PROMETEO FRA MITO E STORIA

Heinrich Friedrich Füger, Prometeo porta il fuoco all’umanità, 1817

Nel suo contesto mitologico Prometeo è una narrazione molto arcaica, appena successiva a quelle sulle origini del mondo. Figlio del Titano Giapeto e dell’Oceanina Climene, è facile notare come i genitori siano due forze della natura incontrollabili. Egli stesso viene rappresentato come un Titano, ma il personaggio appare ben più complesso perché il suo nome significa – nonostante che ciò sia probabilmente dovuto alla cattiva interpretazione di un termine, come sostiene Graves –1 colui che pensa prima di agire. Questo denota progettualità, un’attitudine che non appare consona a un Titano e che, falsa o meno che sia la sua origine, si manifesta però ampiamente nei suoi comportamenti. Tuttavia, come spesso accade con i miti, essi si ricordano solo per alcuni particolari che hanno colpito l’immaginazione, ma che rischiano anche di ridurre la portata dei personaggi e delle narrazioni. Prometeo, nella vulgata che tutti conoscono, è colui che ha rubato il fuoco agli dei per darlo agli uomini e per questo fu punito da Zeus. La storia è meno lineare, proprio a cominciare dalla sua relazione con Zeus; per questa ragione, in nota, riporto la narrazione intera del mito stesso con l’indicazione di tutte le fonti consultate al proposito.2 Prometeo è un rivoluzionario e questo spiega l’attrazione di Marx per il personaggio, ma anche tale definizione gli va stretta; oppure, dipende dall’estensione da attribuire al termine rivoluzionario. Egli sa tenere testa al potere supremo di Zeus, cerca pure di rovesciarlo, ma sa accettare anche il compromesso. Prometeo, specialmente in alcuni momenti, è la politica al livello massimo della sua nobiltà, ma il suo scontro con Zeus si conclude con un sostanziale pareggio: egli viene liberato, ma la vicenda non si conclude con il rovesciamento rivoluzionario delle gerarchie olimpiche e questo lascia a noi umani il compito di scegliere fra opzioni diverse rispetto alla questione del potere, che è un’altra delle problematiche che il mito solleva. Prometeo, dunque, non è solo la tecnologia, anche se questa è stata la valenza dominante e il modo in cui è stato recepito nella modernità; con il rischio però di considerarla tendenzialmente buona in sé o almeno neutra e neutrale. Rimane però il fatto che rubare il fuoco per darlo agli umani è prima di tutto un atto politico d’insubordinazione.

Ecco come Marx si occupa di lui nella sua tesi di laurea:

La confessione di Prometeo: (“francamente, io odio tutti gli dèi”) è la sua propria confessione, la sentenza sua propria contro tutte le divinità celesti e terrestri che non riconoscono come suprema divinità l’autocoscienza umana. Nessuno può starle a fianco. Alle tristi lepri marzoline, che gioiscono della apparentemente peggiorata condizione civile della filosofia, essa replica quanto Prometeo replica al servo degli dei Ermete:(“io, t’assicuro, non cambierei la mia misera sorte con la tua servitù. Molto meglio lo star qui ligio a questa rupe io stimo, che fedele messaggero esser di Giove”)3

Il modo in cui ne scrive parla da solo: Marx, coglie la determinazione rivoluzionaria di Prometeo, ignora il furto del fuoco e valorizza la sprezzatura nei confronti della divinità suprema e il valore civile della filosofia, che è prerogativa degli umani. Questo aspetto del mito verrà reiterato nei momenti in cui Prometeo si prenderà gioco di Zeus. Marx sembra dunque accogliere il mito, in primo luogo, per rivendicare la libertà dal vincolo religioso. La narrazione del mito, tuttavia, dice anche altro. Prometeo non riesce a rovesciare il potere supremo di Zeus, ma tutto quello che ha voluto fare per il genere umano è stato compiuto e i doni sono il fuoco, l’architettura e la lavorazione dei metalli e dunque non solo la tecnologia ma anche le scienze e in uno spettro molto ampio: l’architettura confina con l’arte. Tuttavia, a Marx sembra sfuggire la parte finale del mito e cioè l’assunzione di Prometeo fra gli immortali, atto che crea una connessione del tutto imprevedibile ma assai vistosa fra divinità e tecnologia: una conseguenza assai densa di futuro infausto per noi. Il riferimento a Prometeo manterrà nello sviluppo dell’opera marxiana, una forte dose di ambivalenza. La convinzione che lo sviluppo delle forze produttive avrebbe portato di per sé alla rottura dei rapporti di produzione si pone in termini deterministi e prometeici, mentre nel discorso sul general intellect, se lo s’intende dal punto di vista politico e cioè come telos rivolto all’autogestione da parte dei produttori e della società nel suo insieme (l’idea di una umanità socializzata evocata nella decima tesi su Feuerbach), il determinismo scompare, oppure è fortemente limitato e l’esaltazione della potenza lascia spazio invece alla cooperazione. Lasciamo a Marx le sue oscillazioni e domandiamoci: possiamo avere noi il medesimo atteggiamento di fronte ai disastri naturali e sociali causati dal sistema capitalistico, che vediamo ogni giorno? Non possiamo più e questo implica la rinuncia a qualsiasi forme di prometeismo intesa come lo è stata in passato, anche nell’esperienza storica del socialismo reale.

In che modo però Prometeo come mito e personaggio è stato accolto dalla cultura occidentale? In nota riassumo rapidamente i diversi modi in cui la sua azione è stata considerata, mentre prenderò in considerazione per esteso soltanto il Prometeo di Goethe, con una precisazione: la sola traduzione in italiano che io abbia trovato è quella di Baioni del 1967. 4 Sarebbe auspicabile che qualcun altro lo faccia. Il testo cui faccio riferimento è dunque quello facilmente reperibile anche in rete, spesso con l’originale in tedesco.

Copri il tuo cielo, Giove,

col vapor delle nubi!

E la tua forza esercita,

come il fanciullo che svetta i cardi,

sulle querce e sui monti!

 Ché nulla puoi tu

contro la mia terra, contro questa capanna,

che non costruisti,

contro il mio focolare,

per la cui fiamma tu

mi porti invidia.

Io non conosco al mondo

nulla di più meschino di voi, o dèi.

 Miseramente nutrite

d’oboli e preci

la vostra maestà

ed a stento vivreste,

se bimbi e mendichi

non fossero pieni

di stolta speranza.

Quando ero fanciullo

e mi sentivo perduto,

volgevo al sole gli occhi smarriti,

quasi vi fosse lassù

un orecchio che udisse il mio pianto,

un cuore come il mio

che avesse pietà dell’oppresso

Chi mi aiutò

contro la tracotanza dei Titani?

Chi mi salvò da morte,

da schiavitù?

Non hai tutto compiuto tu,

sacro ardente cuore?

E giovane e buono, ingannato,

il tuo fervore di gratitudine

rivolgevi a colui che dormiva lassù?

Io renderti onore? E perché?

Hai mai lenito i dolori di me ch’ero afflitto?

Hai mai calmato le lacrime di me ch’ero in angoscia?

Non mi fecero uomo

il tempo onnipotente

e l’eterno destino,

i miei e i tuoi padroni?

Credevi tu forse

che avrei odiato la vita,

che sarei fuggito nei deserti

perché non tutti i sogni

fiorirono della mia infanzia?

Io sto qui e creo uomini

a mia immagine e somiglianza,

una stirpe simile a me,

fatta per soffrire e per piangere,

per godere e gioire

e non curarsi di te,

come me.4

Il testo di Goethe è a mio avviso equamente distante da tutte le interpretazioni più canoniche del mito, citate nella nota precedente. Non so dire se i suoi versi in tedesco siano della stessa efficacia e bellezza di altre sue liriche e forse l’inesistenza di traduzioni recenti potrebbe far pensare che non si tratti dell’opera poetica più riuscita di Goethe; tuttavia, in questa mia riflessione vi è una oggettiva prevalenza del significato simbolico da attribuire alla sua figura mitologica e il testo di Goethe mi sembra a questo proposito sorprendente e anomalo. La prima scelta sorprendente è di far parlare Prometeo, perché in fondo ciò che colpisce nelle altre rappresentazioni è proprio il suo silenzio. Anche nei ritratti in cui è rappresentato dolorosamente angariato dall’aquila, Prometeo sembra quasi assente. Eroe o demone, oppure angelo ribelle a seconda delle interpretazioni, nonostante sia sempre presente in scena, tutto quello che possiamo dedurre del suo pensiero, lo si evince dai gesti e dai comportamenti: anche quando usa la parola – i suoi avvertimenti a Epimeteo per esempio – questa viene riportata da altri. Il tono della voce, nel testo di Goethe, oscilla fra indignazione e dolenza, dolore e invettiva. Il Prometeo di Goethe rifiuterebbe di essere accolto fra gli dei e infatti non vi è alcun cenno a questo nel testo. Vero uomo ma non vero dio, il Prometeo goethiano si distanzia dal tema eroico senza per questo diventare un antesignano degli anti eroi di cui sarà piena la letteratura novecentesca. Rimane un’ultima considerazione e cioè se l’invettiva che Goethe gli fa pronunciare sia nei confronti degli dei olimpici ma risparmi il dio cristiano. Il richiamo all’indifferenza rispetto alle sofferenze umane mi sembra del tutto riferibile anche a quest’ultimo. Goethe però non anticipa la morte di dio nietzschiana, mi sembra piuttosto che tutto il testo sia la dolente constatazione che lo spazio di dio è ormai uno spazio vuoto, che l’umanità se vuole salvarsi devo farlo da se stessa, senza bestemmiare la vita. Mi sembrano decisivi a questo proposito i versi finali che riporto di nuovo  qui di seguito:  

Credevi tu forse

che avrei odiato la vita,

che sarei fuggito nei deserti

perché non tutti i sogni

fiorirono della mia infanzia?

Io sto qui e creo uomini

a mia immagine e somiglianza,

una stirpe simile a me,

fatta per soffrire e per piangere,

per godere e gioire

e non curarsi di te,

come me.  

Joseph Karl Stieler, Ritratto di Johann Wolfgang Goethe, 1828

1 Robert Graves, Miti greci, alla voce Prometeo e Atlante: disponibile anche in rete in formato pdf.

2 Mi sono prioritariamente rifatto all’autorevolezza di Robert Graves, ma anche ad altre fonti, riportate nella Treccani, oppure da Graves medesimo nelle sue note. Come tutte le scelte è discutibile, la motivazione che mi spinge a ritenere la ricerca di Graves fondamentale, è il suo rigore da mitografo nel riportare tutte le versioni conosciute di un mito, con pochi ed essenziali commenti, che lasciano a chi legge le interpretazioni possibili e le ulteriori riflessioni. Le altre fonti principali, peraltro sempre citate anche da Graves, sono indicate di volta in volta. I miei commenti e note redazionali sono in tondo.  

Da un’unione tra il Mare e i suoi Fiumi nacquero le Nereidi. Non esistevano però uomini mortali; finché Prometeo, figlio di Giapeto, con il consenso della dea Atena, non li formò a immagine e somiglianza degli dei impastando la creta con l’acqua del Panopeo, fiume della Focide; Atena soffiò in essi la vita. Prometeo, il creatore del genere umano, che taluni includono nel numero dei Titani, era figlio della Ninfa Climene e del Titano Eurimedonte, oppure di Climene e Giapeto; suoi fratelli erano Epimeteo, Atlante e Menezio. II Gigante Atlante, il maggiore dei fratelli conosceva tutto quanto si cela negli abissi del mare; il suo regno si estendeva lungo una zona costiera scoscesa, più vasta che l’Asia e l’Africa messe assieme. La terra di Atlante giace al di là delle Colonne di Eracle e una catena di isole feraci la separa da un continente più lontano, che non è unito ai nostri …

Prometeo non agisce senza il consenso Atena anche se l’idea di creare il genere umano è sua, secondo questa versione; il particolare è assai interessante, come vedremo meglio nel prosieguo. Il racconto che segue, cioè la leggenda di Atlante, peraltro ben nota perché riferita anche da Erodoto, riguarda marginalmente i temi qui trattati, se non per un particolare che viene evidenziato alla fine, cioè quando si compie la sconfitta dei Titani ribelli. Così prosegue Graves:   

Prometeo, che era più saggio di Atlante, previde come sarebbe finita la rivolta dei Titani e preferì dunque schierarsi dalla parte di Zeus, inducendo Epimeteo a imitare il suo esempio. Prometeo era, in verità, il più intelligente della sua razza; aveva assistito alla nascita di Atena dalla testa di Zeus e la dea stessa gli insegnò l’architettura, l’astronomia, la matematica, la medicina, l’arte di lavorare i metalli, l’arte della navigazione e altre utilissime, che egli poi a sua volta insegnò ai mortali.

 Da questo passaggio si può capire come la capacità politica sia in Prometeo particolarmente acuta, in ogni momento della sua vicenda e sufficiente per dire che il pensare prima di agire sia effettivamente una costante del suo carattere, anche nei momenti in cui sembrerà il contrario. Non è un rivoluzionario astratto, sa destreggiarsi e anche creare il necessario consenso intorno a sé, riconosce l’importanza dei rapporti di forza, ma questo non gli impedisce di giocare le sue carte, a volte anche con ironia, come quando inganna Zeus, usando un trucco persino banale. Da questo momento in poi la narrazione diviene però meno lineare a causa delle interpolazioni che Graves spiegherà più avanti.

Ma Zeus, che aveva deciso di distruggere l’intero genere umano ed era stato distolto da tale proposito soltanto dall’intervento di Prometeo, s’irritò nel vedere gli uomini divenire sempre più esperti e potenti.

Anche in questo caso, egli esercita l’arte della mediazione piuttosto che quella del rovesciamento rivoluzionario.

Un giorno, nella piazza di Sicione, si accese una discussione a proposito delle parti di un toro sacrificato che si dovevano offrire agli dei, e delle parti che gli uomini potevano riservare per sé. Prometeo fu invitato a fare da arbitro. Egli allora scucì e smembrò il toro e ricucì la sua pelle in modo da formarne due grandi sacche, che riempì con le varie parti dell’animale. Una sacca conteneva tutta la carne, ma ben nascosta sotto lo stomaco, che è il boccone meno appetitoso, e l’altra conteneva le ossa, nascoste sotto un bello strato di grasso. Quando le presentò a Zeus perché scegliesse l’una o l’altra. Zeus si lasciò trarre in inganno e scelse la sacca con il grasso e le ossa (che da quel giorno rimasero la porzione degli dei) ma punì Prometeo, che rideva di soppiatto, privando gli uomini del fuoco. «Che mangino la loro carne cruda!» gridò. Prometeo si recò subito da Atena e ottenne che essa lo facesse entrare di nascosto nell’Olimpo. Appena giunto, accese una torcia al divampante carro del Sole e ne staccò una brace ardente, che pose poi entro il cavo di un gigantesco gambo di finocchio. Spenta la torcia, sgattaiolò via senza che alcuno lo vedesse e ridonò il fuoco al genere umano .

Questo passaggio è molto importante e la burla va sottratta alla sua apparente banalità, anche perché altre versioni presentano qualche contraddizione rispetto a questa e sembra che ci sia in questa ricostruzione la sovrapposizione di vicende diverse, come Graves peraltro avverte. L’intento di Prometeo è di dimostrare che gli dei, a cominciare da Zeus, sono in realtà le paure degli esseri umani e questo è l’aspetto di Prometeo che suscitava l’entusiasmo di Marx. Tuttavia, un altro particolare importanza è l’alleanza di fatto che nei momenti più decisivi, Prometeo trova in Atena. Principio femminile che si contrappone a Zeus? Per niente poiché Atena è nata dalla testa del padre e se mai rappresenta l’ambivalenza del maschile di cui Prometo è abile a servirsi ogni volta che lo deve fare. A questo punto, però, la storia s’ingarbuglia ancora di più:

Zeus giurò di vendicarsi. Ordinò a Efesto di fabbricare una donna di creta, ai quattro venti di soffiare in essa la vita, e a tutte le dee dell’Olimpo di adornarla. Codesta donna, Pandora, fu la più bella del mondo e Zeus la mandò in dono a Epimeteo, scortata da Ermes. Ma Epimeteo, che era stato ammonito da suo fratello di non accettare doni da Zeus, cortesemente rifiutò. Sempre più infuriato. Zeus fece incatenare Prometeo, nudo, a una vetta del Caucaso, dove un avido avvoltoio gli divorava il fegato tutto il giorno, un anno dopo l’altro; e il suo tormento non aveva fine, poiché ogni notte (mentre soffriva crudelmente per i morsi del freddo) il fegato gli ricresceva.

Zeus non affronta Prometeo direttamente e questo significa che lo teme. Il tentativo di sconfiggerlo tramite Epimeteo, però fallisce e questo particolare è più importante di quella parte della narrazione che riguarda Pandora, anche perché la connessione fra i due miti appare forzata e lo vedremo meglio subito dopo. Non è per nulla evidente perché proprio Pandora avrebbe dovuto ingannare i due fratelli. Il mito di quest’ultima andrà preso in considerazione in sé per quello che significa da un punto di vista della codificazione patriarcale, ma rispetto al nostro argomento sia l’atteggiamento prudente di Zeus, sia l’ammonizione di Prometeo a Epimeteo, sono ben più decisive. Così prosegue Graves:

Zeus, non volendo ammettere di aver dato sfogo al suo desiderio di vendetta, cercò di giustificare la propria crudeltà facendo circolare una falsa voce: e cioè che Atena aveva invitato Prometeo sull’Olimpo per un segreto convegno amoroso. Epimeteo, angosciato per la sorte di suo fratello, si affrettò a sposare Pandora, che per volontà di Zeus era stupida, malvagia e pigra quanto bella. Subito essa aprì il vaso che Prometeo aveva affidato a Epimeteo raccomandandogli di tenerlo chiuso, e nel quale si trovavano tutte le Pene che possono affliggere l’umanità: la Vecchiaia, la Fatica, la Malattia, la Pazzia, il Vizio e la Passione. Subito esse volarono via a stormo e attaccarono i mortali.

Ancor più di prima la connessione fra i due miti non appare affatto necessaria: che nesso c’è fra la punizione inflitta a Prometeo e la decisione di Epimeteo di sposare Pandora? D’accordo, Epimeteo è un avventato e infatti il suo nome significa colui che pensa dopo avere agito,  ma ci sono troppe contraddizioni e persino sull’apertura del vaso esistono due versioni. In una è proprio lui – Epimeteo – ad aprirlo e non Pandora. Insomma, un guazzabuglio, rispetto al quale tuttavia, ancora una volta Prometeo ne esce bene: è lui ad avvisare il fratello di custodire il vaso senza aprirlo. Le incongruenze nascondono sempre qualcosa di grosso che c’è eccome ed è proprio Graves ad affermarlo nella sua nota numero 8. La leggenda Prometeo, Epimeteo e Pandora, narrata da Esiodo, non è il mito originale ma una favola antifemminista inventata da Esiodo stesso, benché si ispiri alla leggenda di Demofoonte e Fillide. Il vaso di Pandora, in origine, conteneva anime alate. La rivolta dei giganti, di cui il mito di Prometeo è la parte successiva, è narrata essenzialmente da Apollodoro, Pausania e Diodoro Siculo. Euripide scrisse una tragedia dal titolo i Ciclopi. Altre fonti si ritrovano nell’Odissea, Eschilo scrisse una tragedia sul tema ma è andata perduta.

Fra le fonti autentiche citate Esiodo non c’è proprio e, in effetti, egli è poi il primo di una lunga tradizione misogina. Probabilmente il mito di Pandora andrà visto nella sua autonomia rispetto a quello di Prometeo, cercando se mai successivamente intrecci possibili. Il finale di questa parte della narrazione, tuttavia, merita attenzione perché in realtà i finali sono due e la differenza non è da poco. Vediamoli entrambi di seguito.

Ma la fallace Speranza, che Prometeo aveva pure chiuso nel vaso, li ingannò con le sue bugie ed evitò così che tutti commettessero suicidio. (tutti si riferisce al genere umano ndr.)

Solo la speranza, rimasta nel vaso tardivamente rinchiuso, da quel giorno sostenne gli uomini anche nei momenti di maggior scoraggiamento.

La prima delle due versioni attribuisce a una scelta di Prometeo l’avere inserito anche la speranza nel vaso, ma subito dopo ecco la diffamazione nei suoi confronti: seppure in modo obliquo. La speranza sarebbe solo un inganno per il genere umano, ma è lui Prometeo ad averla messa nel vaso e quindi ad averli ingannati. Ora che sappiamo che tutta la vicenda di Pandora va rivista in altro modo e contesto, rimane il tentativo di usarla nel finale per minimizzare l’opera di Prometeo. La seconda versione più neutra, rivaluta la speranza assegnandole un valore positivo. Con la chiusura di questa parte assai accidentata, torniamo alla narrazione principale. Avevamo lasciato Prometeo nel momento in cui, grazie alla complicità di Atena, ridona il fuoco all’umanità e sempre grazie a lei aveva acquisito anche altre abilità, dall’architettura alla lavorazione dei metalli, che aveva di nuovo donate agli umani. Così prosegue la narrazione principale:

Alla fine, non vi erano più qualità da assegnare al genere umano, ma Prometeo rimediò subito rubando ad Atena uno scrigno in cui erano riposte l’intelligenza e la memoria  che donò agli umani. Zeus in quel momento aveva deciso di distruggerli e non approvava la gentilezza di Prometeo per le sue creature; inoltre considerava i doni del titano troppo pericolosi perché gli uomini in questo modo sarebbero diventati sempre più potenti e capaci.

Questo finale appare più realistico nell’indicare le ragioni per cui Zeus decide di punire Prometeo: gli umani sono diventati troppo potenti, grazie a lui, mentre l’ordine degli dei o del solo Zeus era diverso, lasciare gli umani in una sorta di perenne minorità. La parte finale del mito, Graves la lascia ad altri autori, prima di tutto a Eschilo che racconta nel Prometeo liberato che fu Eracle a trafiggere con una freccia l’aquila che tormentava Prometeo e lo liberò spezzando le catene. Secondo il racconto contenuto nella Biblioteca dello Pseudo Apollodoro, durante un incontro tra Chirone  ed Eracle, alcuni centauri  attaccarono l’eroe che per difendersi usò frecce avvelenate da cui non si poteva guarire. Chirone venne inavvertitamente graffiato da una delle frecce. Non potendo morire perché immortale, cominciò per lui una sofferenza atroce. Zeus quindi accettò la vita di Chirone che poté finalmente morire in cambio dell’immortalità di Prometeo.

3 La tesi di laurea di Marx è facilmente reperibile in rete, la citazione in oggetto è riportata su diversi siti.

4 La tesi di laurea di Marx è del ’41 e si inserisce in un contesto in cui il dibattito su Prometeo è assai intenso. Tendenzialmente i romantici lo avevano rifiutato, tranne Shelley, la cui interpretazione è vicina a quella di Marx. Leopardi lo considera uno sconfitto, dal momento che si era fidato di una imperfezione: l’uomo stesso. Tuttavia è con la generazione successiva ai romantici che Prometeo comincia ad essere apprezzato come costruttore di civiltà, cui si oppone invece la reazione religiosa che lo vede come Satana, l’Angelo ribelle. Prevale sempre di più la prima ipotesi, anche perché il positivismo ne fa facilmente un proprio eroe. Il ‘900 non apporterà grandi modifiche a questa declinazione del mito se non nel caso della scrittore svizzero Carl Splitter che accentua i caratteri roussoviani del mito, rappresentando Prometeo come il ribelle che risponde soltanto alla propria coscienza e si batte contro le ipocrisie della morale comune. Infine Gide che lo attualizza e lo vede tormentato dalla propria coscienza piuttosto che dall’aquila che gli rode il fegato.

4 Johann Wolfgang Goethe – Prometeo (poema: Prometheus) (trad. it. di Giuliano Baioni, in Goethe, Inni, Einaudi, 1967)

A PROPOSITO DI CULTURA DI MASSA: IL FESTIVAL DI SANREMO

Jula De Palma

Introduzione

Questo scritto è la rielaborazione di un mio intervento nel dibattito nato su Overleft intorno al cinema del dopoguerra, al quale oltre la redazione partecipò anche Adriano Voltolin, e una mia riflessione precedente sulla canzone italiana. Lo ripropongo in uno dei momenti topici della cultura di massa in Italia.

***

Cameriere e casalinghe di Voghera

Forse ancora oggi non molti sanno che il fotoromanzo nacque nell’immediato dopoguerra proprio in Italia e da qui si diffuse in tutto il mondo. Un libro di Anna Bravo1 ricostruisce puntualmente la storia di questo prodotto made in Italy, niente affatto minore per impatto ad altri ritenuti più paludati e degni d’attenzione. Il libro di Anna Bravo ricorda le riunioni semiclandestine della casa editrice Universo (che con L’intrepido aveva già avvicinato il pubblico femminile al fumetto) e l’uscita – nel giugno del 1946 – proprio di Grand Hotel. Il libro della Bravo è uno strumento ricco e documentato per chi voglia ricostruire al storia di questa vicenda dal dopoguerra in poi che possiamo suddividere in momenti diversi.

La prima fase. La diffusione del fotoromanzo si scontra con la doppia opposizione piuttosto accesa sia da parte cattolica sia comunista, con motivazioni desolatamente ovvie: traviare i giovani spingendoli verso condotte di vita immorali, instupidire il proletariato distogliendolo dalla lotta di classe.

Seconda fase. Nel giro di pochi anni l’atteggiamento del Pci cambia repentinamente. Bravo accenna a un dibattito interno assai riservato, in cui ebbero una parte attiva e alla fine vincente intellettuali come Cesare Zavattini, Damiano Damiani e Oreste Del Buono. Da quel dibattito nacquero imprese editoriali che approdarono direttamente nell’ambito politico durante la campagna elettorale del 1953 (quella della cosiddetta Legge truffa), che fu combattuta anche a colpi di fotoromanzo, con grande panico da parte democristiana che dovette correre ai ripari, vista l’efficacia del genere. Fra le chicche che si scoprono ripercorrendo questa vicenda ci sono anche Andreotti e Scalfaro impegnati nella proposta di fotoromanzi di carattere religioso e, dulcis in fundo, Cesare Zavattini a cui si deve l’idea della rivista Bolero, Oreste Del Buono che per primo si cimenta con una letteratura popolare i cui protagonisti fossero operai e contadini e Damiano Damiani che scrive queste storie.

Tornando a Zavattini, il programma su cui nacque Bolero era molto chiaro: una rivista per le cameriere,  rivolta a un pubblico femminile di lavoratrici e casalinghe. Il genere avrà una sua evidente vitalità fino agli anni Settanta e dei primi Ottanta, con storie che affronteranno temi come contraccezione e aborto. 

La terza fase riguarda il cinema su cui si sofferma il saggio di Voltolin; ma a questo va aggiunto anche un altro aspetto della cultura popolare di quegli anni e cioè i cambiamenti che avvengono nell’ambito della canzone, della musica cosiddetta leggera ed è proprio su quest’ultima che mi sembra importante soffermarsi.

Prima e dopo la guerra

Seguendo una trasmissione di Rai storia dedicata al ‘900, a partire dagli anni ’20, mi ha particolarmente attirato la colonna sonora, fatta di canzoni dell’epoca, di canti fascisti, di altri brani musicali provenienti dagli Stati Uniti, perlopiù swing. Tale sottofondo musicale mi era noto ma mi ha spinto, il giorno dopo, a una maggiore curiosità e quindi ho trascorso la mattinata ascoltando compilation di canzoni degli anni coincidenti con il ventennio fascista; non i canti del regime ma solo le canzoni. Le conoscevo tutte, direi al 90%, molte avrei persino potuto cantarle, tanto le ricordavo bene e la circostanza può apparire strana, visto che sono nato nel 1947. In realtà non c’è nessun mistero, la ragione la conosco benissimo, anche se mi ha colpito la persistenza così forte del ricordo. Mio padre, un artigiano intagliatore del legno, lavorava in casa e aveva sempre la radio accesa come un sottofondo che accompagna ancora oggi la mia vita. Da alunno delle elementari, fui costretto a una lunghissima assenza da scuola per malattia e posso dire che, insieme ai fumetti e alla dedizione di mia madre quando tornava dal lavoro, fu proprio la radio di mio padre e le sue poche parole ad aiutarmi a venirne fuori. Non avevamo il grammofono e il primo giradischi lo ebbi quando frequentavo già le superiori; dal ’56 – se non ricordo male – arrivò la televisione in casa mia, ma io la potevo vedere poco. Quelle canzoni, in sostanza, potevo averle ascoltate solo alla radio e si sono impresse nella mia memoria, tanto da rimanerci fino a oggi. Il risvolto sociale, che mi appare evidente, è che esse erano il marchio di una continuità nazionalpopolare fra l’Italia fascista e quella repubblicana, fino alla fine degli anni ‘50. Quando iniziò la rottura di questo equilibrio? La domanda mi riporta anche al cinema perché fu proprio in alcuni anni chiave fra la fine dei ’50 e gli inizi del ’60, che tutto cominciò a cambiare e fu proprio il cinema da cui prese inizio una cesura e anche una polemica molto aspra fra gli intellettuali vicini al Pci. In  quegli anni, infatti, mentre venivano esaltati Zavattini, Damiani e Del Buono, i registi della seconda generazione neorealista citati da Adriano Voltolin venivano bollati da Aristarco, anch’egli intellettuale di punta del partito, come pornografi dei sentimenti. Come mai?

A mio giudizio le ragioni sono tre, relativamente autonome fra di loro. La prima sta nella diffidenza che la cultura comunista italiana ebbe nei confronti delle avanguardie artistiche e della settima arte, specialmente in quegli anni. Non bisogna dimenticare che la cultura di fondo della dirigenza comunista era profondamente umanistica, molti sarebbero stati dei buoni professori di lettere e di latino. Il nume tutelare di quella cultura era Francesco De Sanctis, reinterpretato da Gramsci.

La seconda ragione sta nella nozione complessa e spesso ambivalente anche in Gramsci, di nazionalpopolare. Il dibattito che precedette la svolta del 1953, con il fotoromanzo, verteva su questo e sul modo di recepire quel concetto. Anche Pasolini, con la sua esperienza di direttore per un anno della rivista Vie Nuove, si pose questo problema e fu in sintonia con Zavattini e gli altri.

Per quanto riguarda il cinema, tutto era diverso perché la sua ricezione da parte della cultura comunista era molto più ambivalente di quanto sembri, come tutte le novità tecnologiche di quegli anni, televisione compresa. Il neorealismo duro dei primi anni del dopoguerra era del tutto conforme alla poetica del realismo socialista reinterpretato in chiave italiana e per questo fu accettato senza problemi; ma già con De Santis regista le cose non sono così semplici come sembrano. Riso amaro suscitò un notevole scandalo nelle sezioni del Pci e Togliatti dovette impegnarsi personalmente in un giro d’Italia nelle sezioni per difendere la pellicola come grande opera sul lavoro. Qual era il motivo dello scandalo? Le cosce delle mondine, che per non bagnarsi gli abiti arrotolavano le gonne per poter svolgere il loro lavoro. Che differenza c’è fra quelle immagini e quelle dei fumetti o fotoromanzi che raccontavano storie spesso anacronistiche rispetto alla vita che facevano i loro lettori e le loro lettrici? La risposta sta nella differenza fra parola e immagine. Le storie popolari di Damiani o le vite di Bolero e Grand Hotel, erano pur sempre letteratura popolare e ubbidivano a un’esigenza di alfabetizzazione di un popolo ancora in larga parte analfabeta che poteva trovare anche in quelle storie uno strumento efficace di acculturazione. Con il cinema del dopoguerra, libero dalle censure e dalla retorica propagandistica fascista, comincia un’altra storia che la cultura comunista cavalcò entusiasticamente con il neorealismo, cominciò a non capire più dalla metà degli anni sessanta in poi finendo per sottovalutarla e poi per subirla. Oppure reagì con una scissione schizofrenica. Da un lato ammiccare agli intellettuali e al pubblico colto osannando Antonioni e fingendo di capirlo, oppure difendendo la tradizione umanistica e popolare fatta di biblioteche delle sezioni tutt’altro che banali per gli anni in cui si formarono e di una letteratura di massa di cui faceva parte anche il fotoromanzo; il tutto però, separato dalla cultura alta che andava per un’altra strada.

Nel mezzo si faceva strada, grazie al cinema, una cultura di massa che preparò molte cose fra cui i movimenti della fine degli anni sessanta, che infatti sorpresero del tutto la cultura comunista: dal quel momento inizia anche il declino politico del partito, nonostante i successi elettorali. Il declino culturale, infatti, viene prima, con buona pace del nesso struttura sovrastruttura, e riguarda proprio l’incomprensione delle dinamiche che andava prendendo la cultura di massa. Ed è qui che entra di nuovo scena una protagonista che sembra minore ma non lo è: la canzone. Pasolini fu un testimone particolarmente importante di questo passaggio. Quando Calvino e Fortini diedero inizio alla polemica sul festival di Sanremo, egli aderì e negli stessi anni, sia Cantacronache, sia altri gruppi si posero il problema di una canzone colta. Un titolo per tutte: Dove vola l’avvoltoio. La polemica però finì nel nulla e il primo a prenderne atto fu proprio Pasolini quando riconobbe che (cito a memoria) niente poteva rappresentare meglio l’estate del 1964 di Sapore di sale di Gino Paoli.

La rottura, però, era iniziata prima: nel 1957 con Come prima di Tony Dallara e reiterata con Nel blu dipinto di blu (1958) cui è associato un ricordo personale, ma che ritengo importante per ragione di costume. Il padre di Dorelli, che aveva cantato con Modugno, era Nino D’Aurelio, tenore il cui nome è oggi sconosciuto ma che allora era un personaggio per Meda, il comune dove ero nato e dove abitavo. Nino morì pochi giorni dopo la fine del festival e il suo funerale fu un evento che portò a Meda insieme a Dorelli, cantanti e relativi codazzi. Il paese si fermò al passaggio del feretro in un silenzio totale. L’immagine di un paese intero bloccato dal funerale di un tenore, seguito da molti altri cantanti e con aspetti di evidente curiosità mondana da parte del pubblico, che nulla aveva a che fare con il lutto, suscitò una predica furente del parroco la domenica. La cosa sorprendente però fu un’altra e cioè che persino a persone discretamente bigotte, fra cui mia madre, quella predica non piacque per nulla: il festival di Sanremo aveva sconfitto il parroco. La cultura di massa si presenta sempre a due o più facce e a volte sono proprio dei cambiamenti in apparenza minori a dare il via a movimenti imprevedibili. Quello che la canzone colta di Calvino e Fortini non riuscì a fare lo fecero personaggi come  Fred Buscaglione – Eri piccola così è del 1958. Tua, interpretata da Jula de Palma è del ’59 e suscitò un mare di polemiche a causa dell’interpretazione particolarmente sensuale, tanto che la Rai non la mandò più in onda. Anche Tintarella di luna è del ’59, mentre Il tuo bacio è come un rock è del ’60. Il meglio, però, doveva ancora arrivare. Gaber e Jannacci, Tenco, Bindi, Lauzi, De Andrè e poi Fossati e tanti altri. Da quel momento cominciò davvero un’altra storia, mentre continuava quella del cinema con Il sorpasso; cominciava invece a ridursi l’influenza del fotoromanzo e finiva davvero il dopoguerra.

***

  1. Anna Bravo, Il fotoromanzo, Bologna, 2003 ↩︎

PENSARE CON I PIEDI

Garrincha

Premessa

Una versione di questo articolo fu pubblicato sulla rubrica culturale del Wall Street Journal Italia nel 2014. Ho modificato il testo in alcune parti troppo datate e aggiunte altre riflessioni più contemporanee.

Ho rubato il titolo di questa riflessione rapsodica ed estiva sul calcio e nel pieno del mondiale femminile che si sta concludendo a uno degli scrittori più grandi che di questo gioco hanno scritto: Osvaldo Soriano, una perdita gravissima per la letteratura mondiale, tanto più dolorosa perché avvenuta in età giovane e nel pieno della sua creatività, il 29 gennaio del 1997. Un ricordo personale mi lega alla sua morte. Nel 1996, pochi mesi prima del suo decesso, partecipai insieme a mio figlio Ulisse al primo Incontro Intercontinentale per l’Umanità e contro il Neoliberismo che si tenne nelle zone della guerriglia zapatista del Messico. A quell’incontro parteciparono anche molti artisti, pittori, scrittori e mi colpì l’atteggiamento di rispetto che quelle popolazioni avevano, con tutti i loro problemi, nei confronti delle arti. La musica, in particolare, essenziale in qualunque momento della vita e a qualunque prezzo. Ci raccontarono delle fughe notturne, mentre erano inseguiti dall’esercito, ma sempre trascinandosi dietro la marimba, lo strumento prediletto dalle popolazione indigene del centro America: e non è come dire fuggire nella giungla con una marimba in spalla, che assomiglia a un piccolo pianoforte! Che anche la letteratura godesse dello stesso credito e rispetto non lo sospettavo, però: fra tutte le arti, è la meno avvicinabile per popolazioni con un tasso scarso di alfabetizzazione. Certo, il sub comandante Marcos era ed è anche uno scrittore, pubblicava racconti con lo pseudonimo da tutti conosciuto di Don Durito della Lacandona, ma sembrava più un suo vezzo che altro. Mi accorsi che non era così quando morì Soriano: ero tornato da mesi dal Messico e la notizia del suo decesso fu un fulmine a cielo sereno. Quello che più mi colpì fu il lutto dell’intera America Latina e quello delle comunità zapatiste. La guerriglia si era fermata, tutti si erano fermati e Marcos aveva parlato dello scrittore argentino nel cordoglio unanime di una comunità di indios, esclusi da tutto, ma che piangevano la morte di uno degli ultimi cantori dell’America latina. Avendoli conosciuti, la vista di quelle donne e di quegli uomini immobili, raccolti in un silenzio teso, mi commosse quanto mai. Nessuno scrittore europeo potrà avere un cordoglio così unanime e sentito. Lo ebbero in passato i grandi maestri della narrativa (i funerali di Victor Hugo per esempio), oppure i jazzisti statunitensi di colore (Charlie Parker), ma sempre più raramente possono più averlo da noi dove da tempo non interpretano più i sentimenti profondi di un popolo: forse sono certi cantautori o interpreti a poter suscitare un’emozione così forte. Le ragioni sono tante e non è il caso di parlarne in questa sede, se non per due di esse che mi riportano anche al tema di queste riflessioni. L’America Latina, pur con tutti i contrasti fra i diversi popoli, ha, fra gli altri, due fortissimi legami comuni, la lingua e l’identità india, riscoperta di recente ma fondamentale quanto mai. Nel vivere collettivamente, in una grande cerimonia corale, il lutto per la morte di Soriano, c’era tutto questo.

Il calcio e i suoi miti

Osvaldo Soriano

Pensare con i piedi è il titolo della sua raccolta di racconti più famosa, con una sezione finale interamente dedicata al calcio. Inizio però da un altro racconto, contenuto in un’opera meno nota, dal titolo Artisti, pazzi e criminali. Il libro raccoglie una miscellanea di scritti che stanno sul crinale fra giornalismo e narrazione. Si tratta di testimonianze in diretta, pubblicate nel supplemento del quotidiano l’Opinion, che si chiamava La Historia de vida. Come s’intuisce dal titolo dell’inserto, il materiale era costituito da testimonianze di vita, raccolte con il registratore. Soriano le trasformava in racconto, cercando il più possibile di rimanere fedele al personaggio intervistato. È un genere che lo scrittore medesimo definisce assai difficile perché, come nel caso in questione, i testimoni non sempre hanno capacità linguistiche e narrative tali da interessare un lettore; ma nello stesso tempo, lo scrittore non può manipolarle più di tanto, ma deve piuttosto lavorare di cesello sul materiale che ha. Il racconto in questione s’intitola Il riposo del re del centrocampo e il personaggio che rende la sua testimonianza, è Obdulio Varela, un nome che starebbe benissimo in un romanzo di Gabriel Garcia Marquez. Anche chi, come il sottoscritto, è un grande appassionato di calcio, forse non lo ricorderà, ma sicuramente non gli saranno estranei altri suoi due connazionali, Alcides Ghiggia e Juan Alberto Schiaffino, gli autori dei due gol che diedero all’Uruguay il titolo mondiale nel 1950 e che hanno ispirato anche una famosa canzone di Paolo Conte: Sudamerica. Obdulio Varela era il capitano di quella squadra, un gigante buono del centrocampo, abituato alla fatica e condannato a Una vita da mediano, come recita la canzone che Ligabue ha dedicato al centrocampista dell’Inter e della nazionale Lele Oriali. In quella memorabile finale del 1950, Obdulio fu cattivo e lucido quanto bastava per mettere paura ai brasiliani. Non si può raccontare con altre parole un brano struggente e perfetto come questo, se non segnalandolo.

A parte qualche incursione poetica (Saba e Pasolini), anche in Italia sono stati i romanzieri a dedicarsi al calcio e direttamente sulla stampa sportiva. Memorabili le cronache di Luciano Bianciardi sul Guerin sportivo diretto da Gianni Brera e altrettanto memorabili quelle di Brera medesimo. Il fuorigioco mi sta antipatico, il titolo con cui da Stampa Alternativa, ha ripubblicato di recente le risposte di Bianciardi alle lettere dei lettori, dimostra una volta di più che il calcio non è l’ultima delle lenti attraverso le quali si può guardare a una società intera. Partendo dal gioco e dalle sue tattiche, Bianciardi metteva alla berlina i vizi nazionali, lo faceva da grande istrione provocatorio qual era, ma sempre documentato, anche in materia calcistica. Un capitolo a parte, meritano poi le radiocronache. Quelle di Niccolò Carosio erano esempi di narrazione orale, talvolta vere e proprio invenzioni che con la partita in oggetto avevano un relazione assai complessa. Carosio veniva dalla retorica fascista, che, seppure depurata, ancora si avvertiva nel tono che usava e nelle cadenze. A lui mi lega un altro ricordo personale. Chi per primo mi avvicinò al calcio e me ne fece appassionare fu mio padre. Proprio con lui, nel 1962, ascoltai la radiocronaca della partita Cile Italia, ai mondiali che si tenevano nel paese sudamericano. La radiocronaca fu un esempio di linguaggio epico moderno. L’Italia, bistrattata da un arbitraggio scandaloso e menata niente male dai cileni, perse due a uno, fra gli alti lai del cronista. Purtroppo per Carosio, di quella partita il film esisteva e molti anni dopo, incuriosito, volli vederlo: l’esito fu grottesco. Carosio aveva trasformato una partita combattuta e che l’Italia aveva giustamente perso, in una battaglia campale, nel racconto della quale confluivano frustrazioni che con il calcio avevano poco a che vedere! Oggi le cronache come quella di cui sopra non sarebbero più possibili: la televisione non permette voli pindarici, le immagini smascherano facilmente la retorica e tutto sommato non è un male. Tuttavia, ogni nuova tecnologia e linguaggio ha la sua retorica e quella di oggi consiste in interminabili chiacchiere sul calcio, ma senza le invenzioni linguistiche che tenevano incollati i lettori agli articoli scritti dai grandi narratori o giornalisti di un tempo. Questo mi riporta al Soriano di Pensare con i piedi. È un libro complesso, che ci offre uno spaccato dell’Argentina con tutti i suoi immaginari: dal mito di Buenos Aires, al tango e naturalmente al calcio. Il nomadismo è un altro tema di fondo di questo romanzo picaresco, insieme alla particolarità della natura argentina, specialmente a sud, dove finisce il mondo, per parafrasare Bergoglio. Proprio nella valle del Rio Negro e in Patagonia, sono ambientati i capitoli finali che danno poi il titolo all’intero libro. Sono tre i racconti più importanti: Il rigore più lungo del mondoIl figlio di Butch Cassidy e Finale con i rossi a Ushuaia, il capoluogo della provincia argentina della Terra del Fuoco. Difficile capire dove finisce la testimonianza e comincia il sogno, quando i personaggi sono inventati, oppure talmente realistici da superare ogni fantasia. Nei tre racconti succede di tutto, ma sull’ultimo in particolare mi soffermo: è la storia di un mondiale di calcio che si sarebbe svolto nel 1942, nella Patagonia argentina, giocato da fuoriusciti dai paesi in guerra e da chi si trovava in Argentina per motivi di lavoro. Secondo la ricostruzione di Soriano, pare che gli indiani mapuche, partecipanti anche loro al torneo, approfittando di una pausa, rubassero le porte dal campo di calcio per impedire la sconfitta della loro squadra! Tutto inventato? Forse no, perché la Fifa ha dichiarato di avere avuto notizia di quello strano torneo, ma di non essere in grado di dire chi lo vinse.

Il calcio oggi

Mi sono chiesto molte volte in che cosa consista il fascino del calcio e perché è diventato lo sport della globalizzazione come nessun altro, tanto da coinvolgere persino gli Stati Uniti. La domanda si ripropone oggi ancora di più perché siamo arrivati a un punto critico: il calcio maschile è in una crisi profonda e rischia di fare la fine della rana cinese di un famoso racconto, che a furia d’ingrassare finì per esplodere. Tenendo sullo sfondo questo scenario che riprenderò nelle conclusioni, provo a suggerire qualche risposta sul perché del fascino di questo gioco, come è nato e come si è evoluto nel tempo. Il football è lo sport moderno, democratico e di massa per eccellenza, legato alla fisicità del corpo, ma senza protesi: anche i casi di doping documentati dimostrano che non portano a nulla, nel senso che in un gioco collettivo con così tanti giocatori in campo, le dinamiche sono troppo complesse.1  La parola democratico forse stupirà, ma proverò a dimostrarlo. Altri due sport condividono lo stesso appeal, il ciclismo e un tempo anche il pugilato, ma il secondo è caduto molto rispetto a decenni fa nella popolarità. Il ciclismo è fatica e mantiene la sua capacità di mobilitare le folle, ma solo in certi momenti. Il calcio è stato lo sport della classe operaia, degli oratori nei paesi cattolici e dei campetti di periferia e sulle spiagge ovunque: per quella strada e nel tempo ha radunato intorno a sé masse di spettatori impensabili per qualunque altro sport: non stupisce che stia avvenendo anche per il calcio femminile, nonostante la scarsa copertura mediatica in Italia, ma non altrove. Quanto alle altre discipline, il paragone con le Olimpiadi della Grecia antica è proponibile solo per l’atletica leggera, perché la distanza fra gli atleti e l’uomo o la donna comuni è tanto grande quanto lo era allora. Vedendo correre Usein Bolt e Marcel Jacobs, assistere ai lanci di una giavellottista come Kelsey Lee Roberts, oppure vedere la campionessa di salto con l’asta Isimbaeva, la sensazione è di guardare delle statue in movimento: si può rimanere stupefatti, ma la distanza che ci separa da loro è incommensurabile: assomigliano di più agli dei di un moderno Olimpo che non a umani come noi. Chi gioca a calcio è diverso dagli altri, anche oggi che è cresciuto il tono atletico e questo vale anche per le donne. Abituati anche per via della pubblicità, ad ammirare i bicipiti di Cristiano Ronaldo, ci sfugge che il calciatore e la calciatrice media sono uomini e donne comuni, a volte persino bruttin*: è sufficiente guardare le formazioni quando le riprese televisive le inquadrano durante l’esecuzione degli inni nazionali. Il caso storico più eclatante, dolce e tragico al tempo medesimo, è quello di uno dei più grandi calciatori di sempre: il brasiliano Manoel Francisco dos Santos, detto Manè Garrincha. Nato nello stato di Pau, egli era un bambino della giungla, che viveva fra fiumi e foresta tropicale. Ingenuo fino poter sospettare una psicologia mai divenuta veramente adulta, fin da bambino fu afflitto da diversi difetti congeniti dovuti alla malnutrizione e addirittura – secondo alcune fonti – a una leggera forma di poliomielite. Oltre allo strabismo, Garrincha aveva la spina dorsale deformata da uno sbilanciamento del bacino, le ginocchia afflitte da disturbi congeniti e operate più volte. Infine, l’ultimo problema, addirittura stupefacente per un calciatore: una gamba sei centimetri più corta dell’altra, a causa di un’operazione! In quale altro sport avrebbe potuto eccellere? Eppure Garrincha fu fra i più grandi di sempre. Il soprannome gli viene proprio dal suo corpo gracile e gli fu dato dalla sorella: la garrincha è un piccolo uccello minuto e simpatico. Al campione brasiliano ha dedicato un racconto assai bello Ugo Riccarelli, lo scrittore romano purtroppo scomparso, nella sua più bella raccolta, intitolata L’angelo di Coppi. La sua storia è costellata di aneddoti che tutti brasiliani conoscono. Uno assai divertente accadde durante la cerimonia di premiazione nei mondiali del ’58 in Svezia. Mentre sfilavano sul palco d’onore Garrincha, del tutto estraneo a quanto stava accadendo e perso nel suo mondo, si rivolse al capitano della squadra chiedendogli:

“Ma cosa sta succedendo?”

“Manè, abbiamo vinto il mondiale” rispose il compagno sorpreso e lui di rimando:

“Sì, ma quando la giochiamo la partita di ritorno?”

Per concludere

Ciò che ingrassa troppo il calcio maschile è notorio: il denaro, ma anche la pretesa che sia uno spettacolo a ciclo continuo, distribuito praticamente su tutti i giorni della settimana per poter alimentare il circo mediatico delle piattaforme. L’anno calcistico scorso e quanto accaduto in questa sessione estiva del mercato costituiscono una ulteriore accelerazione di questo fenomeno. Tuttavia, potrebbe non essere un male che l’Arabia Saudita diventi un cimitero degli elefanti sia per ex calciatori, sia per teleutenti che hanno voglia di spendere soldi per assistere a un finto campionato. Gli altri continueranno a guardare il calcio europeo, che tuttavia perde pubblico in continuazione. Il calcio femminile potrà rilanciare l’interesse verso il gioco? In Italia sembra di no, ma nel nostro caso abbiamo a che fare con lo stereotipo sessista che ha ben altre e più gravi manifestazioni in altri ambiti: dalla violenza maschile sulle donne, alla misoginia diffusa. Solo la rete televisiva LA7 trasmette la domenica una partita del campionato femminile di serie A. Il pregiudizio, poi, che non si tratti di vero calcio, pur non espresso, è largamente pensato. Eppure chi ha assistito all’ultima finale del mondiale femminile fra Inghilterra e Spagna dovrebbe convincersi che di calcio si tratta. Una partita bellissima e avvincente, meritatamente vinta dalla spagnole anche contro il loro allenatore e calciatrici spettacolari come Olga Carmona e specialmente Aitana Bonmatì. Brave anche le inglesi campionesse d’Europa, con una portiera straordinaria  come Earps.

Come andrà a finire? È possibile che il calcio maschile esploda per i suoi debiti e gli stipendi esorbitanti, ma non sarà la fine del calcio. Anche in Italia le squadre con i conti a posto e che fanno campionati brillanti senza spendere molto ci sono già, specialmente in provincia. Qualche tonfo clamoroso ci sarà e c’è già stato: altri ne verranno e non sarà un male.               

Aitana Bonmatì Women’s Champions League – FC Bayern München vs FC Barcelona 21.04.2019

1 Vi è un altro aspetto della modernità nello sport  e cioè le discipline motoristiche, che sono un altro mondo a se stante. Quanto al doping c’è una distinzione da fare fra il doping vero e proprio,i cui casi nel calcio sono molto limitati e l’uso di integratori che probabilmente è causa di patologie anche gravi ma che non erano e non sono considerati doping e sono largamente usati anche da chi fa sport dilettantistico.

UN GIORNO DEVI ANDARE di Giorgio Diritti

Rio delle Amazzoni

Introduzione

Il film va iscritto nel novero delle opere mistiche del nostro tempo, almeno per quello che sembrano le intenzioni del regista. Mi rifaccio all’etimologia della parola: essa comprende in sé i concetti di mistero, del chiudere e del tacere, che sfociano nella contemplazione. Lévy-Bruhl parlava, a questo proposito, di partecipazione mistica per quanto attiene le religioni primitive, cioè quel sentimento che riscontra il sacro ovunque, in qualsiasi fenomeno naturale di una certa rilevanza. Naturalmente, quanto più ci si distacca da quel sentimento effusivo e di fusione con la natura organica, processo che avviene sia con le religioni cosiddette positive sia con la cultura laica e il materialismo moderno, tanto più l’esperienza mistica deve essere anche ricercata, in qualche modo perseguita, con la meditazione, il silenzio, l’ascolto di sé, ricorrendo anche a tecniche appropriate. Tali percorsi sono squisitamente individuali, ma nel concetto di mistico nel senso cui si riferiva Lévy-Bruhl, l’aspetto sociale non poteva essere scisso da quello personale e individuale. Mi avvicino così al film di Giorgio Diritti, considerandolo da quello che mi sembra il punto di vista scelto dal regista, il suo filtro per guardare al mondo e al sociale, presente in quest’opera come nelle precedenti, fin dall’indimenticabile Il vento fa il suo giro. A me sembra che Diritti, con la sua cinematografia, cerchi da un lato di scandagliare alcune esperienze eretiche appartenenti a sensibilità religiose diverse, dall’altro si pone l’interrogativo se l’esperienza mistica sia compatibile con la modernità.

Quattro donne e due comunità

A una prima approssimazione, il film ha una protagonista principale, Augusta, una giovane donna italiana. È la prima che lo spettatore vede sullo schermo e sarà l’ultima a essere inquadrata: o meglio la sua barca. Tuttavia, essa non ha la forza di un’eroina che da sola occupa la scena. Inoltre, pur essendo la prima figura umana che il pubblico vede, di notte, mentre piange sul ponte del battello, la sua inquadratura è preceduta da una lunga sequenza in cui la luna è schermata dalle nubi. L’immagine si trasforma in un quadro dai contorni prima imprecisi, poi sempre più chiari: è un feto nel ventre di una madre. Da quella inquadratura si passa lentamente al volto di Augusta: dunque, è lei che, scorgendo la luna, piange o sogna un figlio.

Augusta è una ragazza molto normale, persino un po’ antipatica, che s’allontana da una storia personale molto dolorosa. Del resto, crisi esistenziale e fuga sono, dagli anni ’60 in poi, un clichè abbastanza praticato dalla gioventù europea. Se mai la curiosità sta nella scelta del luogo dove fuggire: non la Turchia, l’India o il Nepal, ma il profondo sud ovest brasiliano. I silenzi di Augusta, per una lunga parte del film, non sono di meditazione, ma di fastidio, sgomento e fatica a entrare in quel mondo. Per dirla con Chatwin, sembra sempre sul punto di domandarsi: ma che ci faccio qui?

La seconda donna a entrare in scena è Franca, una suora laica cattolica, che percorre il fiume con un battello che serve a tante cose: presidio medico, solidarietà con le comunità indigene più disperse, cui porta cibo, santini e un’evangelizzazione piuttosto ingenua e alla buona, che i bambini sembrano accogliere in modo non troppo convinto.

A queste due prime protagoniste fanno da contrappunto altre due donne e un secondo gruppo, sempre femminile: Anna, madre di Augusta e Antonia la nonna della ragazza.

Vivono in una cittadina del trentino e si dedicano a opere di solidarietà: fanno parte di un gruppo di suore laiche, qualcosa di più e diverso dalle famose dame si san Vincenzo, prima di tutto per la differente estrazione sociale. Il nesso fra le due comunità è molto chiaro: alla staticità della comunità trentina, sostanzialmente dedita alla preghiera, alla raccolta di vestiti, il disegno delle icone e poco altro, si contrappone il dinamismo della comunità cattolica brasiliana, impegnata nella costruzione di pollai e centri residenziali che, al di là di ogni possibile sforzo di fantasia, assomigliano sempre a dei villaggi turistici; naturalmente, il capitale investito viene dall’Italia o da donazioni provenienti dal ricco mondo occidentale. Il missionario barbuto che gestisce capitali e progetti sembra un nonno dei fiori sessantottino che mostra carte, mappe e grafici all’indio che gli sta davanti. Immediato il riferimento al primo film di Diritti, Il vento fa il suo giro: il solerte amministratore locale progressista della comunità occitana, che fa da guida ai giornalisti per promuovere il suo programma di rilancio della valle, ricorda assai il missionario.

Due universi

Il motore del film sta nel rapporto dialettico fra questi due universi, ma è sempre più Augusta a divenire una sorta di catalizzatore telepatico, è lei a mettere in moto il montaggio del film, che passa con sequenze rapidissime da una comunità all’altra, non in base a qualcosa di oggettivo, ma rispetto alle sensazioni, le intuizioni (più spesso quelle di Augusta, ma talvolta provenienti anche dal lontano Trentino innevato). In Brasile domina la difficoltà di comprensione fra indigeni che resistono a ogni forma di cambiamento e una tipologia di missionario che pretende sempre di proporre le migliori soluzioni. Anche la versione più positiva di tale atteggiamento, rappresentato da Franca, la suora laica anziana, si scontra con una realtà che lei comprende fino a un certo punto, e rispetto alla quale non si pone grandi domande: cerca di fare bene il suo lavoro e si accontenta di ciò. Augusta reagisce con insofferenza giovanile, è polemica – a volte gratuitamente – finché non si arriva a una svolta del film, che ne chiude la prima parte: la ragazza decide di lasciare Franca, vuole proseguire da sola il suo viaggio e sceglie di vivere nella favela di Manaus, dove può contare sull’appoggio di una struttura comunitaria anch’essa religiosa. Dalla natura immensa e abbacinante lungo il fiume, si ritrova nell’inferno urbano. Vive presso una famiglia, i cui figli provengono da padri diversi: conosce così Arizete, Janina e Paulo Joao, l’unico con cui pare esservi un dialogo fatto di delicata seduzione. Nella favela di Manaus esplodono tutte le contraddizioni della comunità brasiliana, nella quale Augusta comincia a muoversi con autorevolezza e buon senso. Cerca di aiutare in modo discreto e rispettoso, diverso dai modi delle religiose, tranne in un caso che la spingerà a cambiare di nuovo. Quando il governo il primo governo Lula  propone il trasferimento della comunità in un nuovo quartiere di brutte villette con una sola strada nel mezzo, lei difende l’idea di rimanere nella favela e quando gli uomini lavorano per il nuovo progetto li affronta bruscamente. La risposta piccata di uno di essi la riporta alla realtà, seppure dopo un momento di rabbia. Augusta è pur sempre una gringa, una occidentale, non è la sua comunità quella. Per un istante, anche lei cede al vezzo tutto nostro di sapere sempre quali sono le soluzioni migliori, ma è solo un momento. Quando nella comunità si consuma la tragedia del bambino venduto, ma ritenuto morto annegato, Augusta tira le sue conclusioni: non il ritorno in Italia e neppure la vita nella favela, ma il proseguimento del viaggio in una solitudine estrema. Prima di quest’ultimo passaggio il film ritorna dall’altra parte del mondo. Augusta ha aiutato Jainina a trasferirsi in Trentino per diventare la badante della nonna di Augusta, che muore però dopo poco tempo. Con la preghiera funebre intensissima e anche molto pagana di Jainina il film si congeda dalla comunità trentina.

Favela brasiliana

Quanto ad Augusta,  la natura ritorna prepotentemente a chiamarla a sé e lei vive tutta una serie di esperienze al limite della propria tenuta fisica, ma finalmente entra in contatto con essa. Ce ne accorgiamo perché Diritti si avvale di una finezza della colonna sonora, per molti altri aspetti la sola parte debole del film: Augusta ode per la prima volta in modo vistoso (e anche noi spettatori lo condividiamo con lei), i rumori e i suoni della selva, un linguaggio sconosciuto che fino a quel momento era rimasto ai margini della sua sensibilità uditiva. Sente per la prima volta il luogo, la sua forza, il suo genius, i versi dei piccoli animali, con una intensità che prima le era sconosciuta. La sua casa è un’amaca sotto un grande intreccio di alberi su cui è appesa anche una icona con il volto di Cristo, che lei guarda interrogativamente e intensamente, ma con un fondo di scetticismo.

Con l’immersione piena nella natura inizia e si conclude la brevissima terza parte del film. Augusta vive ormai di quello che trova, come un’arcaica raccoglitrice, oppure di quello che le lascia il pescatore indigeno, senza avere bisogno di alcuna parola, dal momento in cui l’uomo comprende la radicalità della sua scelta di vita. Un giorno arriva alla sua amaca un bambino con cui lei gioca tutto il pomeriggio, felice di ritrovare un contatto umano, ma anche di ritrovare in qualche modo il figlio che, ora sappiamo, lei ha perduto. L’incontro, tuttavia, non è il prodromo a una soluzione di buoni sentimenti: il bambino ritorna a casa sua con i genitori a fine giornata, Augusta ha fatto quello che doveva fare, ma quel figlio non è suo e quando l’ultima scena del film inquadra la punta della sua barca che fende lentamente le alghe, capiamo che Augusta non tornerà, ma che ha imparato a lasciare.

Maschile seriale, donne plurali

I protagonisti maschili del film impressionano tutti per la loro disperante miseria morale e inettitudine (tranne Paulo Joao) e questo è uno dei motivi che corrono sotto traccia rispetto alla trama di superficie e che si rivela alla fine un controcanto importantissimo proprio perché Diritti non voleva fare un film sulle differenze di genere, né ammiccare al femminismo. Perciò l’apparire di queste maschere risulta alla fine potente e miserando al tempo stesso. Del missionario nonno dei fiori ho già scritto, ma anche l’indigeno con la sua staticità, refrattario a qualsiasi cambiamento, per non parlare di quelli che considerano impure le due donne europee. Le espressioni più tragicomiche di questo maschile seriale sono il telepredicatore e il sacerdote (laico o meno non si capisce), che con una radio improvvisata si rivolge dalla poltrona, dalla quale non si distacca quasi mai, all’intera comunità della favela di Manaus. La sua casa con balcone è prospiciente un fatiscente campetto nel quale avvengono tutte le cerimonie pubbliche e gli svaghi di massa della comunità: il ballo, il gioco dei bambini, le partite di calcio. Per fare la radiocronaca degli incontri,  che da quella posizione vede solo in parte, piuttosto che usare un altro stratagemma – per esempio allungare il filo del microfono – scosta la tendina e segue la partita stando sempre seduto. Questa specie di Oblomov della favela non può convincere nessuno e infatti i suoi proclami e le sue prediche vengono seguite nella generale indifferenza. Anche quando difende la comunità e il suo diritto a rimanere nella favela, temendo che il trasferimento ne provochi la disgregazione, non è credibile perché sembra difendere più che altro la sua postazione sul divano di casa. Lo vediamo finalmente in piedi e addirittura a camminare solo una volta, quando segue nelle ultime fila il funerale del bimbo venduto, ma che lui crede come tutti (ma non dovrebbe forse dubitarne visto che sa come vanno le cose?) annegato.

Le case dove si traferiranno sono certamente brutte, il luogo anonimo, ma una comunità non è fatta di persone? Forse c’era anche una qualche ragione nel difendere quel luogo, ma una volta persa la partita non si può ricreare la comunità, seppure in situazioni diverse? Invece reitera le sue stanche critiche al governo, senza fare niente altro. Infatti, anche le donne, che pure hanno qualche dubbio sul trasferimento, non lo ascoltano neppure loro, ma accettano di rapportarsi alla novità!

Il tragico panorama maschile finisce con le due figure più orrende: il padre che vende il figlio al mercante per un po’di denaro e poi lo fa credere annegato e il marito di Augusta, che l’aveva abbandonata dopo che lei aveva perso il figlio.   

Le donne protagoniste del film non sono eccezionali. Tuttavia, hanno quasi tutte una caratteristica che manca in misura maggiore o minore agli uomini: la flessibilità necessaria per aderire al cambiamento anche senza approvarlo del tutto (anche loro hanno dubbi sulla validità del trasferimento della comunità in un nuovo quartiere), ma con una capacità di immergersi nella realtà diversa che si trovano a dover affrontare, di accettarla seppure criticamente. La sola eccezione è Franca, la missionaria che sembra peraltro non del tutto convinta lei stessa di quello che fa: trasmette una sfiducia di fondo che è  un po’ il contraltare dell’ottimismo acefalo del missionario. Quando rimprovera Augusta, specialmente all’inizio del film,  ha spesso ragione, ma è una ragione povera in definitiva, perché non sa rispondere ad alcuna delle domande decisive e ragionevoli che la giovane donna le pone.

Di Anna e Antonia, la madre e la nonna di Augusta non vi è molto da dire. Il solidarismo cattolico è il loro orizzonte, lo praticano come una tradizione che si perde nel tempo e che non viene più interrogata nelle sue ragioni e negli effetti che produce.

Fra le donne della comunità brasiliana è Janina la più interessante. Accoglie la possibilità di un lavoro che aiuterà la famiglia come un’occasione da cogliere subito, si trasferisce in Trentino e nel suo sguardo appare talvolta anche un certo sgomento nel ritrovarsi in un mondo così diverso dal suo; ma fa bene il suo lavoro è attenta e sollecita, ma è di fronte alla morte di Antonia che dà il meglio di sé. È lei che si trova, da sola, ad accompagnare l’anziana donna. Non si scompone, accetta ciò che si compie ai suoi occhi. Alla fine si avvicina al corpo, lo tocca dolcemente in più parti e per ognuna di esse trova le parole giuste per valorizzare ciò che Antonia ha compiuto di buono nella sua vita: nel silenzio e nella solitudine del momento, la sua voce flebile ma chiara e dolce, intona un canto funebre di rara potenza.  

Infine, ancora Augusta che lascio però alle conclusioni.     

Sacro e gratuito nella crisi della modernità     

Questo film contiene in sé la domanda se l’esperienza del mistico possa essere salvaguardata come valore nelle nostre società. La risposta è almeno apparentemente negativa. Il film ironizza – con leggerezza – sulle figure religiose istituzionali. Nel film Il vento fa il suo giro, peraltro, aveva messo in mora la visione illuminista, rappresentata dall’amministratore locale. La forza del cinema di Diritti, tuttavia, sta nelle domande che pone e nella capacità di evitare le risposte semplicistiche. Al centro di questo film a me sembra ce ne siano due.

Vi è prima di tutto una domanda sociale, che si può formulare così: può una comunità fare a meno della gratuità assoluta, del dono senza ricompensa? A tale interrogativo il film non dà alcuna riposta ma invita a guardare comunque a quelle che la politica può fornire: le famose villette brutte erano pur sempre un modo di togliere dalla povertà estrema una comunità di persone. D’altro canto, tutta l’imponente ricerca femminista a partire dagli ’70 ha prodotto dovizia di materiali dai quali si deduce che le nostre società vivono largamente sul lavoro non pagato delle donne. Il fatto che tale problema non sia nell’orizzonte tematico del film di Diritti, non per questo può essere dimenticato e lo riprenderò nelle conclusioni.

La seconda domanda riguarda l’individuo, maschio o femmina che sia. Il finale del film, più drammatico di quanto appaia superficialmente, mi ha ricordato una celebre storia sufi di cui esistono molte versioni: la riassumo.

Un maestro sufi si attarda nel deserto e non s’accorge che la notte sta per arrivare. Quando se ne avvede ne ha paura, ma poi scorge in lontananza una luce che sembra indicare un accampamento. Accelera e infatti scorge tre uomini che stanno discutendo animatamente e piangendo: sono tre fratelli. Non appena lo vedono e riconoscono in lui un sufi, lo accolgono con reverenza e lui chiede quale sia la causa di tale angustia. Il maggiore spiega che è per via del loro padre che li ha lasciati orfani ma ha aggiunto a questo dolore il peso di un’eredità che non possono dividere fra loro: essa è costituita da nove cammelli che l’uomo mostra al maestro. Questi chiede il motivo di ciò e l’uomo spiega che il padre ha lasciato scritto di dividerli in questo modo: due terzi al maggiore dei figli la metà di quelli che rimangono al secondogenito e la metà successiva al terzo: una divisione impossibile per porterebbe a dividere in due uno dei cammelli. Il sufi, allora, si chiude in raccoglimento e traccia dei segni sulla sabbia: alla fine si rivolge ai fratelli e regala loro il proprio cammello.  Con dieci cammelli il calcolo viene perfettamente ma rimane come resto un cammello con il quale il sufi si allontana dall’accampamento mentre i fratelli si abbracciano felici.

Augusta s’allontana da sola con la sua barca, corre verso l’ignoto come il maestro che, lasciato l’accampamento dei fratelli, va verso la notte nel deserto e senza alcuna protezione: può essere un andare verso la morte. Anche la scelta estrema di Augusta, ci consegna un messaggio da decifrare. Mentre vediamo la barca che fende le acque senza che lei venga più inquadrata, in sovraimpressione appare il titolo del film: Un giorno devi andare. La frase si apre a una molteplicità di significati assai ampia. Credo che Diritti volesse sottolineare con essa il senso profondo e il valore della metamorfosi, che non ha un punto d’arrivo e infatti il film si chiude bruscamente su quella immagine. Il destino di Augusta rimane fuori dalla scena così come il maestro sufi, con l’atto finale, esce dal racconto: ciò che entrambi hanno fatto è accettare un cambiamento che per diverse ragioni non potevano rifiutare. Per entrambi è la capacità di lasciare, di non trattenere per sé, di rinunciare al potere che i loro stessi gesti hanno messo alla loro portata. Sembrerebbe dunque di vedere, nell’esperienza di Augusta, la possibilità di far vivere nella nostra contemporaneità, la saggezza che traspare dal racconto sufi, ma in realtà si tratta di un’illusione ottica. Quella del maestro aveva una valenza sociale riconosciuta, quella di Augusta può essere solo una scelta personale, peraltro fondata su due presupposti dai piedi d’argilla: il primo è la possibilità di ripristinare un rapporto armonico con la prima natura, anche quella più estrema. In realtà, le acque che Augusta fende nel finale del film sono quelle della foresta Amazzonica. Da quando la pellicola di Diritti è stata girata a oggi, quella foresta è stata violata e saccheggiata al ritmo della superficie di un campo di calcio ogni 24 ore. Se Augusta non andrà verso la morte, come è probabile sia avvenuto per il maestro sufi, è perché s’imbatterà nelle ruspe di una multinazionale  che  costruisce autostrade nella foresta. Il secondo presupposto sarebbe la possibilità di ristabilire quel rapporto di partecipazione mistica che apparteneva alle religioni animistiche o arcaiche. Augusta forse lo ha pensato quando rivela tutto il suo scetticismo osservando l’icona di Cristo, ma è illusorio pensare di sfuggire alla modernità seguendo quella strada. Questo non toglie valore a lei e alla sua scelta: Augusta, insieme a Janina, è di gran lunga il personaggio più positivo del film, ma del tutto scisso da una dimensione sociale.

Per concludere  

La domanda però rimane: può una società fare del tutto a meno del dono e della gratuità? Il discorso è complesso e travalica il tema di questo scritto, che è pur sempre la riflessione su un film. Essa non può essere continuata qui se non indicando alcuni orizzonti possibili. Il primo riguarda quanto prodotto dal femminismo dagli anni ’70 in poi di termini di lavoro occulto femminile. Il secondo è tutto il discorso sulla cura e i beni comuni. Il terzo riguarda il ritorno in auge del mutualismo e del concetto di mutuo soccorso che peraltro è tanta parte degli albori del movimento operaio. Infine alcune riflessioni che si trovano in due pensatori anomali come Walter Benjamin e Furio Jesi. Mi riferisco in particolare a concetti quali l’illuminazione  profana e il valore del binomio festa/rivolta. Molti di questi temi sono già presenti nel blog in altre rubriche e verranno ripresi in quel contesto. Molte altre riflessioni specialmente su cura e femminismo si trovano anche nella rivista online Overleft.     

Foresta amazzonica oggi

Una prima versione di questo saggio fu pubblicato sulla rivista online Overleft nella rubrica Spigolature

NASCITA E DECADENZA DELLA FAMIGLIA BORGHESE NELLA NARRATIVA EUROPEA.

Introduzione

Una prima versione del saggio qui di seguito fu pubblicato sul numero 21 della rivista Costruzioni psicoanalitiche del 2011 e lo si trova anche nel sito Academia.edu. Lo ripropongo con una precisazione ulteriore e cioè che la riflessione va storicizzata. Il titolo stesso vi allude: si parla di una concezione della famiglia borghese che ha attraversato i secoli, con modificazioni nel tempo, cui corrispondono i diversi capitoli. Vi è però un momento nella storia del ‘900, a partire dal quale non si può più affermare che è nato un nuovo capitolo all’interno di un medesimo percorso, ma piuttosto che è cominciata un’altra storia, che necessita di ulteriori ricerche e anche di nuovi linguaggi. Non solo il concetto stesso di famiglia borghese sembra essersi dissolto, ma il titolo del saggio – che tuttavia ho deciso di mantenere – andrebbe ulteriormente chiarificato dicendo che quel tipo di famiglia era patriarcale e soltanto eterosessuale. Il saggio accenna nel finale, che ho aggiunto recentemente, a queste profonde trasformazioni, ma finisce con quello che almeno per me è il tramonto di una concezione di famiglia, anche se i tentativi reazionari di riportarla in auge nella sua esclusività, sono purtroppo all’ordine del giorno.

Premessa

La narrativa europea è piena di famiglia, di rapporti fra padri e figli, titolo peraltro di un grande romanzo di Turgenev. La difficoltà nell’affrontare un tema come questo, dunque sta nel ridurre il campo d’indagine.

La famiglia che prenderò in considerazione, seppure con qualche ulteriore precisazione strada facendo, è quella borghese, cercando di coglierla in tutti gli aspetti che l’angolo di visuale della narrativa propone. D’altro canto, sarebbe difficile trovare la famiglia come protagonista in epoche precedenti.

La grande poesia europea e la letteratura novellistica che precede la nascita (o rinascita secondo qualcuno), del romanzo, parla molto d’amore, di relazioni fra i sessi, nel Decameron ci sono storie di amanti, di fratelli e sorelle, ma la famiglia in quanto tale non è un oggetto di osservazione, prima di tutto perché è persino discutibile la sua esistenza e quindi, di conseguenza, l’uso stesso di questa parola.

Uno storico di prima grandezza come Lawrence Stone, nel descrivere la decadenza dell’aristocrazia inglese, afferma che essa fu dovuta anche ai rapporti famigliari inesistenti, almeno per come li intendiamo noi. Stone arriva addirittura a mettere in discussione la possibilità del complesso edipico, nell’ambito delle ‘famiglie’ aristocratiche, in quanto i figli raramente avevano un rapporto con i genitori, ma erano del tutto delegati ad altri, dalle balie alla servitù, tanto che egli attribuisce la decadenza – anche da un punto di vista mentale – della nobiltà inglese, al fatto che una delle patologie più diffuse fosse il marasma infantile, un termine che indica la mancanza di punti di riferimento e di figure con cui i bambini potessero confrontarsi e crescere.

Self made men e signorine di buona famiglia

Non esiste una vera definizione a priori della famiglia borghese, ma è possibile ricavarne qualcuna seguendo i grandi romanzi borghesi e quindi prendendo in considerazione un arco di tempo che va grosso modo dalla metà del settecento, per arrivare ai nostri giorni.

Tom Jones di Henry Fielding, pubblicato nel 1749, inizia quando un vecchio signore, recandosi a dormire alla solita ora, si ritrova qualcosa nel letto, precisamente un fagottino con dentro un trovatello. Chiama precipitosamente la governante e decide di prendersene cura. Il trovatello è Tom Jones. Lo ritroviamo giovane uomo che s’innamora di Sofia, figlia di un gentiluomo di campagna, che non acconsente al matrimonio per ragioni classiste. Tom peraltro ha una personalità esuberante che lo mette spesso nei guai; fugge a Londra dove ha una svariata serie di avventure.

Il contraltare di Tom è il signorino Blifil, un aristocratico educato secondo i dettami della sua classe. Dopo una serie di vicissitudini, sarà Tom a sposare Sofia. Al lieto fine, tuttavia, si giunge grazie anche alla scoperta di un misterioso documento, che rivela come Tom non sia affatto un trovatello. L’inganno ordito ai suoi danni aveva lo scopo di escluderlo dall’asse ereditario. Blifil, il cattivo, viene così sconfitto.

Tom Jones è un romanzo che fa da cerniera fra due diverse concezioni della vita e del mondo e dunque anche della famiglia. Blifil reclama per sé un diritto di nascita, in quanto membro dell’aristocrazia, ma la sua classe non può più accedere allo stesso nobile percorso dei suoi predecessori nei secoli precedenti. I nobili, un tempo cavalieri, sacerdoti, o sacerdoti guerrieri, si sono trasformati in parassiti nullafacenti che si aggirano nelle loro proprietà, senza peraltro alcuna capacità di governarle.

Tom, al contrario di Blifil, è una specie di Robinson Crusoe che agisce nella jungla sociale del settecento inglese. Il documento da cui si evince che anche Tom non è un trovatello viene scoperto dopo, quando il matrimonio è già deciso e questo riflette bene la condizione di transizione della società inglese del tempo. Si sta passando da una concezione del matrimonio per cui conta il lignaggio e naturalmente i patrimoni che ad esso si accompagnano a un’altra in cui conta il saper fare, cioè la capacità imprenditoriale che farà, di lì a poco, decollare in Inghilterra la rivoluzione industriale. 

Più o meno contemporaneo al romanzo di Fielding, è invece Il Vicario di Wakefield di Oliver Goldsmith, siamo infatti nel 1776. Questo romanzo è una specie di bibbia della visione della famiglia come luogo in cui prende forma lo stile borghese, ma anche la funzione pedagogica della famiglia stessa. Siamo sempre fra gentiluomini di campagna, la città arriverà dopo e in modi molti più aspri.

Ci si rende più utili a sposarsi e a metter su una bella famiglia che a restar giovanotti e chiacchierare di figliolanza: così almeno ho sempre pensato io. Perciò, scorso neanche un anno da che ero consacrato sacerdote, presi a petto questa faccenda del matrimonio; e scelsi la sposa come ella scelse poi la veste nuziale, cioè non badando all’eleganza ma alla qualità del tessuto.

Questo breve brano e in particolare la sua parte conclusiva illustrano molto bene la morale borghese. Il matrimonio è necessario per regolare la pulsione erotica, deve essere basato sulla solidità morale dei coniugi piuttosto che sulla frivola eleganza. Tutto il romanzo si svolge nel salotto del Vicario, dove sono soliti incontrarsi la sera o il giorno di festa, i notabili della città. Anche i bambini e i giovani sono ammessi all’ascolto, dal momento che i discorsi che vi si tengono sono edificanti. La famiglia, nel romanzo di Goldsmith, diviene la sede dove si forma l’educazione a uno stile.

Della stessa natura, cioè di strumento di educazione e costruzione del galateo borghese e di un’etica borghese, sono i romanzi di Jane Austen: Emma (1815), Orgoglio e pregiudizio (1813) sono piccoli capolavori di un galateo al femminile, ma anche di una prima elaborazione di un pensiero femminile pubblico e autonomo; nonché della difficoltà a farlo vivere. Le protagoniste dei romanzi di Austen sono giovani donne della campagna inglese, che cercano da se stesse una sorta di educazione sentimentale che permetta loro di orientarsi nella scelta di un marito, sempre prese in mezzo fra matrimoni combinati da madri intriganti (come in Orgoglio e pregiudizio) e dai loro continui errori di scelta, come avviene in particolare a Emma. Austen non è sola, è la prima di una serie di scrittrici e pensatrici europee: insieme a lei Madame da Stael, forse la più grande di tutte e poi George Eliot, nome de plume maschile di Mary Ann Evans, le sorelle Bronte, Mary Shelley, Elizabeth Barret.  

Quanto si è visto fino ad ora gira intorno a un concetto di matrimonio ancora molto legato alla contrattualistica; secondo dato ancora più importante, tutti i romanzi fin qui considerati sono ambientati nelle campagne inglesi, dove, grazie alla rivoluzione del ‘600, culminata nel breve periodo della repubblica di Cromwell, era cresciuta una classe media agricola (la gentry), che elaborava un proprio stile di vita borghese e che investiva tutti gli aspetti della vita sociale. In questo mondo matura anche una voce femminile consistente. Possiamo tentare di delineare alcuni pilastri di questo stile: l’importanza del saper fare rispetto al diritto di nascita, la buona educazione dei figli secondo i principi morali di parsimonia, moderazione, decoro. Tutto questo non è poco se noi lo confrontiamo con il passato anche recente rispetto a quell’epoca.

L’idea del matrimonio come ambito in cui avviene l’educazione dei figli e la loro cura e dove i figli sono oggetti d’amore, è un concetto che non esiste nell’aristocrazia; tanto meno nel mondo contadino, dove i figli sono braccia e basta. La gentry inglese di campagna dunque elabora per la prima volta un galateo universale tramite la narrativa e le riviste come lo Spectator. Nasce un pubblico che si forma intorno a questo stile: la pedagogia in ambito famigliare diventa pedagogia sociale. Però, nel tempo stesso in cui questo avviene, le conseguenze della trasformazione dell’agricoltura e della campagna inglese da feudale a capitalistica provocano una massiccia espulsione dalle compagne stesse di manodopera bracciantile e anche di piccola proprietà, che si riversano nelle città dove formeranno l’esercito di fabbrica (nonché quello di riserva) della rivoluzione industriale. A questa enorme massa viene di fatto impedita la possibilità stessa di una vita famigliare, contraddicendo dunque quel galateo universale che abbiamo visto delinearsi e dal quale costoro sono esclusi.

Amore romantico e questione sociale

Nei grandi romanzi urbani del ‘700-‘800 la famiglia semplicemente non esiste: ci sono ladri, avventurieri, avventuriere, puttane, orfani, ragazzini che lavorano venti ore al giorno. Il romanzo sociale sarà uno strumento di denuncia di tale situazione, ma per tornare al tema, di famiglia se ne trova pochissima in opere come Moll Flanders di Defoe, oppure i Miserabili di Victor Hugo, oppure in Vanity Fair, piuttosto che in Oliver Twist. La descrizione degli slums di Londra in Dickens non è diversa da quella che fa Engels, anzi proprio per l’asciuttezza del linguaggio, Engels sembra addirittura essere più efficace:

In Inghilterra durante la rivoluzione industriale , gli industriali introdussero il sistema del lavoro notturno. Gli operai venivano quindi divisi in due gruppi: un gruppo lavorava nelle dodici ore diurne , l’altro nelle dodici ore notturne. Questo lavoro notturno portava l’abolizione del riposo notturno, e non è sostituibile dal sonno diurno. I risultati, inevitabili, erano un grande eccitamento del sistema nervoso, unito dall’indebolimento ed esaurimento generale di tutto il corpo. Inoltre venivano stimolati l’ubriachezza e gli eccessi sessuali. Altri industriali facevano lavorare parecchi operai per trenta – quaranta ore di seguito, e cioè parecchie volte alla settimana. Le conseguenze di questi fatti si manifestarono ben presto: nelle fabbriche aumentava la presenza di storpi, i quali dovevano la loro minorazione unicamente all’eccessivo prolungamento del tempo di lavoro. Questa minorazione, consiste di solito in una deformazione della colonna vertebrale e delle gambe. L’aspetto di questi storpi è caratterizzato dalle ginocchia “voltate” indentro e all’indietro, i piedi indentro , le articolazioni deformate e ingrossate, la spina dorsale incurvata in avanti o lateralmente.           

La contraddizione sociale, però, è solo uno degli aspetti della questione che riguarda l’etica famigliare. La scissione fra la borghesia di campagna che elabora il suo stile e le masse urbane che ne sono escluse, è soltanto il primo atto della tragedia. La scissione, infatti, si ripercuote all’interno della famiglia stessa, in altre forme. Sulla società europea a cavallo fra il sette e l’ottocento e sulla pretesa universalistica di quel modello matrimoniale, si abbatterà il ciclone romantico che noi interpretiamo ormai secondo i nostri cliché e anche secondo la tesi del più importante studioso dell’amore in occidente e cioè De Rougement: l’equivalenza fra follia amorosa e amore. Alcuni romanzi, a cominciare da quelli delle sorelle Brönte, autorizzano ampiamente tale visione. Le tre autrici sembrano incarnare perfettamente il cliché romantico della passione amorosa come tragedia e destino. Muoiono tutte e tre giovanissime, Anne ed Emily di tubercolosi, il mal sottile, un altro dei cliché romantici. L’ultima, Charlotte, muore a 39 anni. Cime tempestose e Jane Eyre sono i due romanzi più importanti. Il primo, in particolare, è la storia di un amore distruttivo.

Questa visione prevalente nel considerare il romanticismo lascia nell’ombra e in secondo piano che il romanzo romantico è anche quello dove si trovano le maggiori esaltazioni del matrimonio, ma a una ferrea condizione: che si tratti di un matrimonio d’amore. La grande novità che il romanticismo porta è proprio questa, non la critica dell’istituzione matrimoniale in quanto tale, ma la critica al matrimonio in quanto contratto sociale.

Dal punto di vista romantico la famiglia non è più interessante in quanto organismo sociale, ma come ambito in cui si realizza l’unione fra l’uomo e la donna, dove il sentimento amoroso arriva alla sua realizzazione. La famiglia romanticamente intesa diventa un microcosmo che viene visto nelle sue dinamiche interne e nelle relazioni fra i coniugi; non scompare la sua proiezione all’esterno, ma s’affaccia all’orizzonte l’introspezione insieme alla profondità psicologica dei personaggi. Possiamo considerare questi romanzi come un’ulteriore elaborazione di quel galateo borghese di cui abbiamo visto alcuni esempi e che arricchisce, per citare il titolo del romanzo di Flaubert: L’educazione sentimentale.

Tuttavia il matrimonio d’amore, pur essendo uno straordinario momento di civilizzazione, non è così facile da realizzare, non solo naturalmente per le condizioni esterne e cioè la lotta contro la visione contrattualistica del matrimonio, ma anche al proprio interno. Un romanzo emblematico come Le affinità elettive ci dice proprio questo ed essendo del 1809, ci dice anche che Goethe ha saputo in quest’opera intravedere il conflitto irriducibile fra l’eros, la passione amorosa e la struttura stessa della famiglia e dell’istituzione matrimoniale. Romanzo modernissimo quello di Goethe.

Esso inizia con due vedovi che si sposano. Edoardo e Carlotta si amavano da giovanissimi, ma le loro famiglie li costrinsero a sposarsi con altri per questioni patrimoniali. L’inizio del romanzo, dunque ci presenta una situazione che conosciamo bene: il contrasto fra amore e contratto matrimoniale. Goethe, con un primo colpo di genio, fa morire precocemente i loro rispettivi coniugi, così che i due possono ritrovarsi e si sposano. La storia potrebbe finire qui: il matrimonio d’amore alla fine vince. Invece la storia vera comincia qui. I due sposi novelli vivono in una grande villa con un parco, Edoardo ha un vecchio amico, un capitano, che decidono di ospitare come una sorta di giardiniere e factotum. Carlotta è incerta, non vuole turbare il loro equilibrio. Lei però ha una figlia di primo letto che si trova in collegio insieme a una nipote, Ottilia e alla fine accetta la presenza del capitano ma chiede a Edoardo che anche la nipote venga a stare con loro. Sottilmente e in modo più o meno inconscio, Carlotta forse accetta il capitano con il pensiero recondito che egli possa essere un buon partito per la figlia, assai sofferente e introversa. Solo che accade qualcosa di diverso. È Edoardo, il marito, a sentirsi sempre più attratto da Ottilia, la nipote di Carlotta, che a sua volta si sente sempre più attratta dal capitano. Tutti e quattro sono consapevoli di quello che sta accadendo, la passione amorosa si contrappone in modo radicale all’istituzione matrimoniale anche nella sua versione romanticamente positiva. Cercano di affrontare la situazione, assumono un atteggiamento responsabile, non ipocrita. Decidono però di scegliere in qualche modo l’istituzione. Il capitano accetta un’offerta di lavoro, mentre Ottilia viene mandata da un’amica della madre Carlotta. Edoardo però non si piega alla rinuncia del desiderio e rifiuta di tornare al loro rapporto come se niente fosse accaduto: così s’allontana anche lui, sognando sempre di ricongiungersi a Ottilia prima o poi. Visto che Edoardo non vive più nella casa, Carlotta e Ottilia continuano a vivere nel castello, finché un giorno Edoardo si decide a chiedere il divorzio alla moglie e questa gli rivela di essere però incinta di lui. Il figlio che nasce, tuttavia, assomiglia al capitano e a Ottilia più che a lui e a Carlotta, e qui Goethe ha un secondo colpo di genio. La questione è psicologica e molto sottile: non si tratta di un banale inganno, il figlio assomiglia a Ottilia e al capitano perché mentre facevano l’amore ognuno dei due e cioè Edoardo e Carlotta sognavano di farlo con i loro rispettivi amanti. Goethe anticipa la psicanalisi e ha sicuramente ispirato un romanzo dei primi del ‘900, scritto da un autore che piaceva moltissimo a Freud: Athur Schnizler. Mi riferisco a Doppio sogno, cui è ispirato anche il film di Stanley Kubrik, Eyes wide shut.

Torniamo al romanzo. Edoardo vuole sistemare le cose, accetta di tenere il figlio ma insieme a Ottilia, non alla moglie. Un giorno lui ritorna al castello e incontra Ottilia che è andata con il bambino a fare una passeggiata. Si baciano di nuovo con passione. Ottilia ne è sconvolta. Mentre attraversa il lago per ritornare a casa assorta nei suoi pensieri, compie un brusco movimento che fa oscillare la barca. Il neonato cade in acqua e annega. La tragedia travolge tutti personaggi.

Questa del figlio morto annegato – una figlia in  quel caso – tornerà in un romanzo del secondo ottocento italiano: Piccolo mondo antico di Antonio Fogazzaro.

La famiglia come istituzione sociale e la famiglia come luogo di realizzazione dell’amore romantico, sono dunque in crisi fin dal loro nascere; lo sono nei grandi romanzi borghesi ma anche nella realtà. Questo non vuol dire che non continuano a esistere famiglie dove il galateo borghese venga praticato, o l’amore perseguito, ma tutto ciò avviene non nel clima idilliaco che abbiamo visto rappresentato nei romanzi della Austen o di Goldsmith, ma nel mezzo di contraddizioni sempre più insanabili e di sofferenze sempre più acute. 

La decadenza

La famiglia amorosa e la famiglia come strumento di educazione sociale, entrambe borghesi vivono scisse l’una dall’altra in molti romanzi ma si ricongiungono di nuovo in una grande opera del 1901: I Buddenbruck di Thomas Mann. Il romanzo è, al tempo stesso, la storia di una famiglia dei capitani d’industria che va verso la decadenza e la rappresentazione della crisi di quel processo di educazione sentimentale e rigore che abbiamo visto nelle opere precedenti. Lo potremmo definire uno dei romanzi capaci di rappresentare come pochi altri l’esplodere di tutte le contraddizioni dell’istituzione famigliare, sia dal suo versante di organismo sociale, sia per ciò che attiene alle relazioni amorose.

Il romanzo inizia con un conversazione affabile che si svolge in un tipico salotto borghese. Si parla d’arte, di poesia, è il trionfo di quel galateo che abbiamo visto costruirsi nel tempo e infatti sembra di essere tornati a casa del Vicario di Wakefield. Siamo nel 1835 e tutta la famiglia è nel salotto perché il vecchio Johann Buddenbruck proprietario della ditta fondata nel 1768, si trova nel momento delicato del passaggio di consegne. Siamo alla seconda generazione ed è qui che cominciano i guai perché i figli non sempre sono meglio dei padri, in ambito borghese almeno, più ancora che non per l’aristocrazia.

Passano gli anni e gli affari non vanno benissimo, i moti rivoluzionari del ’48 fanno la loro parte. All’interno della famiglia è Antoine, detta Tony il personaggio più memorabile. É una ragazza ribelle e inquieta, ma che si sposa male, tanto che i debiti del marito rischiano di riversarsi anche sulla ditta di famiglia. Paradossalmente lei divorzia proprio per preservare la società.

Quando la ditta passa  Thomas, le cose migliorano un po’, ma egli non è solo. Lui è il responsabile capace, ma il fratello Christian è un dissoluto cui piace la vita comoda. Quando torna in famiglia fra i due fratelli è guerra. Tony assiste alle lotte di potere (nelle quali s’inseriscono altri elementi esterni alla famiglia), sempre più delusa e amareggiata, finché la misura diviene per lei colma:

Abituarsi all’ambiente? No, fra gente senza dignità, senza morale, senza ambizione, senza signorilità e senza rigore, fra gente sciatta, scortese e trasandata, fra gente che è allo stesso tempo pigra e leggera, pesante e superficiale… fra gente così non mi posso ambientare…

Tony è proprio il risultato di quella educazione sentimentale che la borghesia ha voluto per lei, ma che ora le si rivolta contro. Tony rimprovera, nel brano appena citato, la mancanza di coerenza, vede lucidamente il fallimento di quel valori intorno ai quali anche lei era stata educata.

Dopo un’alternanza di rovesci e di riprese, nonché il matrimonio della figlia di Tony, si arriva al centenario di fondazione della ditta e cioè nel 1868. L’evento simbolico non cambia il corso degli eventi. I Buddenbruck non falliscono, ma decadono sempre, il marito della figlia di Tony subisce un processo e finisce in galera, tutto si disgrega senza crollare, la borsa e la finanza stanno diventando i nuovi fari dell’economia capitalistica, la funzione imprenditoriale cambia e loro non sono sempre capaci di tenere il passo, ma subiscono anche la concorrenza spietata di altri protagonisti del romanzo, gli Hagelstrom, rivali dei Buddenbruck. Le leggi di una concorrenza spietata hanno una parte nel romanzo ma il messaggio finale, una volta liquidata la ditta, è un altro. Con i Buddenbruck. si dissolve proprio quella capacità imprenditoriale, quel saper fare che avevamo visto incarnato nei suoi aspetti vitalistici da Tom Jones.

Alla fine è Tony che rimane sola a incarnare la famiglia, proprio lei; è benestante come tutti gli altri protagonisti, quindi non è la ricchezza materiale che le manca ma tutto il resto. Ciò che è miseramente fallito è proprio quel galateo borghese che si voleva universale e che invece non regge neppure all’interno della quattro mura domestiche.

Il ‘900

Nel grande romanzo del ‘900, la famiglia di fatto scompare o è di nuovo protagonista laddove lo sviluppo di un’economia capitalistica e di una cultura borghese è stata più tarda, come in Italia, per esempio. In Pirandello e anche precedentemente in Verga, essa è presente, anzi è la cellula primaria che grazie alla cooperazione fra i suoi membri dovrebbe garantire la possibilità di riscatto. Invece, implode internamente e anche come organismo sociale (il ciclo dei vinti). La grande narrativa siciliana, da De Roberto a Tomasi di Lampedusa rappresenta plasticamente la decadenza delle famiglie aristocratiche nel momento in cui Il regno delle due Sicilie sta per cadere. Nel ‘900 esplode la crisi dell’individualità borghese. Da Svevo a Musil, ma anche in Henry James negli Stati Uniti, la dissoluzione del personaggio eroico o almeno forte, è la costante: è il tempo degli uomini senza qualità. In Italia, Il fu Mattia Pascal fugge da se stesso e da ogni legame.

Nel secondo dopoguerra romanzi come Il giardino dei Finzi Contini di Bassani e ancora di più Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, continuano nobilmente quella tradizione borghese che abbiamo visto alle sue origini rappresentata dai romanzi del primo settecento inglese. I valori, i personaggi, il loro modo di agire ricalcano quei modelli, seppure attualizzandoli e collocandoli nella realtà italiana. Una novità di rilievo è la presenza in alcune narrazioni novecentesche, della famiglia operaia: Figli e amanti di D.H. Lawrence in Inghilterra e alcune opere del neorealismo italiano, come Metello di  Pratolini.

Cosa avviene invece, se si va dall’altra parte dell’Atlantico? L’urlo e il furore di Faulkner e Furore di Steinbeck sono forse i romanzi più rappresentativi, rispetto a questa tematica. Entrambi hanno al loro centro la disgregazione di due famiglie. In Furore è la crisi del ’29 a rovinare Tom Joad e i suoi famigliari, mentre nel romanzo di Faulkner la disgregazione della famiglia borghese bianca assume i toni allucinatori e psicotici di uno dei protagonisti (Bengj); oppure quelli cinici di Jason. Il romanzo, un cult della narrativa d’avanguardia, non apporta nulla di nuovo al copione, ma la rappresentazione plasticamente tragica ed espressionista insieme, fanno di questo romanzo un capolavoro.

Nella narrativa più recente quello che appare evidente, anche nei romanzi di intrattenimento, è la presenza di un mondo orizzontale di fratelli e sorelle che sono rimasti senza padri o senza madri: per esempio Caos calmo di Veronesi. Del resto un bel libro dello psicanalista junghiano Luigi Zoja, delinea molto bene la deriva della figura paterna, ricostruendone la storia da Ettore ai nostri giorni: Il gesto di Ettore.

Oppure si affaccia anche nella narrativa la famiglia pedofila o l’abuso: La bestia nel cuore di Cristina Comencini, oppure L’amore molesto di Elena Ferrante. In generale è proprio la società senza padre la protagonista di molta narrativa contemporanea, anche laddove esso sembra esistere ma si presenta nella versione post sessantottina del genitore amicone.

Per concludere

Con quest’ultimo passo si compie un percorso secolare ma al tempo stesso, proprio a seguito dei cambiamenti profondi avvenuti dalla metà degli anni ’60 in poi, sono maturate altre consapevolezze e soggettività che hanno cambiato radicalmente il modo di concepire la famiglia e messo in discussione il concetto stesso di famiglia. Mi riferisco al  femminismo, alla crescita dei movimenti LGBTQ, alla riflessione su genere, classe e sesso. Si può davvero dire che da tutto questo fermento ha preso avvio non un nuovo capitolo, ma un’altra storia e altre scritture. In questa fase, la mia impressione è che la saggistica sia qualitativamente predominante rispetto alla narrativa ed è dunque a tale vasto campo che è meglio rivolgersi.  

I TESTI PUBBLICATI IN QUESTO BLOG SONO DI MIA PROPRIETA’: CONSENTO LA LORO STAMPA IN FORMA CARTACEA PER SOLA LETTURA E LA CITAZIONE DEL MIO NOME IN CASO DI UTILIZZO IN VOSTRI SCRITTI.

NOBEL MANCATI: FABRIZIO DE ANDRÈ

Questo saggio fu pubblicato nel blog Diepicanuova – http://diepicanuova.blogspot.com, – fondato da Paolo Rabissi e da me. L’occasione, allora, fu il dibattito che nacque dopo l’attribuzione del Nobel della letteratura a Bob Dylan, dibattito che si trova e può essere letto nel sito Diepicanuova. Lo ripropongo qui in memoria di Fabrizio de Andrè, nei giorni ci ricordano la sua precoce morte.

Premessa.

L’attribuzione del Nobel a Bob Dylan è ormai metabolizzata alle nostre spalle da tempo e siamo ritornati negli alvei consueti, tutto passa in fretta. Contagiato dalla lentezza, però, ho continuato a ragionare sul senso che possa avere l’assegnare alla canzone d’autore un valore che sia anche letterario. La questione ha una sua importanza, checché ne pensino i poeti laureati, anche perché esistono culture diverse dalle nostre, seppure parenti strette (penso all’America Latina), dove hanno opinioni molto diverse in merito. Così, di riflessione in riflessione, mi sono ritrovato a domandarmi che cosa abbia Fabrizio De Andrè meno di Bob Dylan per essere considerato nel Pantheon degli esponenti maggiori del genere e perché no – visto il precedente illustre – anche meritevole di un riconoscimento letterario. Ho cominciato allora ad ascoltare di nuovo De Andrè, album dopo album, convinto come sono che le antologie (anche quelle di poesia) sono importanti per dare il senso di un periodo letterario, ma sono bugiarde quando sono la rassegna dedicata a un solo autore. Gli album sono come i libri per un autore di canzoni: entrambi sono organismi autonomi e non semplicemente una sequenza di testi e canzoni. Le antologie, invece, tendono per forza di cose a scegliere fior da fiore, ma in questo modo si perde il lavorio che sta alle spalle di un libro come di un album, ma anche a considerare minori delle canzoni o poesie che non lo sono affatto.

La prima fase

Il primo album registrato da De Andrè, nonostante alcuni 45 giri precedenti e un long playing, è Volume 1 del 1967, un titolo anodino ma anche leggibile oggi in altro modo. A un semplice ascolto dopo tanto tempo, l’impressione è grande. Durante gli anni ’60 ci sono state molteplici rotture culturali e politiche. Nel campo della canzone ebbero di certo la loro importanza Modugno e i cantautori genovesi; inoltre, c’era stata la polemica di Calvino, Pasolini e Fortini contro il Festival di Sanremo, che aveva portato fra l’altro al rilancio della canzone popolare e operaia con Cantacronache e poi il Nuovo Canzoniere di Michele Straniero. Si trattò di operazioni meritevoli, ma con lo sguardo rivolto a un passato che andava di certo conservato, ma che non poteva avere alcun impatto sulla cultura di massa che si stava formando: lo avrebbe avuto dopo il ’68 per ragioni politiche. Il festival di Sanremo non andava aggredito per contrapposizione e Pasolini fu il primo ad accorgersene quando ammise (cito a memoria) che niente altro poteva rappresentare l’estate del 1964 meglio di Sapore di sale di Gino Paoli. Occorreva un’operazione diversa e cioè portare la canzone popolare e di massa a un livello più elevato anche dal punto di vista dei testi, togliendo così centralità al Festival. Ascoltando il primo album di De Andrè, si coglie il senso di una frattura profonda con quanto si cantava in precedenza; a cominciare da Preghiera di gennaio, la canzone d’apertura che egli scrisse dopo il funerale di Luigi Tenco. Versi in difesa dei suicidi come:

Lascia che sia fiorito, Signore, il suo sentiero […] perché non c’è l’Inferno nel mondo del buon Dio […] l’Inferno esiste solo per chi ne ha paura

aprono un orizzonte nuovo e se pensiamo proprio al confronto con Tenco medesimo e aldilà della loro amicizia, la separazione dal gruppo genovese è netta. Iniziò allora una stagione veramente importante, anche grazie all’intuizione di Amilcare Rambaldi, che seppe metabolizzare la morte di Tenco fondando il club omonimo che divenne il polo intorno al quale cominciò a coagularsi il meglio della musica italiana d’autore. L’operazione ebbe anche un successo commerciale, visto che si vendeva e si ascoltava di più quello che non andava a Sanremo piuttosto che quello che ci andava.  

L’album contiene alcuni dei suoi brani memorabili come Bocca di Rosa e la Ballata di Re Carlo, tuttavia è sulla sua prima parte che vorrei soffermarmi, perché in essa è presente la visione di un cristianesimo anti istituzionale che ricorda l’analoga operazione compiuta da Dario Fo più o meno negli stessi anni: distaccare la figura di Gesù da ogni orpello chiesastico. Mi riferisco a brani come la già citata Preghiera di gennaio, Spiritual e Si chiamava Gesù. Questo tema di un cristianesimo vagamente anarchico e antistituzionale, fondato anche sui Vangeli Apocrifi, che tanto entusiasmava un uomo e un sacerdote come Don Andrea Gallo, verrà ripreso da De Andrè anche in alcuni degli album successivi e prima di tutto in La buona novella.

Nella seconda parte di Volume 1, con Via del Campo, entrano in gioco i temi che saranno – in ogni album – i suoi più forti: gli emarginati, gli anarchici, i ribelli, le puttane e i loro clienti, la critica dell’ipocrisia e del perbenismo borghesi, il rifiuto di ogni potere e della sua giustizia (“non ci sono poteri buoni”).

Dall’esistenzialismo alla ribellione

Il contesto sociale che fa da sfondo alla poetica di De Andrè durante il corso degli anni ’60 è la Genova città di porto più che terzo polo industriale del triangolo: con le sue taverne più che non le sue industrie, la famosa via Prè che corre in parallelo alle grandi strade, che si apre ad altri vicoli e ai suoi umori e personaggi. Questa realtà però si tinge di colori espressionisti e visionari, sia risalendo a fonti letterarie come Villon e Angiolieri, sia andando indietro nel tempo, riscoprendo sonorità a ritmi che si richiamano a un medioevo genericamente inteso o comunque rivolti a un passato che a Genova è stato peraltro assai fiorente. Nella Genova contemporanea, come altrove, prevalevano – negli artisti più inquieti – gli umori esistenzialisti, i riferimenti erano Parigi, Prevert, Sarte ma, specialmente per il gruppo genovese, Juliette Greco, Brel e Brassens. Nel tempo, però, tali umori diventarono una gabbia per la maggioranza di loro, dalla quale non usciranno mai. Per tutti l’estenuato Tenco, il cui tragico destino non può far dimenticare, a decenni di distanza, la sua troppo esibita malinconia esistenziale, condita da quantità industriali di narcisismo. In Italia stavano cambiando molte cose e il solo a uscire dalla gabbia fu proprio De Andrè, perché già in origine la sua poetica si nutriva di riferimenti che spaziavano in molteplici direzioni, fra cui la poesia. De Andrè non fu vicino al ’68 perché troppo lontano da ogni tentazione militante, tanto da essere ritenuto addirittura una spia dalle componenti più settarie e idiote delle nascenti forze partitiche extra parlamentari; il paradosso sta nel fatto che anni più tardi fu proprio lui a diventare oggetto delle attenzioni dei servizi segreti! Egli seppe però cogliere il cambiamento, scegliendo anche nei suoi riferimenti d’oltralpe, chi anche in quel contesto sapeva interpretare meglio lo spirito dei tempi: Vian piuttosto che l’eterno adolescente Prevert.        

Gli album successivi al primo riflettono questi mutamenti, sia per la concentrazione in pochi anni, sia per i toni espressivi interni a ciascuno di essi, tanto da segnare il passaggio dagli esordi a una prima fase di maturità: Tutti morimmo a stento (1968), Volume III, sempre del ’68; poi Nuvole barocche (1969), che comprende anche tutte le canzoni precedenti l’anno d’esordio. Questo ciclo si conclude nel 1973 con Vita di un impiegato, ma a metà di esso e cioè nel 1971, si colloca Non al denaro, non l’album minore di questo periodo, nonostante La canzone dell’amore perduto peraltro presente anche in altri long playing. Volume III contiene alcuni dei suoi capolavori fra cui un’impareggiabile versione de Il Gorilla di Brassens, La guerra di Piero, Amore che viene amore che va.

Tuttavia, è sull’ultimo album di questo periodo, Storia di un impiegato, che mi sembra utile soffermarsi, perché si distanzia dai precedenti proprio perché affronta criticamente e anni dopo, il movimento del ’68 e tutto quanto se sortì. La critica di sinistra lo accolse male ma anche al di fuori di quell’ambito, fu considerato un flop. De André stesso in un’intervista, ne parlò in questo modo:

 La “Storia di un impiegato” l’abbiamo scritta, io, Bentivoglio, Piovani, in un anno e mezzo tormentatissimo e quando è uscita volevo bruciare il disco. Era la prima volta che mi dichiaravo politicamente e so di aver usato un linguaggio troppo oscuro, difficile, so di non essere riuscito a spiegarmi.

Nella dichiarazione di cui sopra c’è quasi tutto, nel senso che emerge da essa la difficoltà di De Andrè nel rapportarsi ai movimenti di quegli anni, ad affrontare direttamente una tematica politica ma anche l’onestà intellettuale di avere cercato di farlo. La scelta stessa di scrivere la storia di un impiegato rivela prima di tutto la sua difficoltà a rapportarsi con la classe operaia; a differenza di Jannacci a Milano, per esempio. Anche nelle canzoni di quest’ultimo non mancano barboni, prostitute e clienti, solo che tali figure assumono maggiormente aspetti caricaturali e comici, mentre i veri personaggi drammatici delle canzoni più alte di Jannacci sono le vincenzine, cioè le operaie, le commesse, le lavoratrici che diventano metafora della fatica proletaria. Nonostante vivesse nella città dei portuali che nel 1960 erano stati protagonisti di una memorabile stagione di lotta che apriva il decennio che avrebbe portato al ’68, De Andrè non li vede, forse non è in grado di vederli perché il suo occhio vede altro. Tuttavia, era proprio così sbagliata l’idea di mettere un impiegato al centro della scena? Uno degli aspetti nuovi delle lotte di quegli anni non era forse costituito proprio dalla presenza di un forte movimento studentesco e di una saldatura fra operai, impiegati e tecnici dentro le fabbriche? A Milano, in anni precedenti, gli impiegati, le commesse, i goliardi delle serali, non erano forse stati i protagonisti del poemetto La ragazza Carla di Elio Pagliarani e de La capitale del Nord di Giancarlo Majorino? Non sarà proprio un perito tecnico impiegato alla Sit Siemens a diventare il leader delle Brigate Rosse? Allora, al netto di certe prese di posizione troppo emotivamente datate, si può affermare ad anni di distanza che si tratta di un album minore rispetto a quelli citati in precedenza, ma che in esso è presente un testo come Il bombarolo, che, proprio nella sua ambivalenza, indica una possibile parabola che accompagnò il decennio ‘70 come una nuvola scura. La radicalizzazione un po’ astratta e troppo recente da parte di ceti in ombra fino a un decennio prima, poteva portare anche a derive di varia natura. Parlo di ambivalenza perché Il bombarolo incarna una figura estrema e opaca al tempo stesso, che poteva prestarsi o essere usato sia a sinistra sia a destra. Se vi è una eco, nella canzone, delle tendenze anarchiche De Andrè, il personaggio appare segnato da un’ambiguità che lo corrode dall’interno.

Chi va dicendo in giro/che odio il mio lavoro/non sa con quanto amore/mi dedico al tritolo,/è quasi indipendente/ancora poche ore/poi gli darò la voce/il detonatore.//Il mio Pinocchio fragile/parente artigianale/di ordigni costruiti/su scala industriale/di me non farà mai/un cavaliere del lavoro,/io sono d’un’altra razza,/son bombarolo.//Nello scendere le scale/ci metto più attenzione,/sarebbe imperdonabile/giustiziarmi sul portone/proprio nel giorno in cui/la decisione è mia/sulla condanna a morte o l’amnistia.//Per strada tante facce/non hanno un bel colore,/qui chi non terrorizza/si ammala di terrore,/c’è chi aspetta la pioggia/per non piangere da solo,/io sono d’un altro avviso,/son bombarolo.//Intellettuali d’oggi/idioti di domani/ridatemi il cervello/che basta alle mie mani,/profeti molto acrobati/della rivoluzione/oggi farò da me/senza lezione.//Vi scoverò i nemici/per voi così distanti/e dopo averli uccisi/sarò fra i latitanti/ma finché li cerco io/i latitanti sono loro,/ho scelto un’altra scuola,/son bombarolo.//Potere troppe volte/delegato ad altre mani,/ sganciato e restituitoci/dai tuoi aeroplani,/io vengo a restituirti/un po’ del tuo terrore/del tuo disordine/del tuo rumore.//Così pensava forte/un trentenne disperato/se non del tutto giusto/quasi niente sbagliato,/cercando il luogo idoneo/adatto al suo tritolo,/insomma il posto degno/d’un bombarolo./C’è chi lo vide ridere/davanti al Parlamento/aspettando l’esplosione/che provasse il suo talento,/c’è chi lo vide piangere/un torrente di vocali/vedendo esplodere/un chiosco di giornali. //Ma ciò che lo ferì/profondamente nell’orgoglio/fu l’immagine di lei/che si sporgeva da ogni foglio /lontana dal ridicolo/in cui lo lasciò solo,/ma in prima pagina/col bombarolo.

Forse, concludendo questa parte si può dire che non era nelle sue corde affrontare di petto una tematica politica e che i conti con il ’68 li aveva già fatti, a modo suo, altrove, nella riscrittura dell’Antologia di Spoon River.

L’album chiuse un periodo dalla sua produzione, cui seguì una lunga crisi creativa, che tuttavia vide anche l’inizio di nuove collaborazioni proficue (con De Gregori e più tardi con Bubola), traduzioni di canzoni di Cohen, Dylan e altri e una serie di pubbliche esibizioni. Non intendo in questa riflessione seguire un percorso storicistico e dunque salto direttamente all’ultimo De Andrè, quello di Crêuza de mä (1984) e di Anime salve (1996), sebbene nel mezzo un album come Rimini (1978), sia tutt’altro che disprezzabile.

I grandi album

Il vertice dell’opera di De Andrè si trova a mio avviso nei due ultimi album e in quello già citato del 1971: Non al denaro, non all’amore né al cielo.

Crêuza de mä è un’opera del tutto nuova rispetto alle precedenti, che apriva una strada interrotta purtroppo dalla precoce morte: l’attenzione verso la musica etnica, le sonorità mediterranee e le lingue minori. La scelta di scrivere i testi in genovese lo testimonia. Non sono in grado, mi mancano le competenze per farlo, di valutare quale apporto linguistico esso dia alla koinè ligure e genovese che, ancora negli anni ’60, esprimeva autori che andavano ben oltre la commedia dialettale nel teatro (Govi) e che avrebbe espresso poeti come Roberto Giannoni e Paolo Bertolani. Da semplice ascoltatore c’è un dato sorprendente che mi ha colpito subito: il mare, in fondo poco presente nella produzione precedente di De Andrè, diventa il primo protagonista di questo album, un mare che si avverte prima di tutto nelle cadenze ritmiche della partitura musicale. Il merito, in questo caso, non è soltanto suo ma anche di Mauro Pagani.

Anime salve è una lunga meditazione sulla vita e sulla morte, dove precipitano in un’opera compatta e rigorosa tutti i temi della sua poetica, ma anche i diversi stili e timbri musicali, in questo aiutato dalla collaborazione con Ivano Fossati. Viene ribadita anche l’attenzione verso le sonorità mediterranee e le lingue minori (Â cúmba è scritta in genovese). Prinçesa, il brano d’apertura, ci dice fra l’altro quanto tempo sia passato dalle taverne di via Prè, dagli emarginati dei vicoli genovesi, dal porto ormai in parziale disarmo. Lo scenario è diventato globale e De Andrè lo coglie nella storia di un bambino brasiliano che si sente donna e si sottopone a tutta la trafila di dolore e umiliazioni possibili fino ad approdare fra le braccia di un avvocato milanese: l’alternarsi della lingua italiana con quella brasiliana riprende nel testo l’attenzione vero gli altri idiomi di cui si è detto.

Il sodalizio fra Fabrizio De Andrè e Fernanda Pivano nacque intorno all’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters e portò all’album che a mio avviso è il suo più grande: Non al denaro, né all’amore né al cielo (1971). Pivano in alcune interviste disse che De Andrè, in alcuni casi, aveva fatto anche meglio del poeta statunitense. La critica milanese amava di certo le iperboli, ma in questo caso mi sento di condividere quello che afferma. De Andrè non traduce i testi ma li riscrive, rispettando solo il pilastro fondamentale su cui si regge l’opera di Masters: la riproposizione in chiave moderna della dantesca legge del contrappasso, fondata sulla similitudine piuttosto che sulla metafora. Per il resto compie un’operazione del tutto diversa e in una direzione opposta. Masters scrisse una commedia umana in versi, fondata sull’equilibrio fra il microcosmo (la piccola comunità di un paese) e il macrocosmo che consiste nella dilatazione delle vicende, delle tipologie umane fino ad abbracciare per intero quella comunità, ma anche alludere a un’infinità di situazioni diverse: il piccolo paese diventa così un’allegoria dell’umanità intera. Perciò l’Antologia è una narrazione epico-lirica, a tratti sapienziale, che ritorna sulle stesse situazioni e tipologie di personaggi più volte. De André, dopo l’omaggio a tutti i defunti della comunità nel brano di apertura (La collina), distilla al massimo, riducendo la sua opera a un solo testo emblematico per ogni tipologia e situazione: una scelta metonimica, che mantiene, anzi esalta, la similitudine e la legge del contrappasso. De Andrè riesce a tenere in tutto l’album un livello altissimo di tensione. Non vi sono brani minori in questo album, governato da una rigorosa unità di stile e di scelte. Per darne un esempio, dunque seguirò semplicemente il mio gusto, scegliendo un testo soltanto, che riprende uno dei temi più cari di De Andrè fin dal primo album: la diffidenza verso ogni forma di potere giudiziario:  

Un Giudice

Cosa vuol dire avere/un metro e mezzo di statura,/ve lo rivelan gli occhi/e le battute della gente,/o la curiosità/d’una ragazza irriverente/che vi avvicina solo/per un suo dubbio impertinente://vuole scoprir se è vero/quanto si dice intorno ai nani,/che siano i più forniti/della virtù meno apparente,/fra tutte le virtù /la più indecente.//Passano gli anni, i mesi,/e se li conti anche i minuti,/è triste trovarsi adulti/senza essere cresciuti;/la maldicenza insiste,/batte la lingua sul tamburo/fino a dire che un nano/è una carogna di sicuro/perché ha il cuore troppo/troppo vicino al buco del culo.//Fu nelle notti insonni/vegliate al lume del rancore/che preparai gli esami/diventai procuratore/per imboccar la strada/che dalle panche d’una cattedrale/porta alla sacrestia/quindi alla cattedra d’un tribunale/giudice finalmente,/arbitro in terra del bene e del male.//E allora la mia statura/non dispensò più buonumore/a chi alla sbarra in piedi/mi diceva “Vostro Onore”,/e di affidarli al boia/fu un piacere del tutto mio,/prima di genuflettermi/nell’ora dell’addio/non conoscendo affatto/la statura di Dio.   

La lingua fra poesia e musica  

Uno dei leit motiv che la critica letteraria e anche i poeti rivolgono a chi pensa si possa dare un valore letterario ai testi delle canzoni dei maggiori autori, è che mentre la poesia avrebbe la musicalità incorporata nel testo, la canzone deve ricorrere a un artificio: la musica si pone come esterna e spesso prevarica il testo, piegandolo alle proprie esigenze ritmiche e sonore. Questo discorso è vero solo in parte o lo era quasi totalmente per il melodramma, quasi senza eccezioni. La canzone d’autore è nata e si è evoluta su altri presupposti. Gli autori più importanti padroneggiano entrambi i linguaggi, non ricorrono a parolieri, spesso sono autori anche di versi e raccolte poetiche (Dylan, Vincius de Moraes) e il problema è l’equilibrio che riescono a ottenere fra i due linguaggi: nel caso di De Andrè tale equilibrio è sempre presente nella sua produzione anche se non sempre gli esiti sono dello stesso livello. La scelta della Ballata come genere che può essere sia musicale sia poetico, lo favorisce in questo, almeno nei suoi album maggiori. Tuttavia egli stesso, parlando della propria musica, tenne sempre un profilo piuttosto basso, affermando per esempio che suo figlio Cristiano possiede una cultura musicale migliore della sua. Diamo per scontato un eccesso di affetto paterno in questa dichiarazione, ma è pur vero che De Andrè ricorse sempre a collaborazioni eccellenti. Vi è in ogni caso molta più coerenza, non solo tematica ma di stile, nei suoi testi che non nella partitura musicale assai eclettica, tanto da pensare che nel suo caso è proprio la musica a piegarsi alle esigenze del testo; vale allora la pena di guardarlo più da vicino.  

Pur ricorrendo quasi sempre alla Ballata, De Andrè non sceglie l’ottonario (il verso per eccellenza della ballata come testo poetico), ma più spesso il settenario o l’alternanza fra settenari e novenari, tranne quando la scelta dell’ottonario è imprescindibile per ragioni di ritmo. In qualche caso il doppio settenario si alterna a novenari; raramente ricorre l’endecasillabo, ma piuttosto al verso di dieci sillabe della poesia inglese, aggiungendovi spesso un piede. Tutto questo non è casuale: la coerenza è alta e se in qualche caso, come ne Un giudice riportato più sopra, vi è qualche scostamento rispetto a tale norma in altri casi il rispetto è rigoroso. L’attenzione alla metrica da parte di De Andrè può essere colta anche nella rara presenza di endecasillabi, il verso d’eccellenza della poesia italiana ma che, spesso ridondante in sé anche sulla carta, lo sarebbe ancora di più se associato alla musica. Per chi pensa ancora anche la metrica sia casuale, suggerisco di scegliere uno o due testi fra i migliori di Mogol-Battisti e confrontarli con quelli di De Andrè. La casualità delle scelte nel primo caso è evidente, se ci sono righe che potrebbero far pensare a versi, ciò avviene per caso e perché il linguaggio è almeno in parte sempre ritmico e scandito, persino nei momenti più comunicativi: vado a fare la spesa è un settenario. In De Andrè c’è sempre la ricerca di una regola dalla quale si può scartare a volte (il ritmo musicale ha in suoi diritti e li fa valere), ma sempre dentro un contesto di ricerca di equilibrio fra i due linguaggi.

Lo stile, la voce, la pietas

Concludo con una riflessione su due testi che permettono di tornare alla radice più  profonda di tutta l’opera di De Andrè: la pietas, che diventa un elemento portante del suo stile e che fu anche la strada maestra che lo portò lontano dalle secche dell’esistenzialismo. Il primo brano è ispirato dall’Antologia: Un chimico. Il secondo è Ho visto Nina volare da Anime salve.

Un chimico.

Solo la morte m’ha portato in collina
Un corpo fra i tanti a dar fosforo all’aria
Per bivacchi di fuochi che dicono fatui
Che non lasciano cenere, non sciolgon la brina
Solo la morte m’ha portato in collina

Da chimico un giorno avevo il potere
Di sposar gli elementi e farli reagire
Ma gli uomini mai mi riuscì di capire
Perché si combinassero attraverso l’amore
Affidando ad un gioco la gioia e il dolore

Guardate il sorriso guardate il colore
Come giocan sul viso di chi cerca l’amore
Ma lo stesso sorriso lo stesso colore
Dove sono sul viso di chi ha avuto l’amore
Dove sono sul viso di chi ha avuto l’amore

È strano andarsene senza soffrire
Senza un volto di donna da dover ricordare
Ma è forse diverso il vostro morire
Voi che uscite all’amore che cedete all’aprile
Cosa c’è di diverso nel vostro morire

Primavera non bussa, lei entra sicura
Come il fumo lei penetra in ogni fessura
Ha le labbra di carne, i capelli di grano
Che paura, che voglia che ti prenda per mano
Che paura, che voglia che ti porti lontano

Ma guardate l’idrogeno tacere nel mare
Guardate l’ossigeno al suo fianco dormire
Soltanto una legge che io riesco a capire
Ha potuto sposarli senza farli scoppiare
Soltanto la legge che io riesco a capire

Fui chimico e, no, non mi volli sposare
Non sapevo con chi e chi avrei generato
Son morto in un esperimento sbagliato
Proprio come gli idioti che muoion d’amore
E qualcuno dirà che c’è un modo migliore.

In questo testo la concatenazione di similitudini e la legge del contrappasso emergono limpidamente dal testo, senza scorie. Come sulla bilancia ideale di un chimico ogni elemento viene pesato e connesso con l’altro fino a costruire una rete di rimandi interni fittissimi; ma il testo può essere letto anche come una sequenza di immagini emblematiche, fino a quella davvero sorprendente dell’idrogeno che tace e dell’ossigeno che dorme al suo fianco. Sul richiamo dantesco vale forse la pena di dire che esso è rivolto del tutto all’al di qua, come del resto avviene anche nell’Antologia di Masters, ispirata da quella Palatina. I defunti di Masters e De Andrè hanno lo sguardo che ritorna al mondo come al tempo ritrovato dei propri errori, dei propri sogni e mancanze, senza alcun giudizio. La metrica sfrangiata del testo che oscilla fra rari endecasillabi e blank verse allungato rimane in equilibrio fra solennità del tema e un incedere che lo rende più leggero, come quei fuochi fatui di cui si dice nel primo verso.  

Infine: Ho visto Nina volare:  

Mastica e sputa/da una parte il miele/mastica e sputa/dall’altra la cera/mastica e sputa/prima che venga neve//Luce luce lontana/più bassa delle stelle/sarà la stessa mano/che ti accende e ti spegne//Ho visto Nina volare/tra le corde dell’altalena/un giorno la prenderò/come fa il vento alla schiena//E se lo sa mio padre/dovrò cambiar paese/se mio padre lo sa/m’imbarcherò sul mare//Mastica e sputa/da una parte il miele/mastica e sputa/dall’altra la cera/mastica e sputa/prima che faccia neve//Stanotte è venuta l’ombra/l’ombra che mi fa il verso/le ho mostrato il coltello/e la mia maschera di gelso./E se lo sa mio padremi metterò in cammino/se mio padre lo sa/m’imbarcherò lontano./Mastica e sputa/da una parte la cera/mastica e sputa/dall’altra parte il miele/mastica e sputa prima che metta neve.//Ho visto Nina volare/tra le corde dell’altalena/un giorno la prenderò/come fa il vento alla schiena.//Luce luce lontana/che si accende e si spegne/quale sarà la mano/che illumina le stelle./Mastica e sputa/prima che venga neve.

Vita e morte s’intrecciano e s’incarnano in immagini di grande suggestione. Il ruminare la vita, il distillare il miele eliminando lo scarto, il tempo che ci è concesso (prima che venga neve), l’immagine di Nina, evocata anche nella copertina dell’album, ma che si eleva a misteriosa allegoria. Infine quella stessa mano che accende e spegne. Anche in questo testo ogni elemento di cui è fatto il vivere viene pesato e soppesato, senza mai dimenticare che la materia con cui è fabbricato è spuria (come non ricordare che dai diamanti non nasce niente dal letame nascono i fior), necessita di quel continuo masticare e sputare che lo raffina finché ne è capace. Pensando a queste due ultime canzoni, un’ultima notazione la lascio alla voce di De Andrè, una voce sempre in bilico fra recitativo e canto. È proprio quest’ultima  a far risuonare, anche nei testi più aspri ed espressionisti, quella nota di pietas che affonda le sue radici in un mondo mediterraneo e pagano che De Andrè riscopre, seppure traducendolo nella sensibilità di un cristianesimo tutto suo.     

IDA MAGLI

Introduzione

Ida Magli è stata per me una maestra e lo è ancora, nonostante il netto dissenso rispetto alle sue prese di posizione negli ultimi anni. L’antropologa, anche per questo, non ha goduto di grandi attenzioni dopo la sua morte e gli studi su di lei non sono molti. Le ragioni però non sono dovute soltanto alle polemiche suscitate dai suoi interventi: oltre all’atavico ostracismo misogino della cultura media italiana per le donne intellettuali, Magli aveva due gravi difetti in più: prima di tutto l’essere politicamente molto scorretta, tanto d’avere abbandonato il sacrario progressista di Repubblica per scrivere su quotidiani di destra; in secondo luogo per essere invisa a una discreta parte del femminismo, come i commenti comparsi in facebook nei giorni successivi la morte testimoniano. La mia speranza è che il tempo le restituisca quanto a lei è dovuto, senza sconti verso alcune derive del suo pensiero ultimo.

L’antropologia al centro

Magli è stata ed è prima di tutto una grande antropologa che ha applicato il metodo della ricerca sul campo alla cultura occidentale (Viaggio intorno all’uomo bianco) e ha proposto una lettura antropologica dei Vangeli. Sono due mosse decisive perché solitamente l’antropologia si occupa dei diversi, siano essi i popoli originari ancora presenti in mezzo a noi, oppure i popoli antichi. Nel rivolgersi invece a noi e alla nostra storia, inoltre, Magli non ha dimenticato che il linguaggio e l’immaginario sono sessuati e non neutri e che la costruzione del femminile e del maschile occidentali sono il risultato di un pensiero maschile, mediato in particolare dalla teologia che ha fornito immagini, lessico ed espressioni ritenute ovvie anche da chi credente non è. Il centro d’irradiazione del suo pensiero e delle sue opere è stato questo e anche le incursioni che s’allontanavano da tale campo di ricerca, erano per lo più estemporanee e legate a fatti d’attualità: mi riferisco in particolare al libro Alla scoperta di noi selvaggi, una raccolta di suoi articoli comparsi su Repubblica o altri periodici. I libri sul Cristianesimo sono a mio giudizio le sue opere più decisive. Gesù di Nazareth, La Madonna e Storia laica delle donne religiose, sono strettamente legati; in essi Magli si allontana da tutto il dibattito fra credenti e non credenti sulla divinità o meno di Gesù e tutto quanto ne consegue. Magli legge i testi evangelici e gli altri documenti dell’epoca collocandoli nel contesto degli usi e dei costumi della comunità di appartenenza: sono le strutture che Braudel ha indicato con il termine di lunga durata, espressione che Magli cita nell’introduzione a La Madonna.1 In sostanza, Magli prende alla lettera l’assunto – che è anche dei credenti – che tutte le figure che popolano i vangeli fossero veri uomini e donne situati nel loro contesto culturale e antropologico. Nel terzo libro, e anche nella biografia di Teresa di Lisieux, Magli affronta con lo stessa strumentazione teorica la costruzione dell’immagine femminile a partire dalle biografie delle donne santificate dalla Chiesa Cattolica o che hanno scelto, o cui più spesso è stato imposto, il monachesimo o addirittura – nel caso di Bernadette Soubirous o dei tre pastorelli di Fatima – una sofisticata e indotta forma di martirio. Nei libri di Ida Magli, pur non immuni da eccessi di strutturalismo, l’analisi delle strutture non prescinde dal contesto e dalla loro origine: non vi è affermazione che non sia corredata da una rigorosa indagine sulle fonti e da un’analisi puntuale delle loro contraddizioni. Anche nell’analizzare le permanenze e dunque la lunga durata, l’origine è sempre presente – fino a dove questo è possibile – e dunque la storia. Questo permette a Magli incursioni rapide, limitate ma decisive, anche in campi come l’arte e la letteratura. Il mio studio, esaurite queste premesse, si dedicherà proprio a tali incursioni, a partire tuttavia da una sostanziale condivisione della sua analisi antropologica dei testi cristiani.

Il doppio registro dell’arte occidentale

Nei paragrafi finali de La Madonna, Ida Magli affronta il tema dei rapporti esistenti fra la costruzione teologica del culto mariano e l’arte occidentale, sacra e non. La citazione che segue è un punto di partenza importante:

La storia dell’arte occidentale è una storia contrassegnata dall’emergere di due livelli culturali di simbolismo, quello mariano e quello dell’arte.2

Siamo alle origini della cultura occidentale cristiana, in quel periodo di tempo che più o meno va dalla nascita dei volgari intorno all’anno 1000, per passare poi ai poemi delle origini, al ciclo bretone, alla pittura sacra; infine, all’amor cortese. Volendo indicare più precisamente il periodo, possiamo dire che esso va dall’opera del Venerabile Beda fino alla fine del 1200. Il presupposto implicito dell’affermazione di cui sopra è la coincidenza fra storia dell’occidente e storia del cristianesimo; dunque, almeno in una prima fase, per Ida Magli la cultura classica precedente, i suoi modi e stili di simbolizzazione sembrerebbero esclusi dall’analisi, sebbene ciò non sia poi del tutto vero. Tuttavia, nello spingersi indietro nel tempo rispetto all’arco temporale indicato, Magli si rivolge prevalentemente all’ebraismo. Si può dire dunque, che il suo orizzonte di riferimento sia, principalmente, la cultura ebraico-cristiana, all’interno della quale il Cristianesimo come costruzione successiva alla morte di Gesù di Nazareth, diventa l’elemento centrale, pur senza rompere i legami antropologici con la cultura profonda dell’ebraismo, specialmente per quanto riguarda i tabù legati al femminile. La parte più originale della frase di Magli è laddove afferma che nella cultura occidentale ci sono due diversi simbolismi: quello mariano e quello dell’arte. L’affermazione è problematica perché per un lunghissimo periodo di tempo il soggetto principale dell’arte pittorica è stato di natura esclusivamente sacra e lo stesso vale per la musica mentre maggiore libertà c’è stata nella letteratura e nella poesia. Dunque, in che senso Magli parla di due diversi modi di simbolizzare? Lo afferma subito dopo:

Se la Madonna è un’opera culturale unica, creata dal Cristianesimo, … sviluppatasi soprattutto del XII secolo in poi, l’arte occidentale si è trovata di conseguenza di fronte a una libertà creatrice che a nessun’altra arte è stata concessa. La Madonna ha assorbito la parte “negativa” dell’atteggiamento artistico dell’uomo quella che gli dà la forza di desiderare l’assoluto ma che non permette quasi mai di lasciarlo assoluto.” Nella Madonna, infatti si chiude il cerchio del simbolico-concreto e nella storicizzazione dell’ideale, l’ideale diventa realtà, brutalmente ridotto nei limiti del desiderio. Si trova qui il confine sottilissimo fra psicosi e arte. 3

L’interpretazione di questo passaggio non è facile: tento di darne una pensando in particolare alla tre parole chiave negativo assoluto e desiderio  e ritornando a un mito più antico: Orfeo ed Euridice.  La lettura di questo come di tutti i miti si presta a interpretazioni diverse. Faccio mia quella di Blanchot che è stata ripresa recentemente con maggiore profondità anche in un libro di Alessandro Carrera.4 Secondo tale interpretazione, Euridice rappresenta il desiderio senza limiti, sia che si intenda la parola nel senso greco oppure genericamente, sia che la si intenda in senso psicoanalitico. Il desiderio illimitato e assoluto, però, non produce nulla, oppure una deriva narcisista. Perché l’opera nasca, esso non basta. Nel momento in cui Orfeo, il principio maschile, permette all’opera di esistere, perde Euridice.5 Nel mito classico, dunque, Orfeo ed Euridice sono una coppia indissolubile, nonostante il loro diverso destino. Il fatto che l’ispirazione debba avere sembianze femminili mentre l’opera sia compiuta da un agente maschile non è affatto neutra: si tratta di un’idea platonica e patriarcale. Il non detto (o detto a metà) è che l’ispirazione deve essere per forza un principio femminile perché esso è in rapporto diretto con la divinità e dunque illimitato come il desiderio, mentre il principio maschile, pur limitato, proprio per questo è il solo produttore di cultura. Questa, peraltro, è anche l’opinione che Magli esprimerà con perentoria chiarezza nelle primissime pagine di Viaggio intorno all’uomo bianco e anche con ben altra articolazione nel libro intitolato La Madonna e che susciterà la diffidenza di larga arte del mondo femminista.6 Nella cultura occidentale e cristiana, invece, avviene – secondo Ida Magli – una scissione. Da un lato la Madonna, grazie all’elaborazione del culto mariano, assolve la funzione di assoluto negativo del desiderio. La parte di Euridice, che nel mito classico si perde definitivamente nell’Ade per permettere che l’opera nasca, viene così trasformata in una figura di tipo nuovo che dal simbolo concreto, diviene un Ideale reale. Magli definisce questo processo come la parte negativa dell’atteggiamento artistico dell’uomo (vale la pena di ricordare che per Magli l’uomo è sempre il maschio e non un universale che comprende entrambi i generi e quando non è così lo specifica sempre) rispetto all’opera. A differenza di quanto avviene nel mito classico, dove ispirazione e opera, pur rappresentati da agenti diversi, hanno lo stesso oggetto in comune e cioè la creazione artistica, la parte di Euridice, con l’elaborazione del culto mariano, viene delegata a un gruppo chiuso di maschi teologi e relegata in un campo che sta sul confine sottilissimo fra psicosi e arte.7 Parafrasando Bion, si potrebbe dire che i teologi medioevali sono per Magli una specie di un gruppo in assunto di base che si carica di un principio assoluto negativo, liberando così le arti e gli artisti da ogni vincolo, affrancando la creazione artistica anche dalla pesantezza dei bisogni simbolici del gruppo. 8

Gli esempi che Magli fa e le citazioni dalle opere dei Padri della Chiesa sono quanto mai probanti. In alcune affermazioni dei teologi dei primi secoli, prevale ancora una forma di concretezza analogica e così la madre di Gesù è un carro che porta il re della luce nella vita, oppure la casa del re. Ambrogio non rimuove ancora del tutto la fisicità di Maria ed esalta il grembo che cresce.9 Passo dopo passo, però, Maria di Nazareth perde tutti gli attributi fisici del femminile e specialmente l’utero. La Madonna diventa così una costruzione del tutto nuova. L’ultimo a lasciarsi andare a un grido che suona angoscioso per come lo dice è Agostino, che riferendosi alla donna, urla: Per foemina mors, per foemina vita. Certo, per lui che il corpo femminile lo conosceva molto bene e per esperienza personale, doveva essere particolarmente doloroso e difficile rimuoverlo! Ida Magli così descrive il compimento di questa prima fase dell’elaborazione del culto mariano. Invece di ricorrere alle molte citazioni disponibili ho scelto questo passaggio perché in esso sono contenute alcune espressioni usate dai padri della Chiesa con le relative fonti originali, per cui lo ritengo esaustivo:

La Madonna finalmente è una donna chiusa, prima durante e dopo il parto, è un muro inespugnabile, una rocca sicura, una trincea da ogni lato fortificata, una torre potente, una montagna mai tagliata, una porta chiusa un giardino sigillato… Sicuri di questo, gli uomini possono lanciarsi ad amarla, ad adorarla, fissando in lei tutte le caratteristiche della non azione, della non-vita. La donna ideale è sempre morta, fissata in un aldilà eterno, che permette la definizione del suo non-essere.”10

La parte devozionale dell’iconografia cristiana che si rivolge alla Madonna diviene per Magli una forma d’arte alimentata dalla teologia mariana ed è questa la prima forma di simbolizzazione: di essa fanno parte le immagini popolari, le statuette votive e le rappresentazioni direttamente legate al culto. L’ipotesi di Magli è suggestiva e quanto mai feconda perché si apre alla verifica sul campo, che lei fa solo per brevissimi tratti, ma che può essere continuata da altri, avendo lei aperto una strada quanto mai importante. Il suo punto di partenza è il soggetto più frequentato per molti secoli dall’arte pittorica occidentale e cioè la Madonna e la Madonna con bambino. Magli osserva che, quanto più cresce l’elaborazione del culto mariano, tanto più cresce intorno ad esso un’iconografia ingenua, che tende sempre di più a uniformarsi ai caratteri salienti della teologia mariana. Tali tratti portano a un’esasperazione del modello, tanto da raggiungere presto una forma consolidata di stereotipia. Le immagini sono sempre uguali. Magli definisce queste opere come appartenenti alla cultura popolare, al folklore, ma anche dettate da chi elabora il culto. Fanno parte in sostanza di quella che definirei un’alfabetizzazione di massa all’iconografia mariana, che traduce in immagini quello che la teologia vuole trasmettere e cioè l’ immagine di una donna che ha perduto tutte le sembianze del femminile concreto, ma ne ha assunte altre stilizzate e sempre uguali: l’inespressività dei volti per esempio, è una costante, ma anche il modo di rappresentare il bambino (che non sempre è presente in queste immagini o sculture); la posizione statica del corpo, l’aureola, la stilizzazione dell’abito e i colori. Il gusto popolare in sostanza viene educato secondo canoni precisi e delimitati. Cosa avviene invece con l’arte secondo Magli? Accade che il soggetto sacro, imprescindibile per tutti, anzi esclusivo per un lungo periodo di tempo, si distanzi per piccoli e grandi scarti dal modello teologico e dia vita a un secondo canale di simbolizzazione che sta alle origini anche della cultura laica europea e occidentale, assumendo dei caratteri che s’allontanano sempre di più dall’iconografia del gruppo psicotico e che riportano in scena un soggetto femminile diverso. Gli esempi che Magli fa sono pochi ma assai significativi. Il primo è l’Annunciazione di Lorenzo Lotto, diversa da tutte perché la donna (in questo caso è proprio una donna e non un’invenzione dei teologi), ha un volto terrificato all’annuncio che darà alla luce un dio: immagine ben più realistica che non quella di volti serafici, come se dare alla luce un dio non spaventasse almeno un po’! In questa divaricazione, sostiene Ida Magli, prende forma un primo esempio di cultura laica. Alla fine del libro Magli indica alcune altre opere che a mio giudizio testimoniano la validità della sua ipotesi. Fra le maglie strette della fedeltà alla tradizione da un lato e le necessità artistiche dall’altro, prende corpo un’arte laica, le cui caratteristiche sono quelle di ritornare a una rappresentazione del femminile in cui la donna prevale sulla teologia. In modi a volte più provocatori – Caravaggio dipinge una Madonna con il volto della sua amante –  altri meno, tale tendenza s’impone e viene sostanzialmente tollerata dalla stessa Chiesa, grazie a Papi che tutto avevano in mente tranne la fedeltà al detto evangelico, ma che almeno hanno aperto le porte alla grande arte occidentale, diventandone i primi mecenati. Lo stesso si può affermare di un’opera come la Pietà Rondanini di Michelangelo, dove la morte e il dolore prevalgono e il mito della Resurrezione è assente.

Musica e poesia

Cosa avviene per le altre arti? Magli sottolinea la dipendenza del linguaggio della courtoisie e quindi dell’amor cortese dall’elaborazione del culto mariano da parte dei Padri della Chiesa. L’esempio più alto è naturalmente quello di Dante. Beatrice è una donna della teologia, anche se sappiamo che si chiamava Portinari di cognome. Dante la rende simile all’immagine iconografica dell’Assunzione al cielo della Madonna perché Beatrice è già in alto, ascesa nell’Empireo e sebbene il dogma sia stato proclamato nel 1950, già nel quinto secolo la devozione popolare lo accoglieva come un atto di fede indiscusso. Che la Beatrice dantesca non sia uno stereotipo del tutto amorfo come nelle immaginette del culto mariano lo si deve a una straordinaria poesia, ma dal punto di vista delle radici del pensiero è a Bernard De Clervaux e all’Aquinate che occorre rivolgersi. Quanto alla musica è fondamentale la lettura dell’intero capitolo intitolato Il tempo interrogativo della musica.11 In esso viene ricostruito il percorso che la musica occidentale, ma prima di tutto europea, ha compiuto dal gregoriano per arrivare fino a noi. Nel gregoriano:

… nessun ostacolo si frappone alla concezione ciclica del tempo … Il gregoriano può permettersi di spaziare in durate infinite perché è sorretto dalla certezza della risposta di Dio.

La contraddizione però è dietro l’angolo, dal momento che proprio il Cristianesimo ha introdotto una variante rispetto al tempo ciclico. Cristo segna un prima e un dopo, la cui presenza scandisce il tempo in altro modo: dal peccato originale a Cristo è il passato da redimere, dopo di lui e fino al giudizio universale è il futuro. La risposta alla domanda di certezza non è più data ma deve essere cercata e inseguita nel tempo. Bach, che componeva musica nel contesto di un mondo matematizzato dalla rivoluzione scientifica e sistematizzato da Cartesio, cambia il registro dell’eterno ritorno su cui si fondava il canto gregoriano:

… In lui la ripetizione diventa un inseguirsi continuo di domande-risposte, uno sforzo immane dell’intelligenza per riempire di un contenuto autosufficiente la forma del tempo assoluto, senza subordinare la ragione alla certezza del tempo già dato.

 Magli pensa in primo luogo all’arte della fuga ma si può dire che già con l’avvento della polifonia, la certezza del tempo già dato era stata infranta. Il paradosso messo in scena da Bach, secondo Magli è che:

… Il tempo della scienza coincide con la struttura interrogativa della musica e con un tempo che da Mozart a, Behetoven, da Debussy, Schönberg, Berg, fino a Bussotti si allontana sempre più dal concetto di durata, di inizio e fine … fino alla dissoluzione della fisicità del suono.

Ci si potrebbe domandare, a questo punto, cosa resta. Le ultime osservazioni Magli le riserva alla danza:

… La danza è in effetti il massimo tentativo che gli uomini hanno fatto per innalzarsi, concretamente e simbolicamente, al di sopra della fisicità, servendosi del proprio corpo come strumento: sublimazione del corpo attraverso la fiducia assoluta del corpo. La danza perciò è esclusa dalle cerimonie liturgiche in quanto nega la subordinazione del corpo a Dio, nega la rinuncia alla sessualità … la danza dunque non può essere che Eva … in lei si riassumono tutte le Maghe, tutte le Sirene, tutte le Calipso, tutte le Silfidi e tutte le Circi …

La conclusione è altrettanto perentoria:

Maria non può danzare.   

Riflessioni conclusive

Le sollecitazioni di Magli contenute negli ultimi capitoli de la Madonna si prestano a un ulteriore approfondimento. I dipinti che lei cita come spostamento da quello che è l’asse devozionale indotto dalla teologia mariana sono pertinenti ma si potrebbe continuare la ricerca per capire meglio in che cosa consiste la doppia simbolizzazione presente nell’arte europea e come essa si sia evoluta nel tempo. Lo stesso si può dire per la poesia: il modello concettuale della courtoisie è sopravvissuto al Dolce stil novo e alle poetiche coeve, reiterando la scissione fra un’immagine del femminile quasi sacrale da un lato e l’emarginazione delle donne reali dalla cultura e dalla storia dall’altro. Nella poesia italiana, tuttavia, la poesia di Cavalcanti si pone come un contraltare quanto mai importante a tale visione.12 Tale scissione cominciò a entrare veramente in crisi dopo la Rivoluzione Francese. Magli, a proposito di Bernadette, nota come sia per la prima volta una donna a essere spettatrice di un’apparizione miracolosa che assume una dimensione pubblica. C’era probabilmente bisogno di rimodulare il femminile dopo lo spavento suscitato dalle donne in armi e in massa apparse improvvisamente sulla scena della storia alle Tuilleries: che una ragazzina senza cultura diventasse il tramite con il trascendente cancellava quell’immagine e ne riproponeva un’altra più consona al ruolo che le donne dovevano mantenere. Bernadette ebbe solo una vita di sofferenze come premio e se ne rese amaramente conto lei stessa. Baudelaire alcuni decenni dopo avrebbe demolito il linguaggio della courtoisie rivelandone il doppio registro, ma specialmente mettendo in scena un’ultima volta – per distruggerla dall’interno – la figura della Musa. Infine, con il femminismo dei primi del ‘900 e poi con la seconda andata dagli anni ’70 in poi, è davvero  cominciata un’altra storia.


1 Ida Magli: La Madonna, Rizzoli, Milano 1987, pag. 10. Gesù di Nazareth è stato pubblicato da Rizzoli, mentre Storia laica delle donne religiose è uscito per Longanesi.

2 Ida Magli, La Madonna pag. 103.

3 Op. cit. pp.103-4.

4 Alessandro Carrera, La distanza del cielo, Leopardi e lo spazio dell’ispirazione, Medusa, Milano, 2011

Nel libro, Carrera compie un ampio excursus storico che va dal mito di Orfeo ed Euridice e – passando attraverso Il Dolce stil novo e poi Leopardi – arriva fino a noi. Carrera, in un capitolo, riassume in poche parole l’interpretazione canonica, che ne fa un mito di fondazione del canto poetico, dove Euridice è l’ispirazione, che svanisce nel momento in cui l’opera è compiuta. Orfeo, per diventare cantore, deve rinunciare al proprio delirio di onnipotenza giovanile che vorrebbe possedere contemporaneamente Euridice e l’opera poetica. Delle due figure simboliche, la seconda, il principio femminile, rappresenta l’ispirazione poetica, che svanisce nel momento in cui l’opera viene alla luce. Fin qui Carrera. Del libro in questione mi sono occupato a lungo nel saggio Amore, morte e … altro, pubblicato sulla rivista online Overleft – www.overleft.it – nella sezione Dopo il diluvio.

5 Una suggestiva testimonianza su questo passaggio dal desiderio all’opera ci è stato offerto nella contemporaneità da Proust. Riferendosi a Jean Santeuil egli afferma a un certo punto che quella scrittura fu anche un modo di non far nascere la Recherche, un modo di girare intorno al tema e al problema senza risolverlo. Per definire tale situazione usa la parola paresse che ha un significato più articolato di pigrizia e allude all’accidia ma anche agli ignavi danteschi perché  in definitiva decidere di far nascere l’opera è anche prendersi la responsabilità di una scelta. La recherche nacque dopo quando il suo autore decise di obbligarsi in una sorta di clausura. Pur sfrondata da elementi suggestivamente narrativi delle proprie vicende personali, questa testimonianza rimane importante per comprendere quel doloroso passaggio che dal desiderio porta alla realizzazione.

6 La questione è talmente controversa che è impossibile trattarla in una nota. Mi limito solo a dire che per Magli l’affermazione che la cultura è stata nell’universo ebraico-cristiano un prodotto eminentemente maschile non è diversa infondo da quello che i femminismi hanno messo in evidenza. Il problema sta nella diffidenza che Magli ebbe comunque sempre nei confronti di questi movimenti come di altri: diffidenza che l’antropologa ha espresso anche in prese diposizioni che hanno suscitato polemiche per la loro parzialità. Credo che in questo caso occorrerebbe farei conti con il pregiudizio strutturalista e con la propensione dell’antropologia a considerare solo le permanenze e la lunga durata, il che  – se portato alle estreme conseguenze – porta allo strabismo nei confronti del presente storico, che l’antropologia, e specialmente quella più ligia ai dettami dello strutturalismo, non riesce a vedere.  

7 Op. cit. pag 103.

8 Op. cit. pag. 104.

9 Entrambe le espressioni si trovano in Ida Magli, La Madonna, Pag. 109 e seguenti.

10 Op.cit. pag.102.

11 Ida Magli La Madonna, dalla pagina 154 fino alla fine.

12 Paolo Rabissi ha compiuto un’analisi assai importante della poesia di Cavalcanti evidenziando l’originalità che egli rappresenta per l’epoca e non solo. Il saggio si trova  sulla rivista online Overleft e s’intitola  Il doppio effetto dell’amore, desiderio e frantumazione dell’io nella poesia di Guido Cavalcanti. Ad esso rimando per approfondire la tematica.   

DEL SILENZIO E DEL RISO

Chiamato a pronunciarsi sul paradosso di Zenone, il cinico Diogene di Sinope non disse nulla, si alzò in piedi e si mise a camminare.

Le fonti non dicono se i presenti scoppiarono a ridere, oppure se considerarono imbarazzante o addirittura irriverente il suo comportamento; fatto sta che, nonostante la grande popolarità di cui Diogene godeva, non credo che i presenti  considerassero il camminare una confutazione del famoso paradosso. Del resto Diogene era noto per essere lui medesimo un paradosso vivente, per le sue stranezze (viveva in una botte e non giudicava disdicevole masturbarsi in pubblico) e anche per le sue battute fulminanti.

I paradossi logici svolgevano un ruolo essenziale nella cultura greca pre filosofica, così come – in epoca ancora precedente – lo scioglimento dell’enigma. Il paradosso di Zenone continuò a essere ritenuto inconfutabile da un punto di vista logico fino ai nostri giorni più o meno e secondo alcuni i paradossi logici (non solo questo ma anche gli altri di Zenone, meno famosi ma altrettanto importanti) sono inconfutabili e basta. Secondo altri, non lo sono perché scritti in modo tale da non esserlo, dal momento che la loro formulazione serviva ad altro e cioè ad allenare la mente a ragionare. In rete si trovano molti siti che discutono sui molti tentativi di confutazione ma anche di adesione all’idea della inconfutabilità.

Personalmente trovo suggestivo e geniale il ragionamento di Bertrand Russell (è una confutazione oppure no?), che sostiene la seguente tesi che riporto nella sua enunciazione e non nelle sue formule matematiche (calcolo infinitesimale) che peraltro si trovano facilmente in rete. Due insiemi possono essere divisibili in infinite parti ma questo non esclude che uno dei due sia più grande dell’altro. Abbandoniamo momentaneamente il filosofo inglese.

De Ruggiero, nella sua monumentale Storia della filosofia, prende invece sul serio il gesto compiuto da Diogene e lo considera come una vera e propria confutazione.

Il primo a cimentarsi, in epoca filosofica, con il paradosso di Zenone fu nientemeno che Aristotele. La sua argomentazione è la seguente: esiste uno stato potenziale del movimento ed esiste il movimento in atto. Sul piano potenziale il ragionamento di Zenone era inconfutabile e quindi la distanza fra Achille e la tartaruga poteva essere suddivisa in segmenti sempre più piccoli all’infinito; ma questo non era più valido se dallo stato potenziale si passava al movimento in atto. In apparenza, tale ragionamento sembra avere tutti i crismi del buon senso, ma apre almeno tanti problemi quanti ne risolve. La sua argomentazione potrebbe essere considerata come la spiegazione logica e argomentata del comportamento di Diogene di Sinope: camminare è movimento in atto. Aristotele dunque, nella sua confutazione, introduce surrettiziamente il concetto di esperienza o di potenza in atto per confutare un’argomentazione di tipo logico, il che era considerato da molti un trucco, almeno ai tempi suoi. Personalmente ritengo che la scienza sperimentale abbia radicalmente mutato le cose, ma so altrettanto che molti filosofi non sarebbero d’accordo e mi tirerebbero le orecchie. Tuttavia, se stiamo parlando di Aristotele e cioè di un tempo in cui il metodo sperimentale era di là da venire, la confutazione del nostro appare inconsistente. Perché allora Aristotele usa tale argomento piuttosto grossolano? Lasciamo per il momento la domanda in sospeso e rivolgiamoci di nuovo al contesto del paradosso di Zenone e anche di Diogene di Sinope.

Uno dei nodi del problema sta nella possibilità o meno di considerare il paradosso di Zenone un’argomentazione di tipo sofistico. Lui e altri proprio a quella corrente filosofica vengono di solito ascritti, ma Giorgio Colli, per esempio, avanza dei dubbi che sono venuti anche ad altri. Il contesto è quel momento assai fertile ma anche avvolto più di altri in una sottile nebbia, nella storia del pensiero greco. Gorgia, molto probabilmente, non era un sofista, ma un uomo sgomento di fronte a un’evidenza sconvolgente. Come gli antichi che si dedicavano allo scioglimento dell’enigma, egli riteneva che la verità fosse alla portata degli esseri umani, ma che essa non andasse cercata per quella via (l’enigma e la sua decifrazione), ma tramite la dialettica, che per lui era l’arte di condurre il discorso e non ciò che viene subito in mente a noi che siamo post hegeliani. Di fronte ai paradossi del linguaggio e constatato come con esso si può sostenere qualsiasi cosa e anche il suo contrario, Gorgia comprese che neppure per quella via e forse per nessun’altra la verità fosse alla portata degli umani. Non solo: quanto più si era abili nel condurre il discorso, tanto più si correva il rischio di finire in argomentazioni e paradossi che allontanavano dalla verità altro che raggiungerla! La sofistica è l’arte del paradosso, ma non credo che Gorgia lo fosse e infatti recenti studi affermano proprio questo: manca in lui il compiacimento (tipico dei sofisti) di rivoltare la frittata a proprio piacimento. In Gorgia e nei sui amici è lo sgomento a prevalere. Partiti lancia in resta alla ricerca della verità, scoprono la menzogna! Con Gorgia svanisce definitivamente l’illusione di possedere la Sofia, cioè la Sapienza: da quello scacco nacque un lavorio intermedio del pensiero che sfocerà nella filo-sofia e darà vita alla setta degli amanti di Sofia: i filosofi.

Con Aristotele siamo già nel pieno dell’epoca filosofica, ma la filosofia è ancora giovane e come tutti i giovani è anche un po’ arrogante. Non mi riferisco qui all’età anagrafica di Aristotele e alla sua personale arroganza, che tuttavia un po’ emerge nella confutazione del paradosso di Zenone. Il nostro non se ne cura perché pensa che si tratta di argomentazioni che non vanno resuscitate. Mi pare persino di sentirlo parlare e dire in sostanza a suoi discepoli: Ancora con queste sciocchezze della Sofia, degli enigmi e dei paradossi? La sua argomentazione infatti è un po’ tirata via, come quando non si dedica troppa importanza a una cosa, altrimenti si sarebbe accorto di avere introdotto in una confutazione logica un argomento esperienziale che non poteva essere usato: e infatti non mi risulta che qualcuno abbia preso sul serio la sua confutazione, probabilmente neppure lui stesso, così rigoroso nel porre limiti e barriere alle enunciazioni.

Torniamo a Diogene di Sinope. Di fronte all’aneddoto che lo riguarda, così come di fronte agli altri, alcuni dei quali notissimi (oltre al vivere in una botte, la lanterna con cui cercava l’uomo, ma anche la sua risposta fulminante a chi gli chiedeva dove abitasse “sono un cittadino del mondo” risposta assai sorprendente per quell’epoca) mi sono chiesto più volte per quale motivo siano giunti fino a noi. Può essere che il buon Diogene sia stato così sfortunato da vedere distrutte tutte le sue opere, ma se anche così fosse e se potessimo dunque ipotizzare, come in un romanzo fantastorico, che il nostro Diogene fosse in realtà un gigante del pensiero le cui opere si sono perse, tranne poche battute qui e là, rimarrebbe comunque il mistero di capire per quale motivo qualcuno ha ritenuto tali aneddoti da conservare. Le fonti sono incerte anche sulla scrittura: dei presocratici rimangono dei frammenti scritti, alcuni anche assai estesi e dunque di per sé non può essere questo il motivo della scarsità di fonti, anche perché sappiamo che il nostro godeva di grande popolarità. Se qualcosa ci arriva da quei tempi così remoti, dobbiamo sempre venerare con commozione colui o colei che si sono presi cura di quel frammento o di quel libro perché lo hanno ritenuto significativo, senza ulteriore speculazione sulle loro ragioni. Arrivati così fino a noi possiamo leggere gli aneddoti e le citazioni con i nostri occhi e domandarci se non ci sia sfuggito qualcosa. Eccome se andava trasportato nei millenni fino a noi l’aneddoto! La portata del gesto compiuto da Diogene mi sembra assai rilevante, ma la sua grandezza non va cercata a mio avviso nel camminare, ma nel “non disse nulla.” Rimanendo in silenzio, Diogene ha compiuto un gesto filosofico di enorme portata: da un lato ha reso evidente l’inconsistenza del paradosso sul piano fattuale, dall’altro ha indicato il limite del linguaggio. Solo nel silenzio poteva essere mostrata la confutazione; e con un gesto allusivo, non verbale. La Sofia non era del tutto scomparsa, ma poteva mostrarsi e risuonare solo così. 

L’aneddoto riguardante Diogene di Sinope me ne ricorda un altro, analogo e precedente. Siamo nel settimo secolo e Talete, mentre guarda il cielo, cade in un fosso. Una fanciulla tracia, che assiste alla scena, scoppia a ridere e lo prende in giro. Il riso svolge in questo aneddoto la stessa funzione del silenzio nell’altro. Ridere è un gesto che sta ai confini del linguaggio, come ci sta il silenzio. Al di qua il linguaggio esiste come codice e casa dell’umano, al di là si affaccia come allusione a ciò che esisterebbe anche senza di noi. L’umano abita una soglia e un precario confine, in equilibrio precario ed esposto a cadere fuori di esso, o al suo interno vivendolo però come codice. Forse l’eterna diatriba fra il linguaggio come codice o il linguaggio come eco di qualcosa che lo trascende ha una spiegazione logica nell’essere gli umani sulla soglia e dunque destinati a cadere da una parte o dall’altra, oppure a tenersi in equilibrio, come un pendolo. Non abitiamo il mondo (ci stiamo troppo poco), così come non abitiamo il linguaggio, ma stiamo sul confine.

La genialità di Bertrand Russell, con il quale concludo  questo discorso forse un po’ strampalato, sta però nell’esempio che sceglie per dimostrare la sua ipotesi matematica che ripeto qui: due insiemi possono essere divisibili in infinite parti ma questo non esclude che uno dei due sia più grande dell’altro. Dopo essersi servito della matematica e del calcolo infinitesimale per dimostrare la sua tesi, Russell per renderla comprensibile e alla portata di tutti, sceglie un esempio letterario da un romanzo inglese assai noto e sperimentale per l’epoca in cui fu scritto:

Tristran Shandy vuole scrivere la propria biografia. La sua vita e la sua biografia sono due insiemi distinti e divisibili ciascuno in parti, infinitesime. Shandy comincia il suo lavoro e dopo un anno di tempo ha descritto i primi due giorni della sua vita …

L’APOCALISSE  E LA SINISTRA.

Le scritture apocalittiche sono cresciute di numero fino a diventare esorbitanti, come avviene quasi sempre in momento di acuta crisi. Una variante rinata in pieno ‘900 in ambito linguistico anglo-statunitense, è la distopia. Il rapporto della narrativa distopica con l’Apocalisse di Giovanni è problematico: assente in alcuni casi (Animal Farm e 1984, per esempio), presente labilmente in altri, tale riferimento è però di uso corrente nelle interpretazioni catastrofiche del testo giovanneo; specialmente in certa saggistica. Proprio a questo livello la relazione è innegabile, seppure basata su una lettura che può non soddisfare molti credenti, ma che è ben radicata nella tradizione protestante nordamericana; tanto radicata che importanti consiglieri di presidenti statunitensi si sono spesso lanciati in ardite formule terrificanti. Fredkin, per esempio con il suo urlo: la bomba all’idrogeno è la buona novella della dannazione! e i continui richiami all’Harmageddon, cioè allo scontro finale fra il Bene e il Male.1 Per non parlare dell’ineffabile Edward Luttwak che studia da decenni la Caduta dell’Impero romano per capire come cadrà quello americano e cercare di impedirlo.

In anni a noi prossimi, però, è avvenuto un nuovo cambiamento rispetto al passato e cioè l’uso della scrittura apocalittica come strumento di denuncia e di critica anticapitalistica. Prendo come pretesto per questa riflessione un lungo saggio di Dany-Robert Dufour, introdotto da una nota di Miguel Martinez. Il saggio s’intitola L’uomo modificato dal neoliberismo. Dalla riduzione delle teste all’alterazione dei corpi e fu pubblicato su Le monde diplomatique nell’aprile del 2005. Lo riprendo a distanza di anni perché mi sembra ancora attuale. Non mi addentrerò in un’analisi dettagliata delle tesi di Dufour che si rifà anche a esempi molto diversi e disparati fra di loro e fa molte affermazioni senza motivarle e senza spiegarle. Cercherò piuttosto di dire per quale motivo ritengo che le scritture apocalittiche non possono essere usate come strumenti di denuncia anticapitalistica o come critica allo storicismo della sinistra, come afferma Martinez nella nota introduttiva, confondendo però a mio giudizio storicismo con positivismo e riferendosi soltanto al marxismo storico novecentesco più che al pensiero di Marx. La sinistra non ha perso perché è stata storicista, ma perché ha smesso di essere anticapitalista, perché non ha accolto la sfida del femminismo, neppure quello che è rimasto ancorato alla critica anticapitalista, perché è rifuggita da un bilancio teorico, antropologico e non solo politico dell’esperienza fallimentare del socialismo reale; perché, infine, ha sposato le tesi neoliberali e neo liberiste, come dimostra il fatto che in Italia e non solo, le privatizzazioni più selvagge e tutta l’impalcatura disastrosa della cosiddetta casa europea sono state messe a punto e realizzate dai due governi Prodi e dal governo D’Alema (che ci ha pure regalato la partecipazione alla guerra alla Serbia) e non dai governi Berlusconi, che hanno fatto ben altri danni ma su terreni diversi. Lo stesso è accaduto in Francia e in Germania. 

Le scritture apocalittiche non possono essere strumenti di critica e denuncia in quanto non ammettono l’esistenza di una via d’uscita se non nell’escatologia e dunque fuori dalla storia. Come tali assumono la veste involontaria di apologie dell’esistente. L’Apocalisse di Giovanni, infatti, finisce con la discesa della città di Dio sulla terra solo alla fine dei tempi quando la guerra di tutti contro tutti ha dissolto la storia umana. La leggiamo ancora oggi dopo migliaia di anni perché è un grande testo letterario. Essa non fu scritta per criticare i mali del mondo, che erano terrificanti tanto quanto i nostri se non di più, ma per alimentare la speranza di un rapido ritorno di Gesù Cristo sulla terra. Mentre la via d’uscita per Giovanni esisteva come trascendenza, nell’uso catastrofico che dell’Apocalisse si fa nelle scritture mondane, la via d’uscita non esiste più, si viene posti di fronte al ritorno di Ananke, ma senza la grandezza del pensiero greco. Il linguaggio usato, allora, produce un effetto contrario a quello che vuole ottenere perché, invece di produrre indignazione aumenta i vissuti di frustrazione e impotenza. Viviamo dunque nei migliore dei mondi? Proprio no, ma la critica è altra cosa e non può essere disgiunta dall’indicazione almeno di un orizzonte di senso, cioè quello che manca alla sinistra ormai da decenni. Perché è l’orizzonte di senso che muove le persone ed è quest’ultimo il solo a generare praxis: qualsiasi denuncia disancorata da questo non produce nulla. C’è un’altra ragione che scoraggia l’uso critico della scrittura apocalittica. Come i miti, l’Apocalisse è qualcosa che esiste sempre ma non accade mai, ma nel suo aspetto di sempre esistente è sempre già accaduta. Gli esperimenti di clonazione umana di cui parla Dufour, Antinori li fa da anni, l’esistenza di corpi predati per fornire organi è documentata dall’Onu, la dissoluzione dei vincoli sociali è all’origine del sistema capitalistico, ma noi siamo ancora qui! Infine, la critica apocalittica assolutizza gli aspetti più appariscenti del momento ma non ne coglie gli aspetti ideologici, distopici e di falsa coscienza A questo proposito l’uso che Dufour fa di una celeberrima citazione di Marx è del tutto fuorviante. Riporto per intero citazione:

La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l’immutato mantenimento dell’antico sistema di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’ininterrotto scuotimento di tutte le istituzioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti … Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra e gli uomini sono finalmente costretti a considerare con occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti.

Se storicizziamo tale affermazione, ne comprendiamo bene la ragione: il suo intento era proprio quello di mettere in evidenza le differenze fra la staticità del mondo precedente, quello dell’ancien regime, regolato ancora dal sorgere e calare del sole e la nascente società industriale, governata dagli orologi, da un’ossessiva dinamicità e da tempi di lavoro che non coincidevano più con i tempi della prima natura. Se la critica di Marx viene riproposta tout court in un contesto diverso e destoricizzato assume essa stessa  una tonalità apocalittica del tutto estranea al suo pensiero. Per un verso Dufour non ci dice nulla di nuovo, visto che Marx lo aveva scritto duecento anni fa, dall’altro veicola un vissuto che si può condensare in un sentimento di resa: se le cose andavano così allora e vanno nello stesso modo oggi, non c’è nulla da fare. In questo modo però siamo del tutto interni alla legge dell’eterno ritorno, che è appunto la ragione per cui fu scritta l’Apocalisse di Giovanni. Invece le cose non sono andate affatto così e anche quella frase di Marx, è stata smentita e non confermata dalla storia, che è stata anche storia dell’insorgenza operaia, di una Rivoluzione contro il Capitale e di molto altro ancora. L’auto contraddittorietà del ragionamento apocalittico emerge a mio giudizio in questo passaggio del saggio di Dufour:

Ma il mercato riesce a strumentalizzare tutto a proprio vantaggio: già sono sulla breccia numerosi gruppi che vantano e vendono una morale da paccottiglia. Sarebbe però un errore cruciale abbandonare il dibattito sui valori ai conservatori, siano essi “neo” o di vecchio stampo. Se si trascura questo terreno, ad occuparlo provvedono George W. Bush, i tele-evangelisti e i loro accoliti puritani, come sta accadendo negli Stati uniti, oppure i populisti fascistoidi come in Europa. È dunque urgente costruire una nuova riflessione sui valori, sul significato della vita nella società e sul bene comune, rivolgendosi a fasce di cittadini allarmati, sia pure confusamente, dai guasti morali dovuti all’espandersi indefinito del regno delle merci. È chiaro che se si trascura questo terreno, molti cittadini saranno tentati di lasciarsi trascinare dalla parte di chi lo occupa in maniera tanto abusiva quanto rumorosa.

Se il mercato può strumentalizzare davvero tutto, quello che segue nel ragionamento di Dufour smette di avere senso se non nella direzione di un discorso astratto sui valori che non può essere conteso ai telepredicatori ma anche a un Bergoglio, per esempio, il quale cacciatosi nella missione impossibile di convertire al cristianesimo la curia romana e molti cattolici, si trova ad essere inviso a una buona parte dei medesimi, diventando al tempo stesso un involontario leader della sinistra senza pensiero!

Nel quaderno 32 intitolato Americanismo e fordismo, Gramsci, dopo una lunga serie di osservazioni sulla fabbrica fordista, arriva alla conclusione che l’ideale di operaio per il signor Henry Ford erano il robot e la scimmia ammaestrata. Se ci fermiamo qui la frase è apocalittica e sembra un’anticipazione di quell’uomo nuovo costruito in laboratorio di cui parla anche Dufour. Gramsci, però, la usa sia per affermare che il modello fordista si sarebbe affermato ovunque e che era quello cui si doveva guardare per capire i nuovi orizzonti della conflittualità di classe, sia per mettere in evidenza i caratteri ideologici e cioè di falsa coscienza di quell’osservazione. Quella della scimmia ammaestrata era l’utopia del signor Ford e di tutti quelli come lui (anche se preferisco definirla distopia e sul fatto che questo genere letterario sia nato in ambiente anglo-americano ci sarebbe molto da dire, ma esula dagli intenti di questo scritto). Ognuno ha le sue utopie, anche i capitalisti: alcune terrificanti come quelle indicate anche da Dufour, altre meno, come  quella di Adriano Olivetti. Ora, se è sbagliato irridere le utopie degli altri è ancora più sciocco crederle vere alla lettera! Rimango fedele a un’idea di essere umano come ente generico (Gattungsgewesen, per dirla con Marx), cioè non specializzato. Ciò vuol dire in sostanza che mentre le termiti sanno bene cosa sono al mondo per fare, lo fanno bene e sanno fare solo quello, gli esseri umani sanno fare un po’ di tutto, ma lo fanno genericamente e anzi, gli eccessi di specializzazione portano a corpi paradossalmente fragili. Questo lo si può notare osservando gli sportivi, specialmente in alcune specialità come la ginnastica e a prescindere dal doping. La ragione di questo è indicata anche da Dufour: la specie umana è neotenica. L’animale umano nasce immaturo rispetto a tutte le altre specie e l’osservazione di un qualsiasi animale appena nato ce lo indica facilmente: nessun cucciolo ha bisogno di tanta cura da parte di altri, mentre un neonato morirebbe nel giro di pochi giorni se fosse lasciato solo: la neotenia ci obbliga a inventare protesi e questo, grazie alla tecnologia, può favorire deliri di onnipotenza che sono anche forme ideologiche. Non so se Antinori pensa davvero di essere il dio di una nuova creazione, non lo conosco se non per avere letto un po’ di polemiche sulle sue ricerche (lo pensa, invece sicuramente Fredkin e cioè il massimo esperto di intelligenza artificiale); ma forse dovrà arrendersi alla mancanza di fondi e qualcuno che lo ricondurrà a miti consigli e altro ancora.

Paolo Rabissi, sul primo numero della rivista online Overleft, ha scritto un saggio sul più grande studioso del post modernismo – Frederick Jameson – che nella sua opera monumentale definisce proprio utopie del capitale certe ipotesi o intendimenti visionari e catastrofici, svelandone il contenuto ideologico. Al saggio di Rabissi rimando per chi volesse approfondire la questione.

Per venire a tempi a noi recenti e forse ancora nella memoria collettiva, il fordismo non è morto di morte naturale, ma perché ci sono state le lotte operaie di un secolo intero e perché le scimmie ammaestrate non erano tali, ma uomini e donne che si sono ribellati, che hanno creato valori diversi nella concretezza del loro agire e non in astratto; che questo in Italia, per esempio, ha significato anche avere per anni una scuola e un servizio sanitario di alto livello, che rimpiangeremo assai dopo averlo criticato perché volevamo di più. Il problema è che, se si smarriscono le radici, si smarrisce anche la propria storia e smarrendola non si cercano più gli errori che si sono fatti o le nuove aperture che non si sono viste, ma non ci si ricorda di quanto positivo è durato nel tempo! Allora si cade in una duplice forma di oblio: quella del tempo che non passa e che si traduce nel finto agire della cosiddetta sinistra radicale, oppure nel rinnegare del tutto il proprio passato sposando la causa neoliberista come è avvenuto sia per i partiti ex comunisti sia per le socialdemocrazie europee.


1 Uno studio dettagliato sui rapporti fra mistica e tecnologia si trova nel libro di David Noble intitolato La religione della tecnologia: divinità dell’uomo e spirito di invenzione. Esiste una vecchia edizione introvabile tradotta in italiano per Einaudi, ma fuori catalogo.

IL RIMOSSO DELLA STORIA: VIOLENZA DI STATO E SOCIALE AL TEMPO DEL PATRIARCATO CAPITALISTA

Il testo che segue è la trasposizione scritta del mio intervento al convegno che si tenne a Barranquilla in Colombia  nel 2019 ed è stato pubblicato nel libro bilingue (castigliano e italiano) a cura di Eva Gerace, dal titolo La psicoanalisi e la sua causa nel tempo del non ascolto, pubblicato da Città del Sole edizioni.

L’uso che faccio della parola rimozione o rimosso della storia non ha nulla a che vedere con il concetto analitico, fra l’altro controverso per via della traduzione in italiano del termine freudiano. L’uso che qui faccio della parola rimozione si riferisce alla storia e alla politica e con tale termine intendo nominare quei processi di cancellazione della memoria storica che il potere tende sempre a mettere in atto e a cui resistono le narrazioni altre che cercano invece di porle al centro discussione. 

***

La categoria del rimosso non appartiene solo alla clinica psicoanalitica ma può essere estesa alla storia. Le diverse forme attuali di violenza, alimentate dalle politiche economiche e di potenza, oppure le manifestazioni più efferate che nascono nel tessuto sociale devastato dalle politiche neoliberiste, non sono spiegabili soltanto con le dinamiche dei conflitti attualmente in corso, ma sono il precipitato di antiche ferite mai risolte che riappaiono improvvisamente.   

Non è stato facile decidere di che cosa parlare in questo incontro e infatti sia il titolo sia i contenuti del mio intervento sono cambiati più volte. La parola ascolto ha una lunga tradizione nella cultura europea moderna. Montaigne fu il primo filosofo e antropologo che si rese conto della diversità culturale e fu il primo ad avvicinarsi ai popoli lontani dall’Europa con una volontà di ascolto e non predatoria. Da questa tradizione europea sono nate molte cose fra cui la Rivoluzione Francese, il concetto di riconoscimento dell’altro, fondamentale in Hegel almeno tanto quanto la dialettica; poi i diritti umani, il movimento operaio con le sue pratiche, un modello costituzionale che viene oggi adottato anche in altre parti del mondo. Aldilà del riconoscere tutto ciò, occorre tuttavia domandarsi perché permangono allora forme brutali di sfruttamento, una mescolanza fra violenza di stato e sociale, poteri criminali che sono ormai una parte anche della cosiddetta economia legale (penso al ruolo del narcotraffico e delle mafie). Infine, pensando a ciò che accade in Europa negli ultimi anni: cosa significano le periodiche ondate migratorie che raggiungono le metropoli europee, se non un ritorno del rimosso della storia? Sono uomini e donne che fuggono da guerre e povertà quasi sempre causate da interventi militari delle potenze occidentali. Questa è storia contemporanea, che è causa di molte polemiche politiche in Italia; ma come non vedere le radici lontane di questi fenomeni, le ferite mai sanate e metabolizzate della storia? Lo stesso si può dire della violenza maschile contro le donne, i femminicidi. Allora mi sono posto una domanda sul luogo in cui mi trovo. I luoghi non sono neutrali e io mi trovo in una città colombiana, in un continente molto lontano, rispetto al quale in quanto europei abbiamo una responsabilità storica che non può essere rimossa, tanto meno in un convegno che ha al proprio centro la psicoanalisi. Più pensavo a tutto ciò più mi rendevo conto che il campo del non ascolto nella mia relazione si restringeva a una sola forma delle tante possibili: la violenza pura e semplice che si manifesta in molti modi ma che è prima di tutto utilizzo della forza brutale, istigazione all’odio razziale particolarmente virulento in Italia in questo momento, una violenza nella doppia accezione di violenza di stato da un lato ma anche sociale, che sorge dalle viscere del corpo sociale devastato della società capitalista a patriarcale, in Europa come in altre parti del mondo. 

La scoperta dell’altro

Il problema è molto antico e si perde nel tempo, però pensando alle relazioni fra Europa e continenti americani mi sono ricordato di un testo teatrale di Dario Fo.  Juan Padan alla scoperta delle Americhe è un’opera che continua quella più importante di Fo e cioè Mistero buffo. In tali opere, documentazione storica e invenzione si confondono in modo inestricabile. La lingua in cui sono scritti è il Grammelot, una mescolanza di idioma lombardo, italiano maccheronico e antico francese. Una lingua dei giullari che è al tempo stesso invenzione, imitazione del parlato quotidiano, molto espressionista. Che cosa si racconta in questa opera teatrale? Che fra gli invasori europei che arrivarono prima in Messico e poi in tutta l’America Latina, c’era anche un uomo che è nato dalle parti dove sono nato io stesso, nella Lombardia a nord Milano, a ridosso del confine svizzero. Joan Padan, il personaggio, è un falegname e artigiano, si occupa di molti aspetti di vita quotidiana della spedizione. È un uomo comune, semplice, che partì per spirito di avventura e per fuggire da qualcuno o da qualcosa, come molti altri. Dal suo racconto sappiamo che aveva già partecipato ad altre spedizioni militari in Europa e all’inizio sembra che la nuova esperienza non sia diversa dalle altre. Tuttavia, giorno dopo giorno Joan Padan capisce che no, le cose non sono uguali. Gli uomini e le donne che stanno dall’altra parte, i nemici, sono diversi, prima di tutto perché quando s’incontrarono per la prima volta il loro atteggiamento non era affatto bellicoso. Nelle guerre europee gli uomini che si combattevano erano molto simili, qui no. Prima di tutto lo scandalo della nudità, un tabù per gli europei, in particolare la nudità delle donne indigene, i loro modi di vita. Per farla breve Joan Padan incontra l’Altro per la prima volta e non è solo una sua esperienza, ma una metafora che riguarda l’Europa intera. Si potrebbe pensare che questo non sia del tutto vero, che durante le Crociate – per esempio – l’Europa avesse già incontrato l’altro, ma si tratta di un’esperienza ben diversa. Ci sono molti aspetti in comune fra Cristiani, Ebrei e Islamici, Gesù Cristo è un profeta ebreo nominato nel Corano e non solo quello che è per i Cristiani, ci sono differenze riguardo ai cibi in alcuni casi ma in altri no. Il riconoscimento reciproco era possibile anche in una situazione di guerra e poi nel trattamento dei tabù riguardanti la sessualità, l’impurità delle donne, il dominio maschile, erano tutti d’accordo. L’indigeno latino americano è l’Altro assoluto, gli europei non sanno nulla di loro. Il personaggio di Fo non si limita a osservare, ma comincia a porsi delle domande, fa le sue deduzioni: a volte comiche, a volte tragiche o strampalate, ma si rende conto che anche nel modo di condurre al guerra ci sono delle diversità. La mancanza di ogni pietà, il disprezzo dell’altro lasciano nel suo animo un segno profondo. Egli non è un eroe, però non fa finta di non vedere: e cosa vede? Cristiani che commettono ogni genere di crimini verso popolazioni considerate inferiori. Noi oggi abbiamo una parola per definire tutto questo, razzismo, un marchio originale del colonialismo europeo. La conquista fu violenza militare e politica, successivamente nella storia europea sarebbe diventata – con la rivoluzione industriale – predominio economico e finanziario. Ci sono poi forme sociali di violenza che sono collegate alla prima che e pure hanno una loro autonomia: la violenza maschile sulle donne, quella sui bambini, gli abusi sessuali come la pedofilia, il turismo sessuale. Che risposte possiamo tentare di dare? Pensando alla domanda mi sono venuti in mente due libri. Il primo fu scritto negli anni ’70 dalla femminista italiana, Lea Melandri, il titolo del libro è L’infamia originaria. Il secondo è un libro recente scritto dallo psicoanalista francese Gerard Pommier che mi sembra molto conosciuto in America Latina, ma non è stato ancora tradotto in italiano e io stesso l’ho letto nella lingua castigliana. Il libro s’intitola Il femminile una rivoluzione senza fine. Che cosa hanno in comune i due libri? Entrambi si interrogano sulla violenza e subordinazione di genere e anche sull’origine del potere.

Melandri critica sia l’idealismo filosofico europeo sia l’economicismo marxista e riporta l’origine della violenza alla dominazione sessuale che è per lei il paradigma di tutte le forme successive di oppressione, sfruttamento e dominio. Pommier riconduce alla legge del padre una delle ragioni del dominio e s’interroga al tempo stesso sulle ragioni per cui il processo rivoluzionario francese si arenò proprio sulla questione del potere politico. Per lui i rivoluzionari francesi dopo avere distrutto i simboli più vistosi della legge paterna, a cominciare da quelli religiosi, hanno introiettato il medesimo meccanismo del potere nell’inconscio e dopo avere ucciso il padre hanno ricostruito la legge patriarcale affidandosi a un piccolo padre come Napoleone Bonaparte. Da questa dinamica del potere le donne, ma anche le minoranze sessuali o gli immigrati (gli antichi meteci della polis greca) continuano a essere esclusi. Del libro di Melandri, si può dire che si tratta di un classico insieme ad altri della cultura femminista degli anni ’70 in poi, attuale e importante anche oggi. Del Femminile un rivoluzione senza fine si può dire che è scritto da un uomo che ha saputo interrogarsi sulle ragioni del femminismo e non le ha ignorate come molti altri. Ne cito due brevi passaggi nei quali è citata anche Judith Butler riportati nel libro di Pommier:

..il rifiuto del femminile fu sempre una questione teologica , correlata alla spiritualizzazione del padre. Questa repressione si esercitò di padre in figlio fin dall’origine dei tempi. Però la sua longevità non le dà alcuna legittimità…”

Bisogna considerare l’impulso teologico istituito da questa rappresentazione della legge paterna, come autorità insondabile inconoscibile cui il soggetto è sottomesso ancora prima di essere sessuato, come un continuo fallimento…La costruzione di una legge che garantisce il fallimento è il sintomo di una morale da schiavi, che smentisce la produttività stessa del potere che essa impiega per costruire la legge come impotenza permanente.”(pag 85-86). 

Quali ulteriori e conclusive riflessioni si possono fare? Riprendo il tema che ho posto all’inizio del mio intervento. La categoria del rimosso non è importante solo per la clinica analitica, cioè nel rapporto fra analizzante e analista, ma riguarda anche la storia. Ascoltare, nella nostra contemporaneità, significa per me ascoltare prima di tutto questo enorme rimosso che insorge un po’ ovunque nel mondo. Penso ai movimenti delle donne, quelli della rete Nonunadimeno ma non solo, con le loro diverse caratteristiche. Penso allo sciopero sociale dell’otto marzo che è giunto quest’anno alla sua terza edizione. Penso al movimento Friday for future sulle questioni climatiche che ha indetto proprio per il prossimo 20 settembre un sciopero a livello mondiale.

Concludo allora con un’immagine ricorrente nella cultura europea del ‘900. Fu inventata dal filosofo tedesco Walter Benjamin. L’immagine è quella dell’angelo della storia che secondo Benjamin procede impetuosamente in avanti ma ha gli occhi solo dietro di sé, per cui può vedere soltanto le terribili distruzioni che il suo procedere provoca. Se non riusciamo collettivamente a girare la testa dell’angelo e a guardare come umanità in avanti verso il futuro, credo che ci attendono tempi ancor più terribili di questi, perché il pilota automatico patriarcale e capitalista e cioè l’immagine attualizzata dell’angelo della storia, non si fermerà da solo se non ci saranno decise e collettive azioni per fermarlo.