La fine e l’inizio


di Wisława Szymborska

Dopo ogni guerra
c’è chi deve ripulire.
In fondo un po’ d’ordine
da solo non si fa.
C’è chi deve spingere le macerie
ai bordi delle strade
per far passare
i carri pieni di cadaveri.
C’è chi deve sprofondare
nella melma e nella cenere,
tra le molle dei divani letto,
le schegge di vetro
e gli stracci insanguinati.
C’è chi deve trascinare una trave
per puntellare il muro,
c’è chi deve mettere i vetri alla finestra
e montare la porta sui cardini.
Non è fotogenico
e ci vogliono anni.
Tutte le telecamere sono già partite
per un’altra guerra.
Bisogna ricostruire i ponti
e anche le stazioni.
Le maniche saranno a brandelli
a forza di rimboccarle.
C’è chi con la scopa in mano
ricorda ancora com’era.
C’è chi ascolta
annuendo con la testa non mozzata.
Ma presto
gli gireranno intorno altri
che ne saranno annoiati.
C’è chi talvolta
dissotterrerà da sotto un cespuglio
argomenti corrosi dalla ruggine
e li trasporterà sul mucchio dei rifiuti.
Chi sapeva
di che si trattava,
deve far posto a quelli
che ne sanno poco.
E meno di poco.
E infine assolutamente nulla.
Sull’erba che ha ricoperto
le cause e gli effetti,
c’è chi deve starsene disteso
con la spiga tra i denti,
perso a fissare le nuvole

La luna di Kiev

di Gianni Rodari

«Chissà se la luna

di Kiev

è bella

come la luna di Roma

chissà se è la stessa

o soltanto sua sorella …

«Ma son sempre quella!

– la luna protesta –

non sono mica

un berretto da notte

sulla tua testa!

Viaggiando quassù

faccio lume a tutti quanti,

dall’India al Perù,

dal Tevere al Mar Morto,

e i miei raggi viaggiano

senza passaporto».


Io resto qua

DI MARIA TERESA CIAMMARUCONI

Intervento per la  Federazione Unitaria Italiana Scrittori

scrittori per la pace contro la guerra

Non sono una politologa e tantomeno un’esperta di strategie belliche.

Quindi non sono in grado di formulare analisi e tantomeno giudizi.

Davanti a tanti conflitti in corso resto sola, confusa, terrorizzata

Mi chiedo: come possiamo sperare nelle soluzioni diplomatiche se anche gli artisti, gli sportivi, gli uomini di cultura vengono demonizzati, emarginati e messi alla gogna proprio nei paesi europei che della pace hanno fatto una bandiera.

Noi non uccidiamo gli uomini, ma quell’occasione di confronto e dialogo che potrebbe salvarne molti.

Perdiamo un’irripetibile occasione politica.

Il direttore Valery Gèrgiev e la cantante Anna Netrèbko allontanati dalla Scala, il professor Alessandro Orsini aggredito in diretta. Alle Paraolimpiadi di Pechino esclusi gli atleti russi. E ancora: la fiera del libro di Francoforte, il festival del cinema di Vilnius, finanche la kermesse gastronomica di Parma. L’epurazione ha raggiunto tutti

Eventi straordinari che da questa guerra escono mutilati.

Ma io resto qua, nell’Italia che ripudia la guerra e con voi per qualche minuto voglio fingere ancora di vivere in pace

Io resto qua

Eih Valery, Valery Gergiev

come è andata con la Dama di picche

ero alla Scala la sera della prima e quel Čajkovskij

come lo fai tu… ora sei a Edimburgo immagino.

Scusa, forse è perché non ho orecchio musicale

ma sento che mi sfuggono troppe cose

tu sei buon amico di Anna, la Netrébko dico

quella dell’Adriana Lecouvreur subito dopo di te

sul palco del Piermarini

bella Anna- la donna più sexy della musica classica-

dice che sta riflettendo ma non ho capito su che cosa.

La sua collega – invece – la Kovàlskaya

lei sì che ha capito subito quello che andava fatto

perché si trova a Mosca. Li ha mollati su due piedi

È impossibile lavorare per un assassino

e riscuotere uno stipendio da lui”    ha ragione.

A Mosca    lì sì che ci vuole coraggio perché ti mandano in galera.

Anche Olga, la libellula del Bolshoi,

ora vola insieme alle compagne dei Paesi Bassi.

La giornalista che ha fatto la sorpresa col cartello

fa gli scongiuri ma resiste a non andarsene.

Perché a Mosca non è come qui da noi

che c’è libertà di pensiero.

Per questo io resto qua

Sono così confusa perché non ho orecchio musicale

a Francoforte – invece – sono nel mio regno

carta stampata in tutte le lingue e lì l’udito mi si affina

e sento la musica di idiomi in armonia

sui banchi affollati delle idee

anche se leggo solo l’italiano

mi piace guardare pagine arabe russe e cinesi.

E poi mi piacciono gli atleti – che ragazzoni –

perché vivono nella gloria del corpo anche quando

il martirio gli spezza le gambe o gli toglie la luce dagli occhi.

Vado a Pechino alle paraolimpiadi

ci sono 32 atleti azzurri su 564 di tutte le nazionalità

per la prima volta Israele e Portorico.

Qualcuno manca all’appello… Parson parla di misure di sicurezza.

Vado e torno, ma alla fine io resto qua.

E poi mi piace il cinema

allora prendo il primo volo per Vilnius in Lituania

dove Kristina Paustian con il suo film in concorso al festival

mi narrerà la vita di quel poeta futurista russo

morto cento anni fa, giusti giusti

ne aveva 37, lui, Velim Chlebnikòv

quello che scrisse

le ragazze, quelle che camminano, con stivali di occhi neri, sui fiori del mio cuore.

saprò finalmente perché amava tanto Giordano Bruno e Copernico.

A proposito, che brutta fine quei due.

Io resto qua perché voglio essere libera

nell’Italia che ripudia la guerra

e dove oggi tutti possono dire la loro anche a sproposito

e dove sento ancora parole di pace

pace anche se non si va d’accordo

pace nella ressa di pensieri sconnessi

ché è proprio là nelle sconnessure

che sboccia l’inseminato

prodigio del non ancora detto.

Io resto qua in Italia, e a maggio vado a Parma dove 42 paesi

apparecchiano i cibi del mondo per lingue golose di gusti e di idee

insieme attorno a tavole imbandite di sapori

bevo champagne e vodka, pàlinka, corvo rosso e kvass

mi ubriaco, già lo so, perché non temo il fuoco incrociato

delle menti.

Eih Paolo, Paolo Nori!

dove vai con quel libro sotto braccio?

Hai lasciato Milano? Ti invitano – mi dici – altrove a parlare di Dostoevskij

E i tuoi allievi della Bicocca, li hai abbandonati?

tanto loro ti vengono appresso come falene attorno alla luce.

Aspetta e spiegami com’è che sanguina ancora

scusa sai, sono lenta a cogliere le strategie dei falchi

anche se non sono una colomba

da bambina mi chiamavano pupa e pupa sono rimasta

in un teatro di marionette dove non ho ancora capito

qual è il mio abito di scena.

Per sentirmi libera ho tagliato tutti i fili

che tirano braccia gambe testa

però addosso

mi pesa ancora l’ombra di una mano.

Io resto qua

anche se ci vedo sempre meno e per sete di luce

mi lascio abbagliare dalla bellezza    tanto

da non vedere più la verità solo un poco nascosta dietro l’angolo

tanto da confondere il sogno di una cosa con le cose del mondo.

No, non lo voglio ancora capire che siamo in guerra.

Comunque io resto qua.

LA SCUOLA CATTOLICA

Il romanzo di Edoardo Albinati, pur trattando il tema della guerra in modo esplicito solo in rari passaggi, ricostruisce però in modo puntuale il tipo di educazione al maschile che porta oltre che agli stereotipi di genere e alla violenza contro le donne, anche alla guerra. Ne riporto alcuni passi:

… Virilità significa potere. Se non ho potere vuol dire che non solo virile. Se non sono virile non avrò mai il potere, il cerchio si chiude … È fuori di dubbio che gli uomini come gruppo detengono il potere, mentre gli uomini come singoli individui raramente ce l’hanno. E reagiscono in modo spesso scomposto e isterico a questa clamorosa disparità. Il potere che no hanno, tocca che se lo inventino: trovando nei paraggi qualcuno da comandare …

… Bastava andare un dito più sotto, o qualche pagina più in là, tra gli episodi meno spesso raccontati, nascosti fra le parentesi e i riassunti, come quando Achille sgozza un po’ di prigionieri troiani, per celebrare il funerale di Patroclo …  È roba che si insegna a scuola a ragazzini di tredici e quattordici anni come esempio di eroismo, modelli da imitare, … il grande Achille, un mito, un eroe. Non un criminale nazista …

… All’inizio c’è solo la lotta, una dura lotta per il predominio. A questo scopo si modifica il precetto cristiano della rinuncia a se stessi in favore degli altri, trasformandolo nella rinuncia di se stessi a favore di se stessi: è la morale puritana che pone come più alto modello la non vita. In seguito non rimane che sacrificare gli altri. Gli odiatori di uomini iniziano detestando la propria persona e poi passano a quella altrui … Per           questo occorre guardarsi da chiunque dica: “Io sono duro con me stesso, quindi posso permettermi di esserlo con gli altri”….

… Peraltro, nell’affermare il principio della fraternità, ci si è scordati di notare la sua origine di alleanza difensiva e offensiva, … Non per niente il sentimento di fraternità poeti e scrittori ci hanno insegnato che nasce perlopiù in stato di guerra, al fronte, in trincea: ecco, i fratelli sono i propri commilitoni, , quelli per cui versare il proprio sangue … Fra le fazioni maschili che si combattono a  sangue passa comunque cento volte più somiglianza che differenza …

…  Come alcuni teorizzano che la ragione biologica per cui i maschi fanno la guerra risieda nell’istinto di proteggere ciò che ha di più caro, “donne e bambini terre e ideali”, così si potrebbe sostenere che essi lo fanno per espropriare o distruggere, le donne, i bambini, le terre gli ideali degli avversari. Non combattono mai per sé, per sé e basta, ma per difendere quelli che considerano dei propri beni , e acquisire o fare a pezzi quelli degli altri. Più che cercare solamente di uccidere l’avversario, bisogna prendergli la moglie, bruciargli la capanna, razziargli il gregge, e infine obbligarlo a rinnegare i suoi principi

Wirginia Woolf: da Le tre ghinee

Saltano subito all’occhio tre ragioni che spingono il vostro sesso a combattere: la guerra è un mestiere; è una fonte di felicità e di esaltazione; è uno sbocco per le virtù virili senza le quali l’uomo si deteriorerebbe … È evidente … che all’interno del medesimo sesso coesistono opinioni diverse sul medesimo argomento. Ma è altrettanto evidente, a quel che si legge sul giornale di oggi, che per numerosi che siano coloro che dissentono la grande maggioranza del vostro sesso è favorevole alla guerra.  

Bertolt Brecht: Tre poesie

Ecco gli elmi dei vinti


Ecco gli elmi dei vinti, abbandonati
in piedi, di traverso e capovolti.
E il giorno amaro in cui voi siete stati
vinti non è quando ve li hanno tolti,
ma fu quel primo giorno in cui ve li
siete infilati senza altri commenti,
quando vi siete messi sull’attenti
e avete cominciato a dire sì

Al momento di marciare di Bertolt Brecht

Al momento di marciare molti non sanno

che alla loro testa marcia il nemico.

La voce che li comanda è la voce del loro nemico.

E chi parla del nemico è lui stesso il nemico.

Quando chi sta in alto parla di pace

Quando chi sta in alto parla di pace

la gente comune sa che ci sarà la guerra.

Quando chi sta in alto maledice la guerra

le cartoline precetto sono già compilate.

Dulce et decorum est

British soldier and war poet Wilfred Owen (1893 – 1918) in uniform with a young boy, circa 1917. (Photo by Evening Standard/Getty Images)

Quella che segue è una poesia di Wilfred Owen che Woolf cita più volte nel suo libro Le tre ghinee come esempio di un maschile che ha saputo distaccarsi dall’esaltazione della guerra. Vale la pensa di ricordare che a centro anni e più dalla Prima Guerra Mondiale e nonostante che Owen sia morto in quel conflitto, le sue poesie di denuncia sono tenute fuori dalle antologie.

Bent double, like old beggars under sacks, 

Knock-kneed, coughing like hags, we cursed through sludge, 

Till on the haunting flares we turned our backs 

And towards our distant rest began to trudge. 

Men marched asleep. Many had lost their boots 

But limped on, blood-shod. All went lame; all blind; 

Drunk with fatigue; deaf even to the hoots

Of tired, outstripped Five-Nines that dropped behind.

Gas! Gas! Quick, boys! – An ecstasy of fumbling, 

Fitting the clumsy helmets just in time; 

But someone still was yelling out and stumbling, 

And floundering like a man in fire or lime . . . 

Dim, through the misty panes and thick green light, 

As under a green sea, I saw him drowning. 

In all my dreams, before my helpless sight, 

He plunges at me, guttering, choking, drowning. 

If in some smothering dreams you too could pace 

Behind the wagon that we flung him in, 

And watch the white eyes writhing in his face, 

His hanging face, like a devil’s sick of sin; 

If you could hear, at every jolt, the blood 

Come gargling from the froth-corrupted lungs, 

Obscene as cancer, bitter as the cud

Of vile, incurable sores on innocent tongues, 

My friend, you would not tell with such high zest

To children ardent for some desperate glory, 

The old Lie; Dulce et Decorum est 

Pro patria mori.

***

Piegati in due, come vecchi straccioni, sacco in spalla,

le ginocchia ricurve, tossendo come megere, imprecavamo nel fango,

finché volgemmo le spalle all’ossessivo bagliore delle esplosioni

e verso il nostro lontano riposo cominciammo ad arrancare.

Gli uomini marciavano addormentati. Molti, persi gli stivali,

procedevano claudicanti, calzati di sangue. Tutti finirono

azzoppati; tutti orbi; ubriachi di stanchezza; sordi persino al sibilo

di stanche granate che cadevano lontane indietro.

Il GAS! IL GAS! Svelti ragazzi! – Come in estasi annasparono,

infilandosi appena in tempo i goffi elmetti;

ma ci fu uno che continuava a gridare e a inciampare

dimenandosi come in mezzo alle fiamme o alla calce…

Confusamente, attraverso l’oblò di vetro appannato e la densa luce verdastra

come in un mare verde, lo vidi annegare.

In tutti i miei sogni, davanti ai miei occhi smarriti,

si tuffa verso di me, cola giù, soffoca, annega.

Se in qualche orribile sogno anche tu potessi metterti al passo

dietro il furgone in cui lo scaraventammo,

e guardare i bianchi occhi contorcersi sul suo volto,

il suo volto a penzoloni, come un demonio sazio di peccato;

se solo potessi sentire il sangue, ad ogni sobbalzo,

fuoriuscire gorgogliante dai polmoni guasti di bava,

osceni come il cancro, amari come il rigurgito

di disgustose, incurabili piaghe su lingue innocenti –

amico mio, non ripeteresti con tanto compiaciuto fervore

a fanciulli ansiosi di farsi raccontare gesta disperate,

la vecchia Menzogna: Dulce et decorum est

Pro patria mori.

Pensieri di pace durante un’incursione aerea (agosto 1940) di Virginia Woolf

La riflessione proposta è un classico di recente ritradotto da Nadia Fusini. Il testo può essere considerato una sorta di appendice al libro Le tre ghinee e fu pubblicato postumo nel 1942. Lo avevo proposto all’inizio della guerra fra Russia e Ucraina e lo ripropongo oggi anche con la breve introduzione di Tomaso Montanari, quando una nuova guerra di sterminio ancora più atroce è scoppiata nel Medio Oriente. Lo stato di impotenza nel quale siamo immersi è il risultato di una politica sempre più necrofila: ma che altro possiamo fare se non cercare di tenere accese quelle poche luci di un pensiero critico?

“Nadia Fusini ha tradotto in questi giorni questo testo struggente, e lo ha fatto come atto di resistenza alla guerra: a questa sporca guerra di conquista nazionalista, e ad ogni altra guerra. Pubblicarlo qui oggi è il nostro modo di essere vicini alle donne ucraine sotto le bombe russe, e alle donne russe le cui vite sono ora diversamente distrutte. Nessuno come Virginia Woolf ha saputo esprimere la radicale alterità delle donne rispetto alla guerra: eterno “gioco” bestiale dei maschi, frutto della loro (della nostra) puerile e omicida volontà di potenza. Se qualcuno avesse ancora un dubbio sul fatto che liberarsi dal dominio maschile (nei pensieri, nelle parole, nelle opere) non è un obiettivo (solo) delle donne, ma di tutta l’umanità, questo drammatico 8 marzo di guerra serve a toglierselo una volta per tutte.” (Tomaso Montanari)

I tedeschi erano su questa casa la notte scorsa e quella prima. Eccoli di nuovo. È una strana esperienza stare sdraiati al buio e sentire il ronzio di un calabrone che in qualsiasi momento può pungerti a morte. È un rumore che interrompe il pensiero freddo e coerente della pace. Eppure è un rumore che assai più delle preghiere e degli inni dovrebbe costringerci a pensare alla pace. A meno di non riuscire a pensare alla pace, ognuno di noi, ognuna di noi – non questo corpo qui, in questo letto, bensì milioni di corpi non ancora nati – rimarremo al buio ad ascoltare questo rantolo di morte sulla testa. Cerchiamo di pensare che cosa si può fare per creare il solo rifugio antiaereo efficace, mentre in collina i cannoni sparano e i fari tastano le nuvole, e qua e là, a volte vicino, a volte lontano, cade una bomba. Su in cielo dei giovani uomini inglesi e dei giovani uomini tedeschi si combattono. Sono uomini i difensori, sono uomini gli attaccanti. Alla donna inglese non vengono consegnate le armi, né per combattere il nemico, né per difendersi. Lei deve giacere al buio disarmata stanotte. Eppure se crede che il combattimento in cielo è una battaglia tra gli inglesi per proteggere la libertà, e i tedeschi per distruggere la libertà, anche lei deve lottare, per quanto può, dalla parte degli inglesi. Ma come può lottare per la libertà senza armi da fuoco? Fabbricando armi, oppure vestiti o cibo. Ma c’è un altro modo di combattere per la libertà senza armi; possiamo combattere con la mente. Possiamo ‘fabbricare’ idee, che aiuteranno il giovane uomo inglese che combatte su in cielo a sconfiggere il nemico. Ma perché le idee siano efficaci, dobbiamo essere in grado di spararle. Dobbiamo metterle in atto. Così il calabrone in cielo risveglia un altro calabrone nella mente. Ce n’era uno questa mattina, che ronzava nel Times; era una donna che diceva: “Le donne non hanno voce nelle questioni politiche”. Non c’è nessuna donna nel Gabinetto; né in nessun posto di responsabilità. Tutti quelli che producono le idee, e sono in grado di attuarle, sono uomini maschi. Ecco un pensiero che affossa il pensiero, e incoraggia l’irresponsabilità. Perché allora non sprofondare la testa nel cuscino, turarsi le orecchie e abbandonare la futile attività di produrre idee? Ci sono altri tavoli, oltre ai tavoli dei militari e ai tavoli delle conferenze. Ma rinunciando al pensiero privato, al pensiero del tavolo da tè, perché ci sembra inutile, non priviamo il giovane inglese di un’arma che potrebbe essergli utile? Non stiamo esagerando la nostra incapacità, solo perché la nostra capacità ci espone magari all’insulto, al disprezzo? “Non cesserò di combattere con la mente” scrive Blake. Combattere con la mente2 significa pensare contro la corrente, e non a favore. La corrente scorre veloce e violenta. Straripa a parole dagli altoparlanti e dai politici. Ogni giorno ci dicono che siamo un popolo libero, che combatte per difendere la libertà. Questa è la corrente che ha trasportato il giovane aviatore fino in cielo, e lo tiene lì, tra le nuvole. Quaggiù, protetti da un tetto, con una maschera antigas a portata di mano, è nostro compito bucare i palloni gonfiati d’aria e smascherare i germi di verità. Non è vero che siamo liberi. Siamo tutti e due prigionieri stasera: lui imprigionato nella sua macchina con un’arma a portata di mano, noi sdraiate nel buio con una maschera antigas a portata di mano. Se fossimo liberi saremmo all’aperto, a ballare, o a teatro, o seduti alla finestra a parlare. Che cosa ce lo impedisce? “Hitler!” esclamano unanimi gli altoparlanti. Chi è Hitler? Che cos’è Hitler? Aggressione, tirannia, amore forsennato del potere, rispondono. Distruggetelo, e sarete liberi. Sulla mia testa ora il rimbombo degli aerei è come la sega sul ramo di un albero. Va in tondo, e sega il ramo proprio sopra la mia casa. E nel cervello un altro rimbombo comincia. “Le donne capaci” così diceva Lady Astor nel Times di stamani, “vengono frenate, ostacolate, sottomesse per via dell’inconscio hitlerismo nel cuore degli uomini”. È vero, noi siamo ostacolate. E questa sera siamo tutti egualmente prigionieri: gli uomini inglesi negli aerei, le donne inglesi nei letti. Ma se lui smette di pensare, può essere ucciso; e lo stesso vale per noi. E allora pensiamo per lui. Cerchiamo di portare alla coscienza l’inconscio hitlerismo che tutti ci opprime. È il desiderio di aggressione; il desiderio di dominare e schiavizzare. Perfino nel buio delle tenebre lo si può vedere chiaramente. Vediamo vetrine di negozi che brillano, e donne che guardano, donne truccate, donne vestite di tutto punto ‒ donne con le labbra rosse, le unghie rosse. Sono schiave che cercano di fare schiavi. Se potessimo liberarci dalla schiavitù, libereremmo anche gli uomini dalla tirannia. Gli Hitler sono generati dagli schiavi. Cade una bomba. I vetri della finestra tremano. I cannoni antiaerei entrano in azione. Là, in cima al colle, sotto una rete fatta di pezzi di stoffa verde e marrone, che imitano i colori delle foglie d’autunno, si nascondono i cannoni. Ora sparano tutti insieme. Il giornale radio delle nove ci dirà: “Quarantaquattro aerei nemici sono stati abbattuti nella notte, dieci dal fuoco antiaereo”. E una delle condizioni della pace, dicono gli altoparlanti, dev’essere il disarmo. Non ci dovranno essere mai più armi, né esercito, né marina, né forza aerea nell’avvenire. I giovani uomini non saranno più addestrati a combattere con le armi. Il che sveglia un altro calabrone nelle camere del cervello ‒ un’altra citazione: “Combattere contro un nemico reale, guadagnare onore immortale e la gloria uccidendo dei perfetti sconosciuti, e tornare a casa con il petto coperto di medaglie e di decorazioni, quello era il colmo della speranza… A questo era stata dedicata finora tutta la mia vita, la mia educazione, la mia formazione, tutto…”. Queste sono le parole di un giovane uomo inglese che ha combattuto nell’ultima guerra. Davanti alle quali, gli attuali pensatori possono onestamente credere che scrivendo “disarmo” su un pezzo di carta in una conferenza dei ministri avranno fatto tutto ciò che si doveva fare? Otello non farà più il suo mestiere, ma sarà sempre Otello. Il giovane aviatore su in cielo non è guidato soltanto dalle voci degli altoparlanti; è guidato da voci che ha dentro di sé ‒ antichi istinti, istinti incoraggiati e nutriti dall’educazione e dalla tradizione. Lo dobbiamo biasimare per questo? Si potrebbe forse sopprimere l’istinto materno, al comando di un gruppo di politici seduti intorno al tavolo? Facciamo conto che fra le condizioni di pace ci fosse questa, imperativa: “Fare figli sarà ristretto a una piccolissima classe di donne accuratamente selezionate” ‒ lo accetteremmo? O non dovremmo dire: “L’istinto materno è la gloria della donna. A questo è stata dedicata finora la mia vita, la mia educazione, la mia preparazione, tutto…”. Ma se fosse necessario, per il benessere dell’umanità, per la pace nel mondo, che la maternità venisse controllata, e l’istinto materno messo a tacere, le donne ci proverebbero. Gli uomini le aiuterebbero. Le onorerebbero per il loro rifiuto di fare figli. Offrirebbero altre possibilità alla loro potenza creativa. Anche questo deve far parte della nostra3 lotta per la libertà. Dobbiamo aiutare i giovani uomini inglesi a strapparsi dal cuore l’amore delle medaglie e delle decorazioni. Dobbiamo creare attività più onorevoli per chi cerca di dominare in se stesso l’istinto al combattimento, l’inconscio hitlerismo. Dobbiamo compensare l’uomo per la perdita delle armi. Il rumore di sega sulle nostre teste aumenta. Tutti i riflettori puntano in alto. Verso un punto che sta esattamente sopra questo tetto. In qualunque momento può cadere una bomba in questa stanza. Uno due tre quattro cinque sei… passano i secondi. La bomba non cade. Ma durante i secondi di attesa, il pensiero si blocca. Anche il sentire si blocca, tranne la sensazione opaca della paura. Un chiodo crocefigge l’essere tutto contro un’asse di legno duro. L’emozione della paura e dell’odio è sterile, non fertile. Non appena la paura passa, la mente si riprende e d’istinto rivive e cerca di creare. Siccome la stanza è al buio, creare può soltanto grazie alla memoria. Si protende verso il ricordo di altri agosti ‒ a Bayreuth, a sentire aWagner; a Roma, a passeggiare per la campagna romana; a Londra. Riaffiorano le voci degli amici. Frammenti di poesia. Ognuno di questi pensieri, anche nella memoria, è assai più positivo, rinfrescante, consolatore e creativo di quell’opaco spavento, fatto di paura e di odio. Perciò, se vogliamo compensare quel giovane uomo della perdita della gloria e delle armi, gli dobbiamo aprire l’accesso ai sentimenti creativi. Dobbiamo fare felicità. Dobbiamo liberarlo dalla macchina. Dobbiamo tirarlo fuori dalla sua prigione, all’aperto. Ma a che cosa serve liberare il giovane inglese, se il giovane tedesco e il giovane italiano rimangono schiavi? I riflettori accesi sulla pianura hanno finalmente scovato l’aereo. Dalla finestra si vede un piccolo insetto argentato che si gira e rigira alla luce. I cannoni sparano e sparano. Poi smettono. Probabilmente l’incursore è stato colpito dietro il colle. L’altro giorno, uno dei piloti è atterrato sano e salvo in un campo qui vicino. In un buon inglese, ha detto a chi l’ha catturato: “Come sono contento che il combattimento è finito!”. Al che un uomo inglese gli ha dato una sigaretta, e una donna inglese gli ha dato una tazza di tè. Questo starebbe a dimostrare che se si riesce a liberare l’uomo dalla macchina, il seme non cade in un suolo completamente sterile. Il seme può essere ancora fertile. Finalmente tutti i cannoni hanno smesso di sparare. I riflettori si sono tutti spenti. Il buio naturale della notte d’estate ritorna. Si sentono nuovamente gli innocenti rumori della campagna. Una mela cade per terra. Un gufo bubbola, volando da un albero all’altro. E mi viene in mente una frase quasi dimenticata di un vecchio scrittore inglese: “Si svegliano i cacciatori in America…”. Mandiamo dunque queste note frammentarie ai cacciatori che si sono appena alzati in America, a uomini e donne, il cui sonno non è stato ancora interrotto dal rumore della mitragliatrice, nella fede e nella speranza che ci pensino, e generosamente e caritatevolmente le trasformino in qualcosa di utile. E ora, in questa buia metà del mondo, a nanna …