LE TESI SULLA STORIA DI WALTER BENJAMIN

Una parte di questa riflessione è stata già pubblicata sulla rivista online Overleft (www.overleft.it), con il titolo La speranza possibile. Alla fine ho deciso di riproporlo qui nella sua forma più estesa e con alcune modifiche al fine di accorciare quelle parti che mi sono sembrate più datate rispetto al nostro presente e invece sviluppandone altre. Data la lunghezza del testo, lo pubblico in due puntate: la prima è la pars destruens della riflessione di Benjamin e si conclude con la celeberrima nona Tesi, quella in cui compare l’Angelo della storia e ha come riferimento un quadro di Klee.

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Premessa

I tragici tempi di guerra che stiamo vivendo, dopo due anni di pandemia che stanno già cadendo in un eccessivo oblio, sono assai simili a quelli che spinsero Benjamin a scrivere quest’opera, che si può considerare il suo testamento spirituale. Quello che mi ha sempre colpito di tale testo, nelle diverse riletture che ne ho fatto, è la capacità del suo autore di mantenere acceso un lume di pensiero critico, di sapienza del cuore e di speranza, nel momento più buio della storia del ‘900. Rileggere oggi quelle parole e meditarle può forse aiutarci a non cadere del tutto in un senso di impotenza che sembra sovrastarci senza alcuna via d’uscita.

Introduzione

Le tesi sulla storia sono un testo estremo, scritto di getto, eppure in sintonia con una riflessione che viene da lontano, lungamente elaborata e carsica, contraddittoria e oscura in alcune parti, di una densità magmatica, i cui prodromi risalgono molto indietro nel tempo e cioè alle discussioni con Ernst Bloch da cui nacque il Frammento teologico politico del 1920.

Gli eventi tragici del biennio 1939-40 offrirono a Benjamin il contesto per giungere a una sintesi di quel percorso che va ben oltre lo scritto del ‘20. Bisogna tuttavia considerare che egli si trovava in una condizione di disperazione personale e di isolamento in quel momento. Penso che se avesse avuto il tempo di rivederle, alcune oscurità avrebbe cercato di chiarirle e del resto che si tratti di un lavoro composto in uno stato febbrile lo dimostra il continuo cambiamento nell’ordine delle tesi e le due non numerate ma indicate come Tesi A e Tesi B, aggiunte per ultime. Per di più, le versioni diverse del testo e delle traduzioni rendono ancor più complesso avvicinarsi a quest’opera. Per tale ragione seguirò un mio ordine nel commentarle e non quello delle due traduzioni italiane cui faccio riferimento, peraltro diverse anch’esse nella numerazione. Per alcuni passaggi chiave farò ricorso anche all’originale in lingua tedesca. Per non appesantire la lettura con continui rimandi alle note, indicherò nel testo a quale traduzione mi riferisco, caso per caso.1   

Al grado zero della speranza

Dalla decima tesi. (traduzione einaudiana ndr).

Gli oggetti che la regola dei conventi dava in meditazione ai fratelli, avevano il compito di distoglierli dal mondo e dalle sue faccende. Il pensiero che svolgiamo qui nasce da una determinazione analoga. Esso si propone, nel momento in cui i politici in cui avevano sperato gli avversari del fascismo, giacciono a terra e ribadiscono la disfatta col tradimento della loro causa, […] di dare l’idea di quanto deve costare, al nostro pensiero abituale, una concezione della storia che eviti ogni complicità con quella a cui quei politici continuano ad attenersi.   

Dopo aver introdotto in alcune tesi precedenti, alcuni dei temi intorno ai quali si muove la riflessione, improvvisamente Benjamin compie qui una mossa laterale. Veniamo trasportati in una nicchia conventuale e invitati a disfarci del mondo e delle sue faccende; ma dopo aver ribadita tale necessità facendone addirittura il motivo che lo ha spinto a scrivere l’opera, ecco che, nella frase successiva, la storia rientra in scena con tutta la sua brutalità. Le tesi sono state scritte nel 1940, pochi mesi dopo la firma del patto scellerato Ribbentrop-Molotov, mentre tutta l’Europa e in particolare la Francia, dove Benjamin si trova, è sconfitta e umiliata dalla nascita del governo di Vichy. Il teatro mondano è dunque sempre presente e incombente quanto mai. Egli lo ricorderà quasi in ognuna delle Tesi che il contesto è quello. Nazismo e Fascismo trionfano ovunque, il 10 giugno del 1940 anche l’Italia era entrata in guerra; dall’altro c’è lo smarrimento del fronte antifascista. Portandoci in una nicchia conventuale, Benjamin non ci sta dunque invitando a una fuga dalla realtà, ma a tentare la strada di una sua comprensione più profonda. Niente però è più salvo della prassi precedente quel momento, compresi certi sodalizi che sono stati anche i suoi. In quei politici e in quei partiti nulla può essere riconosciuto come speranza e occorre avere il coraggio di voltare loro le spalle: è uno scenario che conosciamo benissimo anche noi oggi.

La regola della meditazione conventuale è un togliersi dalla lettera della storia e il farlo implica accettare il prezzo che comporta il rifiuto di colludere con il modus operandi di poco prima; tale prezzo, tuttavia, non è tanto la brutalità degli eventi in sé e neppure la propria solitudine soltanto, ma prima di tutto un affrancarsi dal proprio pensiero abituale precedente. Come sopportare tutto ciò? La regola conventuale suggeriva di farlo con oggetti che hanno il compito di distogliere e distrarre: cose qualunque, che ognuno di noi può trovare anche oggi dove meglio crede. Ciò che distrae aiuta a pagare quel prezzo perché lo rende sopportabile nel tempo e questo crea una nuova abitudine che distoglie dai trucchi del pensiero precedente, la cesura, un tempo nel quale anche Benjamin aveva collocato una speranza che si è trasformata in un’illusione. Qual è tuttavia la concezione della storia cui allude la parte finale della tesi e con cui non bisogna colludere? Lo storicismo; ma si tratta  di un termine convenzionale e tecnico che può essere frainteso e che di per sé non risponde alla necessità impellente di gettare l’allarme in un momento tragico della storia europea. Nella tesi ottava troviamo una sua maggiore concretizzazione:

La tradizione degli oppressi c’insegna che lo “stato d’emergenza” in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponde a questo. Allora ci starà davanti, come nostro compito, di suscitare il vero stato d’eccezione […]. Lo stupore per le cose che noi viviamo e sono “ancora” possibili nel ventesimo secolo è tutt’altro che filosofico. Non è all’inizio di alcuna conoscenza, se non di quella che l’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi. (traduzione einaudiana ndr)

Lo storicismo assume qui un volto, non ancora del tutto definito, ma alcuni lineamenti iniziano a palesarsi. Il soggetto della frase iniziale – la tradizione degli oppressi – ci permette di capire che lo stato d’emergenza (der ”Ausnahmezustand“) di cui scrive Benjamin non è lo stato d’eccezione (der Ausnahmetatbestand) di Karl Schmitt, di cui si parla molto in quegli anni. Per i dannati e le dannate della terra lo stato d’emergenza è regola sociale costante e non ingegneria istituzionale di un momento. La vera eccezione sarebbe, seguendo il ragionamento di Benjamin, il rovesciamento della normalità oppressiva ed è questo l’obiettivo cui dovrebbe tendere chi vuole modificare lo stato di cose presenti. Per poterlo fare, tuttavia, occorre prima di tutto liberarsi di un’idea di storia, quella che possiamo riassumere in una frase tipica che avremo sentito centinaia di volte in momenti diversi delle nostre vite: “Ma come, succedono ancora queste cose nel 2023?”. Tale sgomento, come afferma Benjamin, non apre ad alcuna conoscenza, ma la impedisce. La storia lineare o a spirale che sia, ma sempre orientata secondo la freccia del tempo e sempre in senso progressista è il bersaglio di questa tesi e lo sarà in altre, una in particolare, la settima.

Tesi settima.  Traduzione da L’ospite ingrato.

Foustel de Coulange raccomanda, allo storico che vuole rivivere un’epoca, di togliersi dalla testa tutto ciò che sa del corso successivo della storia. Meglio non si potrebbe  designare il procedimento con il quale il materialismo storico ha rotto. È un procedimento di immedesimazione emotiva. La sua origine è l’ignavia del cuore, l’acedia, che dispera d’impadronirsi dell’immagine storica autentica, che balena fugacemente. Per i teologi del Medio Evo essa era il fondamento originario della tristezza. Flaubert, che ne aveva conoscenza, scrive: “Poche persone indovinerebbero fino a che punto bisogna essere tristi per resuscitare Cartagine”. La natura di questa tristezza diventa più chiara se ci si chiede con chi poi propriamente s’immedesimi lo storiografo dello storicismo. La risposta suona inevitabilmente: con il vincitore. […] L’immedesimazione con il vincitore torna perciò sempre a vantaggio dei dominatori di turno. Con ciò, per il materialista storico si è detto abbastanza. Chiunque abbia riportato fino ad ora vittoria partecipa al corteo trionfale in cui i dominatori di oggi passano sopra quelli che oggi giacciono a terra. Anche il bottino, come si è sempre usato, viene trasportato nel corteo trionfale. Lo si designa come il patrimonio culturale. Esso dovrà tener conto di avere nel materialista storico un osservatore distaccato. Infatti, tutto quanto egli coglie, con uno sguardo d’insieme, del patrimonio culturale, gli rivela una provenienza che non può considerare senza orrore. Tutto ciò deve la sua esistenza non solo alla fatica dei grandi geni che l’hanno fatta, ma anche al servaggio senza nome dei loro contemporanei. Non è mai un documento della cultura senza essere insieme un documento alla barbarie. E come non è esente da barbarie esso stesso, così non lo è neppure il processo di trasmissione per cui è passato dall’uno all’altro. Il materialista storico quindi, ne prende le distanze da esso nella misura del possibile. Egli considera suo compito spazzolare la storia contropelo.

Il pregio di questa tesi è di essere chiara, oltre ogni dubbio ragionevole; ma tale chiarezza ne aumenta la complessità. Prima di commentarla tuttavia, è necessario una messa in guardia sull’uso del termine materialismo storico che appare in essa e in quella precedente, come antidoto allo storicismo e il cui compito – assai impegnativo – sarebbe quello di spazzolare la storia contropelo. Opportuno è leggere subito la prima tesi che si trova in nota, per comprendere che forse Benjamin non sta dicendo ciò che superficialmente appare2.

Stalin e Molotov

Al centro della tesi, c’è quell’autentico cammeo incastonato nel mezzo, la citazione di Flaubert: resuscitare Cartagine! Perché questa citazione così sorprendente? Cosa significa? La scelta di Flaubert e di Benjamin cade su una città simbolo di una sconfitta ingiusta, atroce e persino gratuita.3 Tuttavia, rimane un dubbio: in che cosa possiamo trovare utilità o consolazione nel resuscitare Cartagine nel ventunesimo secolo? Per farlo bisogna arrivare in fondo a una tristezza abissale, cioè una tristezza senza scopo e altrettanto gratuita quanto l’amore disinteressato e non orientato al possesso: perché anche nell’ingiustizia della storia esistono gradazioni diverse. Si può essere tristi a metà di fronte a certe situazioni del passato, ma solo se si riesce a provare una tristezza che le comprende tutte le ingiustizie, allora si può voler resuscitare Cartagine; o forse anche Troia, cioè due entità per le quali è difficile provare un’empatia che serva a uno scopo. E invece è proprio questo che il filosofo suggerisce di fare, in un modo che può apparire paradossale, ma che lo diventa di meno se leggiamo la dodicesima tesi, liberandola da alcuni aspetti datati.

   Il soggetto della conoscenza storica è […] la classe oppressa che lotta […]. Questa coscienza che si è fatta ancora valere per breve tempo nella Lega di Spartaco, fu da sempre scandalosa per la socialdemocrazia, che nel corso di tre decenni è riuscita a cancellare del tutto il nome di un Blanqui […]. Essa si compiacque di assegnare alla classe operaia il ruolo di redentrice delle generazioni future […]. La classe disapprese, a questa scuola, tanto l’odio quanto la volontà di sacrifico. Entrambi, infatti, si alimentano dell’immagine degli antenati asserviti, non all’ideale dei discendenti liberati.    

La Lega di Spartaco è la speranza precedente che Benjamin non rinnega ma che appartiene al passato, come peraltro la socialdemocrazia cui egli non ha mai riservato alcun credito. L’importanza della tesi sta nel rovesciamento di un luogo comune consolidato: è l’immagine degli antenati oppressi e non quella delle generazioni future e di un futuro di cui nulla sappiamo e possiamo sapere, che può spingere all’indignazione e alla lotta. La tesi è certamente sconcertante, ma Benjamin la riempie di concretezza e di esemplificazioni, disseminate in modo non sempre consequenziale, ma che alla fine permettono una ricostruzione del suo pensiero. Si può ritornare ora alla tesi precedente con ben altra cognizione di causa e possibilità di comprendere quanto sia radicale la critica di Benjamin allo storicismo e come egli intende tale parola, che perde nelle sue riflessioni quelle connotazioni tecniche che pure ha del tutto legittimamente per uno storico di professione, per assumerne altre. Lo storicismo per Benjamin significa in prima istanza identificarsi con tutti i vincitori, facendo propria la finzione di scorporare il cosiddetto patrimonio culturale dalle condizioni materiali e di oppressione che lo hanno reso possibile. Tale finzione si avvale dell’immedesimazione emotiva con il vincitore e dell’acedia, cioè l’ignavia del cuore.4 La sua non è soltanto una critica del modello eroico, cioè della storia rappresentata come una sfilata di eroi, quasi sempre e solo uomini peraltro. Affermare che ogni documento di civiltà è anche un documento di barbarie, rompe qualsiasi sudditanza basata sulla continuità storica e, pur sapendo egli stesso che non è possibile raggiungere questo obiettivo in senso assoluto (Il materialista storico quindi, ne prende le distanze da esso nella misura del possibile), questa è l’unica strada che permette di creare uno spazio mentale vuoto o quasi vuoto, nel quale collocare l’ipotesi di una speranza possibile. Le radici recenti di questo capovolgimento si trovano negli scritti appena precedenti cioè “le tesi”.5 Ripensando al discorso intorno allo stato di emergenza, ecco come in un passaggio della terza Tesi troviamo una prima e importante implicazione.

Il cronista che racconta gli avvenimenti, senza distinguere fra grandi e piccoli, tiene conto della verità che per la storia nulla di ciò che è avvenuto deve essere mai dato per perso.

In sostanza, nella storia non vi può essere niente che sia minore rispetto ad altro: è solo la selezione fatta dal vincitore che crea tale illusione ottica ed è solo distanziandosi dall’appiattimento storicista che ne deriva, che si colgono invece i rilievi, le increspature, le cesure, le figure considerate minori. Sempre nella terza tesi Benjamin fa un elogio dei cronisti medioevali, proprio perché non distinguevano fra grandi e piccoli eventi, ma registravano – per quanto potevano – tutto.6 Comunque, occorre chiarire subito che tali affermazioni non preludono a una riscrittura consolatoria della storia dalla parte degli sconfitti o dei perdenti: non è questo che Benjamin intende dire. Decidere di non far parte del coro e di non salire sul carro che accompagna il vincitore, non significa un generico ed empatico stare dalla parte delle vittime. Lo aveva già chiarito in una tesi già citata dove è la classe che lotta – noi potremmo dire il soggetto o i soggetti che lottano e resistono – ad avere titoli per rileggere la storia contropelo: non basta essere dei generici oppressi che se ne stanno tranquilli nella loro oppressione. Benjamin non è un cripto cristiano, tanto meno un cattolico e se la teologia ha uno spazio nella sua riflessione, essa è tutt’altra. Il suo affondo nei confronti della morale protestante e la sua radicale critica a Max Weber li troviamo in un passaggio dell’undicesima tesi:

 […] La vecchia morale protestante del lavoro festeggiava, in forma secolarizzata, la sua resurrezione fra gli operai tedeschi […].

Ciò cui allude Benjamin non è solo una filosofia della storia, ma è lavoro salariato scambiato per lavoro tout-court e considerato come appendice allo sviluppo tecnico positivo in sé: la negazione che questo abbia anche un valore politico, cioè di essere una strada verso l’emancipazione, è decisiva per comprendere quanto Benjamin afferma subito dopo. 

Nel miglioramento del lavoro sta la ricchezza. Questo concetto volgar marxistico non si sofferma a lungo sulla questione di come il prodotto del lavoro agisca sui lavoratori stessi finché essi non ne possono disporre: vuol dire tener conto solo dei progressi nel dominio della natura, non dei regressi della società. […] Confrontate con questa concezione positivistica, le fantasticherie che tanto hanno contribuito alla irrisione di Fourier mostrano di avere un loro senso profondamente sano. Secondo Fourier il lavoro sociale ben organizzato, avrebbe avuto come conseguenza che quattro lune illuminassero la notte terrestre, il ghiaccio si ritirasse ai poli, il mare avrebbe perso la salinità e gli animali feroci si ponessero al servizio degli uomini. Tutto ciò illustra un lavoro ben lontano dallo sfruttare la natura, ma di sgravarla delle creazioni che, in quanto possibili, sono sopite nel suo grembo. Al concetto corrotto di lavoro appartiene come suo complemento quella natura che, come ha detto Dietzgen: “è là gratuitamente”.   

L’occhio di Benjamin vede qui davvero lontano: non neutralità della scienza e saccheggio della natura, falso progressismo che si traduce in regresso della società sono i nostri scenari quotidiani, ottant’anni dopo queste parole. La conclusione ci dice però qualcosa di più e cioè che la natura non è gratis, un concetto con il quale ci troviamo decenni dopo a fare i conti in modo drammatico.7 Che dire però del paradossale elogio di Fourier? Prima di tutto che non si tratta di un paradosso, ma se mai di un uso del medesimo per arrivare a indicare altro. Ciò che importa ed è decisivo nella citazione di Fourier, aldilà delle bizzarrie che lo hanno reso famoso, è l’affermazione finale di Benjamin e cioè che le sue ipotesi, per quanto strampalate, esprimono una filosofia di fondo che è sana e cioè che rispetto alla natura il lavoro utile è quello che fa prevalentemente da levatrice a ciò che si trova già nel suo grembo. La sintesi che possiamo trarre da questo accostamento analogico è che la più strampalata ma sana fantasticheria è di gran lunga preferibile a qualsiasi progressismo impregnato di positivismo e di spregiudicatezza tattica senza etica alcuna. Alla luce di tutto ciò e proprio perché questa critica covava da tempo, si può ora commentare la prima Tesi, la sola che in tutte le versioni si trova sempre al primo posto.

Si dice che esistesse un automa costruito in modo tale da reagire ad ogni mossa del giocatore di scacchi con una contromossa che gli assicurava la vittoria. Un manichino vestito da turco, […] sedeva davanti alla scacchiera […] In verità, c’era seduto dentro un nano gobbo, maestro nel gioco degli scacchi, che guidava per mezzo di fili la mano del manichino. Un corrispettivo di questo congegno si può immaginare per la filosofia. Vincere deve sempre il manichino detto “Materialismo storico”. Esso può competere senz’altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi […] è piccola e brutta e tra l’altro non deve lasciarsi vedere.

È per tutti i commentari la tesi più oscura ed enigmatica. Il racconto ce la rende più ostica, ma comincia a esserla meno se ci sintonizziamo sullo stile della sua scrittura. Benjamin usa l’apologo e persino la parabola e l’accostamento analogico, lo ha fatto in tutte le tesi; ma lascia sempre un vuoto nel mezzo, in questa tesi particolarmente vistoso. Non mi soffermerò in questo momento sul retroterra ebraico di questo tipo di scrittura. Fra la fine del racconto-aneddoto e la conclusione della tesi c’è uno iato, sebbene introdotto da una frase – Un corrispettivo di questo congegno si può immaginare per la filosofia – dalla quale non possiamo tuttavia immaginare ciò che seguirà e che a una prima lettura è sorprendente. Cosa c’entra il manichino vestito da turco con il “materialismo storico”? Nominandolo espressamente Benjamin ci avverte che non sta usando una metafora – nella sua scrittura non vi è quasi mai posto per la metafora – bensì una complessa catena di similitudini. Come il nano gobbo seduto nel manichino costituisce il trucco meccanico per ingannare il pubblico, così la teologia, rimpicciolita rispetto ai secoli precedenti, si è insinuata nel materialismo storico, che Benjamin mette fra virgolette, facendone una macchinetta per avere sempre ragione, qualunque siano le scelte compiute, dal momento che sarebbe in linea con il solco deterministico della storia. Questa tesi, nei commentari, viene considerata come la sua radicale critica allo stalinismo e allo scellerato patto Ribbentrop-Molotov. Non vi è dubbio su questo, tuttavia cercherò di leggere le sue parole, oltre quel contesto perché la parte veramente interessante della tesi, è il nesso che egli stabilisce fra il trucco del manichino e la teologia che secondo Benjamin ha inquinato l’illuminazione materialista e profana di cui aveva scritto nel saggio sul Surrealismo del 1929.8 Anche in questa critica c’è da considerare un doppio aspetto: nell’immediato è una critica al Diamat staliniano come forma perniciosa di mistica materialista e spregiudicatezza senza alcuna etica, ma tale giudizio si estende come vedremo fino a comprendervi il falso progressismo nei suoi diversi aspetti.

La tesi nona, commentata e celeberrima quanto mai, suggella e chiude quella che considero la pars destruens del ragionamento di Benjamin e ci permette di andare oltre.   

Tesi nona.

C’è un quadro di Klee che si chiama Angelus novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove, davanti a noi, appare una catena di avvenimento, egli vede un’unica catastrofe che ammassa incessantemente macerie su macerie  e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo di macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo progresso è questa bufera.

Hugo Simberg, L’angelo ferito, 1903


1 Le traduzioni italiane di cui mi sono servito sono: Angelus novus, tascabili Einaudi a cura di Renato Solmi e un saggio di Fabrizio Desideri: la mia edizione è quella del 1995. La seconda è Walter Benjamin Testi e commenti, Quaderno N.3 de L’ospite ingrato, Periodico del centro studi Franco Fortini, a cura e commento di Gianfranco Bonola, Quodlibet 2013: questa edizione riporta anche le tesi finali che mancano nel testo einaudiano. Il testo in originale tedesco è quello dei Manuskript Hanna Arendt, che si trova anche in rete ed è corredato dalle fotocopie del manoscritto di Benjamin con le sue correzioni. Il titolo completo è: Walter Benjamin über den Begrieff der Geschichte. In questa stesura, mancano alcune tesi che verranno aggiunte più tardi e che si trovano invece nelle due traduzioni in italiano. Soltanto la prima tesi è numerata sempre così anche negli originali.

2 Questa dell’uso continuo dell’espressione materialismo storico nelle tesi è una contraddizione o almeno un’aporia non chiarita dal filosofo. Riservandomi di tornare successivamente su questo problema niente affatto minore, mi limito a porre in evidenza come l’espressione abbia almeno due significati diversi, ma si riferisca anche a due oggetti filosofici in diversi. Ecco di seguito la prima tesi nella traduzione da “L’ospite ingrato”: È noto che sarebbe esistito un automa costruito in modo tale da reagire ad ogni mossa del giocatore di scacchi con una contromossa che gli assicurava la vittoria. Un manichino vestito da turco, […] sedeva davanti alla scacchiera […]. In verità, c’era seduto dentro un nano gobbo, maestro nel gioco degli scacchi, che guidava per mezzo di fili la mano del manichino. Un corrispettivo di questo congegno si può immaginare per la filosofia. Vincere deve sempre il manichino detto “materialismo storico”. Esso può competere senz’altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi […] è piccola e brutta e tra l’altro non deve lasciarsi vedere. Questa tesi verrà meglio commentata successivamente nel testo.

3 Naturalmente il mio giudizio, così estremo, non è un giudizio da storico. Tuttavia, proprio per rimanere in sintonia con Benjamin e per non sottoscrivere il romanissimo Carthago delenda est, ricordare le alternative che pure furono prese in considerazione, non significa fare la storia con i se, ma rifiutare appunto l’immedesimazione deterministica con il vincitore. Il determinismo assoluto non riguarda il futuro come non riguarda il passato che era pur sempre il futuro di una volta.

4 Il concetto di immedesimazione emotiva è assai importante nell’economia del pensiero benjaminiano e le sue premesse si trovano nel saggio Che cosa è il teatro epico, scritto nel 1939. Prendendo come esempio virtuoso il teatro di Brecht, il filosofo mette in evidenza la differenza sostanziale che esiste fra immedesimazione emotiva con l’eroe, che porta alla catarsi aristotelica, e l’immedesimazione con la situazione in cui l’eroe è coinvolto. Quanto all’acedia del cuore, penso che il bersaglio sia l’etica protestante e la sua mancanza di empatia, essendo collocata del tutto nella coscienza individuale e in un rapporto diretto e personale con Dio e la Grazia.  

5 Questi saggi sono stati raccolti nell’edizione italiana einaudiana dal titolo L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.  Anche il sottotitolo è importante: Arte e società di massa.  La scelta editoriale può essere giudicata arbitraria sotto molti aspetti, prima di tutto per una questione di datazione, ma permette di osservare da vicino una parte del lavorio che porterà alle Tesi. Il tema di quei saggi assemblati dalla casa editrice e tradotti da Filippini è la cultura di massa. Piccola storia della fotografia è del 1931, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e il saggio su Fuchs sono del ’36-’37 e sono quelli che affrontano più direttamente il tema principale e cioè la nascita della cultura di massa. Che cosa è il teatro epico è del 1939. Fra le pieghe dei cinque saggi assemblati, e specialmente in alcune note al testo, è possibile trovare le radici prossime di una critica allo storicismo, che investe prima di tutto i prodotti della cultura e che approderà, nelle Tesi, alla storia.  

6 Forse non è del tutto un caso che siano stati proprio degli storici medioevalisti a fondare in pieno ‘900 una scuola come Les Annales che assegna un ruolo prioritario alla storia materiale e alla vita quotidiana. Del resto, anche la ricerca di Gramsci, più o meno negli stessi anni, è orientata alla ricostruzione della cultura popolare, delle strutture materiali dell’esistenza e del folklore.

7 Citerò due passaggi da Dialettica della natura di Engels per la loro assonanza con le affermazioni di Benjamin e anche perché il concetto di lavoro in esse non ha nulla a che vedere con l’espressione lavoro salariato: […]  noi non la dominiamo (la natura ndr) […]  come chi è estraneo ad essa, ma le apparteniamo come carne sangue e cervello e viviamo nel suo grembo: tutto il nostro dominio sulla natura, consiste nella capacità, che si eleva al di sopra delle altre creature, di conoscere le sue leggi e di impiegarle in modo appropriato […]. Ma quanto più ciò accade, tanto più gli uomini sentiranno, anche sapranno, di formare un’unità con la natura, e tanto più insostenibile sarà il concetto assurdo e innaturale, di una contrapposizione fra spirito e materia, tra uomo e natura, tra anima e corpo, che è penetrato in Europa dopo il collasso del mondo dell’antichità classica e che ha raggiunto il suo massimo sviluppo nel cristianesimo. Ma se è stato necessario il lavoro di millenni sol perché noi imparassimo a calcolare gli effetti naturali più remoti della nostra attività  rivolta alla produzione, la cosa si presentava come ancor più difficile per quanto riguarda gli effetti sociali di quelle attività. […] Che cos’è la scrofola di fronte agli effetti che provocò sulle condizioni di vita delle masse popolari di interi paesi il fatto che i lavoratori fossero ridotti a cibarsi di sole patate? […]

L’interrogativo di Engels è retorico. La scrofola è simmetricamente il risultato di quel progresso nell’uso intensivo della coltivazione di patate che genera il regresso della società, come ha scritto Benjamin nel passaggio citato. Il secondo passaggio di Engels è tratto dal nono capitolo:

[…] Perché la mano non è solo l’organo del lavoro, è anche il prodotto del lavoro […] e con l’adattamento alle nuove operazioni, grazie all’eredità rappresentata dallo speciale sviluppo dei muscoli, dei legamenti e, sul lungo periodo, anche delle ossa. Grazie, inoltre, all’impiego ogni volta rinnovato di questi strumenti ereditati, ma soggetti a nuovi miglioramenti con operazioni sempre più complicate, la mano umana ha raggiunto quell’alto grado di perfezione che ha reso possibili la pittura di Raffaello, le statue di Thorwaldsen, la musica di Paganini.

8 La citazione occupa una parte importante nella strategia discorsiva di Benjamin, in tutte le sue opere, ma va pure chiarito in modo preliminare che il suo atteggiamento è lontano dal citazionismo postmoderno. Il filosofo anticipa molti temi tipici del postmodernismo, ma non cede alla lettera del medesimo. Le citazioni di Benjamin sono sempre degli exempla emblematici che permettono all’interlocutore di aderire o dissentire, ma prima di tutto di comprendere e non in astratto, quanto egli afferma, ma di collocarlo in una dimensione di concretezza e verificabilità. Siamo lontani anni luce dal procedimento post moderno la cui filosofia – non sempre espressa – è che la cultura sia solo citazione, cioè auto contemplazione narcisistica del passato e sfoggio di erudizione basato sul wit, parola che si può interpretare in molti diversi modi ma sempre gravitanti intorno alla brillantezza salottiera e discorsiva. Benjamin non ha mai compiuto questo passo, anche se sa vedere molto lontano: egli è un anticipatore del postmoderno, nel senso che ha visto prima di altri molte sue caratteristiche. La forza degli exempla di Benjamin sta nell’essere la concretizzazione di quella immagine che balena per un solo attimo nella storia e che deve essere afferrata e salvata, perché rompe il continuum dello storicismo. La citazione è dunque emblematica se evoca un balenìo del passato da riscattare nell’adesso: Resuscitare Cartagine per esempio, o cogliere nella vicenda storica dello schiavo Spartaco ciò che chiede oggi il proprio riscatto.

UN DOCUMENTARIO SUI DISERTORI UCRAINI E RUSSI SU RAI 3

Dopo la guerra

PREMESSA

Lunedì sera prossimo in seconda serata e nella trasmissione Il fattore umano la seconda parte del documentario Dov’è la vittoria di Giuseppe Borello, Andrea Sceresini e Matteo del Bo sui disertori ucraini e russi. Ci sono stati molti interventi e qualche iniziativa all’inizio della guerra, poi non se ne è parlato più. Credo che occorra rilanciare il più possibile questa iniziativa .

Dov’è la vittoria

Andrea Sceresini: “Quello dei disertori – russi e ucraini – è uno dei temi meno trattati di questa guerra. Per un certo periodo non se ne è potuto quasi nemmeno accennare, forse perché mal si intonava con la martellante propaganda bellicista che risuonava su entrambi i lati del fronte. Eppure, parliamo di decine di migliaia di uomini – spesso giovanissimi – che pur di non essere costretti a impugnare un fucile hanno preferito rischiare il carcere o addirittura la morte. In un seminterrato di Tbilisi abbiamo incontrato un gruppo di ragazzi russi – perlopiù anarchici – che ce lo hanno detto chiaramente in faccia, “che questo conflitto è stato voluto dai grandi oligarchi e dalla borghesia, che prima ti sfrutta in tempo di pace e poi ti manda al massacro quando è l’ora di fare la guerra”. Anche Ivan la pensa allo stesso modo – solo che Ivan è ucraino di Kharkiv, e un anno fa, pur di non finire in guerra, ha attraversato illegalmente il confine con la Moldavia. E ancora: c’è chi per lasciare il fronte si è sparato un colpo di Kalashnikov nella gamba, e chi da mesi vive barricato in casa, nella propria città, perché teme di essere arruolato a forza per la strada. Il documentario dove abbiamo cercato di raccontare queste e altre storie si intitola “Dov’è la vittoria” e andrà in onda lunedì in seconda serata su Rai3, all’interno del format “Il fattore umano” – uno degli spazi liberi più eccezionali della TV italiana. Lo abbiamo fatto io, Giuseppe Borello e Matteo Del Bo.”

LE ARTI E LA GUERRA

Le vicende storiche reali della città di Ilio sono sfocate al confronto delle immagini che l’Iliade ci tramanda da secoli. All’origine della guerra troviamo un evento storico, ma ancor più una narrazione intorno alla quale si costruisce un discorso dotato di senso, che si tramanda nel tempo. Non solo la guerra è un oggetto estetico fin dagli albori della civiltà che definiamo occidentale ed è quindi collegata all’ideale stesso della bellezza, ma produce anche un’etica che arriva fino a noi. In ogni passaggio storico, grandi narrazioni epiche hanno elaborato questo discorso etico/estetico producendo quell’apparato di simboli, suscettibili  di trasmettere valore, e determinare soglie di differenza fra bene e male. Se di volta in volta la guerra affonda le sue radici nelle contingenze storiche è altrettanto vero che alle lontane origini del primo evento bellico significativo, troviamo un patto fra guerra e letteratura, guerra e  narrazione. Nascono così parole che si caricano di un senso particolare e hanno valore discriminante fra virtù e vizio. Termini come coraggio e persino temerarietà sono sinonimi di positività, mentre parole come paura o diserzione, sono esempi di negatività. Penso che una risposta che prenda di petto e non eluda la domanda – perché la guerra oggi? – debba prendere in considerazione la catena virtuosa che si è stabilita nei secoli fra la guerra come modo di risolvere il conflitto da un lato e un discorso etico/estetico con la conseguente catena simbolica. Contribuire a spezzare tale catena, a interromperla, sottoporre al vaglio che non dà nulla per scontato, proprio quel discorso dotato di senso che è stato costruito dalla letteratura intorno all’evento bellico è una delle poche azioni che ci restano nel clima di impotenza generalizzato dal quale non si riesce a venir fuori.

Diserzione e paura nell’immaginario collettivo sono ovviamente una coppia negativa, ma la rottura del patto fra letteratura e guerra passa anche attraverso la possibilità di ridare senso proprio alle parole considerate sospette o da aborrire da parte dell’apparato simbolico guerresco.

Nessuna causa, anche quella più condivisibile, dovrebbe più suscitare una letteratura di omaggio, di esaltazione  o semplicemente di appoggio;  perché l’epica guerresca di oggi non serve alla guerra di oggi, bensì a quella di domani. Un esempio famoso, ricordato anche a proposito delle guerre in corso, è quello di Wilfred Owen, poeta inglese che Virginia Woolf ricorda come eccezione per il genere maschile. Owen combatté la Prima Guerra Mondiale e vi morì; lasciò però, a differenza di moltissimi altri scrittori prima e dopo di lui, versi memorabili ed inequivocabili contro la guerra. Owen scelse il verso più monumentale della letteratura inglese, il blank verse e le strutture chiuse per rovesciare la logica epico/monumentale della lirica di guerra. Ebbene il suo destino di poeta è significativo. Le sue liriche sono scarsamente visibili nelle antologie anglosassoni e i testi più alti di denuncia vengono solitamente trascurati. Questo dovrebbe testimoniare a sufficienza l’importanza dell’apparato simbolico e la sua forza: perché a oltre un secolo da quella guerra l’establishment inglese teme di più le poesie di Owen che non il suo sacrificio. Al polo opposto di Owen colloco invece Ilia Êrenburg: egli scelse di partecipare alla difesa dell’Unione Sovietica durante la Seconda Guerra Mondiale – e  tale scelta in quel contesto fu certamente meritoria; ma scrisse poi versi infami nei confronti della popolazione e delle donne tedesche, che non citerò proprio per questo.

British soldier and war poet Wilfred Owen (1893 – 1918) in uniform with a young boy, circa 1917. (Photo by Evening Standard/Getty Images)

Testi di denuncia della guerra e della logica guerresca si trovano nell’Antologia di  Spoon River di Masters, in Christa Wolf che, in Cassandra definisce Achille, l’eroe  per antonomasia, con l’appellativo che si merita: una bestia più che un essere umano. Sono tutti esempi di rottura dell’ordine simbolico, come lo furono le proposte avanzate anni fa da Gunther Grass e Kazumiro Oe di di erigere un monumento ai disertori tedeschi e giapponesi della Seconda Guerra Mondiale.

A quanto detto fin qui mi si potrebbe facilmente obiettare che non sono più la grande letteratura oppure il cinema a essere veicoli della propaganda guerresca, ma i mass media, l’informazione asservita e quant’altro e che dunque occuparsi della narrativa guerresca come di quella di opposizione è in fondo tempo perso, un atteggiamento che poteva andare bene per il passato ma inservibile oggi. In secondo luogo, l’impotenza che sembra regnare sovrana scoraggia qualsiasi tentativo di discorso, la parola appare fuori gioco rispetto a logiche geopolitiche e di potere troppo più grandi di noi. Sono sentimenti diffusi che quotidianamente verifichiamo, ma sono anche il risultato di una narrazione tossica che può essere smontata e in ogni caso si tratta di due problemi diversi.

L’impotenza è un dato reale, ma è il risultato del fallimento delle élite occidentali e in particolare di quelle europee; tanto è vero che a livello continentale e in percentuali ancor più accentuate in Italia, l’opposizione al continuo invio di armi in Ucraina è molto forte e in alcuni casi maggioritaria, nonostante la propaganda martellante. Più che impotenza è la consapevolezza di non potersi affidare alle forze politiche esistenti a determinare atteggiamenti di disincanto e di indifferenza. Bisogna cercare le parole adatte, ma specialmente continuare a rifiutare il linguaggio bellicista che permea tutti gli aspetti della vita quotidiana, contrastarlo senza cadere però in una spirale reattiva o semplificata. Per questo gli esempi che si possono trovare nella grande letteratura e nel cinema sono quanto mai utili e per concludere questa parte della riflessione suggerisco la visione di 1917, un film di guerra, certo, ma che mette in scena un tipo di comportamento virtuoso che fa emergere tutta la stupidità della guerra: lo stesso si è può dire naturalmente di un classico come Niente di nuovo sul fronte occidentale.     

La propaganda attuale

Una breve nota finale sulla questione della propaganda. Che essa, piuttosto che stare nelle mani di scrittori che sanno usare la parola in modo virtuoso, sia invece in quelle di mediocri giornalisti asserviti nella grande maggioranza dei casi, è un bene e non un male. Tanto più che le vendite di giornali sono in caduta libera come riportato da due diverse fonti citate nella nota: per non appesantire il testo chi voglia verificare i numeri e le percentuali può farlo accedendo ai due siti.1 I dati più eclatanti riguardano proprio Corriere della Sera e Repubblica, in caduta libera, mentre i soli in controtendenza e anche per questo difficili da trovare persino nelle statistiche,  riguardano quotidiani che fanno ancora del serio giornalismo d’inchiesta come Domani. Tutto questo spiega in buona parte perché, nonostante il martellamento costante, la maggioranza della popolazione italiana continua a essere contraria all’invio di nuove armi in Ucraina e ci sono segni che anche nelle opinioni pubbliche europee ci sono incrinatura importanti. Ma è la televisione il guaio peggiore, potrà obiettare qualcuno, e per contrastare le televisioni che cosa su può fare? Anche in questo campo le statistiche dicono che mentre i programmi di intrattenimento e quelli sportivi hanno un seguito come prima, anche perché a volte sono un rifugio alla eccessiva pressione del presente, i telegiornali hanno sempre meno ascolti. Naturalmente esiste un enorme problema che riguarda l’inconsistenza del ceto intellettuale che frequenta giornali e Tv e l’informazione in generale, ma questo è un tema che ci accompagna da molto tempo e che esula dagli intenti di questo scritto che si propone  semplicemente, a un anno dallo scoppio dell’ultima guerra in ordine di tempo, di ricordare che la diserzione dal frastuono mediatico è altrettanto importante quanto la diserzione vera e propria e che i piccoli passi sono in certi momenti storici le sole azioni praticabili.


1 Dati del sindacato autonomo giornalai:

“Sono i principali dati contenuti nell’ultimo Osservatorio sulle comunicazioni (n. 4/2022), l’aggiornamento trimestrale dei settori dei media e delle telecomunicazioni realizzato dall’AGCOM. Nell’editoria quotidiana si conferma dunque l’andamento negativo già rappresentato nei precedenti Osservatori e che ha riflessi diretti negativi sulla rete di vendita della stampa in termini di redditività e sostenibilità dell’attività.”

Da Affari italiani: 11 gen 2023 — A novembre, secondo i dati Ads, c’è stato un calo generale delle vendite dei giornali in edicola. A fare il tonfo più rumoroso è “Il Fatto …

HANNAH ARENDT: SULLA VIOLENZA

“L’ apocalittica” partita a scacchi fra le superpotenze, cioè fra coloro che si muovono sul piano più elevato della nostra civiltà, si gioca secondo la regola per cui “se uno dei due ‘vince’ è la fine per entrambi”; è un gioco che non somiglia a nessuno dei giochi di guerra che lo hanno preceduto. Il suo scopo “razionale” è la deterrenza, non la vittoria, e la corsa agli armamenti, che non è più una preparazione alla guerra, può essere giustificata soltanto in base alla tesi che un potenziale deterrente sempre maggiore è la garanzia di pace.

Alla domanda se e come saremo mai in grado di districarci dall’ovvia insania di questa posizione, non c’è risposta.”

KANT

Premessa

Il 5 dicembre 1783, in risposta a una domanda – Che cosa è l’illuminismo – Kant scriveva una lunga riflessione, di cui riporterò qui di seguito solo alcune parti. Piuttosto che citare altri brani più esplicitamente contro la guerra, scritti dal filosofo e peraltro richiamati spesso in questi giorni, mi sembra che il suo discorso sull’illuminismo – sul movimento illuminista in quanto tale ci sarebbero molte altre cose da dire e non tutte positive – sia ancora più importante riguardo a un aspetto vistoso della situazione attuale: l’ingiunzione a non pensare e a bollare qualsiasi ragionamento critico come sospetto di collusione a quello che il pensiero dominante elegge come nemico del momento. Nella parte finale dello stralcio, Kant nomina alcune delle categorie che ai suoi tempi, si facevano portavoce dell’ingiunzione a non pensare. Alcune di esse sono sorprendentemente attuali, altre – nel mondo rovesciato in cui viviamo – sembrano meno attuali se pensiamo per esempio a Bergoglio o a certi articoli su riviste economiche; altre, infine, mancano come per esempio i giornalisti dediti al Karaoke imposto dai loro padroni piuttosto che alla ricerca delle  notizie.  


L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole. Minorità è l’incapacità di servirsi della propria intelligenzasenza la guida di un altro. Colpevole è questa minorità, se la sua causa non dipende da un difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi di essa senza essere guidati da un altro. Sapere aude!Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! Questo dunque è il motto dell’illuminismo.Pigrizia e viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo liberati dall’altrui guida (naturaliter maiorennes), rimangono tuttavia volentieri minorenni a vita; e per cui riesce tanto facile agli altri erigersi a loro tutori. E’ così comodo essere minorenni!E’ dunque difficile per il singolo uomo tirarsi fuori dalla minorità, che per lui è diventata come una seconda natura. E’ giunto perfino ad amarla, e di fatto è realmente incapace di servirsi della propria intelligenza, non essendogli mai stato consentito di metterla alla prova …  A questo rischiaramento, invece, non occorre altro che la libertà; e precisamente la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi. Ma sento gridare da ogni lato: non ragionate! L’ufficiale dice: non ragionate, fate esercitazioni militari! L’intendente di finanza: non ragionate, pagate! L’ecclesiastico: non ragionate, credete! (Un unico signore al mondo dice: ragionate quanto volete e su tutto ciò che volete, ma obbedite!)

L’educazione alla guerra in un passaggio del romanzo La scuola cattolica di Edoardo Albinati

La violenza è nel mito e nella storia. A grattare sotto la crosta degli insegnamenti che ricevevamo usciva tutta un’altra versione, un’altra religione, una morale rovesciata. Bastava andare un dito sotto o qualche pagina più in là, tra gli episodi meno raccontati, … come quando Achille sgozza un po’ di prigionieri troiani, per celebrare il funerale di Patroclo. E già, li sgozza! Mentre quelli avevano le mani legate dietro la schiena. È roba che si insegna a scuola … a ragazzini di tredici e quattordici anni, come esempi di eroismo, modelli da imitare, voglio dire sì Achille il grande Achille, un mito, un eroe! Non un criminale nazista!…4


4 Op.cit pp. 403-4

SIMONE WEIL

“In passato Greci e Troiani si massacrarono a vicenda per dieci anni a causa di Elena. A nessuno di loro, eccetto l’amante guerriero Paride, importava nulla di Elena cosicché tutti maledissero il giorno in cui era nata. Il valore della sua persona era così sproporzionato rispetto a quell’immane conflitto che agli occhi di tutti apparve come un mero simulacro del vero motivo del contendere; solo che quest’ultimo nessuno osava né poteva definirlo, poiché non esisteva. Nessuno poteva misurarlo se non contando i morti già provocati e i massacri futuri. In altre parole il suo valore andava al di là di ogni limite assegnabile.

Ettore presentiva che la sua città sarebbe stata distrutta, che suo padre e i suoi fratelli sarebbero stati massacrati e la sua sposa condannata a una schiavitù peggiore della morte; Achille sapeva di destinare suo padre alle miserie e alle umiliazioni di una vecchiaia indifesa; gli uomini sapevano che le loro case sarebbero andate distrutte a causa di un’assenza così prolungata; ma nessuno stimava che questo fosse un prezzo troppo alto da pagare perché tutti perseguivano un nulla il cui valore era commisurato al prezzo stesso che bisognava pagare. Per suscitare vergogna nei Greci che proponevano di fare gli uni e gli altri ritorno a casa, Minerva e Ulisse credevano che fosse sufficiente evocare le sofferenze dei compagni morti.

Tremila anni dopo ritroviamo esattamente la stessa argomentazione nelle parole con cui Poincaré intende svilire la proposta di una pace senza vincitori né vinti.

[…]

Se non altro al centro della guerra di Troia c’era una donna, per di più una donna di estrema bellezza. Per i nostri contemporanei il ruolo di Elena spetta a parole ornate di maiuscolo. Se afferriamo una di queste parole rigonfie di sangue e lacrime per cercare di stringerla la troveremo vuota. Le parole che hanno un senso e un contenuto non sono parole assassine. […]

Ma mettiamo la maiuscola a parole prive di significato e, alla prima occasione, gli uomini spargeranno fiumi di sangue, a furia di ripeterle accumuleranno rovine su rovine, senza mai ottenere davvero qualcosa di corrispondente; niente di reale può davvero corrispondere a tali parole, poiché non significano niente. Il successo coinciderà esclusivamente con l’annientamento di uomini che lottano in nome di parole diverse. Questo perché un’altra caratteristica di tali parole è che esistono per coppie antagoniste. Intendiamoci, non sempre esse sono prive di senso di per sé: alcune di loro ce l’avrebbero se solo ci prendessimo la briga di definirle come si deve. In tal modo, però, perderebbero la maiuscola e non potrebbero più fungere da vessillo né trovare posto tra le tintinnanti parole d’ordine nemiche; non sarebbero che un tramite per cogliere la realtà concreta, o un obiettivo concreto, o un metodo d’azione. Chiarire i concetti, screditare le parole congenitamente vuote, definire l’uso di altre attraverso analisi precise, per quanto possa sembrare strano, servirebbe a salvare delle vite umane”.

“Sembra che in ogni campo abbiamo perduto le nozioni essenziali dell’intelligenza, le nozioni di limite, di misura, di gradualità, di relazione, di rapporto, di condizione, di legame necessario, di nesso tra mezzi e risultato”

(Simone Weil, Non ricominciamo la guerra di Troia)

Pensare la storia, tessere la pace

Premessa

L’intervento che segue, scritto i giorni scorsi dall’amico Francesco Idotta, ha suscitato in me – oltre che un’immediata adesione per le sue doti di chiarezza, sintesi e intelligenza del cuore – altri interrogativi e sollecitazioni. Lo riporto per intero:  

Indosso da anni questo orologio russo, ne possiedo anche un altro, perché mi ricorda che l’esercito sovietico ha aperto il campo di concentramento e sterminio di Auschwitz; amo il popolo russo che ha dato i natali ai miei scrittori e musicisti preferiti. Oggi l’esercito russo di Putin si comporta come gli alpini italiani che durante la seconda guerra mondiale, per colpa di Mussolini, Vittorio Emanuele III e Hitler, hanno tentato di invadere l’URSS (e menomale che non ci sono riusciti) e che il Parlamento italiano cerca di commemorare come atto eroico. La storia va studiata … e non a senso unico. Se riusciremo a comprendere le ragioni della Russia di oggi, senza giustificare la violenza di Putin, allora riusciremo a non odiarci e a non scatenare una terza guerra mondiale. W gli artisti russi e il loro popolo e abbasso i carnefici, anche quelli ucraini.

La retorica sui cinquant’anni di pace garantiti dall’Unione Europea, che sfociò addirittura nell’attribuzione del premio Nobel nel 2012, era già da allora basata sul falso, sulla rimozione e su una forma sottile di razzismo, meno appariscente di altre. I 50 anni di pace dal 1945, scadevano nel ’95, ma il 31 marzo 1991 iniziò la guerra nella ex Jugoslavia, che durò dieci anni. A quella rimozione ne seguì un’altra: il documento dal parlamento europeo in cui venivano equiparati il nazismo e l’Unione Sovietica, che con i suoi milioni di morti aveva contribuito alla liberazione del continente. Evidentemente i Balcani, i popoli slavi e i russi non sono considerati appartenenti all’Europa e la ragione è del tutto evidente: la Prima Guerra Mondiale è ancora un nervo scoperto e poiché nei momenti di crisi la storia si riavvolge sempre fino alle origini dimenticate o rimosse, ecco, che tutto ritorna, compreso l’ostracismo nei confronti della cultura e altre aberrazioni. Nel 1914 accadde la stessa cosa: Shakespeare messo al bando in Germania e Mozart in Gran Bretagna e via di seguito. Non sembra vero di poter scaricare, oggi, solo sulla Russia tutto il veleno che soltanto poco più di100 anni fa l’Europa Carolingia e solo occidentale riservava a se stessa; veleno che ci vorrebbe poco a far di nuovo circolare ovunque; basterebbe, infondo, solo la vittoria di qualche partito sovranista e nazionalista in uno degli stati fondatori per affossare tutto e far riemergere da sotto l’esile crosta della retorica tutta la polvere nascosta. Infine, la riflessione di Idotta mi ha riportato a un mio scritto del 2021, una lettura congiunta di due film: Lo sguardo di Ulisse di Theo Anghelopoulos e  Film Fahlado di Manoel de Oliveira.   

IL DESTINO DI EUROPA

Il cinema è stato una risorsa in questi tempi di quarantena, ma la scelta è andata più spesso su pellicole di un passato più o meno recente, in molti casi già viste. Credo che uno dei motivi sia la nostalgia per un tipo di cinematografia priva di effetti speciali. La seconda è che pochi film contemporanei mi sono apparsi attuali e all’altezza della tragedia mondiale che stiamo vivendo, a parte Parasites. Alla fine di questo percorso a ritroso ho scelto due film che penso siano stati visti da chi leggerà queste riflessioni, perché il primo è del 2003, il secondo del 1995: ne scriverò dunque dando per scontata la loro visione, che in ogni caso suggerisco. Sono due opere che hanno molte ramificazioni di senso, per entrambe l’Europa è un tema centrale e per tutti e due il filo conduttore che cuce la narrazione è il viaggio. Infine, li accomunano alcuni elementi che costituiscono la cifra stilistica di entrambi: la lentezza della ripresa, l’uso del piano sequenza, una recitazione debitrice nei confronti del teatro, tanto che la parola assume in entrambi una valenza importante. Scontate sono anche le differenze fra le due pellicole, ma dal momento che ho deciso d’intrecciarle nella mia riflessione, ho messo l’enfasi sulle affinità.

Del mito di Europa, come di tutti gli altri, esistono diverse versioni, a volte contraddittorie fra loro, ma su due fatti concordano: che dopo il rapimento furono i suoi fratelli a cercarla, percorrendo tutte le strade possibili, ma che Europa non fu ritrovata. Ognuno dei suoi fratelli fu un fondatore di città, possiamo pensare che idealmente esse costituiscano tutte insieme lo spazio geografico europeo, ma che non fecero altro che combattersi fra loro. Europa è dunque un’entità assai debole da un lato, rapita e mai più ritrovata; dall’altro un teatro d’infiniti conflitti.

Il viaggio che a mia volta ho compiuto dentro le due pellicole, a partire da quella più recente, va idealmente da ovest a est.

L’estremo occidente continentale

Le prime inquadrature di Il Film parlato riprendono il lento allontanarsi di una nave lungo il Tago, avvolto nella foschia. Siamo a Lisbona, vicinissimi alla punta di Estorìl, più protesa nell’Atlantico della lontana Irlanda: siamo dunque ai limiti dei confini occidentali del Continente europeo. Dopo poche inquadrature, lente e scandite dal dialogo fra una madre e una figlia – a bordo della nave – e dall’inquadratura della carena che fende le acque, lo spettatore comincia a interrogarsi sul significato del viaggio e saprà, dopo un tempo discretamente lungo, che le due protagoniste sono dirette a Bombay, dove si trova il marito della donna e padre della bimba.

Lo sconcerto è grande! La nave è un mezzo lentissimo per andare da un luogo all’altro, tanto più così lontano. Il marito della donna, inoltre, lavora nell’aviazione civile: perché non vanno in aereo? Saranno un pope ortodosso e il capitano della nave a rivolgere alla protagonista proprio questa domanda: perché in nave? La risposta sarà semplice: la signora è una professoressa di storia, vuole conoscere direttamente i luoghi che sono oggetto delle sue lezioni, ma desidera anche trasmettere questa conoscenza alla figlia.

Le radici greche

Lo sguardo di Ulisse, del regista greco Theo Anghelopoulos è diviso in tre parti, precedute da due brevi prologhi e seguito da un epilogo. Nel primo prologo vediamo scorrere una vecchia pellicola del 1905. Le donne riprese sono tessitrici di un villaggio greco, anziane e meno anziane. Gli strumenti usati sono antichi e l’attività scelta, la tessitura, c’immette in un universo simbolico molto forte, pregnante e ben noto. La voce narrante recita che stiamo vedendo le sequenze del primo film girato in Grecia e nei Balcani, anche se sapremo successivamente che le cose non stanno proprio così. È il primo sguardo, afferma la voce narrante fuori campo; questa scena e questa battuta verranno riprese più volte nel film, tanto da diventare un primo elemento della cifra stilistica della pellicola, insieme alla lentezza, portata all’estremo.

Il secondo prologo inizia quando il protagonista (un regista cinematografico che torna in Grecia dopo 35 anni di esilio), è ospite di una città dove viene proiettata una sua pellicola che ha suscitato scandalo per ragioni etnico religiose, tornate prepotentemente sulla scena europea con la guerra civile nella ex Jugoslavia. Tuttavia, egli non è tornato per presenziare alla prima del film: è venuto alla ricerca di tre rulli di pellicola girati e mai sviluppati dai fratelli Manakis, i pionieri del cinema greco. Era stato uno di loro a rivelare, in punto di morte, l’esistenza di questo materiale. Nessun ente è disposto a finanziare la ricerca e così il regista decide di fare da solo: parte per recarsi a Skopjie, dove sembra che la pellicola sia custodita. Finisce qui il secondo prologo, quando il regista parte in taxi verso la sua destinazione.

I Balcani http://Lo Sguardo di Ulisse: il capolavoro di Angelopoulos con …http://www.anonimacinefili.it › 2021/01/30 › lo-sguard…

Il protagonista del film dei Anghelopoulos e suo alter ego viene così ad assumere i tratti di un Ulisse moderno, la cui Odissea si svolge nei Balcani. Come l’eroe omerico incontrerà alcuni personaggi femminili, seppure con una variazione rispetto al modello antico: le donne hanno tutte lo stesso volto perché sono interpretate dalla stessa attrice, Maia Morgenstern. Intorno alla ricerca dei tre rulli di pellicola che esistono nella forma inerte di una striscia di plastica, gira la metafora del primo sguardo, un’espressione cui il nostro protagonista ricorrerà più volte.

La prima donna che incontra (una precedente è una semplice apparizione), lavora presso gli istituti cinematografici: una volta conosciuto il motivo del viaggio decide di seguirlo fino a Skopjie. Lei non capisce bene le ragioni di questa ricerca e mostra nei confronti del regista una certa diffidenza, ma lo segue. Quando gli dice che a Skopjie il materiale che lui cerca non c’è, l’uomo ha un moto di stizza, ma le crede. Diminuisce la loro reciproca diffidenza e quando il nostro Ulisse decide di proseguire il viaggio per Bucarest lei lo segue di nuovo e anzi si abbandona a lui appassionatamente.  

Durante il viaggio verso la capitale rumena, Anghelopoulos mette in scena la storia recente dei luoghi che i due attraversano e non è un caso, però, che tutto questo il protagonista del film lo sogni mentre sta dormendo accanto alla donna che viaggia con lui sul treno. Talvolta il sogno diventa un incubo, quando viene portato davanti al plotone d’esecuzione e scambiato per Manakis stesso, il regista di cui cerca le pellicole, perché accusato di avere complottato contro la monarchia bulgara, in uno dei tanti micro episodi di cui è fatta la vicenda balcanica. In un’altra scena, lunga e assai efficace, viene rappresentata una festa di capodanno, tanto estesa da coprire più anni, fino al ’48. A ogni anno che passa, i cambi di regime provocano l’imprigionamento dell’uno o dell’altro dei presenti alla festa, fino all’epilogo, una fotografia di gruppo che inquadra tutti i presenti e che sancisce la fine sia della festa sia della monarchia bulgara: inizia il regime socialista.

Quando il regista si sveglia dal sogno, i due sono in una località bulgara, dove la loro storia d’amore s’interrompe. Il protagonista ritorna nei panni di un Ulisse tradizionale, Penelope non può seguirlo in questa sua ricerca dello sguardo originario e lui potrà tornare a lei solo quando il suo compito sarà portato a termine. Qui finisce la prima parte del film.

Il regista viene a sapere che i rulli potrebbero trovarsi a Belgrado; decide di andare, sfidando i pericoli della guerra in corso nella ex Jugoslavia, anche se la capitale non ne è coinvolta più di tanto in quel momento. S’imbarca clandestinamente su una chiatta che sta trasportando in Germania un’enorme statua di Lenin rimossa dalla piazza della cittadina bulgara. È l’inizio di una lunga sequenza, in cui la statua del fondatore dell’Unione Sovietica, smontata a pezzi, viene depositata quasi fosse un corpo morto sulla barca. Sulle rive del Danubio una folla anonima guarda la scena. La chiatta si muove lentissima, attraversa tutti i confini degli stati ex socialisti che sono tornati a essere quelli antichi della questione balcanica.

Il nostro regista arriva così a Belgrado, ma anche lì le pellicole non ci sono. La seconda parte del film si chiude dopo una lunga conversazione con un amico jugoslavo che vive nella capitale, insieme al quale aveva condiviso il periodo parigino. È un amarcord struggente, un breve intermezzo necessario prima del balzo finale.

Inizia da Belgrado la terza parte, che precipita il film verso l’epilogo. Il viaggio del nostro Ulisse lo ha portato sempre più vicino al cuore della moderna tragedia balcanica ed europea e le pellicole non potevano che trovarsi nella città che più di ogni altra è stata il simbolo, di tale tragedia: Serajievo. Per arrivarci dovrà viaggiare ancora sui fiumi, clandestinamente.

È all’inizio di quest’ultima parte che Ulisse incontra una Penelope slava. Sarà lei a guidarlo alla barca che lo porterà fino alla capitale bosniaca. La donna vive sola in riva al fiume, la sua casa è stata bombardata ed è mezza distrutta, il marito è morto in guerra e lei lo piange disperatamente; in lontananza si sentono colpi di mortaio. Cerca di prendersi cura della vita di ogni giorno: prepara da mangiare, lava i panni, anche quelli dell’Ulisse che le capita in casa, mantiene viva quel poco di vita che resta. Fra i due nasce una fugace storia d’amore, finché lui non riparte. 

La parola e l’immagine

Nel tornare a Film parlato, è inevitabile domandarsi perché mai un titolo e ossimoro così evidente. Il cinema è prima di tutto fotografia in movimento, per dirla con i fratelli Lumière; per lungo tempo fu muto e anche successivamente il contributo della parola, pur importante, rimase un supporto dell’immagine. Non ci si aspetta neppure oggi, da un dialogo cinematografico, che sia un’opera letteraria autonoma dal film, anche in famosi casi di collaborazione fra regista e scrittore; come è in film come Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders, i cui dialoghi furono scritti da Peter Handke, oppure in alcuni film di Pasolini. Il titolo di De Oliveira però è calzante perché la parola è qui essenziale: sono le immagini che fungono da contrappunto. Essa è protagonista in quattro diverse forme: come interrogazione da parte della figlia alla madre, come risposta da parte della madre alla figlia, successivamente come descrizione dei luoghi da parte di guide turistiche, infine come conversazione conviviale durante le cene al tavolo del comandante. A ognuno di questi modi corrisponde un diverso livello di complessità.

La figlia interroga la madre come può farlo una bambina di otto anni e le risposte della professoressa sono semplici e scolastiche, non eludono i punti spinosi ma tendono a dare una visione rassicurante della storia.

Quanto alle inquadrature, esse svolgono una funzione di contrappunto e piuttosto che immagini in movimento, De Oliveira sceglie la pittura e la fotografia, fermando in istantanee quasi immobili ciò che intende mostrare, quasi fossero delle cartoline d’arte filmate. In questa galleria sapientemente costruita rinveniamo: la torre di Bèlem avvolta nella nebbia mentre la nave percorre il Tago, Gibilterra vista dal mare, un anonimo scorcio del porto di Marsiglia dove una targa ricorda lo sbarco dei greci, Castel dell’Ovo a Napoli, l’Acropoli di Atene, una veduta dal mare di Istambul, il profilo della nave stessa, ripresa sempre nello stesso modo, mentre fende lentissima le acque del Mediterraneo; infine il Cairo e le Piramidi, prima che la nave imbocchi il canale di Suez per arrivare ad Aden sul Mar Rosso.

Quelle che si susseguono sono immagini da cartolina che abbiamo visto mille volte, ma sta proprio in questo la semplice grandezza del film. L’immagine gioca un ruolo fondamentale perché noi consideriamo ovvia l’esistenza di tutto questo: quando pensiamo ai porti che la nave tocca la maggioranza delle persone comuni li vede nello stesso modo in cui De Oliveira li filma. Tuttavia, non siamo più abituati a riconoscere la bellezza di un luogo, il suo genius loci, perché vittima delle abitudini e anche del consumismo turistico. Spogliando le sue immagini da ogni orpello intellettualistico e rinunciando a ogni possibile effetto speciale, De Oliveira mostra le cose come le vede l’occhio comune. É un’idea di bellezza attualmente spodestata da un’altra che gode dei favori mondani: l’intervento manipolatorio che elimina l’irregolarità.[1]

Secondo la definizione romantica di bellezza invece, ripresa da James Hilmann ne Il pensiero del cuore, essa è il mostrarsi delle cose nel loro habitat. É proprio questo l’effetto che De Oliveira insegue in questo film: mostrarci il paesaggio ovvio della nostra civiltà, come se si facesse vedere a un romano il Colosseo e a un milanese il Duomo.

Torniamo alla parola. Affermavo in precedenza che essa è protagonista in quattro modi diversi. Il primo, l’abbiamo visto, è quello dell’interrogazione da parte di una bambina a una madre professoressa; la seconda sono le sue risposte. La terza sono gli intermezzi insignificanti delle guide turistiche, con due eccezioni: l’incontro con il Pope sulla collina del Partenopee e quello con un attore portoghese al Cairo.

Il primo, il Pope, nel dialogo con la madre e la figlia, svolge prosaicamente il suo ruolo di guida turistica; finché la professoressa, spinta dalla bambina, non gli domanda come mai gli Ortodossi si facciano il segno della croce con le tre dita. È una domanda imbarazzante, cui il Pope risponde con una punta implicita di polemica: “Non ho mai capito, in effetti, perché i Cattolici facciano il segno della croce nel loro modo” e spiega alla bambina, con semplicità disarmante, che il segno con le tre dita corrisponde alla lettera della figura trinitaria della divinità … secondo i cristiani. Semplice sì, ma dalle conseguenze molto profonde: per gli Ortodossi la lettera del rito e il suo contenuto non possono essere scissi, per gli altri cristiani sì.

Il secondo incontro è quello con un attore portoghese, che si trova nella capitale egiziana per lavoro. La professoressa lo riconosce, lui ne è lusingato. La nostalgia, il bisogno di comunicare, la curiosità della bambina, spingono il terzetto in un sontuoso hotel dove sono riprodotte le stampe della festa d’inaugurazione del canale di Suez. L’Europa si apriva una via per le Indie diversa da quella che tre secoli prima aveva aperto il portoghese Vasco da Gama circumnavigando l’Africa. I tre protagonisti portoghesi del film osservano, ripresi di spalle, gli arazzi, testimonianza che l’egemonia sui mari era passata definitivamente in altre mani. Idealmente, questa scena del film di De Oliveira, svolge un ruolo analogo a quella del dialogo fra il regista e l’amico con cui aveva condiviso il periodo parigino in Lo sguardo di Ulisse. In entrambe le scene è la nostalgia a dominare, sebbene in due diverse forme dello stesso sentimento. Il regista e l’amico, in una Belgrado quasi in guerra, ricordano il Maggio Francese, un tempo pieno di sogni, mentre i tre portoghesi osservano il mutare della storia e della geopolitica di potenza. In entrambi i film, la sospensione del tempo che si crea durante i due intermezzi, li fa scivolare verso l’epilogo. Il protagonista di Anghelopulos lo troverà a Serajervo, i protagonisti del film di De Oliveira lo troveranno alla fine del Canale Suez, che non è solo una porta verso il mar Rosso e l’Oceano Indiano, ma il luogo emblematico che congiunge l’Europa ai confitti Medio Orientali e alle tragedie a noi contemporanee.

Serajievo

Il nostro Ulisse regista arriva a Serajievo e l’attraversa sotto le bombe, ma non sembra farci caso. È un vecchio a custodire i tre rulli di pellicola che sta cercando, insieme all’archivio cinematografico della città, che cerca di porre al riparo dalla guerra. L’uomo ha perso ogni speranza di riuscire a sviluppare quelle pellicole. Il nostro Ulisse lo rimprovera aspramente, dicendogli che lui sta cedendo alla storia, o meglio all’attualità e che facendosi sopraffare da quest’ultima, perde di vista ciò che conta: lo sguardo originario che quelle pellicole contengono.

Tu hai la febbre, risponde il vecchio a Ulisse e gli ingiunge di riposarsi.

È vero, il lungo viaggio lo ha provato, in effetti il regista sta delirando e la febbre ce l’ha sul serio, gli passerà solo dopo un lungo sonno; ma il vecchio ha capito. L’incontro con quest’uomo, che nonostante tutto l’orrore cerca ancora qualcosa di diverso da narrare, lo scuote profondamente e gli ridà l’energia necessaria per tentare. Si mette al lavoro e riesce finalmente a trovare la formula chimica giusta per sviluppare i tre rulli; i due uomini, felici, guardano la pellicola scorrere davanti a loro. Qui finisce la terza parte del film e inizia l’epilogo.

È un giorno di festa perché a Serajevo è calata la nebbia e i cecchini non possono sparare e allora in tutta la città, pur divisa, sorgono un po’ dappertutto teatri improvvisati all’aperto e concerti di musica. I due uomini escono insieme ad altri, fra cui l’ultima Penelope, la nipote del vecchio. Il nostro Ulisse regista balla maldestramente insieme a lei una musica vagamente rock e le dice che sta per tornare e che non la lascerà più. Altri si aggiungono alla comitiva. La storia che fino a quel momento, gli era apparsa solo in sogno, oppure nel segno di un’attualità transeunte, è in agguato: è la stessa di sempre, quella che conosciamo fin troppo bene e che ha segnato come una maledizione millenaria la vicenda balcanica, che diviene nel film una metafora della storia europea.

Nella nebbia il gruppo si perde, due bambini si smarriscono e nel cercarli la madre incappa in un posto di blocco. Vengono tutti uccisi, compreso il vecchio, la loro fine è avvolta in una fitta nebbia come nella tragedia antica, dove le uccisioni avvenivano fuori scena: il nostro Ulisse ascolta impotente la sequenza di colpi.

Nella desolazione finale, solo, disperato e piangente, prima piegato e urlante sui corpi in riva al fiume, poi nello studio del vecchio, Ulisse ripete nella scena finale le parole celeberrime di Omero, ma non sa più a chi sta parlando. Nessuna Penelope e nessun altro lo attenderà mai più. La sua è una voce che chiama nel deserto.

L’eleganza conviviale

Torniamo indietro nel film di De Oliveira, al momento in cui la nave abbandona le coste portoghesi. Intorno ai tempi lenti, scanditi dagli spostamenti dalle coste atlantiche al Mediterraneo e poi nel canale di Suez, il regista disegna un ricamo semplice e molto efficacie: a ogni scalo salgono nuovi passeggeri e fra loro tre personaggi importanti. Sono tre donne: un’imprenditrice francese (Catherine Deneuve), un’ex indossatrice italiana (Stefania Sandrelli), una cantante greca (Irene Papas). Sono protagoniste famose della cinematografia europea, ne costituiscono lo stile; De Oliveira filma così il suo omaggio al cinema, l’ultima delle arti, nata in Europa. Esse, tuttavia, si comportano come passeggieri qualunque, vengono avvicinate da chi chiede loro un autografo mentre stanno per salire e da lontano, la madre portoghese e la figlia le riconoscono, ma per un lungo tempo del viaggio saranno ai margini della scena. Con l’ingresso della nave nel Canale di Suez diventano protagoniste insieme al comandante, uno statunitense di origine polacca. Essendo tutte e tre personaggi famosi, sono invitate a cenare al suo tavolo, mentre madre e figlia osservano il loro dialogare da un tavolo poco lontano ma defilato.

Catherine Deneuve, Stefania Sandrelli e Irene Papas, oltre che essere attrici celeberrime sono anche una francese, un’italiana e una greca; e sono anche tre signore di un’età di mezzo, quella in cui si cominciano a fare bilanci. Tutte tre interpretano la loro parte assecondando il cliché che le vuole nell’ordine: elegante, raffinata e altezzosa la francese, chioccia, un po’ oca e belloccia l’italiana, orgogliosa e austera la greca. Con la semplice messa in scena di tre attrici di questo calibro e facendole recitare senza recitazione, cioè conversare amabilmente come se ci si trovasse su una nave da crociera e non su un set cinematografico, De Oliveira fa passare fra le maglie di un’apparente sequenza di ovvietà la grana densa di un affresco. Le tre donne protagoniste, insieme alla giovane storica portoghese e a sua figlia diventano l’Europa; sono l’Europa … Sono dunque tre donne a incarnarla, cui, alla tavola del capitano durante la cena prima dell’epilogo, se n’aggiungono una quarta – la giovane madre professoressa di storia – e una quinta: la figlia di quest’ultima, che dovrebbe raccogliere l’eredità del crogiolo nel quale si è formata la nostra civiltà e di cui la madre funge da mediatrice. Il capitano è gentile e affettato come lo deve essere un comandante, ma con una punta d’imbarazzo. La conversazione è quella che si può immaginare alla tavola del capitano di una nave con tre donne. Lui fa il galante e corteggia la francese, ma nel manifestare la propria voluta solitudine da ogni rapporto, emerge forse discretamente la sua omosessualità. La francese tiene banco con un’escalation di risposte taglienti che sconfinano a volte nel gratuito; comprende che l’altro sta recitando un copione, ma nelle sue risposte, come in un copione speculare, l’imprenditrice mescola istanze femministe e luoghi comuni. La greca è la vera protagonista della prima serata di conversazione. È lei che pone gli interrogativi radicali ed è sempre lei che cerca di darsi delle risposte perché gli altri e le altre sono muti. Alla tavola, ognuna di loro parla nella propria lingua, ma nonostante questo si capiscono: è la greca a notarlo e a dirlo a tutti. La metafora è chiara: c’è una civiltà che ci lega e che si manifesta nel gusto della conversazione elegante, della convivialità, del corteggiamento, del dialogo e della seduzione, di cui è intrisa la filosofia greca. É il trionfo della parola in tutte le sue forme.

Fra questa prima parte e la seconda che precede l’epilogo c’è un intermezzo durante il quale avvengono tre fatti importanti: in primis la conversazione fra la professoressa portoghese e il capitano. Lui l’invita al suo tavolo per la cena del giorno successivo e lei rifiuta decisamente e con un tono quasi infastidito che contrasta con la delicatezza dei suoi modi, ma che nasconde una certa timidezza: la professoressa di storia sa chi sono le tre donne al tavolo del capitano, se ne sente in qualche modo intimidita, ma anche lontana dal centro europeo: è pur sempre una portoghese, defilata come la sua terra.

Il capitano non insiste, ma non rinuncia; mentre la nave fa scalo nel porto di Aden si reca al suk locale e compera un regalo per la bambina. Anche madre e figlia si recano nello stesso suk dove acquistano un vestito arabo per Maria Juana.

A sera il capitano reitera l’invito e mostra il regalo per la bambina, così che la madre non può più rifiutare. La conversazione sembra proseguire come la sera precedente ma non è più la stessa, nonostante il copione non sia mutato. L’allargamento della tavola alle due portoghesi costringe tutti a parlare l’inglese e cioè la lingua di chi un’Europa veramente unita non la vorrà mai: è la greca a farlo notare, ricordando con rammarico che quando gli Stati Uniti ottennero la loro indipendenza il senato americano mise ai voti quale dovesse essere la lingua nazionale e per un solo voto vinse l’inglese sul greco.

Il regalo del capitano alla bimba è una bambola con il chador. La serata continua nel solito stile conviviale della sera precedente. L’ex indossatrice italiana è piena di ammirazione e di nostalgia nel vedere in Maria Juana la figlia che non ha potuto avere; poi, il comandante invita la cantante a regalare a tutti i viaggiatori una canzone. Lei cerca di rifiutare con gentilezza ma poi si adegua. Canta un motivo struggente, che gira intorno a un ritornello che si ripete malinconico come un annuncio di morte.

Un gruppo terrorista ha minato la nave durante l’ultimo scalo, non c’è il tempo di disinnescare l’ordigno, devono abbandonarla; di questi terroristi non sappiamo e non vediamo nulla, non hanno né parola né immagine. La madre portoghese cerca di mantenere la calma, troppa, perché è come in trance, infatti, commette un lapsus decisivo: dimentica la bambola in cabina e quando Maria Juana se n’accorge, la bambina torna indietro a riprenderla. La scena finale inchioda tutti i protagonisti ai loro atti mancati: il capitano invece di abbandonare per ultimo la nave (anzi di affondare con lei come recita la regola antica) si erge impettito e impotente sulla scialuppa di salvataggio, mentre sulla nave la madre e la figlia vedono allontanarsi la salvezza. La catena della trasmissione del sapere di una civiltà si è rotta in due punti diversi: sulla scialuppa, un comando senza più padri guarda una madre professoressa di storia incapace di vedere l’ombra della storia. L’ultima scena coglie in una fissità mortale gli occhi del capitano che vedono esplodere la nave con le due passeggere a bordo.

Europa e il suo mito

La storia europea è al centro del film di Anghelopoulos, ma il suo eroe cerca infondo di scansarla, sfugge dallo scontro che si prospetta alla fine del secondo prologo e che dovrebbe in realtà coinvolgerlo, visto che è stato un suo film a innescare il contrasto etnico: successivamente la storia ricompare come incubo o sogno, infine l’attraversa a Serajevo quasi senza accorgersene. Inconsciamente sa a cosa va incontro e cerca di ritardarlo il più possibile. La scelta registica dell’estrema lentezza, i piani sequenza interminabili, che ritroveremo anni dopo nel cinema di Sokurov, è parte di questa strategia compositiva. Anche nella sequenza onirica della festa di Capodanno, probabilmente assai criptica per un non europeo, ma ostica anche per noi che lo siamo, il gioco del rallentamento ha due funzioni: ritardare, ma anche suggerire che siamo dentro una storia immobile, che non passa, che si ripete estenuante.

Una sola volta l’Ulisse di Anghelopoulos usa un linguaggio superficiale: quando, sulle ali dell’entusiasmo per avere raggiunto il suo scopo e cioè lo sviluppo delle pellicole, annuncia alla nipote del vecchio, mentre passeggia con lei nella nebbia, il suo ritorno imminente. In realtà la nipote è la più sfocata delle donne e infatti, il dialogo amoroso fra i due suona falso e artificioso. Non vi può essere ritorno a buon mercato e Anghelopoulos, nel dialogo fra l’eroe e l’ultima delle Penelopi, mette in scena, prima dell’epilogo, il teatrino delle facili soluzioni, giocando anche sulla differenza d’età fra il maturo protagonista maschile e l’attrice abilmente ringiovanita dai truccatori.

La tragedia non suggerisce soluzioni, ma una piccola catarsi c’è nel film di Anghelopoulos, solo che il regista l’ha disseminata qui e là: è un messaggio diverso possibile, una specie di sequenza laterale come quelle oniriche, ma che gira intorno alle figure femminili.

Era inevitabile, in prima istanza, definirle delle Penelopi, così come è possibile intravedere nel vecchio che custodisce le pellicole un debole Omero sullo sfondo. Anghelopoulos gioca con il cliché e dunque se li cerchiamo ne ritroviamo altri di personaggi dell’Odissea, ma a conti fatti, lo scostamento dal modello è tale – nel caso delle donne – che la scelta appare alla fine del film come un rilievo che s’ispessisce strada facendo. Bisogna allora tornare all’inizio, a una prima importante apparizione femminile, che scompare subito.

La proiezione del film del regista ha fatto scandalo e divisa la comunità in due schieramenti che si fronteggiano in una scena di grande suggestione, che evoca quello che sta accadendo in tutta la Jugoslavia e cioè una guerra civile cruenta e tragica segnata da episodi di efferatezza estrema. Mentre il regista osserva una delle schiere che si stanno pericolosamente avvicinando, viene superato da una donna che prosegue il cammino nello spazio vuoto, una terra ancora di nessuno, ma per poco tempo ancora. Lui la vede e ha la tentazione di seguirla, ma è superato dalle prime fila dell’altra schiera e si ferma. Come lui, quella donna non partecipa agli eventi, non è schierata con l’una o l’altra delle fazioni, si trova nel mezzo e la sequenza successiva del film non ci dice quale sarà la sua fine, ma quella apparizione – seppur fuggevole – è una specie di tertium, che incarna per un breve istante, qualcosa di diverso. Essa avrebbe dovuto suggerire al nostro eroe moderno quello che poi non riesce a vedere nello sguardo delle altre donne che incontrerà: un volto identico nel quale avrebbe dovuto scorgere, come in uno specchio, proprio la reiterazione di una medesima tragedia.

In realtà, nessuna di loro è una vera Penelope, a cominciare da quella fugace apparizione iniziale. Non sono donne in attesa dell’eroe, nessuna di loro lo è, con modulazioni diverse fra l’una e l’altra. La prima, la donna dell’apparizione, va per la sua strada nonostante tutto, la direttrice albanese degli studi cinematografici, diffidente nei confronti del regista all’inizio, s’abbandona a lui perché affascinata dal suo racconto, mentre lei corre di fianco al treno. Il loro addio nella città bulgara è un addio e basta, lei torna alla sua vita di sempre, che non ha mai abbandonato: è lui che le dice che ritornerà, ma solo perché non riesce a uscire dal cliché. La seconda donna, slava, che vive in riva al fiume, non attende lui ma un altro, il marito in guerra già morto. Lo piange disperatamente perché la sua condizione è disperata e quando ha con il regista una breve storia amorosa è solo un intermezzo, un riprendere fiato, con quel tanto di libertà e spregiudicatezza che può concedersi in una situazione disperata come quella. Siamo del tutto fuori dal cliché, è lui che continua a non accorgersene. Infine l’ultima, la nipote del vecchio, una ragazza moderna, che indossa i jeans e porta lo zainetto sulle spalle. Potrebbe essere una frequentatrice di centri sociali, o una giovane qualunque di questa generazione. Anche a lei il nostro eroe ripete che sta per tornare, lei lo ascolta, si abbracciano ma il dialogo è stentato, surreale per certi aspetti. Fra tutte è la meno aderente al cliché e infatti fra i due non accade nulla.

 Europa fuori dal mito

Il mito è stato il leit motiv dell’opera di Anghelopoulos e della sua vita. Con Lo sguardo di Ulisse il regista greco va fino in fondo, fino a fare a pezzi la materia della sua ispirazione. C’è un momento precedente l’epilogo in cui fa pronunciare questa verità all’anonimo taxista che lo sta trasportando in Albania. Fermi perché la strada è interrotta dalla neve i due uomini parlano e bevono, diventano amici. Il taxista scende dall’auto e urla che la Grecia è finita e si augura che la sua fine avvenga il più rapidamente possibile. Sembrava una scena gratuita; vista retrospettivamente dopo che abbiamo conosciuto la conclusione ne capiamo il senso anticipatorio. Il taxista svolge la funzione di un dio che appare all’eroe e gli annuncia una verità che lui non è ancora in grado di scorgere: la Grecia è finita, il suo mito patriarcale ha compiuto il suo ciclo. L’unica figura che nel film di Anghelopoulos non compare è quella di Telemaco, perché la genealogia patriarcale s’è interrotta e l’unico giovane presente nel film è un ragazzino che aiuta il vecchio a procurarsi l’acqua, ma che sembra totalmente abbandonato a se stesso. Non è però solo la Grecia, è sull’Europa in realtà che Anghelopulos punta il dito, quell’Europa che ha permesso il massacro jugoslavo. Perciò, dopo essere partito alla ricerca di uno sguardo che andasse oltre la stessa Odissea, l’Ulisse moderno di Anghelopulos ritrova l’Iliade, cioè la coazione a ripetere.

La saggezza del Senex

Anche il film di De Oliveira ha nella storia il suo centro, ma in un modo che solo un portoghese può sentire: ai margini ma non marginali, i portoghesi hanno un curioso destino sia da un punto di vista della loro secolare politica coloniale, sia rispetto all’Europa. I loro navigatori hanno toccato e sfiorato tutti i mondi, ma hanno sempre scelto di non penetrare troppo nei continenti che pure hanno saputo raggiungere, a volte prima di altri. Le loro colonie sono città piuttosto che imperi, Macao ne è l’esempio più limpido. Tenuto i margini dell’Europa occidentale, che ha tollerato l’esistenza di due regimi fascisti nella penisola iberica, anche dopo la seconda Guerra mondiale, per ragioni di Guerra Fredda, è rientrato nella comunità europea grazie a un evento storico quanto mai portoghese anche quello e cioè la Rivoluzione dei garofani, immortalata nel film Capitani d’aprile della regista Maria de Medeiros.

Il finale di Film parlato invita a tornare di nuovo sulla lentezza del linguaggio cinematografico di De Oliveira – Scarpette rosse per esempio – che mi ha ricordato le pagine che Italo Calvino, in Lezioni Americane, ha dedicato alla rapidità. Siamo abituati a pensare che lentezza e velocità siano la coppia di opposti: Calvino introduce la rapidità come spostamento dalla coppia ed è proprio intorno al binomio lentezza-rapidità che De Oliveira fa esplodere il suo film in una fulminea e tragica scena di morte. Film parlato, tuttavia, non è un’opera nichilista, ma quella di un vecchio saggio. Il regista portoghese ha girato questo film all’età di 96 anni! La sua non è una semplice vecchiaia, è una vita protratta quasi al limite ragionevole della statistica più benevola. È un uomo solo, un vegliardo biblico, l’ultimo testimone. In questi casi i vecchi diventano dei brontoloni che se la prendono con il mondo intero, oppure ritornano a essere dei pueri aeterni deliranti; ma se hanno costruito nel tempo quella che Hillman chiama la Forza del carattere, ecco che sanno trasformare l’orizzonte ravvicinato davanti a loro nella visione del senex, in un ultimo regalo di saggezza. De Oliveria vede la morte della civiltà che lo ha cullato, dalla distanza che un portoghese ha mantenuto per un secolo intero anche per le sue vicende interne, ma pur sempre cullato. Anzi, lo sguardo decentrato favorisce ancor più il saper vedere bene. De Oliveira, guarda all’Europa e ci lancia questo monito, mostrandocela nella sua semplice bellezza. La state perdendo, ci dice: state perdendo le vostre radici, avete poco tempo per salvarle. La rapidità con cui pone fine metaforicamente alla sua e nostra civiltà significa semplicemente che ciò che è stato costruito in alcuni millenni, può finire in un attimo, che la civiltà è precaria come le nostre vite. L’esplosione della metaforica Nave Europa indica un punto di non ritorno.


[1] Un’amica fotografa mi fece concretamente capire come la manipolazione avviene, mostrandomi un reportage fotografico di una nota rivista di promozione turistica. La fotografia in questione, a tutta pagina, mostrava uno scorcio di savana, dai colori sgargianti, perfetti; animali sullo sfondo, tutto quel che serve per creare un’immagine accattivante per il turista. In effetti più che una savana faceva venire in mente un giardino pubblico. Infatti non era quella l’immagine originaria. Armata di una lente, la fotografa mi fece vedere tutti gli interventi di rimozione che erano stati fatti, per pulire la savana in modo da addomesticarla il più possibile. Era stato fatto sparire persino il leone intento al pasto, perché troppo inadatto all’immagine di tranquillo paradiso terrestre che si voleva suggerire.

Leone Tolstoj

“Domandate ai giornalisti perché con i loro scritti eccitano gli uomini alla guerra: essi vi risponderanno che le guerre in generale sono necessarie, e soprattutto la guerra attuale; essi appoggeranno le loro opinioni con frasi vaghe e patriottiche, come i soldati e i diplomatici. E allorché si domanderà loro perché essi, giornalisti, uomini viventi, agiscono in tal modo, vi parleranno degli interessi generali dei popoli, dello Stato, della civiltà, della razza bianca”.  Da Guerra e rivoluzione, scritti del 1904.

Il discorso sulla pace

Di Jacques Prévert

Sul finire di un discorso di grande importanza

l’insigne statista esitando

su una bella frase assolutamente vuota

ci cade dentro

e impacciato la bocca spalancata

affannato

mostra i denti

e la carie dentaria dei suoi paciosi ragionamenti

scopre il nervo della guerra

il cruciale problema del denaro.