his monstrous lutes, not be/Alone, but reduce the monster and be,// Two things, the two together as one,/ And play of the monster and of myself,//Or better not as myself at all,/But of that as its intelligence,//Being the lion in the lute/Before the lion locked in stone./

(Oh ch’io possa ridurre il mostro a me/ Medesimo, e poi essere me stesso// Di fronte al mostro, più che una sua parte,/O più che il mostruoso suonatore// D’uno dei liuti mostruosi; solo// Non rimanere, ma trionfarne e farsi// Due cose, le due insieme come una,/ E suonare del mostro e di me stesso,// O meglio non di me ma sol di lui,/Della sua mostruosa intelligenza,// Ed il leone essere del liuto, Di fronte a quello chiuso nella pietra.) 25

La poesia nasce dunque da una tensione mai risolta fra realtà e immaginazione e dunque la scelta di due leoni implica l’impossibilità dell’uno di vincere in modo definitivo sull’altro. Se l’esercizio della facoltà immaginativa fosse inconsapevole della forza degli ostacoli con cui deve misurarsi, per il poeta statunitense finirebbe per dare vita a pure fantasticherie; soltanto cimentandosi con la durezza della realtà, con il suo peso, la sua impenetrabilità, essa si affina diventando il leone del liuto. D’altro canto se i poeti cedessero al peso di una realtà greve, la poesia perderebbe la propria prerogativa, diventando essa stessa prosa del mondo. La sfida consiste proprio nel sapere infondere il soffio vitale anche nella materia più dura e a questo proposito, come non ricordare l’opera che Gaston Bachelard dedica proprio all’elemento terra e alla forgia che ne doma la durezza?26

Per riuscire in questo intento, tuttavia, il poeta stesso deve trasfigurarsi (a questo allude Stevens quando definisce mostruoso il suonatore), cioè andare oltre il proprio io ed entrare in un diverso stato di coscienza. Nella sezione ventiduesima, il poeta torna alla poesia con un testo che si può considerare una prima e compiuta dichiarazione di poetica in versi, cui ne seguiranno altre:

Poetry is the subject of the poem,/From this the issue and//To this returns. Between the two,/Between issue and return, there is //An absence in reality,/Things as they are. Or so we say//But are these separate? Is it/An absence for the poems, which acquires//Its true appearances there, sun’s green/Cloud’s red earth feeling, sky that thinks//From these it takes. Perhaps it gives, /In the universal intercorse./

(La poesia è il tema del poema./Da ciò il poema ha origine ed a ciò//Fa ritorno. Fra questi due estremi,/fra origine e ritorno,//C’è un’assenza in realtà,/Le cose come sono .O così pare.//Ma sono i due distinti? Ed è l’assenza/Che al poema dà le vere parvenze//Verde il sole, porpora di nuvola,/Terra che sente, cielo che riflette.//Da questi prende. E forse anche ne rende/In universa reciprocità//27

Come affermavo più sopra i due leoni sono una prima incarnazione in figure che si trasformeranno in altre con un andamento metamorfico incessante. Stevens le mette in scena ritornando sempre alle sue tematiche, ma introducendo di volta in volta un elemento in più: non è la coazione a ripetere che lo spinge a ritornare sugli stessi luoghi topici, ma un processo incessante di chiarificazione e anche di rarefazione e di decreazione come abbiamo già visto. Inseguire tutte le figure è quasi impossibile e non è di certo il mio intento; solo soffermarmi su alcune di esse e arrivare all’ultima, quella dell’Angelo Necessario della terra che chiude le Aurore d’autunno.

Nella sezione trentaduesima del poemetto L’uomo e la chitarra azzurra, ritroviamo di nuovo assonanze che ci riportano a Blake, per introdurre un nuovo elemento che sarà ulteriormente elaborato nelle opere successive:

Throw away the lights, the  definitions,/And say of what you see in the dark//That it is this or that it is that,/But do not use the rotten names.//How should you walk in that space and know/Nothing of the madness of space,//Nothing of its jocular procreations?/Throw the lights away. Nothing must stand///Between you and the shapes you take//When the crust of shape Has been destroyed.//You as you are? You are yourself. /The blue guitar surprises you.//28

(Getta via le formule, le lampade,/E dì ciò che tu scorgi nelle tenebre//Dì che è questo o che è quello,/Senza usare i vocaboli corrotti./Come potrai avanzare in quello spazio,/Se dello spazio ignori la follia,//Se ignori le allegre procreazioni?/Getta via le tue lampade. E che nulla//stia tra te e le parvenze che tu assumi Quando alle cose si rompe la crosta.//Tu come sei? Tu sei te stesso./Ma ti sorprende la chitarra azzurra.//

Le parole corrotte sono quelle di una realtà fine a se stessa e misura di tutto, non colorata dall’immaginazione, ma sono anche il peso della storia. In Blake tale perorazione che abbiamo visto nell’Introduzione alle Canzoni, assume un tono spiccatamente religioso con la metafora dell’Agnello, ma l’invito a usare parole semplici, alla penna rurale rimane in Stevens in un’altra forma e cioè nella necessità da parte del linguaggio poetico di stare il più possibile vicino alle cose come sono nella loro semplicità.

Il giardino incantato

14 Wallace Stevens, Mattino domenicale, a cura di Renato Poggioli, con testo a fronte e nota critica di Guido Carboni, Einaudi Torino 1988, prima pagina.   

15 Op.cit. pp.12-13. In questa parte del testo si ritrova l’eco di una delle più celebri poesie di Wordsworth, The solitary reaper (la mietitrice solitaria).

16 Su questo termine e il suo uso è necessario qualche chiarimento. In un saggio che fu pubblicato insieme ad altri nel 1951, Stevens usa questo termine citando Simone Weil, ma equivocando il senso del termine da lei usato. Nel contesto di cui sopra, il termine da me usato indica semplicemente un modo di procedere della poesia di Stevens. In ogni caso anch’egli ci ha dato la sua definizione di ‘decreazione’ nel saggio dal titolo I rapporti tra la poesia e la pittura: “Decreare significa passare da ciò che è creato a ciò che non lo è mentre distruggere è passare da ciò che è creato al nulla. In Wallace Stevens, l’Angelo necessario, a cura di Massimo Bacigalupo, traduzione di Gino Scatasta, Coliseum editore Milano 1988, pag.247.

17 Op. cit. pp18-19.

18 Op.cit. pp-16-17

19 Il sole ritornerà spesso nella poesia di Stevens. Il critico che si è maggiormente occupato di questo aspetto è Harold Bloom nell’opera The poems of our climate.

20 Wallace Stevens L’uomo e la chitarra azzurra, in Mattino domenicale  e altre poesie, a cura di Renato Poggioli e nota critica di Guido Carboni, Einaudi Torino, 1988 pp.50-1. Parlando di questo poemetto il curatore indica nella pittura di Picasso uno dei motivi ispiratori e ricorda come la prima edizione dell’opera portasse in copertina proprio una chitarra azzurra, che ricorda il periodo blu dell’opera picassiana; del resto, il rapporto con la pittura è costante nell’opera di Stevens, sebbene nel caso specifico il poeta si mostri prudente nell’indicare un quadro preciso del grande pittore spagnolo come fonte della sua ispirazione.

21 William Blake, Canti dell’innocenza e dell’esperienza, Introduzione. Il testo si trova facilmente in rete, La traduzione è mia.

22 Op. cit. pag. 37

23 Op. cit. pp.50. Questo capitolo è la riproduzione quasi integrale di un saggio dal titolo L’angelo della terra, pubblicato sulla rivista Fare anima, diretta da Gabriella Galzio, nel 2001.

24 Fra l’altro il colore azzurro è associato all’infinito.

25 Op. cit. pp. 60-1

26 Gaston Bacheard: La terra e le forze. Le immagini della volontà, Red edizioni, collana a cura di Cludio Risè, traduzione di Anna Chiara Peduzzi e Mariella Citterio. La relazione fra le intuizioni di Bachelard, la sua filosofia e la poesia di Stevens è stata considerata sia da Bloom sia da altri critici ed è una problematica essenziale per l’interpretazione filosofica che si può dare della poesia del poeta di Hartford.

27 Op.cit. pp. 70-1

28 Op. cit. pp.90-1.