RIFLESSIONI RAPSODICHE SU MATEMATICA, LINGUAGGIO ED ECONOMIA

Tutte le epoche in regresso e in dissoluzione sono soggettive, mentre tutte le epoche progressive hanno una direzione oggettiva.” W. Goethe nei colloqui con Eckermann

«La posizione consapevole significa che lo scopo precede il risultato. Questo è il fondamento dell’intera società umana, » 739. Lukacs, Ontologia dell’essere sociale II volume pag. 739.

Premessa

Tempo fa mi capitò di leggere un saggio che mi ha fatto saltare sulla sedia già dal titolo: Smarriti nella matematica. Il testo si trova nel sito www.iltascabile.com, ma è stato rilanciato anche in Sinistra in rete. L’autore si chiama Massimo Sandal (La Spezia, 1981) è stato ricercatore in biologia molecolare, specializzato in dinamica delle proteine, ha conseguito un dottorato in biofisica sperimentale a Bologna e uno in biologia computazionale ad Aquisgrana, dove vive tuttora. Collabora con Le Scienze, Wired e altre testate. Uno scienziato con le carte in regola dunque.1 La matematica divide l’umanità in due schiere distinte: chi ne gode e chi la subisce, difficili le mezze misure, che si trovano facilmente per le altre discipline. Anche uno stonato può cantare e ci sono persino i cori degli stonati. Anche chi non è poeta può scrivere una poesia e leggerne molte godendone comunque: difficile invece per chi la matematica proprio non la digerisce improvvisare un’equazione! Chi subisce la matematica – come il sottoscritto – è il più delle volte un rassegnato a non capire metà del mondo, ma se poi gli capita di leggere che la fisica moderna e i fisici si sono smarriti nella matematica, lo spirito si risolleva.

Uso della matematica e pratiche sociali

Usciamo dal paradosso: sto ovviamente parlando dell’uso che si fa della matematica, non della matematica in quanto tale. Gli esempi di Sandal nel suo saggio sono inquietanti per quello che affermano e anche per il sostrato ideologico che s’intravede dietro di essi e sono esempi che anche chi di fisica legge soltanto libri divulgativi può capire. Quello che mi ha particolarmente colpito della sua riflessione, tuttavia, è una tipologia di ragionamento che dalla fisica può essere trasferita ad altri campi, anche sorprendentemente lontani come la linguistica, o in generale lo studio del linguaggio e persino l’economia politica. Quando Sandal, per esempio, ricorda che la fisica si chiama così perché, in definitiva, ogni speculazione e teoria o teorema deve poi trovare un sostrato – fisico appunto – senza il quale finisce per smarrirsi in un circolo vizioso, il mio pensiero è corso subito al rapporto fra significato e significante. I cultori estremi di quest’ultimo, che lo considerano una variabile del tutto indipendente con la quale si può giocare finché si vuole, mi ricordano assai i fisici smarriti di cui parla Sandal. Il linguaggio trova il suo senso – parola che a volte sembra essere diventata una bestemmia – nella sua relazione con qualcosa che sta fuori dal codice e che sta al significante come la natura fisica dei fenomeni sta al linguaggio matematico di cui si servono i fisici come gli altri scienziati: lo stesso Wittgenstein negli scritti successivi al Tractatus, si era reso conto, che non è possibile ricercare una sorta di essenza del linguaggio in sé, al di fuori dei diversi usi che se ne fa; dunque, che non si poteva prescindere dalla dimensione antropologica e dalle diverse pratiche sociali e culturali che coinvolgono gli esseri umani: altrimenti il linguaggio diventa una macchina autoreferenziale, ma anche paradossalmente arbitraria in senso soggettivistico. La frase di Goethe che ho ricordato in esergo viene, in questo senso, quanto mai a proposito perché a me sembra una drammatica rappresentazione della nostra epoca di solipsismo soggettivistico e identitario, di post verità e questo mi riporta ancora una volta agli esempi che Sandal porta nel suo testo.

Che c’entra però l’economia politica in tutto questo? Anche in economia esiste prima di tutto una sostanza fisica: tutto ciò che serve per riprodurre la vita di ogni giorno, che richiede cura e attenzione, oggi come migliaia di anni fa. Tale sostanza fisica si estende poi alle costruzioni, alle case, poi a quello che nel gergo economico si definisce infrastruttura e cioè le strade, i ponti, le ferrovie: in sintesi, i beni che permettono di vivere. Questa è l’economia, ma non è di ciò che si parla quando nella nostra contemporaneità si usa il termine. Oppure, come accadde in Italia dopo il crollo del Ponte Morandi a Genova, si nomina la sostanza fisica dell’economia soltanto per registrare le catastrofi che accadono: i ponti che si sbriciolano, gli argini dei fiumi che collassano, i comportamenti anomali del clima che generano altre catastrofi. La pandemia da Covid 19 ha confermato tutto questo a livello planetario, il che lascia sgomenti ma contiene pure l’ovvietà che la terza globalizzazione ha reso da tempo i confini permeabili, non solo alle merci e agli esseri umani, ma anche ai virus. Del resto gli scienziati e gli epidemiologi ammonivano da anni che si stavano creando le condizioni per la diffusione di nuove pandemie, ma nessuno li ha ascoltati; salvo poi abbandonarsi a teorie assurde e complottiste quando invece, le spiegazioni sono più semplici e hanno a che fare proprio con l’assetto generale dell’economia e, nel caso del Covid, con la distruzione dei sistemi sanitari pubblici, che ha gettato nel panico i governi, i quali hanno scelto la via più facile: mettersi in modo più che disgustoso nelle mani di Big Pharma senza contrattare nulla, come dimostra la stessa inchiesta della commissione europea sul comportamento per nulla trasparente di von Der Leyen .

E la matematica? C’entra anch’essa, ma i passaggi, per arrivarci, sono un po’ un avventurarsi nel bosco e come Pollicino, sarà bene avere con noi qualche semino da lasciare come traccia per uscirne fuori. I beni sono anche quantità e non solo qualità, cioè valori d’uso, su questo non c’è alcun dubbio; dunque la necessità di quantificarli e misurarli fa parte della natura fisica dell’economia. Quale matematica è però necessaria e sufficiente per discuterne? Due riferimenti ci possono aiutare. Il primo è che nelle scuole medie italiane s’insegnava l’economia domestica, il secondo che l’autorità massima di controllo dei conti si chiama “ragioniere generale dello stato”. Nel primo caso, l’insegnamento dell’economia domestica era viziato da un’evidente discriminazione di genere: era la materia che doveva preparare buone mogli, madri e massaie, cui spettava il ruolo di gestire la casa e la famiglia nella divisione sessuale del lavoro in una società patriarcale che era considerata naturale e che nessuno metteva in discussione. La scelta di abolirla dall’insegnamento, però, fu – come spesso avviene in questi casi – del tutto sbagliata e controproducente: non intaccò per niente le radici patriarcali della società italiana, ma provocò un danno di cui forse non ci siamo resi conto della portata. Bisognava estendere alla popolazione scolastica maschile l’insegnamento dei rudimenti di economia domestica e di gestione della casa. Essa ha prima di tutto a che fare con le risorse materiali, i beni prima che non il denaro, la cura di cose e persone. Se si ascolta il rumore di fondo sgradevole che ci sommerge quotidianamente con discorsi che si spacciano per economia, di tutto questo non si parla, ma sono altri i parametri che vengono usati, talmente alienati, che il primo effetto di questa narrazione, prima di tutto ideologica, è l’avere introiettato in ciascuno di noi la convinzione che l’economia sia qualcosa che non possiamo capire. Invece dovrebbe essere sufficiente ragionare sul semplice fatto che ognuno di noi, mediamente, sa fare i conti di casa propria, per comprendere che non è così. Certo, possiamo farli più o meno bene, essere più o meno oculati o spendaccioni, ma se davvero l’economia fosse qualcosa di totalmente precluso alla comprensione dei non economisti, se non capissimo i meccanismi fondamentali che regolano i rapporti fra risorse e obiettivi, nel giro di un anno saremmo ridotti in miseria.

Il revisore di più alto livello dei conti statali si definisce come Ragioniere generale dello stato e le definizioni non sono casuali: significa che per gestire il bilancio dello stato, come quello della famiglia o di una comunità qualsiasi, la competenza di un ragioniere è più che sufficiente, ma intimoriti come siamo dalle cifre iperboliche, abbiamo scordato questa verità elementare. Un piccola parentesi sui numeri iperbolici: qualsiasi cifra che riguardi l’economia è pur sempre un numero dall’uno al 9, seguito da una piccola o grande montagna di zeri. I bilanci e la partita doppia si fanno ricorrendo ancora oggi alle quattro operazioni, anche se le macchinette del calcolo nascondono le procedure. Anche per calcolare l’ammortamento di un bene che si consuma nel tempo sono sufficienti poche operazioni. Comunque, per dare uno scherzoso riferimento in più: se si parla di decine e centinaia di migliaia di euro si tratta del mercato immobiliare, se parliamo di milioni di euro si tratta del mercato calcistico, se si parla di miliardi di euro si parla di economia. Questo è necessario ricordarlo anche per non prendere abbagli.

La capacità di gestire risorse è più entusiasmante, ma a questo non veniamo più educati. Questa competenza necessaria, anzi indispensabile, è stata tolta dalla formazione e i risultati si vedono. Certo, si dovrà riformarla l’economia domestica, introdurre principi nutrizionali, principi di riciclo e riuso che sono andati perduti tutto quello che si vuole, ma poiché sono ormai convinto che nulla sia casuale, la sua scomparsa ha contribuito a sequestrare l’economia politica relegandola, come il vecchio latinorum, in una regione incomprensibile ai più e di cui noi possiamo solo misurare gli effetti che produce: povertà, precarietà, odio sociale, pandemie, guerre e miseria. La matematica entra in gioco a questo punto del discorso e cioè quando, dopo avere occultato la natura fisica dei beni economici, li si è smaterializzati e dissolti in un universo finanziario e soggettivistico (la propensione del consumatore di cui parla la teoria marginalista, o l’utilità marginale) facendo diventare l’economia – con un paradossale doppio salto mortale – qualcosa d’altro.2 Con il primo salto essa diventa una scienza soggettiva del gusto, con al centro la figura del consumatore, poi con il secondo salto con doppio avvitamento, una scienza esatta cui si può – anzi si deve – applicare la matematica delle scienze cosiddette dure: algoritmi, equazioni, simulazioni avveniristiche. A questo punto il gioco è fatto: mentre scompare del tutto la sostanza fisica dell’economia e del valore (quali beni e perché? Come si producono e da dove viene il loro valore? Come si distribuiscono? Come si conservano? Come si riproducono?), rimane un sistema di algoritmi e di simulazioni che si muovono nello spazio vuoto e desertificato dell’accumulazione del capitale. Tornare a ragionare d’economia, dunque significa uscire dalla gabbia mentale e mortifera degli algoritmi e delle simulazioni, che hanno prodotto una narrazione che ha posto un’entità metafisica come il Mercato al posto di dio e costruito intorno a esso una teologia medioevale rozza, fatta di deliri algebrico-computazionali, potenziata dall’intelligenza artificiale e gestita da una casta sacerdotale ieratica e feroce, che si presenta con il volto anonimo della banalità del male e che produce miseria, precarietà, odio sociale, imbarbarimento dei rapporti sociali e di genere, razzismo.3

Riprendersi l’economia è oggi un gesto di opposizione e ribellione primario e lo è anche perché è prima di tutto un parlar d’altro rispetto alla sostanza grettamente economicistica dell’economia. Non è un caso infatti che tutti gli economisti degni di questo nome e non i funzionari anonimi al servizio del capitale come soggetto automatico, si sono posti domande che sconfinano assai – chi più chi meno – dall’aspetto strettamente economico. William Petty si chiedeva chi fossero il padre e la madre del valore economico, Ricardo e Marx da dove venisse il valore, Smith come si formano i prezzi, Keynes – addirittura si domandava perché ci piace il denaro. A proposito di Keynes, è assai interessante notare cosa pensasse della matematica. Un recente e prezioso saggio di Anna Carabelli, pubblicato su Kritica economica e ripreso da Sinistra in rete, è illuminante al proposito4. Ne cito alcuni passaggi:

… Nella sua discussione con Roy Harrod nel 1938, cioè nel suo manifesto metodologico più maturo e schietto, quando afferma che “l’economia è una branca della logica, un modo di pensare, piuttosto che una scienza pseudo-naturale”, Keynes sta semplicemente riaffermando la sua posizione precedente (CW XIV, 296) …

… Cos’è dunque l’economia per Keynes? La risposta è che egli considera l’economia sia una scienza morale che una branca della logica. È una scienza morale nella misura in cui si occupa di valori etici e di introspezione (CW XIV, 300). E, allo stesso tempo, è un ramo della logica, un modo di pensare. È fondamentalmente un metodo, che aiuta gli economisti a trarre conclusioni logicamente corrette per evitare di cadere in fallacie logiche nel ragionamento, come la fallacia additiva della probabilità o la fallacia della composizione in economia …

… Il punto chiave, secondo Keynes, è che senza tale logica, gli economisti potrebbero perdere la strada nel bosco empirico e matematico, come, secondo lui, era stato il caso di econometristi come Tinbergen e Colin Clark, e degli economisti matematici. Il problema, secondo lui, è che l’applicazione di linguaggi matematici e statistici con i loro presupposti di omogeneità, atomismo e indipendenza a materiale economico che è essenzialmente “vago” e “indeterminato”, dà luogo a fallacie logiche, una delle quali è la fallacia dell’”ignoratio elenchi” nella teoria economica classica (Carabelli 1991). La definizione di Keynes della matematica ne La teoria Generale come “imprecisa” significa che la cieca applicazione della matematica e della statistica all’economia, con i suoi aspetti non numerici, non comparativi e non ordinali, richiede attenzione logica (CW VII, 298; Carabelli 1995) …

Queste citazioni sono già sufficienti per mettere in evidenza sia la complessità del pensiero di Keynes sia la preziosità del saggio di Carabelli nel focalizzare aspetti della sua teoria che sono stati sottovalutati o volgarizzati.

Per concludere

Con tutti gli autori citati in precedenza siamo dentro l’economia, con le loro diversità e anche contraddizioni, e cioè dentro l’epoca che secondo Goethe è progressiva in quanto oggettiva, con il marginalismo usciamo da quel mondo ed entriamo in quello di un’aberrazione e non di una teoria. La parola aberrazione, riferita al marginalismo, fu usata da Piero Sraffa ed è stata proprio la rilettura del suo grande libro- Produzione di merci a mezzo merci – e di alcune e prime incursioni nel suo sterminato archivio, a convincermi che, per tornare a parlare di economia, occorre prima di tutto uscire dalla narrazione corrente, sfidandone il senso comune e specialmente violando quel confine che i guardiani armati del neoliberismo non vogliono che venga sorpassato. Per farlo si deve parlare di economia ma non solo, come tutti i classici Smith compreso, hanno sempre fatto. Uno degli arcani dell’economia, infatti, è che quanto più ci si avvicina alla sua sostanza fisica, tanto più essa ci sfugge se pensiamo di poter calcolare qualsiasi grandezza, perché l’economia è una scienza umana – forse – che ha che fare come afferma Keynes con l’etica e l’indeterminatezza. Travalicare i confini invisibili, ma pur sempre presenti, significa finire in un gorgo di sabbie mobili che una matematica e una tecnologia fintamente onnipotenti hanno reso ancor più pericolose. Per esempio, parlare e scrivere di economia significa fare i conti con il tempo, cioè con una tematica centrale nella tradizione filosofica occidentale, ma fondamentale per qualsiasi cultura. 5

Math equations written on a blackboard – mathematics and science concepts

1     Il saggio è del 2016 e nel sito, che si trova indicato nel testo, Sandal cita anche una collega in questo modo:

… la fisica è fuori rotta? Rischia di schiantarsi seguendo il canto di sirene dai nomi irresistibili di simmetria, naturalezza ed eleganza matematica? Cassandra di questo possibile naufragio è Sabine Hossenfelder, fisica teorica della gravità quantistica all’Istituto di Studi Avanzati di Francoforte, blogger e ora autrice di Lost in Math: How Beauty Led Physics Astray (letteralmente “Smarriti nella matematica: come la bellezza ha portato la fisica fuori strada”),

2 Ecco come il filosofo Mario Trinchero affronta il tema della matematica nella sua introduzione alle Ricerche filosofiche di Ludwig Wittgenstein. La citazione è tratta da Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, a cura di Mario Trinchero, Piccola biblioteca Einaudi.  dove l’intera opera del filosofo è riprodotta integralmente in traduzione italiana: L’aritmetica non è lo sviluppo di una logica unica e assoluta, cosi come non è prodotto del pensiero o dell’intuizione, o sistema assiomatico: essa è, in realtà, un «guazzabuglio di tecniche» in cui è appena possibile fare un po’ d’ordine. In questo è simile al linguaggio quotidiano: un insieme di strumenti eterogenei, creati per scopi diversi, che fanno parte di un complesso sistema di forme di vita. Il matematico non contempla essenze, ma le crea; non scopre, ma inventa. Ciò che in matematica c’è di profondo, di essenziale, è depositato nella grammatica; la forza costrittiva delle prove, il carattere necessitante delle regole, sono legati alla stabilità delle istituzioni umane; sono consuetudini che abbiamo assimilato col linguaggio, convenzioni di cui è intessuto il nostro agire quotidiano.  Ciò fa sorgere in noi l’illusione che la matematica sia legata a forme immutabili del pensiero o della realtà, ma in effetti le sue proposizioni sono modelli, paradigmi grammaticali «assunti una volta per tutte tra gli strumenti del nostro linguaggio». In esse non è insita nessuna necessità logica: un cambiamento nelle regole della matematica e nei nostri giochi linguistici quotidiani è logicamente possibile; lo rendono di fatto irrealizzabile i legami di queste regole e di questi paradigmi con tutta quanta la nostra «storia naturale».  Ciò non significa, tuttavia, che la matematica sia psicologia, o si fondi su basi empiriche; in quanto paradigma, modello linguistico primitivo, essa non dipende né dai nostri stati interni né dalle strutture del mondo esterno. Ciò significa soltanto che per rendere conto della sua intersoggettività e della sua possibilità di interagire col mondo dell’esperienza occorre partire non già dall’analisi delle sue strutture algoritmiche, ma da quella del linguaggio quotidiano, in cui sono depositati gli schemi sui quali costruiamo le nostre conoscenze …

3 La citazione qui di seguito, è tratta dallo scritto di Benjamin del 1921 sul capitalismo. Si tratta di uno dei saggi giovanili più importanti insieme al Frammento teologico politico e al saggio sulla violenza: …  Nel capitalismo va scorta una religione, vale a dire, il capitalismo serve essenzialmente all’appagamento delle stesse ansie, pene e inquietudini alle quali un tempo davano risposta le cosiddette religioni. L’essenza di questo movimento religioso che è il capitalismo implica perseveranza fino alla fine, fino all’ultima e completa colpevolizzazione/indebitamento di Dio …

4        4 Il saggio di Carabelli è di grande importanza perché offre un’interpretazione del pensiero di Keynes assai originale e illuminante. Peraltro l’autrice ha scritto libri e altri articoli sull’argomento che sono citati nel saggio pubblicato da Kritica economica. Il mio dunque è un invito a leggerla, aldilà delle poche citazioni che vengono riportate in questo mio saggio.

5 Sull’opera di Sraffa Paolo Di Marco ed io abbiamo appena pubblicato un libro dal titolo La Dissoluzione dell’Economia Politica: Note, commenti e qualche elaborazione a margine agli appunti di Piero Sraffa per le lezioni sulla teoria neoclassica  Sulla rivista online Overleft, ho pubblicato un saggio dal titolo La Sfinge marxiana, sempre dedicato a Sraffa.

GIUSEPPE DE NITTIS

Giuseppe De Nittis, Autoritratto, 1884

La Mostra che gli è stata dedicata a Palazzo Reale merita una visita attenta e ci restituisce un pittore di certo conosciuto, ma non considerato nella sua grandezza in Italia e neppure altrove in definitiva; nonostante la Legion d’Onore che gli fu attribuita nel 1878 e l’elogio funebre sulla tomba in Père-Lachaise che gli dedicò Alexandre Dumas junior:

Qui giace il pittore Giuseppe De Nittis morto a trentotto anni. In piena giovinezza. In pieno amore. In piena gloria. Come gli eroi e i semidei.

Al netto della retorica, ai francesi piaceva molto questo italiano che sembrava  inserirsi perfettamente nei canoni dominanti dell’impressionismo, cui di certo De Nittis offrì più di una sponda, almeno fino a che l’amico Cecioni  non lo rimproverò aspramente per l’acquiescenza troppo smaccata che egli manifestava verso quel mondo. In effetti De Nittis è molto altro e la sua collocazione nel movimento impressionista gli sta stretta e alla lunga non gli ha affatto giovato. Del resto, se si vanno a vedere i titoli delle cinque tele che inviò all’esposizione del 1874 presso lo studio del fotografo Nadar, che segnò il suo successo definitivo a Parigi, ci si rende conto di quanto della sua esperienza italiana piuttosto che parigina vi è in quei dipinti: Paesaggi presso il Bois; Levar di luna; Campagna del Vesuvio; Studio di donna; Strada in Italia.

Parigi gli permise di condurre una vita agiata e felice seppure breve, specialmente tenendo conto delle difficoltà che aveva dovuto affrontare. Decisivo fu l’incontro e poi il matrimonio con Léontine Lucile Gruvelle, amatissima e spesso rappresentata nei suoi ritratti insieme al figlio.1

Il macchiaiolo pugliese

I suoi esordi mi sembrano non lasciare dubbi: i minuscoli quadri dedicati alla campagna pugliese intorno al fiume Ofanto, sono piccoli capolavori che mettono in evidenza una cifra stilistica che De Nittis riuscirà sempre a salvare, anche nei momenti di maggiore acquiescenza ai canoni dell’impressionismo. La luce, il gusto per i particolari, uno spirito di osservazione cha la sua pittura restituisce con grande nitidezza, sono le caratteristiche più evidenti che saranno reiterate nella bellissima sequenza di quadri dedicati all’eruzione del Vesuvio, che gli permisero aggiungere un altro elemento che tornerà nei migliori quadri parigini: la capacità di sfumare, di rarefare la luminosità. Nella sequenza vesuviana è la polvere che scaturisce dalle eruzioni a creare nuove suggestioni, ma diventerà poi una cifra stilistica ulteriore che si manifesterà in modo particolare in alcuni quadri, per esempio il numero 11 della mostra intitolato Place invalides, ma anche in un piccolo dipinto che potrebbe apparire minore come Pioppi. Il passaggio dalla Toscana e il rapporto  con i macchiaioli è un ulteriore passo per rafforzare tutte queste caratteristiche.

Con questo bagaglio già notevole di esperienze De Nittis arriva a Parigi e si inserisce subito nei salotti giusti grazie all’amicizia con Goncourt, da lui ritratto. Ha accesso al  salotto di Julie Bonaparte, che ritrae in modo austero e pregevole. Questo periodo, prima del rimprovero di Cecioni, è quello che lo vede più allineato con le atmosfere del Secondo impero. Lascia Parigi nel periodo della Comune, che forse gli ricordava troppo le sue disgrazie famigliari e si reca a Londra.2 Quanto ritorna è ormai una celebrità e saranno quelli gli anni della definitiva consacrazione.

Per concludere

La pregevolezza della mostra da un punto di vista di quanto è stato esposto, in quantità e qualità notevoli, è a tratti contraddetta dalle didascalie e dal titolo stesso: Pittore della modernità o della vita moderna. Quest’ultima può essere definita in tanti modi diversi, ma nel caso in questione appare del tutto parziale. Gli impressionisti e le opere di De Nittis più legate al movimento non dipingono la modernità ma i fasti e i nefasti della borghesia trionfante, con i suoi flaneurs che si aggirano sempre nei luoghi nobili della città: il Bois de Boulogne con le sue signore dai cappellini sgargianti, l’Opera, i salotti eleganti. L’altra città, gli impressionisti non la vedranno mai, ne ignorano l’esistenza o voltano la testa dall’altra parte: saranno gli espressionisti e i grandi caricaturisti come Daumier  a vederla. Quanto alla pittura en plein air, De Nittis in definitiva l’aveva già scoperta sulle rive dell’Ofanto piuttosto che a Parigi. La sua grande capacità tecnica e lo spirito di osservazione gli permisero di penetrare con acutezza di sguardo nelle situazioni più diverse e ne sono testimonianza in particolare la sequenze dedicate a Parigi innevata e la brevissima ma intensa sequenza di quadri dedicati a Londra.

Quanto a Parigi, anche le sequenze più vicine al canone impressionista, portano nel dipinti suggestioni di altra natura: è così nei volti sfumati seppure eleganti di uomini e donne a passeggio. Oppure nei ritratti di donne in interni; è così nei ritratti della Bonaparte, eleganti e molto austeri, oppure nella Signora con il cane. Due dipinti in particolare mi hanno colpito, entrambi dedicati alle rovine di una parte del Louvre distrutta durante gli scontri del periodo della Comune. Uno dei due è più sfumato, le rovine appaiono tali, la folla della piazza è anonima lontana. Nella seconda versione tutto è più nitido e le rovine stesse assomigliano di più a una installazione teatrale. Fu questa seconda versione a essere premiata con una medaglia d’oro di terza classe …

Nella parte finale del soggiorno parigino qualcosa però deve essersi rotto nel profondo anche in lui e lo testimoniano queste parole, scritte nel taccuino dell’agosto del 1884:

Quanti bei progetti ho per l’avvenire! Prima di tutto ce ne andremo da Parigi, dove la vita mi soffoca: Parigi distrugge tutti. E se poi un bel giorno, mi dovessi ritrovare simile agi altri, immeschinito dall’ambizione, dalla stanchezza e dalla collera?

Parole spietate e purtroppo profetiche. Della città e dei suoi riti non ne poteva più e quello che è davvero notevole è la corrispondenza fra questo sentire e gli ultimi dipinti: siamo sempre a Parigi ma le sequenze dedicate a un pranzo familiare sulla terrazza con al centro l’amata Lèontine e il figlio e un altro dello stesso periodo lo testimoniano ampiamente. Sono immagini serene, riconciliate con la luce amica dei primi paesaggi.

L’ictus che lo colpì in modo crudele e fatale il 21 agosto del 1884 se lo portò via nel momento in cui forse era prossimo a una svolta ulteriore che ci avrebbe lasciato altre opere importanti e probabilmente diverse. Lèontine Gruvelle si preoccupò subito di preservarne le opere e catalogarle; a lei dobbiamo essere grati per averlo restituito a tutti noi nella sua reale grandezza.

Giuseppe De Nittis, Colazione in giardino, 1884

 


1 La morte per suicidio del padre, successiva a quella della madre, segnarono pesantemente la sua vita.

2 Il suicidio del padre avvenne alla fine del periodo di detenzione di due anni. Era stato arrestato per ragioni politiche

FANGO RADIO 5YEARS

Premessa

Quella che segue è la presentazione della performance Non è un reading che si è tenuta presso il circolo Gagarin di Busto Arsizio il 20 aprile scorso e in streaming su www.fangoradio.com in occasione dei cinque anni di trasmissioni dell’emittente Fango Radio. Di seguito i link ai podcast degli interventi.

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Schermi neri e scritte verdi: è il fondale su cui per 5 anni si è mossa la vostra Fango Radio. Messaggi criptici di color verde su fondo nero per comunicare con le macchine che amplificano la vocina del mago di Oz. (Non sempre riuscendoci.)
Per sessanta mesi abbiamo provato a muoverci in maniera piuttosto disordinata per indovinare cosa ci fosse sotto il pelo dell’acqua, o giù attraverso gli strati geologici del terreno.
Scendendo dall’underground abbiamo toccato il fondale del sub-underground, il benthos si è smosso, l’acqua si è fatta un po’ più torbida ma molto più saporita, abbiamo provato a manomettere maccalube e vulcanelli dove ci sembrava che sedimentassero i fanghi più interessanti. Per raccontarvi questo e altro, tra un concerto e un dj set, per proporvi una visita nel nostro bazar di bigiotteria e mercanzie, per produrre insieme a voi la “Trasmissione n. 9” e in buona sostanza per festeggiare il nostro quinto compleanno un po’ più in gita del solito, ci vediamo il 20 aprile nientemeno che al circolo Gagarin di Busto Arsizio, a pochi minuti dal nostro avamposto prealpino dello Studio G. Garantiamo l’imprevisto dalle 18.00 alle ore piccole.
Per seguire tutte le ore di spettacolo bisogna aprire la pagina andare alla voce events e scorrere verso il basso fino al podcast con le 6 onde sonore.

PROMETEO FRA MITO E STORIA

Heinrich Friedrich Füger, Prometeo porta il fuoco all’umanità, 1817

Nel suo contesto mitologico Prometeo è una narrazione molto arcaica, appena successiva a quelle sulle origini del mondo. Figlio del Titano Giapeto e dell’Oceanina Climene, è facile notare come i genitori siano due forze della natura incontrollabili. Egli stesso viene rappresentato come un Titano, ma il personaggio appare ben più complesso perché il suo nome significa – nonostante che ciò sia probabilmente dovuto alla cattiva interpretazione di un termine, come sostiene Graves –1 colui che pensa prima di agire. Questo denota progettualità, un’attitudine che non appare consona a un Titano e che, falsa o meno che sia la sua origine, si manifesta però ampiamente nei suoi comportamenti. Tuttavia, come spesso accade con i miti, essi si ricordano solo per alcuni particolari che hanno colpito l’immaginazione, ma che rischiano anche di ridurre la portata dei personaggi e delle narrazioni. Prometeo, nella vulgata che tutti conoscono, è colui che ha rubato il fuoco agli dei per darlo agli uomini e per questo fu punito da Zeus. La storia è meno lineare, proprio a cominciare dalla sua relazione con Zeus; per questa ragione, in nota, riporto la narrazione intera del mito stesso con l’indicazione di tutte le fonti consultate al proposito.2 Prometeo è un rivoluzionario e questo spiega l’attrazione di Marx per il personaggio, ma anche tale definizione gli va stretta; oppure, dipende dall’estensione da attribuire al termine rivoluzionario. Egli sa tenere testa al potere supremo di Zeus, cerca pure di rovesciarlo, ma sa accettare anche il compromesso. Prometeo, specialmente in alcuni momenti, è la politica al livello massimo della sua nobiltà, ma il suo scontro con Zeus si conclude con un sostanziale pareggio: egli viene liberato, ma la vicenda non si conclude con il rovesciamento rivoluzionario delle gerarchie olimpiche e questo lascia a noi umani il compito di scegliere fra opzioni diverse rispetto alla questione del potere, che è un’altra delle problematiche che il mito solleva. Prometeo, dunque, non è solo la tecnologia, anche se questa è stata la valenza dominante e il modo in cui è stato recepito nella modernità; con il rischio però di considerarla tendenzialmente buona in sé o almeno neutra e neutrale. Rimane però il fatto che rubare il fuoco per darlo agli umani è prima di tutto un atto politico d’insubordinazione.

Ecco come Marx si occupa di lui nella sua tesi di laurea:

La confessione di Prometeo: (“francamente, io odio tutti gli dèi”) è la sua propria confessione, la sentenza sua propria contro tutte le divinità celesti e terrestri che non riconoscono come suprema divinità l’autocoscienza umana. Nessuno può starle a fianco. Alle tristi lepri marzoline, che gioiscono della apparentemente peggiorata condizione civile della filosofia, essa replica quanto Prometeo replica al servo degli dei Ermete:(“io, t’assicuro, non cambierei la mia misera sorte con la tua servitù. Molto meglio lo star qui ligio a questa rupe io stimo, che fedele messaggero esser di Giove”)3

Il modo in cui ne scrive parla da solo: Marx, coglie la determinazione rivoluzionaria di Prometeo, ignora il furto del fuoco e valorizza la sprezzatura nei confronti della divinità suprema e il valore civile della filosofia, che è prerogativa degli umani. Questo aspetto del mito verrà reiterato nei momenti in cui Prometeo si prenderà gioco di Zeus. Marx sembra dunque accogliere il mito, in primo luogo, per rivendicare la libertà dal vincolo religioso. La narrazione del mito, tuttavia, dice anche altro. Prometeo non riesce a rovesciare il potere supremo di Zeus, ma tutto quello che ha voluto fare per il genere umano è stato compiuto e i doni sono il fuoco, l’architettura e la lavorazione dei metalli e dunque non solo la tecnologia ma anche le scienze e in uno spettro molto ampio: l’architettura confina con l’arte. Tuttavia, a Marx sembra sfuggire la parte finale del mito e cioè l’assunzione di Prometeo fra gli immortali, atto che crea una connessione del tutto imprevedibile ma assai vistosa fra divinità e tecnologia: una conseguenza assai densa di futuro infausto per noi. Il riferimento a Prometeo manterrà nello sviluppo dell’opera marxiana, una forte dose di ambivalenza. La convinzione che lo sviluppo delle forze produttive avrebbe portato di per sé alla rottura dei rapporti di produzione si pone in termini deterministi e prometeici, mentre nel discorso sul general intellect, se lo s’intende dal punto di vista politico e cioè come telos rivolto all’autogestione da parte dei produttori e della società nel suo insieme (l’idea di una umanità socializzata evocata nella decima tesi su Feuerbach), il determinismo scompare, oppure è fortemente limitato e l’esaltazione della potenza lascia spazio invece alla cooperazione. Lasciamo a Marx le sue oscillazioni e domandiamoci: possiamo avere noi il medesimo atteggiamento di fronte ai disastri naturali e sociali causati dal sistema capitalistico, che vediamo ogni giorno? Non possiamo più e questo implica la rinuncia a qualsiasi forme di prometeismo intesa come lo è stata in passato, anche nell’esperienza storica del socialismo reale.

In che modo però Prometeo come mito e personaggio è stato accolto dalla cultura occidentale? In nota riassumo rapidamente i diversi modi in cui la sua azione è stata considerata, mentre prenderò in considerazione per esteso soltanto il Prometeo di Goethe, con una precisazione: la sola traduzione in italiano che io abbia trovato è quella di Baioni del 1967. 4 Sarebbe auspicabile che qualcun altro lo faccia. Il testo cui faccio riferimento è dunque quello facilmente reperibile anche in rete, spesso con l’originale in tedesco.

Copri il tuo cielo, Giove,

col vapor delle nubi!

E la tua forza esercita,

come il fanciullo che svetta i cardi,

sulle querce e sui monti!

 Ché nulla puoi tu

contro la mia terra, contro questa capanna,

che non costruisti,

contro il mio focolare,

per la cui fiamma tu

mi porti invidia.

Io non conosco al mondo

nulla di più meschino di voi, o dèi.

 Miseramente nutrite

d’oboli e preci

la vostra maestà

ed a stento vivreste,

se bimbi e mendichi

non fossero pieni

di stolta speranza.

Quando ero fanciullo

e mi sentivo perduto,

volgevo al sole gli occhi smarriti,

quasi vi fosse lassù

un orecchio che udisse il mio pianto,

un cuore come il mio

che avesse pietà dell’oppresso

Chi mi aiutò

contro la tracotanza dei Titani?

Chi mi salvò da morte,

da schiavitù?

Non hai tutto compiuto tu,

sacro ardente cuore?

E giovane e buono, ingannato,

il tuo fervore di gratitudine

rivolgevi a colui che dormiva lassù?

Io renderti onore? E perché?

Hai mai lenito i dolori di me ch’ero afflitto?

Hai mai calmato le lacrime di me ch’ero in angoscia?

Non mi fecero uomo

il tempo onnipotente

e l’eterno destino,

i miei e i tuoi padroni?

Credevi tu forse

che avrei odiato la vita,

che sarei fuggito nei deserti

perché non tutti i sogni

fiorirono della mia infanzia?

Io sto qui e creo uomini

a mia immagine e somiglianza,

una stirpe simile a me,

fatta per soffrire e per piangere,

per godere e gioire

e non curarsi di te,

come me.4

Il testo di Goethe è a mio avviso equamente distante da tutte le interpretazioni più canoniche del mito, citate nella nota precedente. Non so dire se i suoi versi in tedesco siano della stessa efficacia e bellezza di altre sue liriche e forse l’inesistenza di traduzioni recenti potrebbe far pensare che non si tratti dell’opera poetica più riuscita di Goethe; tuttavia, in questa mia riflessione vi è una oggettiva prevalenza del significato simbolico da attribuire alla sua figura mitologica e il testo di Goethe mi sembra a questo proposito sorprendente e anomalo. La prima scelta sorprendente è di far parlare Prometeo, perché in fondo ciò che colpisce nelle altre rappresentazioni è proprio il suo silenzio. Anche nei ritratti in cui è rappresentato dolorosamente angariato dall’aquila, Prometeo sembra quasi assente. Eroe o demone, oppure angelo ribelle a seconda delle interpretazioni, nonostante sia sempre presente in scena, tutto quello che possiamo dedurre del suo pensiero, lo si evince dai gesti e dai comportamenti: anche quando usa la parola – i suoi avvertimenti a Epimeteo per esempio – questa viene riportata da altri. Il tono della voce, nel testo di Goethe, oscilla fra indignazione e dolenza, dolore e invettiva. Il Prometeo di Goethe rifiuterebbe di essere accolto fra gli dei e infatti non vi è alcun cenno a questo nel testo. Vero uomo ma non vero dio, il Prometeo goethiano si distanzia dal tema eroico senza per questo diventare un antesignano degli anti eroi di cui sarà piena la letteratura novecentesca. Rimane un’ultima considerazione e cioè se l’invettiva che Goethe gli fa pronunciare sia nei confronti degli dei olimpici ma risparmi il dio cristiano. Il richiamo all’indifferenza rispetto alle sofferenze umane mi sembra del tutto riferibile anche a quest’ultimo. Goethe però non anticipa la morte di dio nietzschiana, mi sembra piuttosto che tutto il testo sia la dolente constatazione che lo spazio di dio è ormai uno spazio vuoto, che l’umanità se vuole salvarsi devo farlo da se stessa, senza bestemmiare la vita. Mi sembrano decisivi a questo proposito i versi finali che riporto di nuovo  qui di seguito:  

Credevi tu forse

che avrei odiato la vita,

che sarei fuggito nei deserti

perché non tutti i sogni

fiorirono della mia infanzia?

Io sto qui e creo uomini

a mia immagine e somiglianza,

una stirpe simile a me,

fatta per soffrire e per piangere,

per godere e gioire

e non curarsi di te,

come me.  

Joseph Karl Stieler, Ritratto di Johann Wolfgang Goethe, 1828

1 Robert Graves, Miti greci, alla voce Prometeo e Atlante: disponibile anche in rete in formato pdf.

2 Mi sono prioritariamente rifatto all’autorevolezza di Robert Graves, ma anche ad altre fonti, riportate nella Treccani, oppure da Graves medesimo nelle sue note. Come tutte le scelte è discutibile, la motivazione che mi spinge a ritenere la ricerca di Graves fondamentale, è il suo rigore da mitografo nel riportare tutte le versioni conosciute di un mito, con pochi ed essenziali commenti, che lasciano a chi legge le interpretazioni possibili e le ulteriori riflessioni. Le altre fonti principali, peraltro sempre citate anche da Graves, sono indicate di volta in volta. I miei commenti e note redazionali sono in tondo.  

Da un’unione tra il Mare e i suoi Fiumi nacquero le Nereidi. Non esistevano però uomini mortali; finché Prometeo, figlio di Giapeto, con il consenso della dea Atena, non li formò a immagine e somiglianza degli dei impastando la creta con l’acqua del Panopeo, fiume della Focide; Atena soffiò in essi la vita. Prometeo, il creatore del genere umano, che taluni includono nel numero dei Titani, era figlio della Ninfa Climene e del Titano Eurimedonte, oppure di Climene e Giapeto; suoi fratelli erano Epimeteo, Atlante e Menezio. II Gigante Atlante, il maggiore dei fratelli conosceva tutto quanto si cela negli abissi del mare; il suo regno si estendeva lungo una zona costiera scoscesa, più vasta che l’Asia e l’Africa messe assieme. La terra di Atlante giace al di là delle Colonne di Eracle e una catena di isole feraci la separa da un continente più lontano, che non è unito ai nostri …

Prometeo non agisce senza il consenso Atena anche se l’idea di creare il genere umano è sua, secondo questa versione; il particolare è assai interessante, come vedremo meglio nel prosieguo. Il racconto che segue, cioè la leggenda di Atlante, peraltro ben nota perché riferita anche da Erodoto, riguarda marginalmente i temi qui trattati, se non per un particolare che viene evidenziato alla fine, cioè quando si compie la sconfitta dei Titani ribelli. Così prosegue Graves:   

Prometeo, che era più saggio di Atlante, previde come sarebbe finita la rivolta dei Titani e preferì dunque schierarsi dalla parte di Zeus, inducendo Epimeteo a imitare il suo esempio. Prometeo era, in verità, il più intelligente della sua razza; aveva assistito alla nascita di Atena dalla testa di Zeus e la dea stessa gli insegnò l’architettura, l’astronomia, la matematica, la medicina, l’arte di lavorare i metalli, l’arte della navigazione e altre utilissime, che egli poi a sua volta insegnò ai mortali.

 Da questo passaggio si può capire come la capacità politica sia in Prometeo particolarmente acuta, in ogni momento della sua vicenda e sufficiente per dire che il pensare prima di agire sia effettivamente una costante del suo carattere, anche nei momenti in cui sembrerà il contrario. Non è un rivoluzionario astratto, sa destreggiarsi e anche creare il necessario consenso intorno a sé, riconosce l’importanza dei rapporti di forza, ma questo non gli impedisce di giocare le sue carte, a volte anche con ironia, come quando inganna Zeus, usando un trucco persino banale. Da questo momento in poi la narrazione diviene però meno lineare a causa delle interpolazioni che Graves spiegherà più avanti.

Ma Zeus, che aveva deciso di distruggere l’intero genere umano ed era stato distolto da tale proposito soltanto dall’intervento di Prometeo, s’irritò nel vedere gli uomini divenire sempre più esperti e potenti.

Anche in questo caso, egli esercita l’arte della mediazione piuttosto che quella del rovesciamento rivoluzionario.

Un giorno, nella piazza di Sicione, si accese una discussione a proposito delle parti di un toro sacrificato che si dovevano offrire agli dei, e delle parti che gli uomini potevano riservare per sé. Prometeo fu invitato a fare da arbitro. Egli allora scucì e smembrò il toro e ricucì la sua pelle in modo da formarne due grandi sacche, che riempì con le varie parti dell’animale. Una sacca conteneva tutta la carne, ma ben nascosta sotto lo stomaco, che è il boccone meno appetitoso, e l’altra conteneva le ossa, nascoste sotto un bello strato di grasso. Quando le presentò a Zeus perché scegliesse l’una o l’altra. Zeus si lasciò trarre in inganno e scelse la sacca con il grasso e le ossa (che da quel giorno rimasero la porzione degli dei) ma punì Prometeo, che rideva di soppiatto, privando gli uomini del fuoco. «Che mangino la loro carne cruda!» gridò. Prometeo si recò subito da Atena e ottenne che essa lo facesse entrare di nascosto nell’Olimpo. Appena giunto, accese una torcia al divampante carro del Sole e ne staccò una brace ardente, che pose poi entro il cavo di un gigantesco gambo di finocchio. Spenta la torcia, sgattaiolò via senza che alcuno lo vedesse e ridonò il fuoco al genere umano .

Questo passaggio è molto importante e la burla va sottratta alla sua apparente banalità, anche perché altre versioni presentano qualche contraddizione rispetto a questa e sembra che ci sia in questa ricostruzione la sovrapposizione di vicende diverse, come Graves peraltro avverte. L’intento di Prometeo è di dimostrare che gli dei, a cominciare da Zeus, sono in realtà le paure degli esseri umani e questo è l’aspetto di Prometeo che suscitava l’entusiasmo di Marx. Tuttavia, un altro particolare importanza è l’alleanza di fatto che nei momenti più decisivi, Prometeo trova in Atena. Principio femminile che si contrappone a Zeus? Per niente poiché Atena è nata dalla testa del padre e se mai rappresenta l’ambivalenza del maschile di cui Prometo è abile a servirsi ogni volta che lo deve fare. A questo punto, però, la storia s’ingarbuglia ancora di più:

Zeus giurò di vendicarsi. Ordinò a Efesto di fabbricare una donna di creta, ai quattro venti di soffiare in essa la vita, e a tutte le dee dell’Olimpo di adornarla. Codesta donna, Pandora, fu la più bella del mondo e Zeus la mandò in dono a Epimeteo, scortata da Ermes. Ma Epimeteo, che era stato ammonito da suo fratello di non accettare doni da Zeus, cortesemente rifiutò. Sempre più infuriato. Zeus fece incatenare Prometeo, nudo, a una vetta del Caucaso, dove un avido avvoltoio gli divorava il fegato tutto il giorno, un anno dopo l’altro; e il suo tormento non aveva fine, poiché ogni notte (mentre soffriva crudelmente per i morsi del freddo) il fegato gli ricresceva.

Zeus non affronta Prometeo direttamente e questo significa che lo teme. Il tentativo di sconfiggerlo tramite Epimeteo, però fallisce e questo particolare è più importante di quella parte della narrazione che riguarda Pandora, anche perché la connessione fra i due miti appare forzata e lo vedremo meglio subito dopo. Non è per nulla evidente perché proprio Pandora avrebbe dovuto ingannare i due fratelli. Il mito di quest’ultima andrà preso in considerazione in sé per quello che significa da un punto di vista della codificazione patriarcale, ma rispetto al nostro argomento sia l’atteggiamento prudente di Zeus, sia l’ammonizione di Prometeo a Epimeteo, sono ben più decisive. Così prosegue Graves:

Zeus, non volendo ammettere di aver dato sfogo al suo desiderio di vendetta, cercò di giustificare la propria crudeltà facendo circolare una falsa voce: e cioè che Atena aveva invitato Prometeo sull’Olimpo per un segreto convegno amoroso. Epimeteo, angosciato per la sorte di suo fratello, si affrettò a sposare Pandora, che per volontà di Zeus era stupida, malvagia e pigra quanto bella. Subito essa aprì il vaso che Prometeo aveva affidato a Epimeteo raccomandandogli di tenerlo chiuso, e nel quale si trovavano tutte le Pene che possono affliggere l’umanità: la Vecchiaia, la Fatica, la Malattia, la Pazzia, il Vizio e la Passione. Subito esse volarono via a stormo e attaccarono i mortali.

Ancor più di prima la connessione fra i due miti non appare affatto necessaria: che nesso c’è fra la punizione inflitta a Prometeo e la decisione di Epimeteo di sposare Pandora? D’accordo, Epimeteo è un avventato e infatti il suo nome significa colui che pensa dopo avere agito,  ma ci sono troppe contraddizioni e persino sull’apertura del vaso esistono due versioni. In una è proprio lui – Epimeteo – ad aprirlo e non Pandora. Insomma, un guazzabuglio, rispetto al quale tuttavia, ancora una volta Prometeo ne esce bene: è lui ad avvisare il fratello di custodire il vaso senza aprirlo. Le incongruenze nascondono sempre qualcosa di grosso che c’è eccome ed è proprio Graves ad affermarlo nella sua nota numero 8. La leggenda Prometeo, Epimeteo e Pandora, narrata da Esiodo, non è il mito originale ma una favola antifemminista inventata da Esiodo stesso, benché si ispiri alla leggenda di Demofoonte e Fillide. Il vaso di Pandora, in origine, conteneva anime alate. La rivolta dei giganti, di cui il mito di Prometeo è la parte successiva, è narrata essenzialmente da Apollodoro, Pausania e Diodoro Siculo. Euripide scrisse una tragedia dal titolo i Ciclopi. Altre fonti si ritrovano nell’Odissea, Eschilo scrisse una tragedia sul tema ma è andata perduta.

Fra le fonti autentiche citate Esiodo non c’è proprio e, in effetti, egli è poi il primo di una lunga tradizione misogina. Probabilmente il mito di Pandora andrà visto nella sua autonomia rispetto a quello di Prometeo, cercando se mai successivamente intrecci possibili. Il finale di questa parte della narrazione, tuttavia, merita attenzione perché in realtà i finali sono due e la differenza non è da poco. Vediamoli entrambi di seguito.

Ma la fallace Speranza, che Prometeo aveva pure chiuso nel vaso, li ingannò con le sue bugie ed evitò così che tutti commettessero suicidio. (tutti si riferisce al genere umano ndr.)

Solo la speranza, rimasta nel vaso tardivamente rinchiuso, da quel giorno sostenne gli uomini anche nei momenti di maggior scoraggiamento.

La prima delle due versioni attribuisce a una scelta di Prometeo l’avere inserito anche la speranza nel vaso, ma subito dopo ecco la diffamazione nei suoi confronti: seppure in modo obliquo. La speranza sarebbe solo un inganno per il genere umano, ma è lui Prometeo ad averla messa nel vaso e quindi ad averli ingannati. Ora che sappiamo che tutta la vicenda di Pandora va rivista in altro modo e contesto, rimane il tentativo di usarla nel finale per minimizzare l’opera di Prometeo. La seconda versione più neutra, rivaluta la speranza assegnandole un valore positivo. Con la chiusura di questa parte assai accidentata, torniamo alla narrazione principale. Avevamo lasciato Prometeo nel momento in cui, grazie alla complicità di Atena, ridona il fuoco all’umanità e sempre grazie a lei aveva acquisito anche altre abilità, dall’architettura alla lavorazione dei metalli, che aveva di nuovo donate agli umani. Così prosegue la narrazione principale:

Alla fine, non vi erano più qualità da assegnare al genere umano, ma Prometeo rimediò subito rubando ad Atena uno scrigno in cui erano riposte l’intelligenza e la memoria  che donò agli umani. Zeus in quel momento aveva deciso di distruggerli e non approvava la gentilezza di Prometeo per le sue creature; inoltre considerava i doni del titano troppo pericolosi perché gli uomini in questo modo sarebbero diventati sempre più potenti e capaci.

Questo finale appare più realistico nell’indicare le ragioni per cui Zeus decide di punire Prometeo: gli umani sono diventati troppo potenti, grazie a lui, mentre l’ordine degli dei o del solo Zeus era diverso, lasciare gli umani in una sorta di perenne minorità. La parte finale del mito, Graves la lascia ad altri autori, prima di tutto a Eschilo che racconta nel Prometeo liberato che fu Eracle a trafiggere con una freccia l’aquila che tormentava Prometeo e lo liberò spezzando le catene. Secondo il racconto contenuto nella Biblioteca dello Pseudo Apollodoro, durante un incontro tra Chirone  ed Eracle, alcuni centauri  attaccarono l’eroe che per difendersi usò frecce avvelenate da cui non si poteva guarire. Chirone venne inavvertitamente graffiato da una delle frecce. Non potendo morire perché immortale, cominciò per lui una sofferenza atroce. Zeus quindi accettò la vita di Chirone che poté finalmente morire in cambio dell’immortalità di Prometeo.

3 La tesi di laurea di Marx è facilmente reperibile in rete, la citazione in oggetto è riportata su diversi siti.

4 La tesi di laurea di Marx è del ’41 e si inserisce in un contesto in cui il dibattito su Prometeo è assai intenso. Tendenzialmente i romantici lo avevano rifiutato, tranne Shelley, la cui interpretazione è vicina a quella di Marx. Leopardi lo considera uno sconfitto, dal momento che si era fidato di una imperfezione: l’uomo stesso. Tuttavia è con la generazione successiva ai romantici che Prometeo comincia ad essere apprezzato come costruttore di civiltà, cui si oppone invece la reazione religiosa che lo vede come Satana, l’Angelo ribelle. Prevale sempre di più la prima ipotesi, anche perché il positivismo ne fa facilmente un proprio eroe. Il ‘900 non apporterà grandi modifiche a questa declinazione del mito se non nel caso della scrittore svizzero Carl Splitter che accentua i caratteri roussoviani del mito, rappresentando Prometeo come il ribelle che risponde soltanto alla propria coscienza e si batte contro le ipocrisie della morale comune. Infine Gide che lo attualizza e lo vede tormentato dalla propria coscienza piuttosto che dall’aquila che gli rode il fegato.

4 Johann Wolfgang Goethe – Prometeo (poema: Prometheus) (trad. it. di Giuliano Baioni, in Goethe, Inni, Einaudi, 1967)

A PROPOSITO DI CULTURA DI MASSA: IL FESTIVAL DI SANREMO

Jula De Palma

Introduzione

Questo scritto è la rielaborazione di un mio intervento nel dibattito nato su Overleft intorno al cinema del dopoguerra, al quale oltre la redazione partecipò anche Adriano Voltolin, e una mia riflessione precedente sulla canzone italiana. Lo ripropongo in uno dei momenti topici della cultura di massa in Italia.

***

Cameriere e casalinghe di Voghera

Forse ancora oggi non molti sanno che il fotoromanzo nacque nell’immediato dopoguerra proprio in Italia e da qui si diffuse in tutto il mondo. Un libro di Anna Bravo1 ricostruisce puntualmente la storia di questo prodotto made in Italy, niente affatto minore per impatto ad altri ritenuti più paludati e degni d’attenzione. Il libro di Anna Bravo ricorda le riunioni semiclandestine della casa editrice Universo (che con L’intrepido aveva già avvicinato il pubblico femminile al fumetto) e l’uscita – nel giugno del 1946 – proprio di Grand Hotel. Il libro della Bravo è uno strumento ricco e documentato per chi voglia ricostruire al storia di questa vicenda dal dopoguerra in poi che possiamo suddividere in momenti diversi.

La prima fase. La diffusione del fotoromanzo si scontra con la doppia opposizione piuttosto accesa sia da parte cattolica sia comunista, con motivazioni desolatamente ovvie: traviare i giovani spingendoli verso condotte di vita immorali, instupidire il proletariato distogliendolo dalla lotta di classe.

Seconda fase. Nel giro di pochi anni l’atteggiamento del Pci cambia repentinamente. Bravo accenna a un dibattito interno assai riservato, in cui ebbero una parte attiva e alla fine vincente intellettuali come Cesare Zavattini, Damiano Damiani e Oreste Del Buono. Da quel dibattito nacquero imprese editoriali che approdarono direttamente nell’ambito politico durante la campagna elettorale del 1953 (quella della cosiddetta Legge truffa), che fu combattuta anche a colpi di fotoromanzo, con grande panico da parte democristiana che dovette correre ai ripari, vista l’efficacia del genere. Fra le chicche che si scoprono ripercorrendo questa vicenda ci sono anche Andreotti e Scalfaro impegnati nella proposta di fotoromanzi di carattere religioso e, dulcis in fundo, Cesare Zavattini a cui si deve l’idea della rivista Bolero, Oreste Del Buono che per primo si cimenta con una letteratura popolare i cui protagonisti fossero operai e contadini e Damiano Damiani che scrive queste storie.

Tornando a Zavattini, il programma su cui nacque Bolero era molto chiaro: una rivista per le cameriere,  rivolta a un pubblico femminile di lavoratrici e casalinghe. Il genere avrà una sua evidente vitalità fino agli anni Settanta e dei primi Ottanta, con storie che affronteranno temi come contraccezione e aborto. 

La terza fase riguarda il cinema su cui si sofferma il saggio di Voltolin; ma a questo va aggiunto anche un altro aspetto della cultura popolare di quegli anni e cioè i cambiamenti che avvengono nell’ambito della canzone, della musica cosiddetta leggera ed è proprio su quest’ultima che mi sembra importante soffermarsi.

Prima e dopo la guerra

Seguendo una trasmissione di Rai storia dedicata al ‘900, a partire dagli anni ’20, mi ha particolarmente attirato la colonna sonora, fatta di canzoni dell’epoca, di canti fascisti, di altri brani musicali provenienti dagli Stati Uniti, perlopiù swing. Tale sottofondo musicale mi era noto ma mi ha spinto, il giorno dopo, a una maggiore curiosità e quindi ho trascorso la mattinata ascoltando compilation di canzoni degli anni coincidenti con il ventennio fascista; non i canti del regime ma solo le canzoni. Le conoscevo tutte, direi al 90%, molte avrei persino potuto cantarle, tanto le ricordavo bene e la circostanza può apparire strana, visto che sono nato nel 1947. In realtà non c’è nessun mistero, la ragione la conosco benissimo, anche se mi ha colpito la persistenza così forte del ricordo. Mio padre, un artigiano intagliatore del legno, lavorava in casa e aveva sempre la radio accesa come un sottofondo che accompagna ancora oggi la mia vita. Da alunno delle elementari, fui costretto a una lunghissima assenza da scuola per malattia e posso dire che, insieme ai fumetti e alla dedizione di mia madre quando tornava dal lavoro, fu proprio la radio di mio padre e le sue poche parole ad aiutarmi a venirne fuori. Non avevamo il grammofono e il primo giradischi lo ebbi quando frequentavo già le superiori; dal ’56 – se non ricordo male – arrivò la televisione in casa mia, ma io la potevo vedere poco. Quelle canzoni, in sostanza, potevo averle ascoltate solo alla radio e si sono impresse nella mia memoria, tanto da rimanerci fino a oggi. Il risvolto sociale, che mi appare evidente, è che esse erano il marchio di una continuità nazionalpopolare fra l’Italia fascista e quella repubblicana, fino alla fine degli anni ‘50. Quando iniziò la rottura di questo equilibrio? La domanda mi riporta anche al cinema perché fu proprio in alcuni anni chiave fra la fine dei ’50 e gli inizi del ’60, che tutto cominciò a cambiare e fu proprio il cinema da cui prese inizio una cesura e anche una polemica molto aspra fra gli intellettuali vicini al Pci. In  quegli anni, infatti, mentre venivano esaltati Zavattini, Damiani e Del Buono, i registi della seconda generazione neorealista citati da Adriano Voltolin venivano bollati da Aristarco, anch’egli intellettuale di punta del partito, come pornografi dei sentimenti. Come mai?

A mio giudizio le ragioni sono tre, relativamente autonome fra di loro. La prima sta nella diffidenza che la cultura comunista italiana ebbe nei confronti delle avanguardie artistiche e della settima arte, specialmente in quegli anni. Non bisogna dimenticare che la cultura di fondo della dirigenza comunista era profondamente umanistica, molti sarebbero stati dei buoni professori di lettere e di latino. Il nume tutelare di quella cultura era Francesco De Sanctis, reinterpretato da Gramsci.

La seconda ragione sta nella nozione complessa e spesso ambivalente anche in Gramsci, di nazionalpopolare. Il dibattito che precedette la svolta del 1953, con il fotoromanzo, verteva su questo e sul modo di recepire quel concetto. Anche Pasolini, con la sua esperienza di direttore per un anno della rivista Vie Nuove, si pose questo problema e fu in sintonia con Zavattini e gli altri.

Per quanto riguarda il cinema, tutto era diverso perché la sua ricezione da parte della cultura comunista era molto più ambivalente di quanto sembri, come tutte le novità tecnologiche di quegli anni, televisione compresa. Il neorealismo duro dei primi anni del dopoguerra era del tutto conforme alla poetica del realismo socialista reinterpretato in chiave italiana e per questo fu accettato senza problemi; ma già con De Santis regista le cose non sono così semplici come sembrano. Riso amaro suscitò un notevole scandalo nelle sezioni del Pci e Togliatti dovette impegnarsi personalmente in un giro d’Italia nelle sezioni per difendere la pellicola come grande opera sul lavoro. Qual era il motivo dello scandalo? Le cosce delle mondine, che per non bagnarsi gli abiti arrotolavano le gonne per poter svolgere il loro lavoro. Che differenza c’è fra quelle immagini e quelle dei fumetti o fotoromanzi che raccontavano storie spesso anacronistiche rispetto alla vita che facevano i loro lettori e le loro lettrici? La risposta sta nella differenza fra parola e immagine. Le storie popolari di Damiani o le vite di Bolero e Grand Hotel, erano pur sempre letteratura popolare e ubbidivano a un’esigenza di alfabetizzazione di un popolo ancora in larga parte analfabeta che poteva trovare anche in quelle storie uno strumento efficace di acculturazione. Con il cinema del dopoguerra, libero dalle censure e dalla retorica propagandistica fascista, comincia un’altra storia che la cultura comunista cavalcò entusiasticamente con il neorealismo, cominciò a non capire più dalla metà degli anni sessanta in poi finendo per sottovalutarla e poi per subirla. Oppure reagì con una scissione schizofrenica. Da un lato ammiccare agli intellettuali e al pubblico colto osannando Antonioni e fingendo di capirlo, oppure difendendo la tradizione umanistica e popolare fatta di biblioteche delle sezioni tutt’altro che banali per gli anni in cui si formarono e di una letteratura di massa di cui faceva parte anche il fotoromanzo; il tutto però, separato dalla cultura alta che andava per un’altra strada.

Nel mezzo si faceva strada, grazie al cinema, una cultura di massa che preparò molte cose fra cui i movimenti della fine degli anni sessanta, che infatti sorpresero del tutto la cultura comunista: dal quel momento inizia anche il declino politico del partito, nonostante i successi elettorali. Il declino culturale, infatti, viene prima, con buona pace del nesso struttura sovrastruttura, e riguarda proprio l’incomprensione delle dinamiche che andava prendendo la cultura di massa. Ed è qui che entra di nuovo scena una protagonista che sembra minore ma non lo è: la canzone. Pasolini fu un testimone particolarmente importante di questo passaggio. Quando Calvino e Fortini diedero inizio alla polemica sul festival di Sanremo, egli aderì e negli stessi anni, sia Cantacronache, sia altri gruppi si posero il problema di una canzone colta. Un titolo per tutte: Dove vola l’avvoltoio. La polemica però finì nel nulla e il primo a prenderne atto fu proprio Pasolini quando riconobbe che (cito a memoria) niente poteva rappresentare meglio l’estate del 1964 di Sapore di sale di Gino Paoli.

La rottura, però, era iniziata prima: nel 1957 con Come prima di Tony Dallara e reiterata con Nel blu dipinto di blu (1958) cui è associato un ricordo personale, ma che ritengo importante per ragione di costume. Il padre di Dorelli, che aveva cantato con Modugno, era Nino D’Aurelio, tenore il cui nome è oggi sconosciuto ma che allora era un personaggio per Meda, il comune dove ero nato e dove abitavo. Nino morì pochi giorni dopo la fine del festival e il suo funerale fu un evento che portò a Meda insieme a Dorelli, cantanti e relativi codazzi. Il paese si fermò al passaggio del feretro in un silenzio totale. L’immagine di un paese intero bloccato dal funerale di un tenore, seguito da molti altri cantanti e con aspetti di evidente curiosità mondana da parte del pubblico, che nulla aveva a che fare con il lutto, suscitò una predica furente del parroco la domenica. La cosa sorprendente però fu un’altra e cioè che persino a persone discretamente bigotte, fra cui mia madre, quella predica non piacque per nulla: il festival di Sanremo aveva sconfitto il parroco. La cultura di massa si presenta sempre a due o più facce e a volte sono proprio dei cambiamenti in apparenza minori a dare il via a movimenti imprevedibili. Quello che la canzone colta di Calvino e Fortini non riuscì a fare lo fecero personaggi come  Fred Buscaglione – Eri piccola così è del 1958. Tua, interpretata da Jula de Palma è del ’59 e suscitò un mare di polemiche a causa dell’interpretazione particolarmente sensuale, tanto che la Rai non la mandò più in onda. Anche Tintarella di luna è del ’59, mentre Il tuo bacio è come un rock è del ’60. Il meglio, però, doveva ancora arrivare. Gaber e Jannacci, Tenco, Bindi, Lauzi, De Andrè e poi Fossati e tanti altri. Da quel momento cominciò davvero un’altra storia, mentre continuava quella del cinema con Il sorpasso; cominciava invece a ridursi l’influenza del fotoromanzo e finiva davvero il dopoguerra.

***

  1. Anna Bravo, Il fotoromanzo, Bologna, 2003 ↩︎

PENSARE CON I PIEDI

Garrincha

Premessa

Una versione di questo articolo fu pubblicato sulla rubrica culturale del Wall Street Journal Italia nel 2014. Ho modificato il testo in alcune parti troppo datate e aggiunte altre riflessioni più contemporanee.

Ho rubato il titolo di questa riflessione rapsodica ed estiva sul calcio e nel pieno del mondiale femminile che si sta concludendo a uno degli scrittori più grandi che di questo gioco hanno scritto: Osvaldo Soriano, una perdita gravissima per la letteratura mondiale, tanto più dolorosa perché avvenuta in età giovane e nel pieno della sua creatività, il 29 gennaio del 1997. Un ricordo personale mi lega alla sua morte. Nel 1996, pochi mesi prima del suo decesso, partecipai insieme a mio figlio Ulisse al primo Incontro Intercontinentale per l’Umanità e contro il Neoliberismo che si tenne nelle zone della guerriglia zapatista del Messico. A quell’incontro parteciparono anche molti artisti, pittori, scrittori e mi colpì l’atteggiamento di rispetto che quelle popolazioni avevano, con tutti i loro problemi, nei confronti delle arti. La musica, in particolare, essenziale in qualunque momento della vita e a qualunque prezzo. Ci raccontarono delle fughe notturne, mentre erano inseguiti dall’esercito, ma sempre trascinandosi dietro la marimba, lo strumento prediletto dalle popolazione indigene del centro America: e non è come dire fuggire nella giungla con una marimba in spalla, che assomiglia a un piccolo pianoforte! Che anche la letteratura godesse dello stesso credito e rispetto non lo sospettavo, però: fra tutte le arti, è la meno avvicinabile per popolazioni con un tasso scarso di alfabetizzazione. Certo, il sub comandante Marcos era ed è anche uno scrittore, pubblicava racconti con lo pseudonimo da tutti conosciuto di Don Durito della Lacandona, ma sembrava più un suo vezzo che altro. Mi accorsi che non era così quando morì Soriano: ero tornato da mesi dal Messico e la notizia del suo decesso fu un fulmine a cielo sereno. Quello che più mi colpì fu il lutto dell’intera America Latina e quello delle comunità zapatiste. La guerriglia si era fermata, tutti si erano fermati e Marcos aveva parlato dello scrittore argentino nel cordoglio unanime di una comunità di indios, esclusi da tutto, ma che piangevano la morte di uno degli ultimi cantori dell’America latina. Avendoli conosciuti, la vista di quelle donne e di quegli uomini immobili, raccolti in un silenzio teso, mi commosse quanto mai. Nessuno scrittore europeo potrà avere un cordoglio così unanime e sentito. Lo ebbero in passato i grandi maestri della narrativa (i funerali di Victor Hugo per esempio), oppure i jazzisti statunitensi di colore (Charlie Parker), ma sempre più raramente possono più averlo da noi dove da tempo non interpretano più i sentimenti profondi di un popolo: forse sono certi cantautori o interpreti a poter suscitare un’emozione così forte. Le ragioni sono tante e non è il caso di parlarne in questa sede, se non per due di esse che mi riportano anche al tema di queste riflessioni. L’America Latina, pur con tutti i contrasti fra i diversi popoli, ha, fra gli altri, due fortissimi legami comuni, la lingua e l’identità india, riscoperta di recente ma fondamentale quanto mai. Nel vivere collettivamente, in una grande cerimonia corale, il lutto per la morte di Soriano, c’era tutto questo.

Il calcio e i suoi miti

Osvaldo Soriano

Pensare con i piedi è il titolo della sua raccolta di racconti più famosa, con una sezione finale interamente dedicata al calcio. Inizio però da un altro racconto, contenuto in un’opera meno nota, dal titolo Artisti, pazzi e criminali. Il libro raccoglie una miscellanea di scritti che stanno sul crinale fra giornalismo e narrazione. Si tratta di testimonianze in diretta, pubblicate nel supplemento del quotidiano l’Opinion, che si chiamava La Historia de vida. Come s’intuisce dal titolo dell’inserto, il materiale era costituito da testimonianze di vita, raccolte con il registratore. Soriano le trasformava in racconto, cercando il più possibile di rimanere fedele al personaggio intervistato. È un genere che lo scrittore medesimo definisce assai difficile perché, come nel caso in questione, i testimoni non sempre hanno capacità linguistiche e narrative tali da interessare un lettore; ma nello stesso tempo, lo scrittore non può manipolarle più di tanto, ma deve piuttosto lavorare di cesello sul materiale che ha. Il racconto in questione s’intitola Il riposo del re del centrocampo e il personaggio che rende la sua testimonianza, è Obdulio Varela, un nome che starebbe benissimo in un romanzo di Gabriel Garcia Marquez. Anche chi, come il sottoscritto, è un grande appassionato di calcio, forse non lo ricorderà, ma sicuramente non gli saranno estranei altri suoi due connazionali, Alcides Ghiggia e Juan Alberto Schiaffino, gli autori dei due gol che diedero all’Uruguay il titolo mondiale nel 1950 e che hanno ispirato anche una famosa canzone di Paolo Conte: Sudamerica. Obdulio Varela era il capitano di quella squadra, un gigante buono del centrocampo, abituato alla fatica e condannato a Una vita da mediano, come recita la canzone che Ligabue ha dedicato al centrocampista dell’Inter e della nazionale Lele Oriali. In quella memorabile finale del 1950, Obdulio fu cattivo e lucido quanto bastava per mettere paura ai brasiliani. Non si può raccontare con altre parole un brano struggente e perfetto come questo, se non segnalandolo.

A parte qualche incursione poetica (Saba e Pasolini), anche in Italia sono stati i romanzieri a dedicarsi al calcio e direttamente sulla stampa sportiva. Memorabili le cronache di Luciano Bianciardi sul Guerin sportivo diretto da Gianni Brera e altrettanto memorabili quelle di Brera medesimo. Il fuorigioco mi sta antipatico, il titolo con cui da Stampa Alternativa, ha ripubblicato di recente le risposte di Bianciardi alle lettere dei lettori, dimostra una volta di più che il calcio non è l’ultima delle lenti attraverso le quali si può guardare a una società intera. Partendo dal gioco e dalle sue tattiche, Bianciardi metteva alla berlina i vizi nazionali, lo faceva da grande istrione provocatorio qual era, ma sempre documentato, anche in materia calcistica. Un capitolo a parte, meritano poi le radiocronache. Quelle di Niccolò Carosio erano esempi di narrazione orale, talvolta vere e proprio invenzioni che con la partita in oggetto avevano un relazione assai complessa. Carosio veniva dalla retorica fascista, che, seppure depurata, ancora si avvertiva nel tono che usava e nelle cadenze. A lui mi lega un altro ricordo personale. Chi per primo mi avvicinò al calcio e me ne fece appassionare fu mio padre. Proprio con lui, nel 1962, ascoltai la radiocronaca della partita Cile Italia, ai mondiali che si tenevano nel paese sudamericano. La radiocronaca fu un esempio di linguaggio epico moderno. L’Italia, bistrattata da un arbitraggio scandaloso e menata niente male dai cileni, perse due a uno, fra gli alti lai del cronista. Purtroppo per Carosio, di quella partita il film esisteva e molti anni dopo, incuriosito, volli vederlo: l’esito fu grottesco. Carosio aveva trasformato una partita combattuta e che l’Italia aveva giustamente perso, in una battaglia campale, nel racconto della quale confluivano frustrazioni che con il calcio avevano poco a che vedere! Oggi le cronache come quella di cui sopra non sarebbero più possibili: la televisione non permette voli pindarici, le immagini smascherano facilmente la retorica e tutto sommato non è un male. Tuttavia, ogni nuova tecnologia e linguaggio ha la sua retorica e quella di oggi consiste in interminabili chiacchiere sul calcio, ma senza le invenzioni linguistiche che tenevano incollati i lettori agli articoli scritti dai grandi narratori o giornalisti di un tempo. Questo mi riporta al Soriano di Pensare con i piedi. È un libro complesso, che ci offre uno spaccato dell’Argentina con tutti i suoi immaginari: dal mito di Buenos Aires, al tango e naturalmente al calcio. Il nomadismo è un altro tema di fondo di questo romanzo picaresco, insieme alla particolarità della natura argentina, specialmente a sud, dove finisce il mondo, per parafrasare Bergoglio. Proprio nella valle del Rio Negro e in Patagonia, sono ambientati i capitoli finali che danno poi il titolo all’intero libro. Sono tre i racconti più importanti: Il rigore più lungo del mondoIl figlio di Butch Cassidy e Finale con i rossi a Ushuaia, il capoluogo della provincia argentina della Terra del Fuoco. Difficile capire dove finisce la testimonianza e comincia il sogno, quando i personaggi sono inventati, oppure talmente realistici da superare ogni fantasia. Nei tre racconti succede di tutto, ma sull’ultimo in particolare mi soffermo: è la storia di un mondiale di calcio che si sarebbe svolto nel 1942, nella Patagonia argentina, giocato da fuoriusciti dai paesi in guerra e da chi si trovava in Argentina per motivi di lavoro. Secondo la ricostruzione di Soriano, pare che gli indiani mapuche, partecipanti anche loro al torneo, approfittando di una pausa, rubassero le porte dal campo di calcio per impedire la sconfitta della loro squadra! Tutto inventato? Forse no, perché la Fifa ha dichiarato di avere avuto notizia di quello strano torneo, ma di non essere in grado di dire chi lo vinse.

Il calcio oggi

Mi sono chiesto molte volte in che cosa consista il fascino del calcio e perché è diventato lo sport della globalizzazione come nessun altro, tanto da coinvolgere persino gli Stati Uniti. La domanda si ripropone oggi ancora di più perché siamo arrivati a un punto critico: il calcio maschile è in una crisi profonda e rischia di fare la fine della rana cinese di un famoso racconto, che a furia d’ingrassare finì per esplodere. Tenendo sullo sfondo questo scenario che riprenderò nelle conclusioni, provo a suggerire qualche risposta sul perché del fascino di questo gioco, come è nato e come si è evoluto nel tempo. Il football è lo sport moderno, democratico e di massa per eccellenza, legato alla fisicità del corpo, ma senza protesi: anche i casi di doping documentati dimostrano che non portano a nulla, nel senso che in un gioco collettivo con così tanti giocatori in campo, le dinamiche sono troppo complesse.1  La parola democratico forse stupirà, ma proverò a dimostrarlo. Altri due sport condividono lo stesso appeal, il ciclismo e un tempo anche il pugilato, ma il secondo è caduto molto rispetto a decenni fa nella popolarità. Il ciclismo è fatica e mantiene la sua capacità di mobilitare le folle, ma solo in certi momenti. Il calcio è stato lo sport della classe operaia, degli oratori nei paesi cattolici e dei campetti di periferia e sulle spiagge ovunque: per quella strada e nel tempo ha radunato intorno a sé masse di spettatori impensabili per qualunque altro sport: non stupisce che stia avvenendo anche per il calcio femminile, nonostante la scarsa copertura mediatica in Italia, ma non altrove. Quanto alle altre discipline, il paragone con le Olimpiadi della Grecia antica è proponibile solo per l’atletica leggera, perché la distanza fra gli atleti e l’uomo o la donna comuni è tanto grande quanto lo era allora. Vedendo correre Usein Bolt e Marcel Jacobs, assistere ai lanci di una giavellottista come Kelsey Lee Roberts, oppure vedere la campionessa di salto con l’asta Isimbaeva, la sensazione è di guardare delle statue in movimento: si può rimanere stupefatti, ma la distanza che ci separa da loro è incommensurabile: assomigliano di più agli dei di un moderno Olimpo che non a umani come noi. Chi gioca a calcio è diverso dagli altri, anche oggi che è cresciuto il tono atletico e questo vale anche per le donne. Abituati anche per via della pubblicità, ad ammirare i bicipiti di Cristiano Ronaldo, ci sfugge che il calciatore e la calciatrice media sono uomini e donne comuni, a volte persino bruttin*: è sufficiente guardare le formazioni quando le riprese televisive le inquadrano durante l’esecuzione degli inni nazionali. Il caso storico più eclatante, dolce e tragico al tempo medesimo, è quello di uno dei più grandi calciatori di sempre: il brasiliano Manoel Francisco dos Santos, detto Manè Garrincha. Nato nello stato di Pau, egli era un bambino della giungla, che viveva fra fiumi e foresta tropicale. Ingenuo fino poter sospettare una psicologia mai divenuta veramente adulta, fin da bambino fu afflitto da diversi difetti congeniti dovuti alla malnutrizione e addirittura – secondo alcune fonti – a una leggera forma di poliomielite. Oltre allo strabismo, Garrincha aveva la spina dorsale deformata da uno sbilanciamento del bacino, le ginocchia afflitte da disturbi congeniti e operate più volte. Infine, l’ultimo problema, addirittura stupefacente per un calciatore: una gamba sei centimetri più corta dell’altra, a causa di un’operazione! In quale altro sport avrebbe potuto eccellere? Eppure Garrincha fu fra i più grandi di sempre. Il soprannome gli viene proprio dal suo corpo gracile e gli fu dato dalla sorella: la garrincha è un piccolo uccello minuto e simpatico. Al campione brasiliano ha dedicato un racconto assai bello Ugo Riccarelli, lo scrittore romano purtroppo scomparso, nella sua più bella raccolta, intitolata L’angelo di Coppi. La sua storia è costellata di aneddoti che tutti brasiliani conoscono. Uno assai divertente accadde durante la cerimonia di premiazione nei mondiali del ’58 in Svezia. Mentre sfilavano sul palco d’onore Garrincha, del tutto estraneo a quanto stava accadendo e perso nel suo mondo, si rivolse al capitano della squadra chiedendogli:

“Ma cosa sta succedendo?”

“Manè, abbiamo vinto il mondiale” rispose il compagno sorpreso e lui di rimando:

“Sì, ma quando la giochiamo la partita di ritorno?”

Per concludere

Ciò che ingrassa troppo il calcio maschile è notorio: il denaro, ma anche la pretesa che sia uno spettacolo a ciclo continuo, distribuito praticamente su tutti i giorni della settimana per poter alimentare il circo mediatico delle piattaforme. L’anno calcistico scorso e quanto accaduto in questa sessione estiva del mercato costituiscono una ulteriore accelerazione di questo fenomeno. Tuttavia, potrebbe non essere un male che l’Arabia Saudita diventi un cimitero degli elefanti sia per ex calciatori, sia per teleutenti che hanno voglia di spendere soldi per assistere a un finto campionato. Gli altri continueranno a guardare il calcio europeo, che tuttavia perde pubblico in continuazione. Il calcio femminile potrà rilanciare l’interesse verso il gioco? In Italia sembra di no, ma nel nostro caso abbiamo a che fare con lo stereotipo sessista che ha ben altre e più gravi manifestazioni in altri ambiti: dalla violenza maschile sulle donne, alla misoginia diffusa. Solo la rete televisiva LA7 trasmette la domenica una partita del campionato femminile di serie A. Il pregiudizio, poi, che non si tratti di vero calcio, pur non espresso, è largamente pensato. Eppure chi ha assistito all’ultima finale del mondiale femminile fra Inghilterra e Spagna dovrebbe convincersi che di calcio si tratta. Una partita bellissima e avvincente, meritatamente vinta dalla spagnole anche contro il loro allenatore e calciatrici spettacolari come Olga Carmona e specialmente Aitana Bonmatì. Brave anche le inglesi campionesse d’Europa, con una portiera straordinaria  come Earps.

Come andrà a finire? È possibile che il calcio maschile esploda per i suoi debiti e gli stipendi esorbitanti, ma non sarà la fine del calcio. Anche in Italia le squadre con i conti a posto e che fanno campionati brillanti senza spendere molto ci sono già, specialmente in provincia. Qualche tonfo clamoroso ci sarà e c’è già stato: altri ne verranno e non sarà un male.               

Aitana Bonmatì Women’s Champions League – FC Bayern München vs FC Barcelona 21.04.2019

1 Vi è un altro aspetto della modernità nello sport  e cioè le discipline motoristiche, che sono un altro mondo a se stante. Quanto al doping c’è una distinzione da fare fra il doping vero e proprio,i cui casi nel calcio sono molto limitati e l’uso di integratori che probabilmente è causa di patologie anche gravi ma che non erano e non sono considerati doping e sono largamente usati anche da chi fa sport dilettantistico.

UN GIORNO DEVI ANDARE di Giorgio Diritti

Rio delle Amazzoni

Introduzione

Il film va iscritto nel novero delle opere mistiche del nostro tempo, almeno per quello che sembrano le intenzioni del regista. Mi rifaccio all’etimologia della parola: essa comprende in sé i concetti di mistero, del chiudere e del tacere, che sfociano nella contemplazione. Lévy-Bruhl parlava, a questo proposito, di partecipazione mistica per quanto attiene le religioni primitive, cioè quel sentimento che riscontra il sacro ovunque, in qualsiasi fenomeno naturale di una certa rilevanza. Naturalmente, quanto più ci si distacca da quel sentimento effusivo e di fusione con la natura organica, processo che avviene sia con le religioni cosiddette positive sia con la cultura laica e il materialismo moderno, tanto più l’esperienza mistica deve essere anche ricercata, in qualche modo perseguita, con la meditazione, il silenzio, l’ascolto di sé, ricorrendo anche a tecniche appropriate. Tali percorsi sono squisitamente individuali, ma nel concetto di mistico nel senso cui si riferiva Lévy-Bruhl, l’aspetto sociale non poteva essere scisso da quello personale e individuale. Mi avvicino così al film di Giorgio Diritti, considerandolo da quello che mi sembra il punto di vista scelto dal regista, il suo filtro per guardare al mondo e al sociale, presente in quest’opera come nelle precedenti, fin dall’indimenticabile Il vento fa il suo giro. A me sembra che Diritti, con la sua cinematografia, cerchi da un lato di scandagliare alcune esperienze eretiche appartenenti a sensibilità religiose diverse, dall’altro si pone l’interrogativo se l’esperienza mistica sia compatibile con la modernità.

Quattro donne e due comunità

A una prima approssimazione, il film ha una protagonista principale, Augusta, una giovane donna italiana. È la prima che lo spettatore vede sullo schermo e sarà l’ultima a essere inquadrata: o meglio la sua barca. Tuttavia, essa non ha la forza di un’eroina che da sola occupa la scena. Inoltre, pur essendo la prima figura umana che il pubblico vede, di notte, mentre piange sul ponte del battello, la sua inquadratura è preceduta da una lunga sequenza in cui la luna è schermata dalle nubi. L’immagine si trasforma in un quadro dai contorni prima imprecisi, poi sempre più chiari: è un feto nel ventre di una madre. Da quella inquadratura si passa lentamente al volto di Augusta: dunque, è lei che, scorgendo la luna, piange o sogna un figlio.

Augusta è una ragazza molto normale, persino un po’ antipatica, che s’allontana da una storia personale molto dolorosa. Del resto, crisi esistenziale e fuga sono, dagli anni ’60 in poi, un clichè abbastanza praticato dalla gioventù europea. Se mai la curiosità sta nella scelta del luogo dove fuggire: non la Turchia, l’India o il Nepal, ma il profondo sud ovest brasiliano. I silenzi di Augusta, per una lunga parte del film, non sono di meditazione, ma di fastidio, sgomento e fatica a entrare in quel mondo. Per dirla con Chatwin, sembra sempre sul punto di domandarsi: ma che ci faccio qui?

La seconda donna a entrare in scena è Franca, una suora laica cattolica, che percorre il fiume con un battello che serve a tante cose: presidio medico, solidarietà con le comunità indigene più disperse, cui porta cibo, santini e un’evangelizzazione piuttosto ingenua e alla buona, che i bambini sembrano accogliere in modo non troppo convinto.

A queste due prime protagoniste fanno da contrappunto altre due donne e un secondo gruppo, sempre femminile: Anna, madre di Augusta e Antonia la nonna della ragazza.

Vivono in una cittadina del trentino e si dedicano a opere di solidarietà: fanno parte di un gruppo di suore laiche, qualcosa di più e diverso dalle famose dame si san Vincenzo, prima di tutto per la differente estrazione sociale. Il nesso fra le due comunità è molto chiaro: alla staticità della comunità trentina, sostanzialmente dedita alla preghiera, alla raccolta di vestiti, il disegno delle icone e poco altro, si contrappone il dinamismo della comunità cattolica brasiliana, impegnata nella costruzione di pollai e centri residenziali che, al di là di ogni possibile sforzo di fantasia, assomigliano sempre a dei villaggi turistici; naturalmente, il capitale investito viene dall’Italia o da donazioni provenienti dal ricco mondo occidentale. Il missionario barbuto che gestisce capitali e progetti sembra un nonno dei fiori sessantottino che mostra carte, mappe e grafici all’indio che gli sta davanti. Immediato il riferimento al primo film di Diritti, Il vento fa il suo giro: il solerte amministratore locale progressista della comunità occitana, che fa da guida ai giornalisti per promuovere il suo programma di rilancio della valle, ricorda assai il missionario.

Due universi

Il motore del film sta nel rapporto dialettico fra questi due universi, ma è sempre più Augusta a divenire una sorta di catalizzatore telepatico, è lei a mettere in moto il montaggio del film, che passa con sequenze rapidissime da una comunità all’altra, non in base a qualcosa di oggettivo, ma rispetto alle sensazioni, le intuizioni (più spesso quelle di Augusta, ma talvolta provenienti anche dal lontano Trentino innevato). In Brasile domina la difficoltà di comprensione fra indigeni che resistono a ogni forma di cambiamento e una tipologia di missionario che pretende sempre di proporre le migliori soluzioni. Anche la versione più positiva di tale atteggiamento, rappresentato da Franca, la suora laica anziana, si scontra con una realtà che lei comprende fino a un certo punto, e rispetto alla quale non si pone grandi domande: cerca di fare bene il suo lavoro e si accontenta di ciò. Augusta reagisce con insofferenza giovanile, è polemica – a volte gratuitamente – finché non si arriva a una svolta del film, che ne chiude la prima parte: la ragazza decide di lasciare Franca, vuole proseguire da sola il suo viaggio e sceglie di vivere nella favela di Manaus, dove può contare sull’appoggio di una struttura comunitaria anch’essa religiosa. Dalla natura immensa e abbacinante lungo il fiume, si ritrova nell’inferno urbano. Vive presso una famiglia, i cui figli provengono da padri diversi: conosce così Arizete, Janina e Paulo Joao, l’unico con cui pare esservi un dialogo fatto di delicata seduzione. Nella favela di Manaus esplodono tutte le contraddizioni della comunità brasiliana, nella quale Augusta comincia a muoversi con autorevolezza e buon senso. Cerca di aiutare in modo discreto e rispettoso, diverso dai modi delle religiose, tranne in un caso che la spingerà a cambiare di nuovo. Quando il governo il primo governo Lula  propone il trasferimento della comunità in un nuovo quartiere di brutte villette con una sola strada nel mezzo, lei difende l’idea di rimanere nella favela e quando gli uomini lavorano per il nuovo progetto li affronta bruscamente. La risposta piccata di uno di essi la riporta alla realtà, seppure dopo un momento di rabbia. Augusta è pur sempre una gringa, una occidentale, non è la sua comunità quella. Per un istante, anche lei cede al vezzo tutto nostro di sapere sempre quali sono le soluzioni migliori, ma è solo un momento. Quando nella comunità si consuma la tragedia del bambino venduto, ma ritenuto morto annegato, Augusta tira le sue conclusioni: non il ritorno in Italia e neppure la vita nella favela, ma il proseguimento del viaggio in una solitudine estrema. Prima di quest’ultimo passaggio il film ritorna dall’altra parte del mondo. Augusta ha aiutato Jainina a trasferirsi in Trentino per diventare la badante della nonna di Augusta, che muore però dopo poco tempo. Con la preghiera funebre intensissima e anche molto pagana di Jainina il film si congeda dalla comunità trentina.

Favela brasiliana

Quanto ad Augusta,  la natura ritorna prepotentemente a chiamarla a sé e lei vive tutta una serie di esperienze al limite della propria tenuta fisica, ma finalmente entra in contatto con essa. Ce ne accorgiamo perché Diritti si avvale di una finezza della colonna sonora, per molti altri aspetti la sola parte debole del film: Augusta ode per la prima volta in modo vistoso (e anche noi spettatori lo condividiamo con lei), i rumori e i suoni della selva, un linguaggio sconosciuto che fino a quel momento era rimasto ai margini della sua sensibilità uditiva. Sente per la prima volta il luogo, la sua forza, il suo genius, i versi dei piccoli animali, con una intensità che prima le era sconosciuta. La sua casa è un’amaca sotto un grande intreccio di alberi su cui è appesa anche una icona con il volto di Cristo, che lei guarda interrogativamente e intensamente, ma con un fondo di scetticismo.

Con l’immersione piena nella natura inizia e si conclude la brevissima terza parte del film. Augusta vive ormai di quello che trova, come un’arcaica raccoglitrice, oppure di quello che le lascia il pescatore indigeno, senza avere bisogno di alcuna parola, dal momento in cui l’uomo comprende la radicalità della sua scelta di vita. Un giorno arriva alla sua amaca un bambino con cui lei gioca tutto il pomeriggio, felice di ritrovare un contatto umano, ma anche di ritrovare in qualche modo il figlio che, ora sappiamo, lei ha perduto. L’incontro, tuttavia, non è il prodromo a una soluzione di buoni sentimenti: il bambino ritorna a casa sua con i genitori a fine giornata, Augusta ha fatto quello che doveva fare, ma quel figlio non è suo e quando l’ultima scena del film inquadra la punta della sua barca che fende lentamente le alghe, capiamo che Augusta non tornerà, ma che ha imparato a lasciare.

Maschile seriale, donne plurali

I protagonisti maschili del film impressionano tutti per la loro disperante miseria morale e inettitudine (tranne Paulo Joao) e questo è uno dei motivi che corrono sotto traccia rispetto alla trama di superficie e che si rivela alla fine un controcanto importantissimo proprio perché Diritti non voleva fare un film sulle differenze di genere, né ammiccare al femminismo. Perciò l’apparire di queste maschere risulta alla fine potente e miserando al tempo stesso. Del missionario nonno dei fiori ho già scritto, ma anche l’indigeno con la sua staticità, refrattario a qualsiasi cambiamento, per non parlare di quelli che considerano impure le due donne europee. Le espressioni più tragicomiche di questo maschile seriale sono il telepredicatore e il sacerdote (laico o meno non si capisce), che con una radio improvvisata si rivolge dalla poltrona, dalla quale non si distacca quasi mai, all’intera comunità della favela di Manaus. La sua casa con balcone è prospiciente un fatiscente campetto nel quale avvengono tutte le cerimonie pubbliche e gli svaghi di massa della comunità: il ballo, il gioco dei bambini, le partite di calcio. Per fare la radiocronaca degli incontri,  che da quella posizione vede solo in parte, piuttosto che usare un altro stratagemma – per esempio allungare il filo del microfono – scosta la tendina e segue la partita stando sempre seduto. Questa specie di Oblomov della favela non può convincere nessuno e infatti i suoi proclami e le sue prediche vengono seguite nella generale indifferenza. Anche quando difende la comunità e il suo diritto a rimanere nella favela, temendo che il trasferimento ne provochi la disgregazione, non è credibile perché sembra difendere più che altro la sua postazione sul divano di casa. Lo vediamo finalmente in piedi e addirittura a camminare solo una volta, quando segue nelle ultime fila il funerale del bimbo venduto, ma che lui crede come tutti (ma non dovrebbe forse dubitarne visto che sa come vanno le cose?) annegato.

Le case dove si traferiranno sono certamente brutte, il luogo anonimo, ma una comunità non è fatta di persone? Forse c’era anche una qualche ragione nel difendere quel luogo, ma una volta persa la partita non si può ricreare la comunità, seppure in situazioni diverse? Invece reitera le sue stanche critiche al governo, senza fare niente altro. Infatti, anche le donne, che pure hanno qualche dubbio sul trasferimento, non lo ascoltano neppure loro, ma accettano di rapportarsi alla novità!

Il tragico panorama maschile finisce con le due figure più orrende: il padre che vende il figlio al mercante per un po’di denaro e poi lo fa credere annegato e il marito di Augusta, che l’aveva abbandonata dopo che lei aveva perso il figlio.   

Le donne protagoniste del film non sono eccezionali. Tuttavia, hanno quasi tutte una caratteristica che manca in misura maggiore o minore agli uomini: la flessibilità necessaria per aderire al cambiamento anche senza approvarlo del tutto (anche loro hanno dubbi sulla validità del trasferimento della comunità in un nuovo quartiere), ma con una capacità di immergersi nella realtà diversa che si trovano a dover affrontare, di accettarla seppure criticamente. La sola eccezione è Franca, la missionaria che sembra peraltro non del tutto convinta lei stessa di quello che fa: trasmette una sfiducia di fondo che è  un po’ il contraltare dell’ottimismo acefalo del missionario. Quando rimprovera Augusta, specialmente all’inizio del film,  ha spesso ragione, ma è una ragione povera in definitiva, perché non sa rispondere ad alcuna delle domande decisive e ragionevoli che la giovane donna le pone.

Di Anna e Antonia, la madre e la nonna di Augusta non vi è molto da dire. Il solidarismo cattolico è il loro orizzonte, lo praticano come una tradizione che si perde nel tempo e che non viene più interrogata nelle sue ragioni e negli effetti che produce.

Fra le donne della comunità brasiliana è Janina la più interessante. Accoglie la possibilità di un lavoro che aiuterà la famiglia come un’occasione da cogliere subito, si trasferisce in Trentino e nel suo sguardo appare talvolta anche un certo sgomento nel ritrovarsi in un mondo così diverso dal suo; ma fa bene il suo lavoro è attenta e sollecita, ma è di fronte alla morte di Antonia che dà il meglio di sé. È lei che si trova, da sola, ad accompagnare l’anziana donna. Non si scompone, accetta ciò che si compie ai suoi occhi. Alla fine si avvicina al corpo, lo tocca dolcemente in più parti e per ognuna di esse trova le parole giuste per valorizzare ciò che Antonia ha compiuto di buono nella sua vita: nel silenzio e nella solitudine del momento, la sua voce flebile ma chiara e dolce, intona un canto funebre di rara potenza.  

Infine, ancora Augusta che lascio però alle conclusioni.     

Sacro e gratuito nella crisi della modernità     

Questo film contiene in sé la domanda se l’esperienza del mistico possa essere salvaguardata come valore nelle nostre società. La risposta è almeno apparentemente negativa. Il film ironizza – con leggerezza – sulle figure religiose istituzionali. Nel film Il vento fa il suo giro, peraltro, aveva messo in mora la visione illuminista, rappresentata dall’amministratore locale. La forza del cinema di Diritti, tuttavia, sta nelle domande che pone e nella capacità di evitare le risposte semplicistiche. Al centro di questo film a me sembra ce ne siano due.

Vi è prima di tutto una domanda sociale, che si può formulare così: può una comunità fare a meno della gratuità assoluta, del dono senza ricompensa? A tale interrogativo il film non dà alcuna riposta ma invita a guardare comunque a quelle che la politica può fornire: le famose villette brutte erano pur sempre un modo di togliere dalla povertà estrema una comunità di persone. D’altro canto, tutta l’imponente ricerca femminista a partire dagli ’70 ha prodotto dovizia di materiali dai quali si deduce che le nostre società vivono largamente sul lavoro non pagato delle donne. Il fatto che tale problema non sia nell’orizzonte tematico del film di Diritti, non per questo può essere dimenticato e lo riprenderò nelle conclusioni.

La seconda domanda riguarda l’individuo, maschio o femmina che sia. Il finale del film, più drammatico di quanto appaia superficialmente, mi ha ricordato una celebre storia sufi di cui esistono molte versioni: la riassumo.

Un maestro sufi si attarda nel deserto e non s’accorge che la notte sta per arrivare. Quando se ne avvede ne ha paura, ma poi scorge in lontananza una luce che sembra indicare un accampamento. Accelera e infatti scorge tre uomini che stanno discutendo animatamente e piangendo: sono tre fratelli. Non appena lo vedono e riconoscono in lui un sufi, lo accolgono con reverenza e lui chiede quale sia la causa di tale angustia. Il maggiore spiega che è per via del loro padre che li ha lasciati orfani ma ha aggiunto a questo dolore il peso di un’eredità che non possono dividere fra loro: essa è costituita da nove cammelli che l’uomo mostra al maestro. Questi chiede il motivo di ciò e l’uomo spiega che il padre ha lasciato scritto di dividerli in questo modo: due terzi al maggiore dei figli la metà di quelli che rimangono al secondogenito e la metà successiva al terzo: una divisione impossibile per porterebbe a dividere in due uno dei cammelli. Il sufi, allora, si chiude in raccoglimento e traccia dei segni sulla sabbia: alla fine si rivolge ai fratelli e regala loro il proprio cammello.  Con dieci cammelli il calcolo viene perfettamente ma rimane come resto un cammello con il quale il sufi si allontana dall’accampamento mentre i fratelli si abbracciano felici.

Augusta s’allontana da sola con la sua barca, corre verso l’ignoto come il maestro che, lasciato l’accampamento dei fratelli, va verso la notte nel deserto e senza alcuna protezione: può essere un andare verso la morte. Anche la scelta estrema di Augusta, ci consegna un messaggio da decifrare. Mentre vediamo la barca che fende le acque senza che lei venga più inquadrata, in sovraimpressione appare il titolo del film: Un giorno devi andare. La frase si apre a una molteplicità di significati assai ampia. Credo che Diritti volesse sottolineare con essa il senso profondo e il valore della metamorfosi, che non ha un punto d’arrivo e infatti il film si chiude bruscamente su quella immagine. Il destino di Augusta rimane fuori dalla scena così come il maestro sufi, con l’atto finale, esce dal racconto: ciò che entrambi hanno fatto è accettare un cambiamento che per diverse ragioni non potevano rifiutare. Per entrambi è la capacità di lasciare, di non trattenere per sé, di rinunciare al potere che i loro stessi gesti hanno messo alla loro portata. Sembrerebbe dunque di vedere, nell’esperienza di Augusta, la possibilità di far vivere nella nostra contemporaneità, la saggezza che traspare dal racconto sufi, ma in realtà si tratta di un’illusione ottica. Quella del maestro aveva una valenza sociale riconosciuta, quella di Augusta può essere solo una scelta personale, peraltro fondata su due presupposti dai piedi d’argilla: il primo è la possibilità di ripristinare un rapporto armonico con la prima natura, anche quella più estrema. In realtà, le acque che Augusta fende nel finale del film sono quelle della foresta Amazzonica. Da quando la pellicola di Diritti è stata girata a oggi, quella foresta è stata violata e saccheggiata al ritmo della superficie di un campo di calcio ogni 24 ore. Se Augusta non andrà verso la morte, come è probabile sia avvenuto per il maestro sufi, è perché s’imbatterà nelle ruspe di una multinazionale  che  costruisce autostrade nella foresta. Il secondo presupposto sarebbe la possibilità di ristabilire quel rapporto di partecipazione mistica che apparteneva alle religioni animistiche o arcaiche. Augusta forse lo ha pensato quando rivela tutto il suo scetticismo osservando l’icona di Cristo, ma è illusorio pensare di sfuggire alla modernità seguendo quella strada. Questo non toglie valore a lei e alla sua scelta: Augusta, insieme a Janina, è di gran lunga il personaggio più positivo del film, ma del tutto scisso da una dimensione sociale.

Per concludere  

La domanda però rimane: può una società fare del tutto a meno del dono e della gratuità? Il discorso è complesso e travalica il tema di questo scritto, che è pur sempre la riflessione su un film. Essa non può essere continuata qui se non indicando alcuni orizzonti possibili. Il primo riguarda quanto prodotto dal femminismo dagli anni ’70 in poi di termini di lavoro occulto femminile. Il secondo è tutto il discorso sulla cura e i beni comuni. Il terzo riguarda il ritorno in auge del mutualismo e del concetto di mutuo soccorso che peraltro è tanta parte degli albori del movimento operaio. Infine alcune riflessioni che si trovano in due pensatori anomali come Walter Benjamin e Furio Jesi. Mi riferisco in particolare a concetti quali l’illuminazione  profana e il valore del binomio festa/rivolta. Molti di questi temi sono già presenti nel blog in altre rubriche e verranno ripresi in quel contesto. Molte altre riflessioni specialmente su cura e femminismo si trovano anche nella rivista online Overleft.     

Foresta amazzonica oggi

Una prima versione di questo saggio fu pubblicato sulla rivista online Overleft nella rubrica Spigolature

NASCITA E DECADENZA DELLA FAMIGLIA BORGHESE NELLA NARRATIVA EUROPEA.

Introduzione

Una prima versione del saggio qui di seguito fu pubblicato sul numero 21 della rivista Costruzioni psicoanalitiche del 2011 e lo si trova anche nel sito Academia.edu. Lo ripropongo con una precisazione ulteriore e cioè che la riflessione va storicizzata. Il titolo stesso vi allude: si parla di una concezione della famiglia borghese che ha attraversato i secoli, con modificazioni nel tempo, cui corrispondono i diversi capitoli. Vi è però un momento nella storia del ‘900, a partire dal quale non si può più affermare che è nato un nuovo capitolo all’interno di un medesimo percorso, ma piuttosto che è cominciata un’altra storia, che necessita di ulteriori ricerche e anche di nuovi linguaggi. Non solo il concetto stesso di famiglia borghese sembra essersi dissolto, ma il titolo del saggio – che tuttavia ho deciso di mantenere – andrebbe ulteriormente chiarificato dicendo che quel tipo di famiglia era patriarcale e soltanto eterosessuale. Il saggio accenna nel finale, che ho aggiunto recentemente, a queste profonde trasformazioni, ma finisce con quello che almeno per me è il tramonto di una concezione di famiglia, anche se i tentativi reazionari di riportarla in auge nella sua esclusività, sono purtroppo all’ordine del giorno.

Premessa

La narrativa europea è piena di famiglia, di rapporti fra padri e figli, titolo peraltro di un grande romanzo di Turgenev. La difficoltà nell’affrontare un tema come questo, dunque sta nel ridurre il campo d’indagine.

La famiglia che prenderò in considerazione, seppure con qualche ulteriore precisazione strada facendo, è quella borghese, cercando di coglierla in tutti gli aspetti che l’angolo di visuale della narrativa propone. D’altro canto, sarebbe difficile trovare la famiglia come protagonista in epoche precedenti.

La grande poesia europea e la letteratura novellistica che precede la nascita (o rinascita secondo qualcuno), del romanzo, parla molto d’amore, di relazioni fra i sessi, nel Decameron ci sono storie di amanti, di fratelli e sorelle, ma la famiglia in quanto tale non è un oggetto di osservazione, prima di tutto perché è persino discutibile la sua esistenza e quindi, di conseguenza, l’uso stesso di questa parola.

Uno storico di prima grandezza come Lawrence Stone, nel descrivere la decadenza dell’aristocrazia inglese, afferma che essa fu dovuta anche ai rapporti famigliari inesistenti, almeno per come li intendiamo noi. Stone arriva addirittura a mettere in discussione la possibilità del complesso edipico, nell’ambito delle ‘famiglie’ aristocratiche, in quanto i figli raramente avevano un rapporto con i genitori, ma erano del tutto delegati ad altri, dalle balie alla servitù, tanto che egli attribuisce la decadenza – anche da un punto di vista mentale – della nobiltà inglese, al fatto che una delle patologie più diffuse fosse il marasma infantile, un termine che indica la mancanza di punti di riferimento e di figure con cui i bambini potessero confrontarsi e crescere.

Self made men e signorine di buona famiglia

Non esiste una vera definizione a priori della famiglia borghese, ma è possibile ricavarne qualcuna seguendo i grandi romanzi borghesi e quindi prendendo in considerazione un arco di tempo che va grosso modo dalla metà del settecento, per arrivare ai nostri giorni.

Tom Jones di Henry Fielding, pubblicato nel 1749, inizia quando un vecchio signore, recandosi a dormire alla solita ora, si ritrova qualcosa nel letto, precisamente un fagottino con dentro un trovatello. Chiama precipitosamente la governante e decide di prendersene cura. Il trovatello è Tom Jones. Lo ritroviamo giovane uomo che s’innamora di Sofia, figlia di un gentiluomo di campagna, che non acconsente al matrimonio per ragioni classiste. Tom peraltro ha una personalità esuberante che lo mette spesso nei guai; fugge a Londra dove ha una svariata serie di avventure.

Il contraltare di Tom è il signorino Blifil, un aristocratico educato secondo i dettami della sua classe. Dopo una serie di vicissitudini, sarà Tom a sposare Sofia. Al lieto fine, tuttavia, si giunge grazie anche alla scoperta di un misterioso documento, che rivela come Tom non sia affatto un trovatello. L’inganno ordito ai suoi danni aveva lo scopo di escluderlo dall’asse ereditario. Blifil, il cattivo, viene così sconfitto.

Tom Jones è un romanzo che fa da cerniera fra due diverse concezioni della vita e del mondo e dunque anche della famiglia. Blifil reclama per sé un diritto di nascita, in quanto membro dell’aristocrazia, ma la sua classe non può più accedere allo stesso nobile percorso dei suoi predecessori nei secoli precedenti. I nobili, un tempo cavalieri, sacerdoti, o sacerdoti guerrieri, si sono trasformati in parassiti nullafacenti che si aggirano nelle loro proprietà, senza peraltro alcuna capacità di governarle.

Tom, al contrario di Blifil, è una specie di Robinson Crusoe che agisce nella jungla sociale del settecento inglese. Il documento da cui si evince che anche Tom non è un trovatello viene scoperto dopo, quando il matrimonio è già deciso e questo riflette bene la condizione di transizione della società inglese del tempo. Si sta passando da una concezione del matrimonio per cui conta il lignaggio e naturalmente i patrimoni che ad esso si accompagnano a un’altra in cui conta il saper fare, cioè la capacità imprenditoriale che farà, di lì a poco, decollare in Inghilterra la rivoluzione industriale. 

Più o meno contemporaneo al romanzo di Fielding, è invece Il Vicario di Wakefield di Oliver Goldsmith, siamo infatti nel 1776. Questo romanzo è una specie di bibbia della visione della famiglia come luogo in cui prende forma lo stile borghese, ma anche la funzione pedagogica della famiglia stessa. Siamo sempre fra gentiluomini di campagna, la città arriverà dopo e in modi molti più aspri.

Ci si rende più utili a sposarsi e a metter su una bella famiglia che a restar giovanotti e chiacchierare di figliolanza: così almeno ho sempre pensato io. Perciò, scorso neanche un anno da che ero consacrato sacerdote, presi a petto questa faccenda del matrimonio; e scelsi la sposa come ella scelse poi la veste nuziale, cioè non badando all’eleganza ma alla qualità del tessuto.

Questo breve brano e in particolare la sua parte conclusiva illustrano molto bene la morale borghese. Il matrimonio è necessario per regolare la pulsione erotica, deve essere basato sulla solidità morale dei coniugi piuttosto che sulla frivola eleganza. Tutto il romanzo si svolge nel salotto del Vicario, dove sono soliti incontrarsi la sera o il giorno di festa, i notabili della città. Anche i bambini e i giovani sono ammessi all’ascolto, dal momento che i discorsi che vi si tengono sono edificanti. La famiglia, nel romanzo di Goldsmith, diviene la sede dove si forma l’educazione a uno stile.

Della stessa natura, cioè di strumento di educazione e costruzione del galateo borghese e di un’etica borghese, sono i romanzi di Jane Austen: Emma (1815), Orgoglio e pregiudizio (1813) sono piccoli capolavori di un galateo al femminile, ma anche di una prima elaborazione di un pensiero femminile pubblico e autonomo; nonché della difficoltà a farlo vivere. Le protagoniste dei romanzi di Austen sono giovani donne della campagna inglese, che cercano da se stesse una sorta di educazione sentimentale che permetta loro di orientarsi nella scelta di un marito, sempre prese in mezzo fra matrimoni combinati da madri intriganti (come in Orgoglio e pregiudizio) e dai loro continui errori di scelta, come avviene in particolare a Emma. Austen non è sola, è la prima di una serie di scrittrici e pensatrici europee: insieme a lei Madame da Stael, forse la più grande di tutte e poi George Eliot, nome de plume maschile di Mary Ann Evans, le sorelle Bronte, Mary Shelley, Elizabeth Barret.  

Quanto si è visto fino ad ora gira intorno a un concetto di matrimonio ancora molto legato alla contrattualistica; secondo dato ancora più importante, tutti i romanzi fin qui considerati sono ambientati nelle campagne inglesi, dove, grazie alla rivoluzione del ‘600, culminata nel breve periodo della repubblica di Cromwell, era cresciuta una classe media agricola (la gentry), che elaborava un proprio stile di vita borghese e che investiva tutti gli aspetti della vita sociale. In questo mondo matura anche una voce femminile consistente. Possiamo tentare di delineare alcuni pilastri di questo stile: l’importanza del saper fare rispetto al diritto di nascita, la buona educazione dei figli secondo i principi morali di parsimonia, moderazione, decoro. Tutto questo non è poco se noi lo confrontiamo con il passato anche recente rispetto a quell’epoca.

L’idea del matrimonio come ambito in cui avviene l’educazione dei figli e la loro cura e dove i figli sono oggetti d’amore, è un concetto che non esiste nell’aristocrazia; tanto meno nel mondo contadino, dove i figli sono braccia e basta. La gentry inglese di campagna dunque elabora per la prima volta un galateo universale tramite la narrativa e le riviste come lo Spectator. Nasce un pubblico che si forma intorno a questo stile: la pedagogia in ambito famigliare diventa pedagogia sociale. Però, nel tempo stesso in cui questo avviene, le conseguenze della trasformazione dell’agricoltura e della campagna inglese da feudale a capitalistica provocano una massiccia espulsione dalle compagne stesse di manodopera bracciantile e anche di piccola proprietà, che si riversano nelle città dove formeranno l’esercito di fabbrica (nonché quello di riserva) della rivoluzione industriale. A questa enorme massa viene di fatto impedita la possibilità stessa di una vita famigliare, contraddicendo dunque quel galateo universale che abbiamo visto delinearsi e dal quale costoro sono esclusi.

Amore romantico e questione sociale

Nei grandi romanzi urbani del ‘700-‘800 la famiglia semplicemente non esiste: ci sono ladri, avventurieri, avventuriere, puttane, orfani, ragazzini che lavorano venti ore al giorno. Il romanzo sociale sarà uno strumento di denuncia di tale situazione, ma per tornare al tema, di famiglia se ne trova pochissima in opere come Moll Flanders di Defoe, oppure i Miserabili di Victor Hugo, oppure in Vanity Fair, piuttosto che in Oliver Twist. La descrizione degli slums di Londra in Dickens non è diversa da quella che fa Engels, anzi proprio per l’asciuttezza del linguaggio, Engels sembra addirittura essere più efficace:

In Inghilterra durante la rivoluzione industriale , gli industriali introdussero il sistema del lavoro notturno. Gli operai venivano quindi divisi in due gruppi: un gruppo lavorava nelle dodici ore diurne , l’altro nelle dodici ore notturne. Questo lavoro notturno portava l’abolizione del riposo notturno, e non è sostituibile dal sonno diurno. I risultati, inevitabili, erano un grande eccitamento del sistema nervoso, unito dall’indebolimento ed esaurimento generale di tutto il corpo. Inoltre venivano stimolati l’ubriachezza e gli eccessi sessuali. Altri industriali facevano lavorare parecchi operai per trenta – quaranta ore di seguito, e cioè parecchie volte alla settimana. Le conseguenze di questi fatti si manifestarono ben presto: nelle fabbriche aumentava la presenza di storpi, i quali dovevano la loro minorazione unicamente all’eccessivo prolungamento del tempo di lavoro. Questa minorazione, consiste di solito in una deformazione della colonna vertebrale e delle gambe. L’aspetto di questi storpi è caratterizzato dalle ginocchia “voltate” indentro e all’indietro, i piedi indentro , le articolazioni deformate e ingrossate, la spina dorsale incurvata in avanti o lateralmente.           

La contraddizione sociale, però, è solo uno degli aspetti della questione che riguarda l’etica famigliare. La scissione fra la borghesia di campagna che elabora il suo stile e le masse urbane che ne sono escluse, è soltanto il primo atto della tragedia. La scissione, infatti, si ripercuote all’interno della famiglia stessa, in altre forme. Sulla società europea a cavallo fra il sette e l’ottocento e sulla pretesa universalistica di quel modello matrimoniale, si abbatterà il ciclone romantico che noi interpretiamo ormai secondo i nostri cliché e anche secondo la tesi del più importante studioso dell’amore in occidente e cioè De Rougement: l’equivalenza fra follia amorosa e amore. Alcuni romanzi, a cominciare da quelli delle sorelle Brönte, autorizzano ampiamente tale visione. Le tre autrici sembrano incarnare perfettamente il cliché romantico della passione amorosa come tragedia e destino. Muoiono tutte e tre giovanissime, Anne ed Emily di tubercolosi, il mal sottile, un altro dei cliché romantici. L’ultima, Charlotte, muore a 39 anni. Cime tempestose e Jane Eyre sono i due romanzi più importanti. Il primo, in particolare, è la storia di un amore distruttivo.

Questa visione prevalente nel considerare il romanticismo lascia nell’ombra e in secondo piano che il romanzo romantico è anche quello dove si trovano le maggiori esaltazioni del matrimonio, ma a una ferrea condizione: che si tratti di un matrimonio d’amore. La grande novità che il romanticismo porta è proprio questa, non la critica dell’istituzione matrimoniale in quanto tale, ma la critica al matrimonio in quanto contratto sociale.

Dal punto di vista romantico la famiglia non è più interessante in quanto organismo sociale, ma come ambito in cui si realizza l’unione fra l’uomo e la donna, dove il sentimento amoroso arriva alla sua realizzazione. La famiglia romanticamente intesa diventa un microcosmo che viene visto nelle sue dinamiche interne e nelle relazioni fra i coniugi; non scompare la sua proiezione all’esterno, ma s’affaccia all’orizzonte l’introspezione insieme alla profondità psicologica dei personaggi. Possiamo considerare questi romanzi come un’ulteriore elaborazione di quel galateo borghese di cui abbiamo visto alcuni esempi e che arricchisce, per citare il titolo del romanzo di Flaubert: L’educazione sentimentale.

Tuttavia il matrimonio d’amore, pur essendo uno straordinario momento di civilizzazione, non è così facile da realizzare, non solo naturalmente per le condizioni esterne e cioè la lotta contro la visione contrattualistica del matrimonio, ma anche al proprio interno. Un romanzo emblematico come Le affinità elettive ci dice proprio questo ed essendo del 1809, ci dice anche che Goethe ha saputo in quest’opera intravedere il conflitto irriducibile fra l’eros, la passione amorosa e la struttura stessa della famiglia e dell’istituzione matrimoniale. Romanzo modernissimo quello di Goethe.

Esso inizia con due vedovi che si sposano. Edoardo e Carlotta si amavano da giovanissimi, ma le loro famiglie li costrinsero a sposarsi con altri per questioni patrimoniali. L’inizio del romanzo, dunque ci presenta una situazione che conosciamo bene: il contrasto fra amore e contratto matrimoniale. Goethe, con un primo colpo di genio, fa morire precocemente i loro rispettivi coniugi, così che i due possono ritrovarsi e si sposano. La storia potrebbe finire qui: il matrimonio d’amore alla fine vince. Invece la storia vera comincia qui. I due sposi novelli vivono in una grande villa con un parco, Edoardo ha un vecchio amico, un capitano, che decidono di ospitare come una sorta di giardiniere e factotum. Carlotta è incerta, non vuole turbare il loro equilibrio. Lei però ha una figlia di primo letto che si trova in collegio insieme a una nipote, Ottilia e alla fine accetta la presenza del capitano ma chiede a Edoardo che anche la nipote venga a stare con loro. Sottilmente e in modo più o meno inconscio, Carlotta forse accetta il capitano con il pensiero recondito che egli possa essere un buon partito per la figlia, assai sofferente e introversa. Solo che accade qualcosa di diverso. È Edoardo, il marito, a sentirsi sempre più attratto da Ottilia, la nipote di Carlotta, che a sua volta si sente sempre più attratta dal capitano. Tutti e quattro sono consapevoli di quello che sta accadendo, la passione amorosa si contrappone in modo radicale all’istituzione matrimoniale anche nella sua versione romanticamente positiva. Cercano di affrontare la situazione, assumono un atteggiamento responsabile, non ipocrita. Decidono però di scegliere in qualche modo l’istituzione. Il capitano accetta un’offerta di lavoro, mentre Ottilia viene mandata da un’amica della madre Carlotta. Edoardo però non si piega alla rinuncia del desiderio e rifiuta di tornare al loro rapporto come se niente fosse accaduto: così s’allontana anche lui, sognando sempre di ricongiungersi a Ottilia prima o poi. Visto che Edoardo non vive più nella casa, Carlotta e Ottilia continuano a vivere nel castello, finché un giorno Edoardo si decide a chiedere il divorzio alla moglie e questa gli rivela di essere però incinta di lui. Il figlio che nasce, tuttavia, assomiglia al capitano e a Ottilia più che a lui e a Carlotta, e qui Goethe ha un secondo colpo di genio. La questione è psicologica e molto sottile: non si tratta di un banale inganno, il figlio assomiglia a Ottilia e al capitano perché mentre facevano l’amore ognuno dei due e cioè Edoardo e Carlotta sognavano di farlo con i loro rispettivi amanti. Goethe anticipa la psicanalisi e ha sicuramente ispirato un romanzo dei primi del ‘900, scritto da un autore che piaceva moltissimo a Freud: Athur Schnizler. Mi riferisco a Doppio sogno, cui è ispirato anche il film di Stanley Kubrik, Eyes wide shut.

Torniamo al romanzo. Edoardo vuole sistemare le cose, accetta di tenere il figlio ma insieme a Ottilia, non alla moglie. Un giorno lui ritorna al castello e incontra Ottilia che è andata con il bambino a fare una passeggiata. Si baciano di nuovo con passione. Ottilia ne è sconvolta. Mentre attraversa il lago per ritornare a casa assorta nei suoi pensieri, compie un brusco movimento che fa oscillare la barca. Il neonato cade in acqua e annega. La tragedia travolge tutti personaggi.

Questa del figlio morto annegato – una figlia in  quel caso – tornerà in un romanzo del secondo ottocento italiano: Piccolo mondo antico di Antonio Fogazzaro.

La famiglia come istituzione sociale e la famiglia come luogo di realizzazione dell’amore romantico, sono dunque in crisi fin dal loro nascere; lo sono nei grandi romanzi borghesi ma anche nella realtà. Questo non vuol dire che non continuano a esistere famiglie dove il galateo borghese venga praticato, o l’amore perseguito, ma tutto ciò avviene non nel clima idilliaco che abbiamo visto rappresentato nei romanzi della Austen o di Goldsmith, ma nel mezzo di contraddizioni sempre più insanabili e di sofferenze sempre più acute. 

La decadenza

La famiglia amorosa e la famiglia come strumento di educazione sociale, entrambe borghesi vivono scisse l’una dall’altra in molti romanzi ma si ricongiungono di nuovo in una grande opera del 1901: I Buddenbruck di Thomas Mann. Il romanzo è, al tempo stesso, la storia di una famiglia dei capitani d’industria che va verso la decadenza e la rappresentazione della crisi di quel processo di educazione sentimentale e rigore che abbiamo visto nelle opere precedenti. Lo potremmo definire uno dei romanzi capaci di rappresentare come pochi altri l’esplodere di tutte le contraddizioni dell’istituzione famigliare, sia dal suo versante di organismo sociale, sia per ciò che attiene alle relazioni amorose.

Il romanzo inizia con un conversazione affabile che si svolge in un tipico salotto borghese. Si parla d’arte, di poesia, è il trionfo di quel galateo che abbiamo visto costruirsi nel tempo e infatti sembra di essere tornati a casa del Vicario di Wakefield. Siamo nel 1835 e tutta la famiglia è nel salotto perché il vecchio Johann Buddenbruck proprietario della ditta fondata nel 1768, si trova nel momento delicato del passaggio di consegne. Siamo alla seconda generazione ed è qui che cominciano i guai perché i figli non sempre sono meglio dei padri, in ambito borghese almeno, più ancora che non per l’aristocrazia.

Passano gli anni e gli affari non vanno benissimo, i moti rivoluzionari del ’48 fanno la loro parte. All’interno della famiglia è Antoine, detta Tony il personaggio più memorabile. É una ragazza ribelle e inquieta, ma che si sposa male, tanto che i debiti del marito rischiano di riversarsi anche sulla ditta di famiglia. Paradossalmente lei divorzia proprio per preservare la società.

Quando la ditta passa  Thomas, le cose migliorano un po’, ma egli non è solo. Lui è il responsabile capace, ma il fratello Christian è un dissoluto cui piace la vita comoda. Quando torna in famiglia fra i due fratelli è guerra. Tony assiste alle lotte di potere (nelle quali s’inseriscono altri elementi esterni alla famiglia), sempre più delusa e amareggiata, finché la misura diviene per lei colma:

Abituarsi all’ambiente? No, fra gente senza dignità, senza morale, senza ambizione, senza signorilità e senza rigore, fra gente sciatta, scortese e trasandata, fra gente che è allo stesso tempo pigra e leggera, pesante e superficiale… fra gente così non mi posso ambientare…

Tony è proprio il risultato di quella educazione sentimentale che la borghesia ha voluto per lei, ma che ora le si rivolta contro. Tony rimprovera, nel brano appena citato, la mancanza di coerenza, vede lucidamente il fallimento di quel valori intorno ai quali anche lei era stata educata.

Dopo un’alternanza di rovesci e di riprese, nonché il matrimonio della figlia di Tony, si arriva al centenario di fondazione della ditta e cioè nel 1868. L’evento simbolico non cambia il corso degli eventi. I Buddenbruck non falliscono, ma decadono sempre, il marito della figlia di Tony subisce un processo e finisce in galera, tutto si disgrega senza crollare, la borsa e la finanza stanno diventando i nuovi fari dell’economia capitalistica, la funzione imprenditoriale cambia e loro non sono sempre capaci di tenere il passo, ma subiscono anche la concorrenza spietata di altri protagonisti del romanzo, gli Hagelstrom, rivali dei Buddenbruck. Le leggi di una concorrenza spietata hanno una parte nel romanzo ma il messaggio finale, una volta liquidata la ditta, è un altro. Con i Buddenbruck. si dissolve proprio quella capacità imprenditoriale, quel saper fare che avevamo visto incarnato nei suoi aspetti vitalistici da Tom Jones.

Alla fine è Tony che rimane sola a incarnare la famiglia, proprio lei; è benestante come tutti gli altri protagonisti, quindi non è la ricchezza materiale che le manca ma tutto il resto. Ciò che è miseramente fallito è proprio quel galateo borghese che si voleva universale e che invece non regge neppure all’interno della quattro mura domestiche.

Il ‘900

Nel grande romanzo del ‘900, la famiglia di fatto scompare o è di nuovo protagonista laddove lo sviluppo di un’economia capitalistica e di una cultura borghese è stata più tarda, come in Italia, per esempio. In Pirandello e anche precedentemente in Verga, essa è presente, anzi è la cellula primaria che grazie alla cooperazione fra i suoi membri dovrebbe garantire la possibilità di riscatto. Invece, implode internamente e anche come organismo sociale (il ciclo dei vinti). La grande narrativa siciliana, da De Roberto a Tomasi di Lampedusa rappresenta plasticamente la decadenza delle famiglie aristocratiche nel momento in cui Il regno delle due Sicilie sta per cadere. Nel ‘900 esplode la crisi dell’individualità borghese. Da Svevo a Musil, ma anche in Henry James negli Stati Uniti, la dissoluzione del personaggio eroico o almeno forte, è la costante: è il tempo degli uomini senza qualità. In Italia, Il fu Mattia Pascal fugge da se stesso e da ogni legame.

Nel secondo dopoguerra romanzi come Il giardino dei Finzi Contini di Bassani e ancora di più Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, continuano nobilmente quella tradizione borghese che abbiamo visto alle sue origini rappresentata dai romanzi del primo settecento inglese. I valori, i personaggi, il loro modo di agire ricalcano quei modelli, seppure attualizzandoli e collocandoli nella realtà italiana. Una novità di rilievo è la presenza in alcune narrazioni novecentesche, della famiglia operaia: Figli e amanti di D.H. Lawrence in Inghilterra e alcune opere del neorealismo italiano, come Metello di  Pratolini.

Cosa avviene invece, se si va dall’altra parte dell’Atlantico? L’urlo e il furore di Faulkner e Furore di Steinbeck sono forse i romanzi più rappresentativi, rispetto a questa tematica. Entrambi hanno al loro centro la disgregazione di due famiglie. In Furore è la crisi del ’29 a rovinare Tom Joad e i suoi famigliari, mentre nel romanzo di Faulkner la disgregazione della famiglia borghese bianca assume i toni allucinatori e psicotici di uno dei protagonisti (Bengj); oppure quelli cinici di Jason. Il romanzo, un cult della narrativa d’avanguardia, non apporta nulla di nuovo al copione, ma la rappresentazione plasticamente tragica ed espressionista insieme, fanno di questo romanzo un capolavoro.

Nella narrativa più recente quello che appare evidente, anche nei romanzi di intrattenimento, è la presenza di un mondo orizzontale di fratelli e sorelle che sono rimasti senza padri o senza madri: per esempio Caos calmo di Veronesi. Del resto un bel libro dello psicanalista junghiano Luigi Zoja, delinea molto bene la deriva della figura paterna, ricostruendone la storia da Ettore ai nostri giorni: Il gesto di Ettore.

Oppure si affaccia anche nella narrativa la famiglia pedofila o l’abuso: La bestia nel cuore di Cristina Comencini, oppure L’amore molesto di Elena Ferrante. In generale è proprio la società senza padre la protagonista di molta narrativa contemporanea, anche laddove esso sembra esistere ma si presenta nella versione post sessantottina del genitore amicone.

Per concludere

Con quest’ultimo passo si compie un percorso secolare ma al tempo stesso, proprio a seguito dei cambiamenti profondi avvenuti dalla metà degli anni ’60 in poi, sono maturate altre consapevolezze e soggettività che hanno cambiato radicalmente il modo di concepire la famiglia e messo in discussione il concetto stesso di famiglia. Mi riferisco al  femminismo, alla crescita dei movimenti LGBTQ, alla riflessione su genere, classe e sesso. Si può davvero dire che da tutto questo fermento ha preso avvio non un nuovo capitolo, ma un’altra storia e altre scritture. In questa fase, la mia impressione è che la saggistica sia qualitativamente predominante rispetto alla narrativa ed è dunque a tale vasto campo che è meglio rivolgersi.  

I TESTI PUBBLICATI IN QUESTO BLOG SONO DI MIA PROPRIETA’: CONSENTO LA LORO STAMPA IN FORMA CARTACEA PER SOLA LETTURA E LA CITAZIONE DEL MIO NOME IN CASO DI UTILIZZO IN VOSTRI SCRITTI.

NOBEL MANCATI: FABRIZIO DE ANDRÈ

Questo saggio fu pubblicato nel blog Diepicanuova – http://diepicanuova.blogspot.com, – fondato da Paolo Rabissi e da me. L’occasione, allora, fu il dibattito che nacque dopo l’attribuzione del Nobel della letteratura a Bob Dylan, dibattito che si trova e può essere letto nel sito Diepicanuova. Lo ripropongo qui in memoria di Fabrizio de Andrè, nei giorni ci ricordano la sua precoce morte.

Premessa.

L’attribuzione del Nobel a Bob Dylan è ormai metabolizzata alle nostre spalle da tempo e siamo ritornati negli alvei consueti, tutto passa in fretta. Contagiato dalla lentezza, però, ho continuato a ragionare sul senso che possa avere l’assegnare alla canzone d’autore un valore che sia anche letterario. La questione ha una sua importanza, checché ne pensino i poeti laureati, anche perché esistono culture diverse dalle nostre, seppure parenti strette (penso all’America Latina), dove hanno opinioni molto diverse in merito. Così, di riflessione in riflessione, mi sono ritrovato a domandarmi che cosa abbia Fabrizio De Andrè meno di Bob Dylan per essere considerato nel Pantheon degli esponenti maggiori del genere e perché no – visto il precedente illustre – anche meritevole di un riconoscimento letterario. Ho cominciato allora ad ascoltare di nuovo De Andrè, album dopo album, convinto come sono che le antologie (anche quelle di poesia) sono importanti per dare il senso di un periodo letterario, ma sono bugiarde quando sono la rassegna dedicata a un solo autore. Gli album sono come i libri per un autore di canzoni: entrambi sono organismi autonomi e non semplicemente una sequenza di testi e canzoni. Le antologie, invece, tendono per forza di cose a scegliere fior da fiore, ma in questo modo si perde il lavorio che sta alle spalle di un libro come di un album, ma anche a considerare minori delle canzoni o poesie che non lo sono affatto.

La prima fase

Il primo album registrato da De Andrè, nonostante alcuni 45 giri precedenti e un long playing, è Volume 1 del 1967, un titolo anodino ma anche leggibile oggi in altro modo. A un semplice ascolto dopo tanto tempo, l’impressione è grande. Durante gli anni ’60 ci sono state molteplici rotture culturali e politiche. Nel campo della canzone ebbero di certo la loro importanza Modugno e i cantautori genovesi; inoltre, c’era stata la polemica di Calvino, Pasolini e Fortini contro il Festival di Sanremo, che aveva portato fra l’altro al rilancio della canzone popolare e operaia con Cantacronache e poi il Nuovo Canzoniere di Michele Straniero. Si trattò di operazioni meritevoli, ma con lo sguardo rivolto a un passato che andava di certo conservato, ma che non poteva avere alcun impatto sulla cultura di massa che si stava formando: lo avrebbe avuto dopo il ’68 per ragioni politiche. Il festival di Sanremo non andava aggredito per contrapposizione e Pasolini fu il primo ad accorgersene quando ammise (cito a memoria) che niente altro poteva rappresentare l’estate del 1964 meglio di Sapore di sale di Gino Paoli. Occorreva un’operazione diversa e cioè portare la canzone popolare e di massa a un livello più elevato anche dal punto di vista dei testi, togliendo così centralità al Festival. Ascoltando il primo album di De Andrè, si coglie il senso di una frattura profonda con quanto si cantava in precedenza; a cominciare da Preghiera di gennaio, la canzone d’apertura che egli scrisse dopo il funerale di Luigi Tenco. Versi in difesa dei suicidi come:

Lascia che sia fiorito, Signore, il suo sentiero […] perché non c’è l’Inferno nel mondo del buon Dio […] l’Inferno esiste solo per chi ne ha paura

aprono un orizzonte nuovo e se pensiamo proprio al confronto con Tenco medesimo e aldilà della loro amicizia, la separazione dal gruppo genovese è netta. Iniziò allora una stagione veramente importante, anche grazie all’intuizione di Amilcare Rambaldi, che seppe metabolizzare la morte di Tenco fondando il club omonimo che divenne il polo intorno al quale cominciò a coagularsi il meglio della musica italiana d’autore. L’operazione ebbe anche un successo commerciale, visto che si vendeva e si ascoltava di più quello che non andava a Sanremo piuttosto che quello che ci andava.  

L’album contiene alcuni dei suoi brani memorabili come Bocca di Rosa e la Ballata di Re Carlo, tuttavia è sulla sua prima parte che vorrei soffermarmi, perché in essa è presente la visione di un cristianesimo anti istituzionale che ricorda l’analoga operazione compiuta da Dario Fo più o meno negli stessi anni: distaccare la figura di Gesù da ogni orpello chiesastico. Mi riferisco a brani come la già citata Preghiera di gennaio, Spiritual e Si chiamava Gesù. Questo tema di un cristianesimo vagamente anarchico e antistituzionale, fondato anche sui Vangeli Apocrifi, che tanto entusiasmava un uomo e un sacerdote come Don Andrea Gallo, verrà ripreso da De Andrè anche in alcuni degli album successivi e prima di tutto in La buona novella.

Nella seconda parte di Volume 1, con Via del Campo, entrano in gioco i temi che saranno – in ogni album – i suoi più forti: gli emarginati, gli anarchici, i ribelli, le puttane e i loro clienti, la critica dell’ipocrisia e del perbenismo borghesi, il rifiuto di ogni potere e della sua giustizia (“non ci sono poteri buoni”).

Dall’esistenzialismo alla ribellione

Il contesto sociale che fa da sfondo alla poetica di De Andrè durante il corso degli anni ’60 è la Genova città di porto più che terzo polo industriale del triangolo: con le sue taverne più che non le sue industrie, la famosa via Prè che corre in parallelo alle grandi strade, che si apre ad altri vicoli e ai suoi umori e personaggi. Questa realtà però si tinge di colori espressionisti e visionari, sia risalendo a fonti letterarie come Villon e Angiolieri, sia andando indietro nel tempo, riscoprendo sonorità a ritmi che si richiamano a un medioevo genericamente inteso o comunque rivolti a un passato che a Genova è stato peraltro assai fiorente. Nella Genova contemporanea, come altrove, prevalevano – negli artisti più inquieti – gli umori esistenzialisti, i riferimenti erano Parigi, Prevert, Sarte ma, specialmente per il gruppo genovese, Juliette Greco, Brel e Brassens. Nel tempo, però, tali umori diventarono una gabbia per la maggioranza di loro, dalla quale non usciranno mai. Per tutti l’estenuato Tenco, il cui tragico destino non può far dimenticare, a decenni di distanza, la sua troppo esibita malinconia esistenziale, condita da quantità industriali di narcisismo. In Italia stavano cambiando molte cose e il solo a uscire dalla gabbia fu proprio De Andrè, perché già in origine la sua poetica si nutriva di riferimenti che spaziavano in molteplici direzioni, fra cui la poesia. De Andrè non fu vicino al ’68 perché troppo lontano da ogni tentazione militante, tanto da essere ritenuto addirittura una spia dalle componenti più settarie e idiote delle nascenti forze partitiche extra parlamentari; il paradosso sta nel fatto che anni più tardi fu proprio lui a diventare oggetto delle attenzioni dei servizi segreti! Egli seppe però cogliere il cambiamento, scegliendo anche nei suoi riferimenti d’oltralpe, chi anche in quel contesto sapeva interpretare meglio lo spirito dei tempi: Vian piuttosto che l’eterno adolescente Prevert.        

Gli album successivi al primo riflettono questi mutamenti, sia per la concentrazione in pochi anni, sia per i toni espressivi interni a ciascuno di essi, tanto da segnare il passaggio dagli esordi a una prima fase di maturità: Tutti morimmo a stento (1968), Volume III, sempre del ’68; poi Nuvole barocche (1969), che comprende anche tutte le canzoni precedenti l’anno d’esordio. Questo ciclo si conclude nel 1973 con Vita di un impiegato, ma a metà di esso e cioè nel 1971, si colloca Non al denaro, non l’album minore di questo periodo, nonostante La canzone dell’amore perduto peraltro presente anche in altri long playing. Volume III contiene alcuni dei suoi capolavori fra cui un’impareggiabile versione de Il Gorilla di Brassens, La guerra di Piero, Amore che viene amore che va.

Tuttavia, è sull’ultimo album di questo periodo, Storia di un impiegato, che mi sembra utile soffermarsi, perché si distanzia dai precedenti proprio perché affronta criticamente e anni dopo, il movimento del ’68 e tutto quanto se sortì. La critica di sinistra lo accolse male ma anche al di fuori di quell’ambito, fu considerato un flop. De André stesso in un’intervista, ne parlò in questo modo:

 La “Storia di un impiegato” l’abbiamo scritta, io, Bentivoglio, Piovani, in un anno e mezzo tormentatissimo e quando è uscita volevo bruciare il disco. Era la prima volta che mi dichiaravo politicamente e so di aver usato un linguaggio troppo oscuro, difficile, so di non essere riuscito a spiegarmi.

Nella dichiarazione di cui sopra c’è quasi tutto, nel senso che emerge da essa la difficoltà di De Andrè nel rapportarsi ai movimenti di quegli anni, ad affrontare direttamente una tematica politica ma anche l’onestà intellettuale di avere cercato di farlo. La scelta stessa di scrivere la storia di un impiegato rivela prima di tutto la sua difficoltà a rapportarsi con la classe operaia; a differenza di Jannacci a Milano, per esempio. Anche nelle canzoni di quest’ultimo non mancano barboni, prostitute e clienti, solo che tali figure assumono maggiormente aspetti caricaturali e comici, mentre i veri personaggi drammatici delle canzoni più alte di Jannacci sono le vincenzine, cioè le operaie, le commesse, le lavoratrici che diventano metafora della fatica proletaria. Nonostante vivesse nella città dei portuali che nel 1960 erano stati protagonisti di una memorabile stagione di lotta che apriva il decennio che avrebbe portato al ’68, De Andrè non li vede, forse non è in grado di vederli perché il suo occhio vede altro. Tuttavia, era proprio così sbagliata l’idea di mettere un impiegato al centro della scena? Uno degli aspetti nuovi delle lotte di quegli anni non era forse costituito proprio dalla presenza di un forte movimento studentesco e di una saldatura fra operai, impiegati e tecnici dentro le fabbriche? A Milano, in anni precedenti, gli impiegati, le commesse, i goliardi delle serali, non erano forse stati i protagonisti del poemetto La ragazza Carla di Elio Pagliarani e de La capitale del Nord di Giancarlo Majorino? Non sarà proprio un perito tecnico impiegato alla Sit Siemens a diventare il leader delle Brigate Rosse? Allora, al netto di certe prese di posizione troppo emotivamente datate, si può affermare ad anni di distanza che si tratta di un album minore rispetto a quelli citati in precedenza, ma che in esso è presente un testo come Il bombarolo, che, proprio nella sua ambivalenza, indica una possibile parabola che accompagnò il decennio ‘70 come una nuvola scura. La radicalizzazione un po’ astratta e troppo recente da parte di ceti in ombra fino a un decennio prima, poteva portare anche a derive di varia natura. Parlo di ambivalenza perché Il bombarolo incarna una figura estrema e opaca al tempo stesso, che poteva prestarsi o essere usato sia a sinistra sia a destra. Se vi è una eco, nella canzone, delle tendenze anarchiche De Andrè, il personaggio appare segnato da un’ambiguità che lo corrode dall’interno.

Chi va dicendo in giro/che odio il mio lavoro/non sa con quanto amore/mi dedico al tritolo,/è quasi indipendente/ancora poche ore/poi gli darò la voce/il detonatore.//Il mio Pinocchio fragile/parente artigianale/di ordigni costruiti/su scala industriale/di me non farà mai/un cavaliere del lavoro,/io sono d’un’altra razza,/son bombarolo.//Nello scendere le scale/ci metto più attenzione,/sarebbe imperdonabile/giustiziarmi sul portone/proprio nel giorno in cui/la decisione è mia/sulla condanna a morte o l’amnistia.//Per strada tante facce/non hanno un bel colore,/qui chi non terrorizza/si ammala di terrore,/c’è chi aspetta la pioggia/per non piangere da solo,/io sono d’un altro avviso,/son bombarolo.//Intellettuali d’oggi/idioti di domani/ridatemi il cervello/che basta alle mie mani,/profeti molto acrobati/della rivoluzione/oggi farò da me/senza lezione.//Vi scoverò i nemici/per voi così distanti/e dopo averli uccisi/sarò fra i latitanti/ma finché li cerco io/i latitanti sono loro,/ho scelto un’altra scuola,/son bombarolo.//Potere troppe volte/delegato ad altre mani,/ sganciato e restituitoci/dai tuoi aeroplani,/io vengo a restituirti/un po’ del tuo terrore/del tuo disordine/del tuo rumore.//Così pensava forte/un trentenne disperato/se non del tutto giusto/quasi niente sbagliato,/cercando il luogo idoneo/adatto al suo tritolo,/insomma il posto degno/d’un bombarolo./C’è chi lo vide ridere/davanti al Parlamento/aspettando l’esplosione/che provasse il suo talento,/c’è chi lo vide piangere/un torrente di vocali/vedendo esplodere/un chiosco di giornali. //Ma ciò che lo ferì/profondamente nell’orgoglio/fu l’immagine di lei/che si sporgeva da ogni foglio /lontana dal ridicolo/in cui lo lasciò solo,/ma in prima pagina/col bombarolo.

Forse, concludendo questa parte si può dire che non era nelle sue corde affrontare di petto una tematica politica e che i conti con il ’68 li aveva già fatti, a modo suo, altrove, nella riscrittura dell’Antologia di Spoon River.

L’album chiuse un periodo dalla sua produzione, cui seguì una lunga crisi creativa, che tuttavia vide anche l’inizio di nuove collaborazioni proficue (con De Gregori e più tardi con Bubola), traduzioni di canzoni di Cohen, Dylan e altri e una serie di pubbliche esibizioni. Non intendo in questa riflessione seguire un percorso storicistico e dunque salto direttamente all’ultimo De Andrè, quello di Crêuza de mä (1984) e di Anime salve (1996), sebbene nel mezzo un album come Rimini (1978), sia tutt’altro che disprezzabile.

I grandi album

Il vertice dell’opera di De Andrè si trova a mio avviso nei due ultimi album e in quello già citato del 1971: Non al denaro, non all’amore né al cielo.

Crêuza de mä è un’opera del tutto nuova rispetto alle precedenti, che apriva una strada interrotta purtroppo dalla precoce morte: l’attenzione verso la musica etnica, le sonorità mediterranee e le lingue minori. La scelta di scrivere i testi in genovese lo testimonia. Non sono in grado, mi mancano le competenze per farlo, di valutare quale apporto linguistico esso dia alla koinè ligure e genovese che, ancora negli anni ’60, esprimeva autori che andavano ben oltre la commedia dialettale nel teatro (Govi) e che avrebbe espresso poeti come Roberto Giannoni e Paolo Bertolani. Da semplice ascoltatore c’è un dato sorprendente che mi ha colpito subito: il mare, in fondo poco presente nella produzione precedente di De Andrè, diventa il primo protagonista di questo album, un mare che si avverte prima di tutto nelle cadenze ritmiche della partitura musicale. Il merito, in questo caso, non è soltanto suo ma anche di Mauro Pagani.

Anime salve è una lunga meditazione sulla vita e sulla morte, dove precipitano in un’opera compatta e rigorosa tutti i temi della sua poetica, ma anche i diversi stili e timbri musicali, in questo aiutato dalla collaborazione con Ivano Fossati. Viene ribadita anche l’attenzione verso le sonorità mediterranee e le lingue minori (Â cúmba è scritta in genovese). Prinçesa, il brano d’apertura, ci dice fra l’altro quanto tempo sia passato dalle taverne di via Prè, dagli emarginati dei vicoli genovesi, dal porto ormai in parziale disarmo. Lo scenario è diventato globale e De Andrè lo coglie nella storia di un bambino brasiliano che si sente donna e si sottopone a tutta la trafila di dolore e umiliazioni possibili fino ad approdare fra le braccia di un avvocato milanese: l’alternarsi della lingua italiana con quella brasiliana riprende nel testo l’attenzione vero gli altri idiomi di cui si è detto.

Il sodalizio fra Fabrizio De Andrè e Fernanda Pivano nacque intorno all’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters e portò all’album che a mio avviso è il suo più grande: Non al denaro, né all’amore né al cielo (1971). Pivano in alcune interviste disse che De Andrè, in alcuni casi, aveva fatto anche meglio del poeta statunitense. La critica milanese amava di certo le iperboli, ma in questo caso mi sento di condividere quello che afferma. De Andrè non traduce i testi ma li riscrive, rispettando solo il pilastro fondamentale su cui si regge l’opera di Masters: la riproposizione in chiave moderna della dantesca legge del contrappasso, fondata sulla similitudine piuttosto che sulla metafora. Per il resto compie un’operazione del tutto diversa e in una direzione opposta. Masters scrisse una commedia umana in versi, fondata sull’equilibrio fra il microcosmo (la piccola comunità di un paese) e il macrocosmo che consiste nella dilatazione delle vicende, delle tipologie umane fino ad abbracciare per intero quella comunità, ma anche alludere a un’infinità di situazioni diverse: il piccolo paese diventa così un’allegoria dell’umanità intera. Perciò l’Antologia è una narrazione epico-lirica, a tratti sapienziale, che ritorna sulle stesse situazioni e tipologie di personaggi più volte. De André, dopo l’omaggio a tutti i defunti della comunità nel brano di apertura (La collina), distilla al massimo, riducendo la sua opera a un solo testo emblematico per ogni tipologia e situazione: una scelta metonimica, che mantiene, anzi esalta, la similitudine e la legge del contrappasso. De Andrè riesce a tenere in tutto l’album un livello altissimo di tensione. Non vi sono brani minori in questo album, governato da una rigorosa unità di stile e di scelte. Per darne un esempio, dunque seguirò semplicemente il mio gusto, scegliendo un testo soltanto, che riprende uno dei temi più cari di De Andrè fin dal primo album: la diffidenza verso ogni forma di potere giudiziario:  

Un Giudice

Cosa vuol dire avere/un metro e mezzo di statura,/ve lo rivelan gli occhi/e le battute della gente,/o la curiosità/d’una ragazza irriverente/che vi avvicina solo/per un suo dubbio impertinente://vuole scoprir se è vero/quanto si dice intorno ai nani,/che siano i più forniti/della virtù meno apparente,/fra tutte le virtù /la più indecente.//Passano gli anni, i mesi,/e se li conti anche i minuti,/è triste trovarsi adulti/senza essere cresciuti;/la maldicenza insiste,/batte la lingua sul tamburo/fino a dire che un nano/è una carogna di sicuro/perché ha il cuore troppo/troppo vicino al buco del culo.//Fu nelle notti insonni/vegliate al lume del rancore/che preparai gli esami/diventai procuratore/per imboccar la strada/che dalle panche d’una cattedrale/porta alla sacrestia/quindi alla cattedra d’un tribunale/giudice finalmente,/arbitro in terra del bene e del male.//E allora la mia statura/non dispensò più buonumore/a chi alla sbarra in piedi/mi diceva “Vostro Onore”,/e di affidarli al boia/fu un piacere del tutto mio,/prima di genuflettermi/nell’ora dell’addio/non conoscendo affatto/la statura di Dio.   

La lingua fra poesia e musica  

Uno dei leit motiv che la critica letteraria e anche i poeti rivolgono a chi pensa si possa dare un valore letterario ai testi delle canzoni dei maggiori autori, è che mentre la poesia avrebbe la musicalità incorporata nel testo, la canzone deve ricorrere a un artificio: la musica si pone come esterna e spesso prevarica il testo, piegandolo alle proprie esigenze ritmiche e sonore. Questo discorso è vero solo in parte o lo era quasi totalmente per il melodramma, quasi senza eccezioni. La canzone d’autore è nata e si è evoluta su altri presupposti. Gli autori più importanti padroneggiano entrambi i linguaggi, non ricorrono a parolieri, spesso sono autori anche di versi e raccolte poetiche (Dylan, Vincius de Moraes) e il problema è l’equilibrio che riescono a ottenere fra i due linguaggi: nel caso di De Andrè tale equilibrio è sempre presente nella sua produzione anche se non sempre gli esiti sono dello stesso livello. La scelta della Ballata come genere che può essere sia musicale sia poetico, lo favorisce in questo, almeno nei suoi album maggiori. Tuttavia egli stesso, parlando della propria musica, tenne sempre un profilo piuttosto basso, affermando per esempio che suo figlio Cristiano possiede una cultura musicale migliore della sua. Diamo per scontato un eccesso di affetto paterno in questa dichiarazione, ma è pur vero che De Andrè ricorse sempre a collaborazioni eccellenti. Vi è in ogni caso molta più coerenza, non solo tematica ma di stile, nei suoi testi che non nella partitura musicale assai eclettica, tanto da pensare che nel suo caso è proprio la musica a piegarsi alle esigenze del testo; vale allora la pena di guardarlo più da vicino.  

Pur ricorrendo quasi sempre alla Ballata, De Andrè non sceglie l’ottonario (il verso per eccellenza della ballata come testo poetico), ma più spesso il settenario o l’alternanza fra settenari e novenari, tranne quando la scelta dell’ottonario è imprescindibile per ragioni di ritmo. In qualche caso il doppio settenario si alterna a novenari; raramente ricorre l’endecasillabo, ma piuttosto al verso di dieci sillabe della poesia inglese, aggiungendovi spesso un piede. Tutto questo non è casuale: la coerenza è alta e se in qualche caso, come ne Un giudice riportato più sopra, vi è qualche scostamento rispetto a tale norma in altri casi il rispetto è rigoroso. L’attenzione alla metrica da parte di De Andrè può essere colta anche nella rara presenza di endecasillabi, il verso d’eccellenza della poesia italiana ma che, spesso ridondante in sé anche sulla carta, lo sarebbe ancora di più se associato alla musica. Per chi pensa ancora anche la metrica sia casuale, suggerisco di scegliere uno o due testi fra i migliori di Mogol-Battisti e confrontarli con quelli di De Andrè. La casualità delle scelte nel primo caso è evidente, se ci sono righe che potrebbero far pensare a versi, ciò avviene per caso e perché il linguaggio è almeno in parte sempre ritmico e scandito, persino nei momenti più comunicativi: vado a fare la spesa è un settenario. In De Andrè c’è sempre la ricerca di una regola dalla quale si può scartare a volte (il ritmo musicale ha in suoi diritti e li fa valere), ma sempre dentro un contesto di ricerca di equilibrio fra i due linguaggi.

Lo stile, la voce, la pietas

Concludo con una riflessione su due testi che permettono di tornare alla radice più  profonda di tutta l’opera di De Andrè: la pietas, che diventa un elemento portante del suo stile e che fu anche la strada maestra che lo portò lontano dalle secche dell’esistenzialismo. Il primo brano è ispirato dall’Antologia: Un chimico. Il secondo è Ho visto Nina volare da Anime salve.

Un chimico.

Solo la morte m’ha portato in collina
Un corpo fra i tanti a dar fosforo all’aria
Per bivacchi di fuochi che dicono fatui
Che non lasciano cenere, non sciolgon la brina
Solo la morte m’ha portato in collina

Da chimico un giorno avevo il potere
Di sposar gli elementi e farli reagire
Ma gli uomini mai mi riuscì di capire
Perché si combinassero attraverso l’amore
Affidando ad un gioco la gioia e il dolore

Guardate il sorriso guardate il colore
Come giocan sul viso di chi cerca l’amore
Ma lo stesso sorriso lo stesso colore
Dove sono sul viso di chi ha avuto l’amore
Dove sono sul viso di chi ha avuto l’amore

È strano andarsene senza soffrire
Senza un volto di donna da dover ricordare
Ma è forse diverso il vostro morire
Voi che uscite all’amore che cedete all’aprile
Cosa c’è di diverso nel vostro morire

Primavera non bussa, lei entra sicura
Come il fumo lei penetra in ogni fessura
Ha le labbra di carne, i capelli di grano
Che paura, che voglia che ti prenda per mano
Che paura, che voglia che ti porti lontano

Ma guardate l’idrogeno tacere nel mare
Guardate l’ossigeno al suo fianco dormire
Soltanto una legge che io riesco a capire
Ha potuto sposarli senza farli scoppiare
Soltanto la legge che io riesco a capire

Fui chimico e, no, non mi volli sposare
Non sapevo con chi e chi avrei generato
Son morto in un esperimento sbagliato
Proprio come gli idioti che muoion d’amore
E qualcuno dirà che c’è un modo migliore.

In questo testo la concatenazione di similitudini e la legge del contrappasso emergono limpidamente dal testo, senza scorie. Come sulla bilancia ideale di un chimico ogni elemento viene pesato e connesso con l’altro fino a costruire una rete di rimandi interni fittissimi; ma il testo può essere letto anche come una sequenza di immagini emblematiche, fino a quella davvero sorprendente dell’idrogeno che tace e dell’ossigeno che dorme al suo fianco. Sul richiamo dantesco vale forse la pena di dire che esso è rivolto del tutto all’al di qua, come del resto avviene anche nell’Antologia di Masters, ispirata da quella Palatina. I defunti di Masters e De Andrè hanno lo sguardo che ritorna al mondo come al tempo ritrovato dei propri errori, dei propri sogni e mancanze, senza alcun giudizio. La metrica sfrangiata del testo che oscilla fra rari endecasillabi e blank verse allungato rimane in equilibrio fra solennità del tema e un incedere che lo rende più leggero, come quei fuochi fatui di cui si dice nel primo verso.  

Infine: Ho visto Nina volare:  

Mastica e sputa/da una parte il miele/mastica e sputa/dall’altra la cera/mastica e sputa/prima che venga neve//Luce luce lontana/più bassa delle stelle/sarà la stessa mano/che ti accende e ti spegne//Ho visto Nina volare/tra le corde dell’altalena/un giorno la prenderò/come fa il vento alla schiena//E se lo sa mio padre/dovrò cambiar paese/se mio padre lo sa/m’imbarcherò sul mare//Mastica e sputa/da una parte il miele/mastica e sputa/dall’altra la cera/mastica e sputa/prima che faccia neve//Stanotte è venuta l’ombra/l’ombra che mi fa il verso/le ho mostrato il coltello/e la mia maschera di gelso./E se lo sa mio padremi metterò in cammino/se mio padre lo sa/m’imbarcherò lontano./Mastica e sputa/da una parte la cera/mastica e sputa/dall’altra parte il miele/mastica e sputa prima che metta neve.//Ho visto Nina volare/tra le corde dell’altalena/un giorno la prenderò/come fa il vento alla schiena.//Luce luce lontana/che si accende e si spegne/quale sarà la mano/che illumina le stelle./Mastica e sputa/prima che venga neve.

Vita e morte s’intrecciano e s’incarnano in immagini di grande suggestione. Il ruminare la vita, il distillare il miele eliminando lo scarto, il tempo che ci è concesso (prima che venga neve), l’immagine di Nina, evocata anche nella copertina dell’album, ma che si eleva a misteriosa allegoria. Infine quella stessa mano che accende e spegne. Anche in questo testo ogni elemento di cui è fatto il vivere viene pesato e soppesato, senza mai dimenticare che la materia con cui è fabbricato è spuria (come non ricordare che dai diamanti non nasce niente dal letame nascono i fior), necessita di quel continuo masticare e sputare che lo raffina finché ne è capace. Pensando a queste due ultime canzoni, un’ultima notazione la lascio alla voce di De Andrè, una voce sempre in bilico fra recitativo e canto. È proprio quest’ultima  a far risuonare, anche nei testi più aspri ed espressionisti, quella nota di pietas che affonda le sue radici in un mondo mediterraneo e pagano che De Andrè riscopre, seppure traducendolo nella sensibilità di un cristianesimo tutto suo.