NARRAZIONI FRA STORIA E MEMORIA: IL DONO DI MARIA TERESA CIAMMARUCONI

Via Cristoforo Colombo a Roma

I fuochi propulsori da cui prende vita e corpo il romanzo Il Dono, pubblicato per le edizioni Croce, sono un evento planetario – la pandemia di Covid – e un protagonista maschile – Renato – che si trova a vivere una condizione rovesciata rispetto a quella che è capitata a tutti noi durante il confinamento e il coprifuoco. Egli non può aderire a quel motto un po’ sinistro, che – specialmente nel web – era scritto tutto di seguito come se fosse una sola parola, iorestoacasa. Renato, infatti, è un senza tetto che vive in strada da vent’anni con uno zainetto nel quale, fra le altre cose, tiene un libro con le vite dei santi.

Il terzo elemento costitutivo della tessitura narrativa è la presenza di una narratrice onnisciente che non teme di esserlo. La combinazione di questi tre elementi si snoda per queste intense e ricche 281 pagine, in cui ogni capitolo è contrassegnato dalla data del giorno e da altri particolari che vedremo meglio successivamente. Il tutto è corredato da fotografie in bianco e nero, suggestive ed essenziali al tempo stesso. Più leggevo, tuttavia, più una domanda continuava a tornare: cosa viene davvero narrato in questo romanzo? Da un lato, la storia di Renato è quella di tanti che si sono persi nella grande città, la vita di strada è ormai un modo di condurre la propria esistenza in tutte le metropoli a ogni latitudine. Chi fa volontariato lo sa e proprio i componenti della comunità di sant’Egidio faranno presto la loro comparsa in questa narrazione, come comprimari e in qualche caso protagonisti essi stessi: la volontaria Teresa in particolare. Saranno loro a rendere meno sinistro il motto iorestoacasa, grazie alla presenza costante sul territorio.

Per un altro aspetto, la vicenda umana di Renato sta dentro una storia più grande: quella dei decenni trascorsi, quanto mai tumultuosi, sia dal punto di vista politico e sociale, sia personale: fra matrimoni falliti e divorzi, la ribellione di una generazione intera alle convenzioni sociali in una società in rapida trasformazione. Infine il quartiere. Chi vive in strada in teoria può andare ovunque ma è sempre nelle nicchie del proprio luogo di nascita o della porzione di città che meglio conosce dove trova il proprio rifugio naturale e trascorre gran parte del suo tempo; tanto più se si tratta di un quartiere che ha una lunga storia: il Tor Marancio, un tempo Shangai, immortalato anche in un passaggio di Ragazzi di vita di Pasolini e dal cinema.

Allo snodarsi di questi intrecci fra presente e memoria, fanno da contrappunto i dialoghi, fitti e densi a loro volta. Per non togliere a chi legge il gusto di assaporare il testo, ho scelto alcuni prelievi emblematici per questa riflessione critica, avvertendo però che questo romanzo può essere percorso in vari modi e lo si potrebbe leggere persino come un omaggio proprio al quartiere in cui è ambientato – dove pure la narratrice vive prevalentemente – nonché  alla ricchezza della sua storia e dei suoi tanti luoghi e anfratti.  

Il primo prelievo è dal capitolo 25/3/2020 Pasta e fagioli. I titoli, tranne il primo, sono scanditi da tre elementi portanti: la data, il menu che la comunità di sant’Egidio prepara quotidianamente e il santo del giorno. Quanto a Renato, che all’inizio stentava a rendersi conto di che cosa stesse davvero succedendo nella città improvvisamente vuota, ha ormai imparato a giostrarsi nel tempo della pandemia: è passato quasi un mese dall’inizio del confinamento e molte cose sono già successe. Però questo giorno è particolare perché gli manca il supporto del santo:

 … Ma oggi, mercoledì 25, nessuno è scritto nel neretto che promette una storia edificante  da scoprire, nessun palpito che impregni la giornata di virtù illuminanti. Bisogna aspettare il 30 marzo per incontrare san Zosimo, il guardiano delle tombe. …

Per di più si sta avvicinando un’altra data importante, il 2 aprile quando Renato compirà sessant’anni. Il ricordo di quel passaggio della sua vita e la mancanza delle parole di un santo come si deve, genera in lui riflessioni sempre più sgomente, il peso del passato lo spinge a tentare di liberarsene definitivamente, ma pensare al futuro in un momento come quello che la città e il mondo intero stanno vivendo è un’impresa che mette paura. Inizia allora una passeggiata lungo la Cristoforo Colombo, quell’arteria interminabile che chilometro dopo chilometro porta finalmente al mare: nel mezzo ci sta l’Eur con i suoi palazzi simbolo della modernità architettonica romana, l’obelisco e altro. La passeggiata solitaria e nel silenzio della città innesca un viaggio immaginario della mente, nel quale si mescolano allucinazioni e progetti:

… Il futuro è dietro l’angolo. Forse dopo l’incrocio con via Laurentina o con viale Marconi … o piazza delle Nazioni  Unite.. Certo, la piazza con l’Obelisco di Marconi potrebbe essere quella giusta per l’atterraggio di un corpo estraneo alle logiche comuni: un’astronave … Un’astronave a Roma caput mundi, cuore del pianeta e della pandemia. E lui il cieco dalla nascita cui è concessa la vista. Potrebbe essere una svolta per tutti.

La passeggiata continua e proprio all’Obelisco vuole arrivare Renato, che gli ricorda le Olimpiadi di Roma nell’anno in cui anche lui è nato. Il tempo attuale si sovrappone a quello passato, generando un vortice. Il ricordo della prima nascita porterà a una seconda? Renato lo pensa:

… Tutto coincide. Certamente è questo il luogo dove l’astronave prenderà terra.

Alla fine, stanco, si addormenta sull’erba con le sue visioni, ma quando si risveglia ritrova la quotidianità prosaica di sempre.

La notte magica, però, ha lasciato segni: Renato ritorna dai volontari e da Teresa con un piglio diverso. Per la prima volta dopo tanto tempo non pensa più solo al passato, il tempo corre più velocemente e arriva finalmente anche il 30 marzo e con esso l’ultimo santo censito dal libro che porta nello zaino. Zosimo piace molto a Renato, perché s’identifica con lui. Uomo semplice, apparentemente senza qualità, messo alla prova rivela doti e saggezza da vendere. Renato, sulla scia della notte magica, pensa che sia arrivato anche il suo momento.

I dialoghi

Ci sono due diverse tipologie di dialogo nel romanzo, improntate a stili e registri linguistici differenti di cui dirò meglio nelle conclusioni. La prima tipologia è costituita da flash di conversazioni che rimandano al passato del protagonista. Emergono improvvisi alla sua memoria: sono dialoghi con il padre, o la moglie Ada, la sorella Adele o la madre. Spesso questi frammenti diventano il tramite per ricostruire pezzi della propria vita, la storia del quartiere, oppure il difficile  rapporto della sorella con la scuola

La seconda tipologia di dialoghi è invece in presa diretta con il presente e la pandemia. Avvengono nei luoghi canonici che un senza tetto frequenta: i bar anche se sono chiusi spesso, i cortili di un condominio dove c’è sempre qualcuno che gli allunga una sigaretta o altro, la comunità di sant’Egidio.

È la mattina del 26 marzo quando Renato, risvegliatosi dopo la notte magica si reca dai volontari e trova Teresa:

Teresa, ho bisogno di vestiti puliti

Io ti ho portato gli occhiali.

Sono contento, ma intanto … oggi mi faccio la doccia

Incredibile! Forse è la festa del santo della pulizia. Sotto il capannone trovi un bell’assortimento. E poi oggi alla distribuzione ci sono nuove volontarie che non vedono l’ora di compiere una buona azione.

Non potresti scegliere tu? Dai mi fido. Chi distribuisce cibo conosce i bisogni del corpo … un po’ di biancheria, un paio di pantaloni servono urgenti, possibilmente con tante tasche.

E va bene, intanto vai ai bagni. Ci dovessi ripensare. Ti lascio qualcosa sullo sgabello dell’ultima doccia.

La cura di sé è un’arte difficile per un senza tetto, ma la notte magica ha davvero lasciato segni importanti. Renato si riconcilia con l’acqua, sente il suo corpo come non avveniva da tempo. Alla fine, rimesso a nuovo, torna da Teresa ed è persino tempo di qualche confidenza:

Hai scelto proprio bene Teresa. Con questa camicia a righe mi sento un ragazzo in vacanza … Il miracolo oggi lo hai fatto tu. Profumo come un diciottenne alla festa delle debuttanti.

Ti vedo esperto in fatto di feste.

Figurati … mi ricordo solo qualche pagina di Harmony. Roba di mia sorella Adele.

La svolta di Renato però non si ferma qui perché l’uscita da uno stato d’immobilità apre a scenari nuovi e nuovi incontri: la Donna con il Fazzoletto per esempio, una figura misteriosa e inquietante. Poi è tempo di una nuova escursione serale fuori dal perimetro stretto di Tor Marancia. Renato s’incammina per via Ostiense e la vista del gasometro innesca una nuova ondata di memoria: ci lavorava suo nonno in quel luogo e, a cascata, quel ricordo ne innesca altri, mentre le sue gambe lo portano sempre più lontano, verso una casa occupata ed è lì che Renato entra in contatto con una Roma che non conosce, fatta di immigrati dalle lingue diverse che lo guardano con sospetto perché il nuovo arrivato può turbare il loro difficile equilibrio. Tutto finisce bene, anche se:

 ..Renato è ancora troppo fragile per diventare cittadino del mondo. Non è questa la sua Nuova Casa.

Il ritorno a Tor Marancio però non è una sconfitta; anzi. Una seconda metamorfosi è alle porte: Renato comincia a vedere il quartiere come mai lo aveva visto da tempo. Luoghi che attraversava ogni giorno senza farci caso, ora gli appaiono nitidi per quello che sono, fra cui la vecchia scuola media Locatelli, frequentata da lui e anche dalla sorella. Ridotta a un rudere gli sembra però un luogo dove rifugiarsi sempre, una vera Nuova Casa. La vista di questa scuola e dei ricordi che suscita è l’ultima delle sue metamorfosi: Renato decide che quello sarà il luogo dove vivere d’ora in poi.

Sul linguaggio e la strategia narrativa

All’inizio di questa riflessione affermavo che Teresa Ciammaruconi è una narratrice onnisciente che non teme di esserlo. L’intreccio e la trama narrativa sono vistosamente presenti in questo romanzo e per quanto mi riguarda è una buona notizia. Nel caso specifico, proprio la necessità di coniugare storia e memoria, rende inevitabile l’intreccio, che l’autrice governa molto bene perché esso è in realtà stratificato su tre diversi livelli, anche dal punto di vista del tempo e del linguaggio. Lo scorrere dei giorni e dei santi segna il perimetro della contemporaneità e del Grande Male che la pandemia è stata: è il tempo di una quotidianità precaria, governata dall’abitudine che è il solo modo per sopravvivere nei tempi difficili. Il risveglio al mattino, procurasi il cibo, far passare il tempo che è lineare e segregato al tempo stesso: le ritualità permettono di non naufragare del tutto. Renato lo vive in termini rovesciati, ma le abitudini sono comuni a quelle di tutti gli altri: i soli che possono introdurre una paradossale varietà nelle loro esistenze sono i volontari della comunità di sant’Egidio, che per via della funzione che svolgono godono pure di un pizzico di libertà in più. I dialoghi in presa diretta sul presente semplici e lineari come si è già visto, vertono per forza di cose intorno al tema della sopravvivenza, sono governati dalla gentilezza di Teresa che cerca di vincere la diffidenza che un senza tetto si porta addosso per forza, ma anche di vincere la propria paura di fronte a un uomo di cui non sa nulla: è un registro linguistico semplice e diretto, ma che – specialmente per la sagacia di Teresa – sa trovare anche i guizzi che pure nella quotidianità più prosaica esistono:

La seconda tipologia è assai più complessa. I ricordi, le reminiscenze dei dialoghi fra Renato e i suoi famigliari irrompono improvvisi ed è spesso un’immagine a innescarli: presente e passato allora si fondono e creano una  sovrapposizione di tempi che offrono una ricostruzione della storia del protagonista di cui però, anche alla fine, avremo solo frammenti: è un flusso stratificato e dai registri linguistici diversi. La relazione intensa fra immagine e memoria ha effetti che passano attraverso il linguaggio del cinema e la sua metabolizzazione nella narrazione. Un capitolo è assai esemplificativo di questa commistione fra parola e immagine, 20/3/2020, Caffè e ciambellone:

… I giorni scorrevano a strattoni, schiacciati sotto il peso crescente dell’inadeguatezza.

Intanto le donne della sua vita si allontanavano per strade diverse: la madre Assunta, accucciata nella sua vecchiaia,la sorella Adele, risucchiata nel vortice di emozioni incontrollabili, sua moglie Ada ripiegata nella banalità delle piccole garanzie.

E lui nel mezzo, incapace di atterrare e di volare,

Da solo a vagare per via Cristoforo Colombo.

La Grande Storia

Lascio per ultimo questo tema perché se da un lato la storia del quartiere e il contrasto con l’attualità – Tor Marancia non è più da tempo la Shangai immortalata anche da Pasolini – emergono fra le righe della narrazione lineare, lo sfondo e lo spessore storico sono affidati a ricordi frammentari. Renato è un uomo semplice, dalla consapevolezza altalenante anche quando tenta di ricostruire il proprio passato personale. La storia più grande lui non la padroneggia, fuoriesce da qualche rapida notazione. Colpisce per esempio il ricordo della ribellione della sorella e dei suoi amori che la porteranno a una fine tragica e questo non è un caso perché il protagonismo femminile è stato un segno distintivo del cambiamento dagli anni ‘70 e forse nel caso di Renato non è estraneo al fallimento del suo matrimonio.

Tale frammentarietà, che è un tratto ineludibile della personalità di Renato, permette però alla narratrice di essere sì onnisciente ma di conservare una nube d’indeterminatezza che le consente di tenersi a distanza dalla trappola delle sintesi onnicomprensive.

La riflessione più ampia e profonda sulla Storia, tuttavia, c’è in questo romanzo, ma è affidata ai soli momenti in cui la narratrice dismette il suo ruolo onnisciente ed entra  a sua volta in scena. Lo fa però con incursioni rapide, talvolta aforistiche, che iniziano dal dopoguerra e arrivano fino a noi. Ne indico alcune, contrassegnate in qualche caso da un’amara ironia, che diviene tagliente. Questi assaggi sono distribuiti sull’intero libro e segnano dei passaggi decisivi nel processo di trasformazione sociale dell’Italia, a cominciare dall’immediato dopoguerra:

… A raccontare tutto ‘sto circo ci pensavano i nuovi cantori con la cinematografia. Sfruttando le astuzie della macchina da presa hanno piantato un’aureola sulla testa della miseria  e un firmamento di stelle nel cielo di un’Italia frantumata. Così è stato più facile – per i sopravvissuti – dimenticare la luce sinistra dei bengala e contemporaneamente far impallidire gli splendori di Hollywood, dando pure una lezione a quei simpaticoni degli americani che comunque ancora ci stavano sfamando.

… Gran cosa il volontariato, ormai è quotato pure in borsa. E soprattutto fa sentire gli adepti importanti e contemporaneamente a posto con la coscienza.

Il mistico del quartiere scomparve quando i lampioni al neon misero in fuga le ombre che la notte circolavano ai margini della strada e si inoltravano nel verde. Niente zanzare, niente mistico, niente pecore, niente prato rasato per i picnic. E scomparvero anche le automobili che di notte si inguattavano tra le piccole dune della terra, rifugio sicuro per coppiette irregolari.

All’Anziana Signora pareva un sessantottino sfuggito alle maglie della storia, un sopravvissuto alle cesoie del politically correct. E siccome lei era arrivata troppo tardi per le barricate e troppo presto per la rivoluzione sessuale, con la vecchiaia cercava simulacri che la confortassero e dessero un senso al non vissuto. Cercava appigli nel presente per dimenticare che cinquant’anni prima, mentre alla sede del partito urlava rivendicazioni, pensava al marito che a casa brontolava per la cena che tardava.

La capitale sopravvive a ogni distorsione. La lupa offre le tette alla fame e all’infamia.

Per concludere

Il Dono, nonostante il finale sia più sottilmente aperto di quanto non sembri a prima vista, è un’opera che non ci riconcilia con il presente storico e il titolo stesso lascia un retrogusto di amarezza. Il protagonista Renato ha assaporato nel tempo breve di poco più di un mese la possibilità di una rinascita che è avvenuta, ma pur sempre in modo rocambolesco e incompiuto. Quanto alla nostra contemporaneità, nonostante gli esempi di solidarietà attiva, la presenza discreta e corale di un tessuto sociale che resiste alla durezza dei tempi, nessuna palingenesi ci aspetta. Concludo allora con un’ultima citazione, alla fine della notte magica, quando Renato si risveglia al mattino dal suo sogno ad occhi aperti:

… Non c’è traccia di astronave, il futuro gli ha strizzato l’occhio e se ne è fuggito. Si è beffato di lui perché il futuro è una carogna bugiarda. Lontani gli orologi di piazzale Tosti scandiscono il tempo per chissà chi …

EPPUR SI MUOVE

Lucio Caracciolo

Premessa

La vittoria di Trump viene da lontano e se non ci fosse stato di mezzo il Covid e alcuni errori macroscopici di gestione durante il primo anno specialmente, Trump avrebbe stravinto anche le elezioni del 2020. Il dibattito successivo a queste ultime elezioni, tranne pochi interventi e uno in particolare di Lucio Caracciolo che pubblicherò per intero alla fine di questa premessa, è invece piuttosto deludente. La maggioranza dei commenti, infatti, oscilla ancora fra lo stupore e addirittura un eccesso di aspettative, quasi sempre derivanti da una constatazione: Trump si muove e al suo fianco ha un tarantolato che si muove anche più di lui. Il movimento produce sempre qualcosa, anche quando è un girare a vuoto che suscita solo vento, ma è addirittura un uragano se lo si paragona alla mortale immobilità dei democratici statunitensi e di quelli di qui. Il movimento congiunto Trump-Musk, qualcosa però ha già prodotto: il panico nei governi europei – chi più chi meno – e nelle istituzioni europee, come si evince dalle difficoltà nel varare la nuova commissione. Il caso più eclatante è la Germania. Scholz è riuscito nel giro di due giorni a licenziare il ministro delle finanze tedesche, reo di avere difeso l’austerità assoluta, quando una settimana prima, Scholz medesimo aveva bocciato il piano Draghi che proponeva il debito comune e la continuazione del percorso iniziato con il piano Next generation varato durante la pandemia: inevitabile a quel punto la corsa verso elezioni anticipate. La cosa più stupefacente però è l’improvviso movimento accelerato di Scholz, apparso per i due anni precedenti anche da molti esponenti del suo partito, un uomo cui non veniva attribuita alcuna dichiarazione e uno stato esistenziale prossimo al letargo. Trasformatosi in tarantolato nel giro di una settimana, nei giorni scorsi il nuovo colpo di scena: la telefonata di un’ora – addirittura un’ora! – con Putin. Questi i primi effetti dell’elezione di Trump: siamo solo agli inizi e altre ne vedremo quando finalmente tutta la squadra di governo sarà allestita, ma forse tornare a parlare della sua elezione e domandarsi da dove viene è forse più utile. L’intervento di Lucio Caracciolo, pubblicato sulla rivista Il comunista e ripreso da Sinistra in rete, è uno dei più acuti a mio giudizio nel mettere a fuoco le dinamiche del caos sistemico di cui anche Trump è il prodotto. Concludo questa premessa con una osservazione di Ida Dominijanni subito dopo l’esito del voto, perché nella frase e nell’intervista successiva rilasciata da lei a Radiopopolare, sottolinea i pericoli insisti nella presenza di Musk. Questa la frase di Dominijanni:

Una resa planetaria al grande capitale riverniciato di futurismo alla Musk

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GLI OSTACOLI DIETRO LA VITTORIA DI TRUMP

di Lucio Caracciolo

Donald Trump è il presidente, non il padrone degli Stati Uniti. Tanto meno l’imperatore del mondo. Due premesse utili a interpretare il suo ritorno alla Casa Bianca oltre gli stereotipi. E a introdurre qualche bemolle nella notazione ricca di diesis con cui spesso si rappresentano le conseguenze di questa impresa.

La scena americana e quella planetaria sono in fase di accelerata mutazione, come sempre accade nelle transizioni egemoniche. Il sole a stelle e strisce sta tramontando senza che nessuno sia in grado di prenderne il posto. Ne deriva anarchia geopolitica ed economica, eccitata dal panico di chi abituato a orientarsi sulla stella fissa è senza riferimenti. Vale per amici e nemici del numero uno in panne. Per chi come noi è parte dell’ecumene occidentale in contrazione e per i suoi avversari sempre più numerosi e disinibiti.

Tre osservazioni invitano a considerare gli ostacoli contro cui Trump rischia di inciampare.

La prima riguarda i rapporti di forza nel sistema americano in decomposizione. Il presidente è stato eletto per causa di questa crisi, ma ora dovrà gestirla.

Impresa da far tremare i polsi. Lo storico conservatore Niall Ferguson paragona il crepuscolo degli Stati Uniti agli ultimi anni dell’Unione Sovietica. Un breve elenco delle disfunzioni dell’ex strapotenza induce a riflettere. 

Anzitutto, la frattura scomposta e incomponibile fra popolo ed élite, ovvero fra deplorevoli bifolchi e arroganti senza patria, stando alle invettive reciproche. Due nazioni. O almeno due modi opposti e incompatibili di sentirsi americani. Democratici e repubblicani non si sopportano. Tanto che su cento matrimoni solo quattro sono “misti”. Si sposano più bianchi e neri che rossi e blu. Per la nazione ancor più che per la famiglia vale la regola che quando si divide è molto difficile ricomporla.

Certo colpisce che un oligarca golpista si sia intestato la guida del popolo contro le élite. La spiegazione più perspicace viene da un analista cinese, Shen Yi, che ricorda quanto affermato da Engels sulla tomba del suo amico e cofondatore del comunismo scientifico: “Marx ha scoperto la legge di sviluppo dell’umanità. La gente deve prima mangiare, bere, vivere e vestirsi, solo poi dedicarsi ad altre attività. Niente supera il fondamento economico”.

La seconda nota riguarda le resistenze dei burocrati e dello Stato profondo. Trump conta su Congresso, Corte Suprema e Casa Bianca. Vedremo fino a che punto. Ma le tecnocrazie che dovrebbero eseguire i suoi decreti ribollono di dirigenti e funzionari che lo detestano. E che considerano dovere patriottico ostacolarlo. La misura del suo potere l’avremo fra qualche mese, ad amministrazione insediata. Se la vuole fedelissima dovrà fare strage di tecnici per lui inaffidabili e trovarne altrettanti di valore. La prima è impresa ardua, la seconda impossibile. Si consideri anche che alcuni Stati federati tendono a muoversi per conto loro. Vale per la democratica California come per il Texas repubblicano. Mentre Washington, Distretto di Columbia, sentina di ogni malaffare nella vincente narrazione trumpista, si conferma isola blu, con percentuale bulgara a favore di Harris: 92,7%. Capitale del pianeta che non c’è. Quindi di sé stessa.

Dai malanni interni deriva infine il ripido declino dell’impegno dunque dell’influenza americana nel mondo. Trent’anni fa gli Stati Uniti si rappresentavano Nuova Roma con steroidi. Ubriacatura da “momento unipolare”. Per un paese in origine imbevuto di spirito missionario e che pertanto si considerava sovraordinato agli altri attori della scena internazionale, il declassamento è di dolorosa elaborazione.

Oggi i soci dell’impero recitano a soggetto, usando gli Stati Uniti — caso limite Israele, più gemello che alleato — invece di esserne usati, come regola non scritta stabiliva. E i non cosiddetti avversari, tutt’altro che unanimi, trovano nel rifiuto dell’egemonia americana l’unico vero punto di convergenza. Le relazioni fra Stati o pretesi tali volgono al bazar. Ci si intende su singoli dossier mentre ci si interdice su altri. Scopriamo con ritardo che il mondo non è piatto, come cantavano qualche anno fa i laudatori della globalizzazione, convinti che scopo dell’umanità fosse diventare America.

Fin qui i dati. Poi ci sono le incognite.

E le sorprese. Una è in agguato dove Trump meno se l’aspetta (o forse sì, ma allora recita bene). Si chiama Elon Musk. Il quale ha girato ai suoi milioni di contatti il fotomontaggio che lo ritrae nello Studio Ovale. “È nata una stella”, ha proclamato il presidente nel giorno del trionfo. Una stella, appunto, non un pianeta. Musk non riflette la luce del sole Trump perché emette la sua. Ed è abituato a muoversi per conto proprio. Per esempio cedendo tecnologia americana ai cinesi o concordando con i russi la sua strategia dei satelliti per evitare che Putin gliene abbatta qualcuno. Alcuni sospettano che non fosse per la nascita sudafricana Musk si lancerebbe nella corsa per la Casa Bianca 2028. Ma in attesa di lanciarsi su Marte lui preferisce fare il padrone su Terra. Altro che presidente dell’America in declino.

Elon Musk nello spazio

GLI USA  E NOI DOPO LE ELEZIONI

WORKING FAMILIES PARTY

Premessa

Le elezioni Usa sono alle nostre spalle e alcune delle conseguenze si sono già manifestate, prima fra tutte l’accelerazione della crisi nel governo tedesco, architrave del disastro europeo in corso; ma anche le difficoltà crescenti nella nomina della nuova commissione europea. Quanto agli Stati Uniti, lo sgomento attonito degli sconfitti è l’indice di un disorientamento che viene da molto lontano. Tuttavia, negli Usa molte altre cose succedono in campo sociale e persino sindacale: è proprio a queste realtà che mi sembra utile dare la priorità anche perché il dibattito politico italiano è talmente angusto che certe informazioni non arrivano; non per censura, ma perché non ci si rende conto della loro importanza. Dei due articoli che seguono, il primo è stato pubblicato – prima delle elezioni – su Officina Primo Maggio una testata assai meritevole per il lavoro d’inchiesta che svolge. L’articolo mi sembra importante per tirare una prima conclusione e cioè che se reazione ci sarà, come tutti auspichiamo, negli USA dopo l’elezione di Trump, è alla società civile e ai suoi fermenti che occorre guardare, e non alle nomenclature decotte del progressismo. Il secondo è invece il comunicato rilasciato dal Working Families Party subito dopo le elezioni, che lascio in lingua originale.

Dare la priorità a questi due articoli non significa eludere la necessità di un’analisi puntuale dei primi provvedimenti presi da Trump, del ruolo di Musk nel nuovo governo, nonché delle ragioni della débâcle democratica, ma mettere tale necessità  in secondo piano: ci sarà tempo anche per capire meglio come si evolveranno le dinamiche interne al governo che sta nascendo e al mondo democratico statunitense e in Europa .

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STATI UNITI: SOGGETTI E STRATEGIE DI LOTTA NEL MONDO DEL LAVORO

2 Novembre 2024

Di Bruno Cartosio

Ieri e oggi

L’ultimo mezzo secolo di neoliberismo ha deindustrializzato gli Stati Uniti e polverizzato il movimento operaio. Negli ultimi 25 anni il numero delle fabbriche si è ridotto di un terzo. La classe operaia e le comunità operaie, nel loro insieme una forza fino a tre quarti del Novecento, sono state annichilite. Le vecchie città industriali hanno perso da un terzo a metà dei loro residenti. Nel 2021 soltanto poco più di 3900 fabbriche avevano più di 500 dipendenti (e 846 più di 1000), con oltre il 93% delle restanti che ne avevano meno di 100 e il 75% meno di 20. La crescita della produttività si è praticamente fermata negli ultimi vent’anni. Nello stesso 2021 i dipendenti nel settore manifatturiero erano 12,2 milioni, lo stesso numero che nel 1945, nel contesto di una popolazione passata da 140 a 340 milioni. Non è un caso che il massimo di occupazione sia stato registrato nel 1979 (19,3 milioni), un anno prima dell’elezione di Ronald Reagan e dell’inizio dell’offensiva antioperaia e antisindacale di potere politico e grande capitale. L’anno scorso la percentuale nazionale di sindacalizzazione nel settore manifatturiero era del 7,9 per cento e nell’intero settore privato non agricolo era del 6%. Nel settore pubblico era al 33% e la media generale nazionale era pari al 10%, la metà rispetto al 1983.

Eppure, nel mondo del lavoro, da questa bassura si riesce a guardare allo stato odierno delle cose con una dose di cauto ottimismo. L’aumento della conflittualità e la nuova qualità delle strategie organizzative, rivendicative e di lotta dei lavoratori sono reali. All’inizio del 2024 l’Economic Policy Institute, organizzazione per la ricerca sociale vicina al mondo del lavoro, scriveva di rinascita, resurgence, del movimento sindacale. E pochi mesi più tardi un autorevole giornale della sinistra, In These Times, si poneva una domanda ambiziosa: “Sono in grado i sindacati di ricostruire la nostra democrazia?” Con realismo, la risposta era molto prudente. Ma fino a pochissimi anni fa sarebbe stato impensabile anche solo immaginare di porsi una domanda del genere. Oggi l’organized labor è l’unica componente sociale di portata nazionale da cui vengono segnali che rendano possibile pensare a un futuro meno degradato, a una società meno sfilacciata e diseguale in cui trovi spazio quella ricerca di uguaglianza che dovrebbe essere intrinseca a una democrazia. I segnali vengono dalla richiesta di redditi che permettano una cittadinanza dignitosa, dall’affermazione del valore del lavoro e dagli sforzi per concretizzare mobilitazioni sociali solidali. Alcuni di questi tentativi hanno preso corpo nelle comunità afroamericane con Black Lives Matter e con le mobilitazioni di protesta antirazzista, altri con le manifestazioni delle donne contro l’oscurantismo antiabortista e altri ancora in esperienze di “raccordo” tra mondo del lavoro, domanda di giustizia sociale e politica di riforma di formazioni partitiche come il Working Families Party, che si esplica sia in iniziative proprie, sia nel sostegno, anche sul piano elettorale, alle posizioni più avanzate dei democratici.

Conflitti e solidarietà 

Nel 2023, la United Auto Workers ha gestito in modi nuovi gli scioperi per il rinnovo contrattuale del settore auto. Non solo scioperando contro GM, Ford e Stellantis – tutt’e tre insieme e contemporaneamente – ma dislocando strategicamente i blocchi della produzione in modo da interrompere i flussi in punti nodali, creando il massimo di problemi per l’azienda con il minimo di lavoratori impegnati; e si allarga, anche: organizza i laureati–lavoratori nelle loro lotte rivendicative nelle università. La SEIU continua nel suo attivismo nei servizi e, ora, contribuisce ai tentativi di organizzazione dei gig workers;ancora la SEIU ha imposto il contratto con uno sciopero di tre giorni all’azienda sanitaria Kaiser Permanente, mettendosi alla testa di una coalizione di sigle sindacali nazionali e locali distribuite su tutto il territorio nazionale. La SAG-AFTRA e la Writers Guild (WGA) hanno organizzato gli scioperi di lunghissima durata dei lavoratori di cinema e televisione bloccando produzione e diffusione di programmi per le aziende di Hollywood e contestando l’utilizzo dell’intelligenza artificiale a danno dei lavoratori. I Teamsters affiliano la Amazon Workers Union e portano al contratto gli aeroportuali di Cincinnati. La Communication Workers (CWA) ha chiuso a metà settembre 2024 un mese di sciopero contro la AT&T e sostiene la Alphabet Workers Union dei lavoratori di Google; poi, lavoratori stabili e precari di industria, servizi, sanità, logistica, comunicazione e spettacolo e infine i risultati ottenuti con la semplice minaccia dello sciopero alla UPS e alla Daimler e le organizzazioni di base che stanno seminando sindacalismo nella Silicon Valley: questa mobilitazione intersettoriale, ricca di decine o centinaia di mobilitazioni locali e di spunti organizzativi e rivendicativi dal basso è stata il nuovo e inatteso di questi ultimi mesi.

Il 13 settembre 2024 sono scese in sciopero alcune decine di migliaia di lavoratori dei due stabilimenti storici della Boeing nell’area di Seattle. Era dal 2008 che alla Boeing non succedeva. La decisione di scioperare è stata votata dal 96% dei lavoratori interessati, che hanno rigettato la proposta di accordo che azienda e sindacato avevano provvisoriamente raggiunto. E un mese più tardi hanno nuovamente respinto le nuove proposte di contratto. Alcuni altri aspetti significativi sono emersi fin dai primi giorni. Anzitutto la International Association of Machinists and Aerospace Workers (IAM), il sindacato che rappresenta la maggior parte dei dipendenti ed è il direttamente interessato, ha accettato le contestazioni dei lavoratori alle proprie ipotesi di contratto e ha aperto la vertenza sulla base delle rivendicazioni di aumenti salariati del 40% (invece del 25% proposto), del recupero dei versamenti per la previdenza pensionistica (cancellati anni fa e che l’azienda rifiuta di ri-istituire). Un secondo aspetto è quello della solidarietà: i membri della seconda maggiore union presente nell’azienda, la Society of Professional Engineering Employees in Aerospace (SPEEA), per contratto sono tenuti a supplire nella produzione in caso di necessità, ma hanno trovato tutti i modi possibili per rifiutarsi di prendere il posto dei loro colleghi e anzi si sono uniti a loro nei picchetti. A loro volta i Teamsters, che lo scorso maggio erano stati solidali con gli iscritti al sindacato dei pompieri (IAFF) licenziati, ora si rifiutano di fare le consegne attraversando i picchetti degli scioperanti. Se da una parte risalta la “storica” frammentazione in sindacati di mestiere ancora presente anche in molte grandi aziende, dall’altra emerge anche la crescente solidarietà – informale, perché gli “scioperi di solidarietà” tra unions diverse sono vietati per legge – che supera le singole appartenenze nella ricerca di fronti comuni.

Diverso è stato lo sciopero di decine di migliaia di portuali della International Longshoremen’s Association (ILA) che il 1° ottobre, appena scaduto il contratto, hanno bloccato i porti della costa est dal Maine al Texas controllati dalla U.S. Maritime Alliance. Era dal 1977 che non succedeva. La loro azione ha messo in grande agitazione i media di tutto il paese, che hanno versato lacrime sulle prevedibili sofferenze per i consumatori e per l’economia del paese prima delle spese natalizie. E Biden ha premuto perché lo sciopero non giocasse contro i democratici il 5 novembre. Hanno fatto i loro conti anche gli imprenditori, e lo sciopero è stato sospeso dopo tre giorni, esattamente come quello dei 45.000 dipendenti di Kaiser Permanente, e la proposta di aumento dei salari è stata del 62%, da scaglionare nei sei anni del contratto. Ma i portuali hanno messo al centro della contrattazione e dello sciopero anche la presenza e il ruolo dell’automazione nei porti; se ne riparlerà a partire dal 15 gennaio. Anche in questo caso la ILA ha avuto sia la solidarietà “sul campo” dei colleghi della UAW e dei Teamsters, sia l’appoggio simbolico dei colleghi della costa ovest (che appartengono a un’altra union).

Invece alla AT&T gli installatori e manutentori telefonici della Communication Workers (CWA) hanno dovuto scioperare per un mese in otto stati del Sudest, prima di piegare l’azienda al rinnovo del contratto a metà settembre. Anche loro hanno sperimentato la solidarietà materiale di altri gruppi di lavoratori, come quelli della UPS, di alcuni Labor Councils, le strutture sindacali territoriali, e di altri sindacati, tra cui i Machinists (IAM) e i Teamsters. Prima di cedere, l’azienda ha tenuto duro più a lungo di Kaiser e Maritime Alliance, forse perché nell’era del digitale si può anche stare un mese senza telefono, ma non senza le merci e la sanità. Ma alla fine anche la AT&T ha ceduto.

Strategie: il potere di incidere

La UAW è anche alla testa del rinnovamento organizzativo. I suoi delegati non sono più scelti dei vertici, ma votati dalla base – echi di “nostre” dinamiche di cinquant’anni fa? – e tanto le decisioni di scioperare, quanto come e dove farlo, e le proposte di contratto devono essere approvate dagli iscritti. Alla Boeing la proposta iniziale è stata respinta dalla base, il sindacato ha ridefinito la piattaforma ma le ulteriori resistenze dell’azienda hanno portato i lavoratori a respingere per due volte le proposte di contratto. La SEIU ha coordinato una coalizione di unions contro la Kaiser. La ILA ha chiuso i canali di entrata e uscita delle merci, i nodi che collegano e rendono interdipendenti le reti interne e internazionali dell’economia. La decisione di bloccare i porti di tutta la costa est – possibilità di cui si era persa memoria – non è stata solo insolita. È stata strategicamente dirompente. La UAW aveva individuato le località “migliori” in cui scioperare: luoghi in cui la fabbrica è centrale e la comunità è solidale, fabbriche la cui fermata provoca fermate a cascata nella filiera produttiva. Da molte parti, inoltre, si cominciano a contestare gli utilizzi del digitale al servizio della precarizzazione, degli algoritmi le cui matrici sono definite negli uffici aziendali e dell’intelligenza artificiale funzionale a ulteriori eliminazioni di manodopera nei luoghi di lavoro. Nelle parole della lotta di classe: individuare dove è maggiore il danno all’avversario impegnando al minimo le proprie forze.

La storia dei movimenti operai fornisce i modelli di comportamento, diversi a seconda delle epoche e dei settori, ma analoghi nelle intenzioni. Ma, a volte, anche da fatti di cronaca di altra natura provengono suggestioni o conferme. Il 19 luglio, un problema con un aggiornamento di Falcon – un software antivirus prodotto dall’azienda CrowdStrike e usato anche dalla piattaforma di cloud computing Microsoft Azure – ha provocato un oscuramento informatico che si è ramificato nel mondo intero: blocco di voli negli aeroporti, disservizi in ospedali e nei sistemi sanitari, caos nelle banche e nelle Borse, nei media e nelle comunicazioni telematiche, disagi nelle attività dei singoli. Anche se il crash non è stato letteralmente totale, esso è stato globale attraverso le interconnessioni che collegano tra loro i vari sistemi attraverso i confini. Nella sintesi offerta da la Repubblica il giorno dopo: «Aziende e privati sono sempre più dipendenti dai dati e dai servizi ospitati dalle infrastrutture tecnologiche delle big tech. Non solo da quella di Microsoft. Anche Google offre servizi simili, attraverso Google Cloud. E Amazon fa lo stesso, tramite Amazon Web Services. Ma quando qualcosa nella nuvola va storto, gli effetti possono essere devastanti». Infatti il giorno prima lo erano stati, momentaneamente, ed erano stati recuperabili. Resta la domanda: quanto è grande la vulnerabilità delle reti o della Rete?

Già due mesi prima che il blackout avesse luogo, considerando l’insieme delle connessioni digitali e logistiche, lo studioso e giornalista di Labor Notes Kim Moody sottolineava che i nodi e gli snodi strategici delle reti sono relativamente fragili e potenzialmente vulnerabili: ogni singolo punto delle grandi reti produttive-commerciali attuali e del reticolo in cui le grandi aziende dell’economia digitale avvolgono i territori metropolitani può essere «vulnerabile all’azione dei lavoratori». Moody prende a esempio Amazon, dove una lotta organizzata potrebbe interferire con le comunicazioni e le connessioni digitali da cui dipendono tanto l’organizzazione interna del lavoro e i rapporti con i clienti, quanto i processi della grande distribuzione e delle consegne spicciole sul territorio. Questa sarebbe la novità di questi tempi, ma la logica che la giustifica è interamente nella scia del passato.

Moody cita lo studioso John Womack, il quale – in Labor Power and Strategy, del 2023 – guarda alla storia della conflittualità operaia nel Novecento, sottolineando la perenne necessità di «rendere efficace la lotta […] esercitando il potere di intaccare i profitti del capitalista». Questo tipo di considerazioni fanno la loro comparsa in questa fase di crescita della combattività nell’intero mondo del lavoro e da parte di molte delle organizzazioni sindacali in ripresa. Gli storici del lavoro hanno sempre messo in evidenza come i lavoratori in lotta abbiano interrotto il lavoro sia con scioperi di massa “tradizionali”, sia con picchetti ai cancelli, sia con rallentamenti o blocchi nei punti critici costringendo il processo produttivo a ingolfarsi o fermarsi. (Non solo in America, naturalmente.)

Negli Stati Uniti, nella fabbrica fordista tutte le organizzazioni sindacali, di mestiere o d’industria, rivoluzionarie (come l’IWW) o moderate (come l’AFL), hanno praticato più meno apertamente forme diverse di direct action o di soldiering, il rallentamento deliberato della produzione, o di sabotaggio contro lo shit work della catena. Anche con azioni clamorose: dall’inedita occupazione delle fabbriche negli anni Trenta alla rottura unilaterale del no-strike pledge, l’impegno a non scioperare nel corso della Seconda guerra mondiale, alla lotta guidata dal sindacato dei farmworkers di Cesar Chavez nell’agribusiness californiano, che non solo bloccarono raccolta e distribuzione di frutta e verdura ma chiamarono i consumatori di Stati Uniti e Canada al boicottaggio dell’uva raccolta dai crumiri. Ora, nell’ultimo sciopero contrattuale, la UAW ha rifatto quello che avevano fatto gli scioperanti di Detroit quasi cent’anni fa. La ILA ha rifatto quello che aveva fatto l’ultima volta sessant’anni fa, e i portuali di Seattle che hanno bloccato insieme ai pacifisti le navi con le armi per Israele, hanno fatto quello che i loro padri avevano fatto – certo, per più tempo e con diversa efficacia – con le navi e le armi destinate a Saigon. Altri tempi e diverse forze in campo, ma nelle “nuove” strategie torna a esserci la memoria di sé in quanto classe per sè.

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Working Families Party Statement on the Presidential Election Results

November 6th, 2024

In response to the results of last night’s presidential election, Maurice Mitchell, National Director of the Working Families Party, has issued the following statement:

“It may not seem like it, but today is the beginning of the end for the Trump era and the MAGA movement. Donald Trump has no solutions to address the needs of working-class people in this country. And we know that when he tries to implement his agenda of more tax cuts for billionaires, gutting health care, deporting millions, and supporting war crimes with public dollars, people will rise up. 

“Make no mistake, we have a lot of urgent work to do. Not just to protect each other in the face of a right-wing authoritarian government, though we must do that. It’s clear from last night’s results that we’ll only get to victory by building a coalition of working-class people of all races.

“The exit of working-class voters from the Democratic Party didn’t start this election cycle. It’s been going on for years. Now, that realignment has put the authoritarian right in power. 

“This is an all-hands-on-deck moment. We need to join together to build the largest pro-democracy coalition in history and block Trump at every turn. The solution to Trump’s politics of division is a politics of solidarity. We also need to build independent political power, because both major parties have failed to prioritize working people. It’s time to get to work.”

LA FAVOLA È FINITA

«Si è sempre detto quando cadrà Roma cadrà il mondo. La stessa cosa vale per l’America, se cadesse o finisse nelle mani di qualche stupido dittatore, quali ripercussioni potrebbero esserci?» Francis Ford Coppola

Dopo avere seguito in diretta, lo spoglio dei voti delle elezioni presidenziali negli Usa, ho pensato che Coppola, con Megalopolis, ha proprio scelto il momento giusto per lasciarci il suo testamento spirituale, corredato da un sottotitolo – una favola di Francis Ford Coppola – niente affatto casuale. Un aspetto favolistico è sempre presente nel cinema di Coppola, che lo mutua da Frank Capra e ci mette del suo declinandolo nel senso di un omaggio all’American dream, sempre presente nei suoi film e ne cito un altro per tutti: Tucker. Coppola non ha mai nascosto di credere nel sogno americano democratico, con tutte le ingenuità del caso, eppure la mia impressione è che in quest’ultimo film il finale favolistico suoni solo come necessità di ribadire il cliché perché una favola deve avere un lieto fine, ma senza più crederci, tanto che certe colorazioni e l’ambientazione stessa di Megalopolis hanno persino delle assonanza con le colorazioni di Barbie.

In Megalopolis, un altro motivo originale e per niente scontato, se si pensa ai suoi film precedenti, è proprio la sovrapposizione fra la Roma di Catilina e la società statunitense contemporanea, una sovrapposizione sfrangiata e a tratti persino strampalata, ma che sta dentro l’immaginario di una buona parte dell’establishment statunitense. Noti consiglieri di stato come Edward Luttwak, per esempio hanno dedicato studi approfonditi sull’impero nel tentativo di capire se gli Usa finiranno nello stesso modo. Coppola affronta questa tematica da par suo, anche nel senso dell’esagerazione e di una qualche approssimazione. Non è chiaro perché scelga proprio la Roma repubblicana di Catilina, visto che gli Usa attuali sono a tutti gli effetti un impero. Quanto alla radicalità eventuale delle riforme che Catilina cercò di introdurre, va pure detto che il momento più aureo di tali riforme furono i Gracchi mentre quello che venne dopo era molto edulcorato. Rimangono però due punti a favore delle scelte compiute dal regista: il tentativo di Catilina di liberarsi del senato e dei veti incrociati, che certamente riguardano anche gli Usa attuali, e poi il debito. Queste due questioni corrispondono a mio giudizio anche a due momenti particolarmente comici del film. Il primo, quando Franklin Cicero pronuncia durante un comizio la famosa invettiva Fino a quando Catilina …: il corto circuito fra l’immagine dell’uomo di colore in divisa da sindaco statunitense e le parole celeberrime di Cicerone hanno un effetto dirompente. Il secondo momento, quasi alla fine del film quando Cesar Catilina, dalle fattezze di un Obama bianco, dopo avere fatto un accordo con Hamilton Crasso che gli permette di finanziare il suo progetto di Magalopolis, urla dal palco Abbattere il debito. Anche in questo caso l’effetto comico è dato a mio avviso da due particolari: il primo è che la battuta appare del tutto estemporanea, senza un prima e un dopo. Non c’è un nesso del tutto chiaro fra le parole che precedono lo slogan e quanto avviene dopo. L’effetto comico sta nella incongruenza dello slogan medesimo: siamo oltre la demagogia, ma è proprio questa oltranza a essere a mio avviso decisiva. L’aspetto comico sta in evidenza alla superficie, ma nominando il debito Cesar Catilina e Coppola con lui nel suo modo un po’ stralunato, nominano eccome la sostanza del problema! Il dollaro, moneta internazionale dalla fine degli accordi Bretton Woods – 15 agosto 1971 – garantito solo dalle armi imperiali, è una delle ragioni della crescita esponenziale del debito statunitense, che tutto il resto del mondo paga. Se dunque da un lato il grido di Cesar Catilina non ha alcun senso se si guarda alla sua fattibilità in quanto scelta imperiale, esso si pone nel solco di una strampalata visionarietà, che è poi la cifra dell’intero film. Perché in fin dei conti, a livello mondiale, i tentativi di porre fine alla sovranità del dollaro esistono eccome! Basta leggere i pochi interventi seri comparsi sulla stampa occidentale sul recente convengo dei Brics a Mosca per rendersene conto: suggerisco a questo proposito quanto scritto da Aletta su Milano Finanza.

Il finale del film chiude a mio avviso il cerchio. La sua cifra più favolistica sta in un particolare che lo percorre dall’inizio alla fine. La voce misteriosa che all’inizio salva Cesar Catilina dal suicidio intimandogli di fermarsi, diviene nel prosieguo il tempo stesso che può essere fermato da lui e da Julia, la protagonista femminile più importante del film. In ogni momento e nei passaggi più drammatici è la sola a mantenere la capacità di stare nel processo degli eventi senza subirli, molto più di Cesar Catilina stesso, che l’alcol e la propria instabilità emotiva mettono spesso fuori gioco. L’espediente di fermare il tempo, del tutto interno al cliché favolistico, assume allora un valore ben più profondo. Per ben tre volte il tempo si ferma e allora l’espediente risuona anche in un altro modo: è un avvertimento che può salvare la repubblica solo se lo si ascolta veramente. Julia e Cesar Catilina ci riescono ma intorno a loro c’è il vuoto, la campana continua a suonare ma nessuno la sente più. Alla fine però l’amore vince di nuovo, i due hanno una figlia dal nome impegnativo: Sunny Hope – Speranza radiosa. Se il grido Abbattere il debito risuona un po’ come quello del bambino della favola che smaschera la nudità del re, Sunny Hope, una bambina, è la flebile speranza di un futuro incerto perché lei, a differenza di Julia e Cesar Catilina non avrà più la facoltà di fermare il tempo: la favola è finita.

REGISTI DA RISCOPRIRE: FRITZ LANG

Folla che si raduna in Wall Street a New York dopo il crollo alla fine di ottobre del 1929. (Foto AP)

Premessa

Fritz Lang è uno degli autori più grandi e celebrati del cinema espressionista, ma il destino dei registi e delle loro opere è assai più precario di quello di romanzieri e poeti: la carta tutto sommato resiste al tempo molto di più delle pellicole, per cui dimenticare un regista è più facile che non dimenticare un romanziere, anche perché la possibilità di rivedere certi film a decenni di distanza è legata a operazioni di restauro che non sempre riescono. Quando vidi la prima volta Il mostro di Düsseldorf qualche anno fa, il film mi pose gli stessi interrogativi che mi ero posto dopo la lettura di un libro appena pubblicato di Adriano Voltolin dal titolo Il rilievo e lo sfondo, dove l’autore riporta una frase di Hanna Segal, la quale si chiedeva come mai comportamenti individuali che, se messi in atto vengono immediatamente riconosciuti come indici di gravissime patologie, non vengono riconosciuti come tali quando se ne fanno portatori istituzioni o rappresentanti pubblici. La malattia del protagonista del film, come dirò più avanti, può essere considerata come un sintomo di quelle che Freud chiama le nevrosi della comunità, che esploderanno in Germania come un fiume in piena che travolgerà tutto due anni dopo l’uscita del film. 1

1931

La vicenda rappresentata è semplice da riassumere e il farlo non impedisce a chi non ha ancora visto il film di apprezzarlo, dal momento che la vicenda in sé è davvero solo un innesco. Un serial killer adesca e uccide ragazzine preadolescenti. La polizia brancola nel buio, facendo crescere senza volerlo la tensione, anche perché il sistema delle comunicazioni di massa era già sufficientemente sviluppato, tanto da amplificare le gesta dell’uomo, fino alla pubblicazione di una sua lettera da parte di un quotidiano. I delitti continuano finché la grande criminalità cittadina, disturbata dalle continue e cieche retate della polizia, decide di darsi da fare per catturarlo. Arruola i mendicanti della città per un piccolo compenso, assegnando a ciascuno di loro in modo capillare porzioni precise di territorio, dove dovranno tenere d’occhio chiunque avvicini delle bambine. Anche la polizia cerca il serial killer e individua la casa in cui l’uomo vive e da dove ha scritto la lettera inviata ai giornali. L’intelligenza investigativa, però, è lenta, mentre la criminalità, padrona del territorio, arriva prima e lo cattura dopo avere sventato l’ennesimo delitto che l’uomo stava per compiere. Lo portano in una distilleria abbandonata dove lo sottopongono a un singolare processo. Il clima è di linciaggio, nonostante che l’avvocato difensore perori la causa del suo cliente in modo assai intelligente, tanto che molti assentono anche fra la platea di mendicanti che funge da giuria popolare. Il pubblico ministero, cioè il capo dei capi delle organizzazioni criminali, volge però l’assemblea a suo favore, ma, proprio nel momento in cui sta per essere pronunciata la sentenza di morte, la polizia irrompe nell’aula del processo popolare e salva il criminale.

I finali di Fritz Lang sono sempre sorprendenti e problematici: il pensiero è corso subito a un altro suo film, che forse molti ricorderanno nella versione restaurata di alcuni fa. In Metropolis veniva auspicato un compromesso trasparente, seppure incoerente rispetto all’andamento del film: infatti, dopo avere mostrato l’impossibilità della conciliazione fra le classi sociali, il film si concludeva con un embrassons nous fra padroni e operai, mediato dal partito socialdemocratico: sappiamo come è andata finire pochi anni dopo.

Nel Mostro di Düsseldorf il primo elemento che colpisce è il blocco sociale estemporaneo che si forma per catturarlo, costituito dalla grande criminalità e dai mendicanti. I primi sono, secondo una definizione contemporanea applicata alle mafie italiane, l’anti stato oppure uno stato nello stato; i secondi sono la massa di manovra della grande criminalità, ne costituiscono l’esercito di riserva, cui si ricorre per piccoli servizi e manovalanza criminale generica. Insieme, si rivelano garantisti in una misura che parrebbe imprevedibile, ma si tratta di una sorpresa soltanto apparente. Anche la grande criminalità, come qualsiasi aggregato sociale, ha bisogno di regole e  ritualità: il processo che celebrano, infatti, ha formalmente tutti i crismi di un processo regolare. Del resto sono noti i rituali delle mafie, le procedure d’iniziazione, la cura a volte maniacale di questi dettagli. Per non parlare dei codici d’onore nelle carceri, della sanzione che i detenuti stessi riservano a chi ha commesso reati particolarmente odiosi. Il meccanismo psicologico che sottostà a tale procedure è semplice da capire: anche il peggiore dei criminali ha bisogno di credere che esiste qualcuno peggiore di lui.

Il secondo protagonista è il serial killer, il terzo è la società civile tedesca, che sembra essere del tutto assente come entità organizzata. C’è una battuta, pronunciata da una delle madri delle bambine, in conclusione del film, quasi un’invocazione che suona tuttavia come un segno di impotenza:

… Avremmo dovuto vigilare …

Non è ben chiaro cosa voglia dire la donna, ma proprio l’inquietante sospensione nell’aria di questa invocazione senza risposta e interlocutori, evoca sinistramente ciò che sarebbe accaduto da lì a due anni. 

Pubblico e privato

Quando lo vidi la prima volta, anni fa, considerai questo film una metafora lucidissima della dissoluzione della Repubblica di Weimar, ma lo presi per un film storico; rivedendolo oggi, a parte il bianco e nero e una recitazione teatrale formidabile e scevra da effetti speciali, mi sembrava di assistere a un’opera cinematografica che ci parla drammaticamente dei problemi odierni, ma vorrei subito dire che non mi riferisco all’ondata montante della destra in tutta Europa, perché, pur pericolosa, ritengo si tratti di un problema tutto sommato minore.

Torniamo di nuovo a Metropolis e confrontiamo i due finali.

In entrambi c’è qualcosa che li accomuna e che ha a che fare con un compromesso. Una differenza sostanziale, però, ci fa comprendere molto bene cos’era accaduto nei quattro anni che separano un film dall’altro (Metropolis è del 1927). In quest’ultimo, viene proposto un patto sociale fra capitale e lavoro: le lotte operaie del ‘19 e successivamente del ’23, pur concludendosi con la sconfitta del progetto insurrezionale della Lega Spartachista, cui seguì l’assassinio di Rosa Luxemburg e Karl Liebnecht, avevano comunque conservato intatto il potere e la forza della classe operaia tedesca. Discutibile o meno nella sua ingenuità, il film rappresentava due entità sociali fortemente strutturate, con le loro istituzioni, la capacità di governare, dirigere la società civile e controllare il territorio; entrambe erano portatrici di una visione del mondo e di un progetto di società.

Nel Mostro di Düsseldorf tutto questo non esiste più, in scena vediamo un individuo malato, mentre le madri delle bambine uccise sembrano essere completamente abbandonate a se stesse, così come è solo e atomizzato il killer nella sua follia. Quando le madri si aggregano con altri per protestare e reclamare giustizia, sono solo persone sconosciute le une alle altre, la psicosi cresce anche perché quello che sta loro a fianco non sanno più chi sia. Non esiste più alcun patto, la società civile si richiude in casa e il territorio è ormai diventato il terreno su cui si ritrovano masse impaurite e isteriche che si buttano sul primo che capita e ne fanno il classico capro espiatorio (come accade in una scena iniziale del film quando un uomo viene subito scambiato per il mostro soltanto perché ha risposto a una ragazzina che gli chiedeva l’ora), oppure viene lasciata alle scorribande della polizia e della grande criminalità; il finale, in fondo, vede proprio loro protagonisti della cattura, in una sorta di discordia necessariamente concorde, su cui sarà tuttavia necessario mantenere il silenzio. Il confitto sociale ha ceduto il passo alla guerra di tutti contro tutti. Due anni dopo saranno le milizie delle SA e delle SS a percorrere le stesse strade con altri intenti.

1929

Proprio nel mezzo fra il 1927 e il 1931, si colloca un anno chiave: il 1929, che si era abbattuto sulla società tedesca come un secondo uragano, sconosciuto ad altre società europee che, pur colpite dalla crisi, non ne subirono gli effetti con la stessa devastante violenza. Inflazione dell’ordine di un bilione, licenziamenti di massa, impoverimento verticale delle condizioni di vita, legame sociale dissolto. La classe operaia, che pure aveva resistito all’inflazione degli anni precedenti, espulsa dalle fabbriche e atomizzata, vedeva franare le sue istituzioni di controllo del territorio e della società civile. La voragine che si era aperta fu colmata in pochi mesi dal partito nazista.

La massa che noi vediamo nel Mostro di Düsseldorf è il precipitato sociale della crisi del ‘29: una società atomizzata e impaurita, in preda al panico, in fuga da se stessa, pronta a identificarsi con un capo, che la porti fuori da quella situazione in qualsiasi modo. Hitler e il partito nazionalsocialista seppero coagulare intorno a sé, lo spirito gregario successivo a quel sentimento di totale annientamento della personalità, conseguente la crisi del ’29: sarà tale spirito di massa che permetterà loro di trascinare il popolo tedesco alla guerra e poi alla rovina.

2024

Chiamare in causa la nostra contemporaneità implica subito un chiarimento preliminare: qui finiscono le analogie con il 1929, che riguardano solo il film di Lang e la situazione tedesca degli anni ’30. Diamo per scontato che in tutte le crisi esistono somiglianze e differenze, ma la nostra di oggi è ben più grave di quella del 1929 e stabilire una relazione troppo stringente fra essa e il consenso che la destra neofascista e neonazista ottiene un po’ in tutta Europa può essere addirittura una cortina fumogena che impedisce di vedere le differenze sostanziali.

Questo argomento, tuttavia, esula dagli intenti di questa riflessione che vuole richiamare l’attenzione di chi legge su un film e su un autore. Certo, il film di Lang pone dei problemi attualissimi, specialmente per quanto riguarda l’imbarbarimento in atto di tutti rapporti sociali: come tale è una premessa per ulteriori interventi più direttamente politici.

Fritz Lang

1 Ho messo fra virgolette ‘nevrosi della comunità’ perché la traduzione italiana corrente del termine tedesco usato da Freud è un’altra: “nevrosi collettive.” Non sono il primo a notare come tale traduzione corrente si presti a troppi equivoci. Per nevrosi collettive in italiano si può anche intendere le nevrosi più frequenti, quelle che il maggior numero di pazienti manifesta nel setting analitico. Inoltre si potrebbe aggiungere che il termine collettivo, rimanda a qualcosa che appartiene a tutti indistintamente, almeno in un certo ambito. Così facendo ci si preclude però la possibilità di cercare di comprendere comportamenti particolarmente pericolosi e inquietanti che non sono affatto quantitativamente rilevanti, ma lo sono da un punto di vista qualitativo, perché tramite loro è possibile intravedere lo sfondo più ampio e profondo dentro il quale tali comportamenti hanno le loro radici. Se un gruppo di adolescenti terrorizza compagni di classe e di quartiere, chiedendo loro denaro per avere protezione (come accaduto recentemente a Padova, e prima in altre località), non posso dedurne che tale comportamento sia collettivo. Un’affermazione del genere incontrerebbe e incontra subito la stessa smentita, ovvia, ma al tempo stesso pericolosa: si tratta di casi isolati. Sul piano del dato empirico questo è certamente vero, anche confrontando le statistiche sui crimini sull’arco di decenni. Se invece si considerano questi atti come emblematici di malesseri più profondi di cui essi sono la spia, la questione cambia. Nelle modalità in cui si sono dati questi fatti di cronaca, indicano per esempio, che il modello mafioso dell’estorsione in cambio di protezione, esercita un’attrazione su strati giovanili della società italiana (ma si potrebbero indicare altri tipi di comportamenti) e questo è certamente il sintomo di una malattia di cui la comunità italiana soffre da tempo e che peraltro trova prima di tutto riscontro nei comportamenti pubblici di istituzioni e cariche dello stato. Fino a poco tempo fa i modelli negativi a livello istituzionale, spingevano alla denuncia, a una politica di opposizione: oggi essi diventano, per alcuni, modelli da imitare. Il venir meno della figura del padre (Luigi Zoia e altri hanno parlato di ‘società senza padre), capace di indicare un modello di legge positiva, porta quasi naturalmente alla identificazione con altre figure che svolgono il ruolo di surrogati ma che, comunque, incarnano una legge pur che sia. Nel caso dei giovani estorsori di Padova si tratta di una legge criminale; in modo non molto diverso da quello che vediamo nel film Il mostro di Düsseldorf. Ebbene la definizione estensiva di ‘nevrosi della comunità’ (che va oltre l’aspetto puramente analitico e individuale del concetto di nevrosi), è molto più utile a una comprensione di questi fenomeni sociali, che non l’aggettivo ‘collettivo’, che in ultima analisi, esprime un dato quantitativo, seppure in termini assoluti.

VITE IMMAGINARIE E ALTRE VITE

Premessa

Questo saggio è la rielaborazione di un precedente scritto pubblicato anni fa sulla rivista Il Cavallo di Cavalcanti. Lo spunto da cui nacque fu la lettura di due libri di un autore a me allora del tutto sconosciuto: Marcel Schwob. Li lessi in pochi giorni e il fascino che esercitarono su di me non è venuto meno nel tempo. La lettura mi aveva pure un poco sconcertato perché mi trovai nel mezzo di sollecitazioni molteplici: il richiamo ai classici da un lato e una poetica del tutto avulsa dai canoni che si stavano affermando nell’Europa del tempo. C’era poi qualcosa in lui che mi rimandava a Cesare Pavese: entrambi avevano a che fare con il mito e in un primo tempo i loro percorsi mi sembrarono simili. Successivamente e grazie anche alla lettura delle opere di Furio Jesi, mi sono reso conto delle differenze fra i due approcci, che mi inducono oggi a modificare in parte il saggio di allora.

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Mimare la vita

Ci sono opere letterarie e autori che creano personaggi memorabili, tanto che spesso sono ricordati più di loro stessi: Macondo e Mauricio Babilonia, per esempio, sono stati nell’immaginario collettivo, più importanti di Garcia Marquez, almeno per alcuni anni. Vi sono invece opere e personaggi che agiscono in profondo, influenzano altri narratori, tanto da divenire un’onda lunga e carsica che ogni tanto risorge, anche se al momento della loro nascita sembrano del tutto fuori tempo e fuori luogo.

Le vite immaginarie di Marcel Schwob, fanno parte di quest’ultima categoria. L’opera fu scritta a fine ‘800, quando cominciava a profilarsi la crisi profonda della nostra civiltà che sarebbe culminata nella Prima Guerra Mondiale e sarebbe continuata, di disastro in disastro, per tutto il secolo scorso.

Le vite immaginarie sono un’opera con lo sguardo proiettato nel futuro, dal momento che ispireranno molta narrativa novecentesca europea e non; tuttavia le sue radici profonde affondano nella classicità. Nel titolo riecheggiano le Vite Parallele di Plutarco, sebbene si discostino da loro in modo radicale, come afferma Schwob nella sua prefazione all’opera:

… Il genio di Plutarco, in qualche brano, ha fatto di lui un artista; ma non riuscì a capire l’essenza della sua arte, perché immaginò dei “paralleli” – come se due uomini ben descritti in ogni dettaglio potessero assomigliarsi1

Allo stesso modo I mimi, una seconda importante opera meno celebre della prima, non si rivolgono alle figure chiave dell’antichità classica, ma a personaggi intermedi, ambivalenti, perlopiù inventati, che tuttavia potrebbero stare benissimo nel Pantheon maggiore. Con quest’opera, in cui il gusto del dettaglio e la pura invenzione s’inseguono in ogni riga, Schwob apre le porte a due diversi generi che sembrano lontani fra loro (e lo saranno nei loro sviluppi successivi), ma che lo scrittore francese è capace di tenere uniti nel suo piccolo e prezioso arabesco: il racconto fantastico e quello iperrealista.

La vita di Marcel Schwob, invece, sembra riflettere drammaticamente quella dei personaggi della sua opera maggiore. Chi è infatti lo scrittore? Un raffinato letterato che s’inventa narratore? Oppure il contrario e cioè il giornalista scrupoloso e quasi pedante del Mercure de France con l’hobby della letteratura? Il viaggiatore virtuale che forse avrebbe voluto essere, oppure l’uomo malato che decide di partire (su consiglio del suo medico!) per un viaggio diretto a Samoa dal quale tornerà deluso e senza avere raggiunto la meta che lo aveva spinto ad intraprenderlo: rendere un devoto omaggio alla tomba di Stevenson?

Marcel Schwob nasce in una famiglia rabbini e di medici il 25 agosto del 1867: la madre è una Cahun, la cui discendenza annovera, fra gli antenati, Caym de Sainte-Menehoul, che prese parte alla seconda Crociata. Il bambino Marcel cresce in un ambiente cosmopolita, contornato da governanti inglesi e precettori tedeschi. Di suo ci mette un talento straordinario e una volontà di apprendere che ne farà un erudito precocissimo e di rango assoluto; con la differenza, però, rispetto ad altri eruditi, di essere scrittore vero. Eccelle negli studi e si dedica alla traduzione; ma ciò che cambia la sua vita e inaugura la sua stagione più creativa è l’incontro con l’opera di Robert Luis Stevenson, ma anche questo in fondo fa parte delle sue stranezze perché il modo in cui Stevenson lo ha ispirato sfugge alla comprensione immediata.  Ci vorrà ancora qualche tempo, infatti, prima che tale incontro produca i suoi frutti. Nel mezzo, un’altra scelta bizzarra e sbagliata, come gli è capitato diverse volte nella vita: sceglie, in anticipo rispetto all’età, il servizio militare. Niente più della carriera militare poteva essere lontana da Schwob, a parte la sua ricerca di una vita avventurosa. Tormentato fin da bambino da una generica febbre cerebrale di natura sconosciuta per la medicina di allora, vive in un continuo stato di malattia, accentuato anche dagli aspetti ipocondriaci della sua personalità, che contribuiranno non poco ad accentuare la sua precaria salute, che lo porterà a una morte precoce.

La sua poetica può essere definita lapidariamente da questo concetto: la verità di una vita sta nel suo diventare immaginaria. A questo compito si dedicherà con scrupolo e pazienza da certosino, lavorando sempre sulle fonti storiche dei suoi personaggi e operando quei piccoli scarti che permettono di arrivare a una verità nascosta. Il tutto però, tratteggiato con estrema esattezza, con una scrittura limpida e trasparente, inseguendo quel tratto capace di rendere unico un ritratto: la sua ammirazione per Hokusai lo testimonia. Del grande pittore giapponese egli amava proprio la ricerca del segno perfetto, la nitidezza dei contorni che permette all’artista di arrivare:

al punto di rendere individuale ciò che c’è di più generale2..

Affermazione sorprendente, perché sembra procedere nella direzione opposta di quello che di solito viene attribuito all’arte: ricercare l’universalità. In realtà la contraddizione è solo apparente: ciò che si affaccia in questo libro è una visione divergente del rapporto fra individuo, società e tempo, rispetto al senso comune di allora. Con l’avvento della società di massa, che tende a ridurre l’individuo a semplice anello di una catena, la ricerca di ciò che rende unica una vita non si pone nel solco dell’esaltazione dell’individualismo narcisistico, ma come difesa della varietà.

Canone e anticanone

Qualcosa d’analogo accade anche ne I dialoghi con Leucò di Cesare Pavese, l’opera più enigmatica dello scrittore delle Langhe.

I personaggi di questi tre libri, distanti fra loro dal tempo che separa quasi due generazioni (Pavese nasce nel 1908, tre anni dopo la morte di Schwob), sono una piccola schiera minore (quantitativamente parlando), rispetto a quella degli scrittori più celebrati del ‘900.

Il canone del romanzo novecentesco ruota intorno alla crisi di quello ottocentesco, legato alla convenzione del narratore onnisciente, improntato al realismo e alla verosimiglianza, per dirla con Manzoni. Tale modello poteva contare su una sostanziale coincidenza di sentimenti e valori fra gli scrittori e il pubblico dei lettori, entrambi appartenenti alla borghesia urbana industriale o ai ceti intellettuali rurali. Quando tali valori comuni cominciano a scricchiolare sotto l’urto di fenomeni sociali dirompenti o di rivoluzioni nel campo scientifico e del pensiero (si pensi soltanto alla questione sociale, com’era definita allora, o all’irruzione prossima della psicanalisi), anche il romanzo ottocentesco entra in crisi.

Il primo pilastro a cadere sotto le critiche perplesse e poi irridenti di studiosi e narratori è la cosiddetta trama, o il plot. L’intreccio avventuroso cede il passo a un collage di frammenti, oppure si sgretola al proprio interno come accade nei romanzi di Henry James. Non mancavano, nei secoli precedenti, esempi di narrazioni frammentarie che hanno anticipato questi esiti (si pensi al Tom Jones di Fielding e ancora di più al Viaggio sentimentale di Lawrence Sterne); si trattava, però, di casi isolati, considerati quasi delle bizzarrie letterarie, che non davano corpo a una poetica consapevole. Saranno le avanguardie, con i loro Manifesti a fare ciò e con questo siamo già nel cuore della crisi e non più ai suoi prodromi.

Tornando un poco indietro, il secondo pilastro messo in discussione è lo statuto del personaggio-eroe, o eroina. Alle Anne Karenine e ai Jean Valjean subentrano figure più ambigue, fragili, fino alla irrisione: lo Zeno di Svevo, gli Andrea Sperelli, il Fu Mattia Pascal. Vi saranno in quegli anni di inizio ‘900 anche tentativi di sintesi fra tradizione e avanguardia, come testimonia il grande romanzo di Musil L’uomo senza qualità; oppure, come Deledda in Italia, si resterà nel solco del romanzo ottocentesco, seppure con poderosi innesti che venivano dalla cultura europea decadentista e simbolista. Infine la sperimentazione linguistica, l’uso spregiudicato della licenza poetica o narrativa, fino alla disarticolazione delle strutture sintattico grammaticali della lingua, come è nelle opere estreme di Joyce (Finnegans’ Wake), di Beckett e altri.

La narrativa di Schwob e quella di Pavese nei Dialoghi con Leucò, vanno in una direzione opposta a questa, che è senza dubbio la tendenza principale del secolo scorso. Prima di tutto i personaggi delle loro opere sono memorabili. La trama può sembrare assente, nel senso tradizionale del termine, ma se guardiano alla struttura profonda rispetto a quella apparente e superficiale, queste storie s’inseguono formando un mosaico di narrazioni che ricordano l’intreccio inestricabile della mitologica tela di Aracne. In secondo luogo i personaggi di questi romanzi o dialoghi nel caso di Pavese, non hanno nulla a che vedere con gli anti eroi novecenteschi, sebbene in modi fra loro diversi.

Per Schwob non si tratta di demistificare l’eroe e di ricondurlo alla comune piccolezza umana, oppure di irriderne le pretese, ma di considerare il lato eroico di ogni vita; specialmente di quelle più segnate dal vizio, oppure da una condizione di sofferenza. È così che la vita dell’anonima merlettaia di Parigi diventa decisiva come quella di Lucrezio o di Paolo Uccello; la penna dello scrittore tratteggia il loro destino necessario perché cerca nella loro esperienza ciò che li rende unici. Nel fare questo  Schwob allarga il campo di ciò che può essere considerato eroico. In fondo gli eroi antichi non sfuggono a un cliché che si ripete nei secoli con pochissime varianti: è la guerra che garantisce il loro statuto – se sono maschi – e il premio è la gloria. Se sono femmine è l’amore con le sue vicissitudini al centro, oppure con Cassandra e Ipazia, la saggezza mai riconosciuta. L’eroismo dei personaggi di Schwob abbraccia un’esperienza più vasta, coincide con la nuda vita, cui tutti sono esposti. Perciò la storia di Lucrezio che conosce l’amore e la morte in una sola sequenza temporale, che sembra scandita secondo i ritmi delle unità aristoteliche o di un karma, ci commuove come quella sconclusionata di Erostrato, o quella dello stuolo di pirati e assassini protagonisti della parte finale del libro, quella che più risente dell’influenza di Stevenson.

Il mito secondo Pavese

Pavese, d’altro canto, cerca, nelle pieghe del mito, le risposte al mistero della vita. Si pone la domanda che non ha mai fatto nessuno; oppure al contrario, l’interrogativo più ovvio che nessuno indagava più da tempo. È così, per esempio, nel caso di Orfeo. Pavese rifiuta il racconto in sé della vicenda e si chiede perentoriamente perché mai si sia voltato. È lo stesso interrogativo che aveva ossessionato Rilke, in tempi non troppo lontani da quelli in cui fu scritta l’opera pavesiana. Nel dialogo con Bacca, Orfeo racconta la sua versione dei fatti e scompagina le risposte precedenti; rivela tutta l’illusione che vi è nella pretesa di vincere il tempo e la morte e quando Bacca lo rimprovera dicendogli:

Chi non vorrebbe il passato? Euridice era quasi rinata, Orfeo gli risponde:

Per poi morire un’altra volta, Bacca. Per portarsi nel sangue l’orrore dell’Ade e tremare con me giorno e notte. Tu non sai cos’è il nulla. 3

Lo stile scelto è quello di una drammatizzazione essenziale e scarna, dominata fin dall’inizio da una perentorietà che ci fa presagire l’esito tragico:

È andata così. Salivamo il sentiero tra il bosco delle ombre4..

Bacca però insiste, ha le sue ragioni, l’antica fede che la discesa nell’Ade sia il passaggio necessario per una ricompensa ctonia è presente e viva in lui:

Ci fu un tempo che la festa ci rendeva immortali.

La risposta del moderno Orfeo ci fa rivivere tutta la tragicità della scena primaria:

o scenda una volta nel suo inferno. L’orgia del mio destino è finita nell’Ade, finita cantando secondo i miei modi la vita e la morte”5.. E voi godetevela la festa. Tutto è lecito a chi non sa ancora.

Nel dialogo con Bacca, l’Orfeo che parla è troppo moderno per essere vero e in buona sostanza ribadisce la necessità del suo gesto, che avrebbe impedito a Euridice di morire due volte. In Pavese, il tentativo di conciliare la modernità con il mito porteranno lo scrittore sempre più lontano dal mito inteso come rito epifanico collettivo – tenetevela voi la festa risponde Orfeo a Bacca –  per approdare all’interiorizzazione del mito da parte del poeta, che diventa così il solo depositario – nella modernità – di quello che un tempo era un sapere collettivo diffuso. La festa di cui parla Bacca nel dialogo allude a questo. Pavese invece si rifà al mito in senso ontologico, ma traduce l’impossibilità di una esperienza comunitaria nella modernità, nella ricerca interiore del proprio rapporto con il mito e con la natura, ma separato da tutto e da tutti.

Nel saggio su Pavese, Furio Jesi ingaggia con l’opera dello scrittore delle Langhe un corpo a corpo proprio intorno a tale tematica ma parte anche dal modo in cui Pavese concepisce la natura:

Pavese credeva nel valore dei miti come sistema di rapporti esistenti in natura … Pavese ha operato come se esistesse in natura un sistema oggettivo di rapporti fra immagini mitologiche che – e si vuole come diceva Hesse “interpretare la natura!” – bisogna rispettare.

Jesi rifiuta tale concetto e rimprovera a Pavese di leggere nella natura la presenza:

di un linguaggio mitologico immanente e oggettivo.6

Jesi vede nell’opera pavesiana un parallelismo fra il suo modo di concepire la natura e il funzionamento della macchina mitologica: il linguaggio immanente e oggettivo che Jesi attribuisce a Pavese equivale a ritenere che al centro della macchina mitologica si troverebbe il mito in senso ontologico. Jesi nega entrambe le cose: la natura è una sfinge leopardiana e al centro della macchina mitologica c’è un vuoto.

Il maestro e gli allievi

Schwob diventerà il maestro di una resistenza alla corrente principale del ‘900. Non mi riferisco alla stima di cui era circondato nel suo tempo, ma all’influenza che ha esercitato su molti altri venuti dopo di lui. Valga per tutti la testimonianza limpida e inequivocabile di Jorge Luis Borges:

Senza di lui la mia narrativa non esisterebbe.

Perfino un autore lontano dalle atmosfere francesi respirate da Schwob, come lo svedese Per Olav Enquist, nel suo recente romanzo Blanche e Marie, gli deve molto.

Non mi pare un caso che Schwob sia stato un maestro per molti anche fuori dall’Europa. Del mito inteso come narrazione fantastica o immaginaria come preferirebbe dire Schwob non si può fare a meno, ogni epoca produce le proprie narrazioni mitologiche e questo avviene anche nella modernità. Schwob nelle sue opere salvaguarda questo bene prezioso in un tempo che sembra non volerne più sapere, ma non cade nel tranello di recuperare il mito in senso ontologico. Il suo aspetto moderno, nonostante la sua sostanziale anti modernità, sta proprio nel riprendere i miti come puro oggetto di narrazione. In sostanza, per dirla con Furio Jesi, al centro di Schwob non c’è il Mito ma la macchina mitologica che continua a produrre le sue narrazioni. È quello che accade, infine, nell’opera forse più immaginaria della narrativa europea contemporanea: Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar. Belga, ma culturalmente francese e aristocratica come Schwob, nelle pagine del suo romanzo si respira la medesima aria, ci si sente a casa e al tempo stesso proiettati in un tempo e in luogo lontani eppure così attuali.

C’era un’altra strada possibile da percorrere, oltre a quella intrapresa da Schwob? C’era e c’è e la indica ancora una volta Jesi: la ricerca, nella modernità, di riti collettivi e festivi, che pur di carattere laico, conservano il senso di una ritualità collettiva. Nel finale del suo saggio Jesi si riferisce prima di tutto al movimento operaio, anche se si limita a poche pagine, ma possiamo già estendere ad altre manifestazioni la stessa caratteristica: dalle cerimonie collettive di commemorazione dei morti per aids, ai balli di massa dei movimenti femministi. Tale propensione, del tutto estranea a Schwob, avrebbe potuto forse riguardare Pavese se oltre al suo mondo contadino avesse guadato al movimento operaio come soggetto storico. Perché Pavese non lo fece nonostante la sua adesione al Partito Comunista? Il problema è che in Pavese non bisogna cercare una consapevolezza etnografica e antropologica che lo scrittore in definitiva non aveva. Il suo modo di sentirsi legato ai riti contadini della sua terra è in realtà assai semplice e anche ingenuo: è un attaccamento viscerale che ha più a che fare con il folklore e che convive però con un culto dell’americanismo altrettanto ingenuo. Pavese, a mio avviso, riuscirà a superare tali aspetti contraddittori solo in poche opere, una specialmente ne I mari del sud, dove la cifra epica del testo appare del tutto nuova.

Marcel Schwob

1 Marcel Schwob, Vite immaginare, Prefazione  di Cristiana Lardo, Adelphi, pag. 9.

2 Ivi, p.14

3 Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, introduzione di Sergio Givone, Einaudi, Torino 1999, p.78.

4 Ivi, p. 77

5 Ivi, p.79

6 122-23.


L’epica al salotto Galzio: Il video

Care amiche e cari amici,

qui di seguito vi invio il link (video in azzurro) per accedere alla registrazione su YouTube della serata dell’8 ottobre. Nella descrizione troverete indicati i nomi degli autori partecipanti. A chi fosse interessato potrete inoltrare il link per la visione (tutti i video di “Incontri tra Autori” sono pubblici e visionabili sul canale YouTube di Gabriella Galzio, di salotto Galzio e di Incontri tra Autori).

Ringraziandovi ancora tutti della viva partecipazione, vi auguro un buon fine settimana, un caro abbraccio Gabriella

video

IMPERO E MULTINAZIONALI

Premessa

Per Impero intendo un sistema di alleanze che ha al suo centro gli Stati Uniti, ma che non corrisponde a quello che si definisce Occidente, parola che viene usata e abusata senza mai entrare troppo nel merito del suo significato. In realtà si tratta di un impero statunitense-anglo che si estende a tutto il mondo di lingua inglese, seppure con alcune contraddizioni al proprio interno, che riguardano la Gran Bretagna dopo la Brexit e il Sudafrica, che non si può considerare organico a tale aggregato. In quest’area, che è al tempo stesso geopolitica linguistica e culturale, hanno le loro  sedi le maggiori società multinazionali. Ciò che tale studio intende fare è un contributo alla comprensione degli intrecci fra la geopolitica imperiale e l’operatività delle multinazionali. I dati sono stati raccolti una prima volta durante il Covid,  ma gli aggiornamenti recenti non indicano sostanziali cambiamenti. Per iniziare sono utili alcuni dati di riferimento sull’evoluzione dei più importanti settori manifatturieri negli ultimi decenni. Ho fatto riferimento a due diverse fonti anche per i loro orientamenti politici, ma entrambe autorevoli e sostanzialmente coincidenti rispetto ai numeri. Entrambe sono facilmente controllabili: i siti di provenienza si possono leggere cliccando sulle sigle. Questa analisi dettagliata dei comportamenti si trova nell’appendice in coda al testo: ho scelto tale soluzione per non appesantire questa riflessione, il più possibile sintetica.

Un quadro prevedibile

Le prime deduzioni che si possono trarre da una prima massa di dati riportati nelle prime pagine dell’appendice, sono due: il massiccio trasferimento di reddito da lavoro a capitale e la concentrazione del capitale medesimo. Tali fatti si sono consolidati in un arco di tempo che inizia negli anni ’80 del secolo scorso e che trova il suo picco dalla caduta del muro di Berlino in poi. Le premesse antecedenti vanno cercate nella scelta di Nixon del 1975 di seppellire gli accordi di Bretton Woods, scelta che segnò il passaggio da un modello di moneta coniata peraltro già in crisi a un modello di moneta creditizia. A partire da questi primi dati ho esaminato prima di tutto il modo di agire delle multinazionali nei diversi scenari geopolitici a cominciare dalle 10 maggiori per fatturato e provenienza. Due ulteriori aspetti da cui si prescinde in questa prima parte sono gli eventi come le epidemie e tutto il discorso riguardante le guerre di intelligence. I dati fin qui raccolti possono definirsi ovvi, nel senso che non presentano un quadro diverso da quello che ci si poteva aspettare, anche senza mettere in campo particolari competenze. Analogamente, certi comportamenti standard che verranno rilevati nel prosieguo, tipo attività di lobbying quando non di vero e proprio ricatto messi in atto dalle multinazionali, non possono stupire, come pure la sostanziale subalternità dei poteri politici (quello degli Usa compreso, seppure con margini diversi autonomia), rispetto a tutte le altre aggregazioni nazionali o sovranazionali. Perché allora uno studio come questo? La  prima e principale ragione è di verificare se l’ipotesi più volte evocata di uno spostamento strategico dell’impero statunitense-anglo sullo scenario estremo orientale, un parziale o totale abbandono del Medio Oriente al suo destino, sia realistica o meno e fino a che punto lo sia, eventualmente. Naturalmente si tratta di una questione decisiva per l’Europa. Una seconda ragione sta nel cercare di capire se gli elementi di crisi presenti nella politica statunitense – dunque nel cuore del potere imperiale e da tempo – sono l’indice di una crisi ancora più profonda e inarrestabile di egemonia, oppure no. Un’ultima considerazione prima di cominciare. Londra rimane il più grande mercato finanziario del mondo, ma la Brexit, evento non propriamente previsto, di natura intermedia fra una turbativa catastrofica e una crisi qualunque, rimane un’incognita su cui è bene per il momento non lasciarsi andare a previsioni, ma piuttosto cercare di monitorare quanto avviene giorno per giorno. 

La politica delle multinazionali

I dati salienti che si possono ricavare dalle analisi riportate nell’appendice sono tre:  l’espansione nel continente asiatico è abbastanza recente, c’è un vivo interesse verso le repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale, un’importante crescita d’interesse per India e Cina e una forse sorprendente minore rilevanza del Giappone. Tuttavia, il quadro generale, ci dice che negli ultimi anni il fatturato nell’area asiatica è diminuito dell’8% nonostante la crescita globale del fatturato.

Il secondo è che Europa e Stati Uniti rimangono i mercati fondamentali per Microsoft, la più grande fra le 10 più importanti, mentre l’estremo oriente è un’area  interessante, ma solo un po’ di più di Africa e America latina. Le pressioni sull’Europa quindi, saranno ancora forti e l’attività nevralgica di lobbying che Microsoft intraprenderà, sarà identica a quella documentata nell’appendice anche maggiore perché non si tratta solo di aumentare i profitti ma esercitare forme di controllo sempre maggiori sugli stessi governi dell’unione, del tutto dipendenti dalla tecnologia del colosso statunitense. In particolare, Microsoft condurrà una battaglia contro la possibilità del software libero. Quanto ad Amazon, la sua espansione ha assunto dimensioni che alcuni siti stessi indicano come mostruose e riguardano il mondo intero seppure con alcune precisazioni. Sulla potenza di Amazon inutile dilungarsi di più ma ai fini del discorso che si fa qui quello che è importante mettere in evidenza è che, per le caratteristiche del servizio che svolge, Amazon tende al massimo di concorrenza possibile alle imprese che agiscono nell’e-commerce, ma la sua diffusione dipende esclusivamente dalla natura dell’impresa stessa, per cui il criterio seguito è quello di un’espansione on demand. Gli elementi che caratterizzano Amazon sono altri: i tassi allucinanti di sfruttamento del lavoro – e dunque gli alti profitti – ma anche la necessità di ricorrere a magazzini di logistica che mettono in movimento quote crescenti di lavoro vivo che tende a ribellarsi, come avviene in altri settori dove la logistica svolge un ruolo strategico. L’aggressività di Amazon, che ha monopolizzato un settore a livello mondiale, andrà tuttavia incontro a limiti oggettivi, prima di tutto perché è riuscita a cannibalizzare tutto il settore dell’e-commerce con una tale voracità da diventare troppo grande in breve tempo, come la famosa rana che si gonfia fino a scoppiare. Sia per la resistenza operaia, sia perché altri saranno indotti a trovare nicchie di mercato, sfruttando le prevedibili manchevolezze, Amazon andrà incontro a un momento di crisi e di stabilizzazione successiva, cedendo quote di mercato.

Fra Apple e Google vi è invece una divisione delle parti: Apple prevale nei mercati occidentali a causa del costo elevato dei suoi prodotti, Google nei mercati emergenti. Infine Facebook. Le ragioni della relativa crisi di facebook le conosciamo: le falle nel sistema di sicurezza, le profilazioni incontrollabili e finite in chissà quali mani, il sospetto di influenza sulle campagne elettorali, le vertenze in atto un po’ in tutto il mondo per farsi dare dei rimborsi: anche in Italia Altroconsumo ha avviato una class action. Sotto certi aspetti Facebook assomiglia ad Amazon ma, per ragioni diverse, sarà soggetta a fragilità che sono esplose negli ultimi due anni. 

Non mi occuperò invece per il momento di Berkshire Hathaway (Stati Uniti): 496 miliardi di dollari di Visa, di JP Morgan e delle due cinesi Tencent (Cina): 436 miliardi di dollari e di Alibaba (Cina): 431 miliardi di dollari, perché non influiscono sul bilancio generale che si può trarre da questi dati alla luce dei cambiamenti intervenuti nella politica statunitense e cioè guerra dei dazi e il tentativo di tornare a forme di protezionismo avvenuti durante la presidenza Trump e non ritoccati più di tanto dalla presidenza Biden. I dati sembrano suggerire che vi è indifferenza fra i due comportamenti perché l’impatto della politica di Trump ha colpito al cuore la strategia mercantilista tedesca e dunque europea, ma è ininfluente sulle politiche delle aziende più tecnologiche. In sostanza la politica di Trump ha avuto una forte incidenza sui mercati cosiddetti maturi (quello dell’automobile per esempio), ma non sulle dinamiche di altri settori. La politica di Trump andava a colpire alcune eccellenze europee e metteva in crisi maggiormente settori come quelli della piccola e media industria e questo ha grandi conseguenze sull’Italia – per esempio – come si evince dall’attivismo frenetico delle associazioni di questi settori. Il ritorno di Biden non ha cambiato più di tanto la situazione: pur lontano dal protezionismo, a parole, in realtà non ha toccato le modifiche introdotte da Trump: il solo cambiamento significativo sta nella politica distributiva dei redditi e nell’uso della guerra ucraina per demolire gli accordi energetici fra Russia e Unione europea, costringendo gli europei a rivolgersi agli Usa per le forniture energetiche e pagarle molto di più.

Conclusioni provvisorie

Joe Biden: “Non so se le prossime elezioni saranno pacifiche”. La dichiarazione è stata ripresa un po’ in tutto il mondo, in modo piuttosto asettico e senza troppi commenti. Le fonti diverse e facilmente reperibili in rete.

Rimane un’ultima domanda cui cercare di dare un minimo di risposta. In che misura la politica delle grandi multinazionali ha influenzato oppure è cambiata a seguito delle due diverse presidenze? Si può parlare di indifferenza fra due diversi sistemi che corrono in parallelo. Le 10 maggiori multinazionali e anche le altre che non hanno bisogno del WTO per attuare le loro politiche commerciali, continuano per loro strada senza troppi intoppi. Le dinamiche delle loro crisi possibili sono legate o a fattori di concorrenza con le due grandi cinesi Tencent e Alibaba. Tuttavia le dinamiche della politica imperiale si iscrive in un ordine di problemi diversi che fino ad ora possono essere descritti secondo uno schema di reciproca indifferenza che può diventare fonte di contraddizioni. Ne indico alcune, come se fossero i titoli di capitoli da esplorare. 

  1. Il mercato è a occidente, la geopolitica no.
  2. L’Europa è un peso che gli Usa, per questa ragione insieme alla Gran Bretagna hanno fatto di tutto per impedire la nascita di una forte e autonoma Unione europea, ma l’impoverimento dell’Europa ha contraccolpi potenziali sui bilanci delle maggiori multinazionali Usa.
  3. Il mercato tecnologico può essere solo mondiale, ma i metalli rari sono quasi un monopolio cinese e in parte latino americano, dove la presenza cinese è molto forte.
  4. Il fronte interno statunitense va verso una polarizzazione potenzialmente drammatica.
  5. La Cina può aspettare senza fretta.

La seconda deduzione provvisoria che si può trarre è che i provvedimenti di carattere protezionistico di Trump hanno riguardato per un buon 90% i settori maturi e cioè il mercato automobilistico, gli alimentari, vestiario, settori manifatturieri in generale, con la sola – rilevante peraltro – eccezione e cioè lo scontro con la Cina per quanto attiene il sistema operativo Android cioè lo scontro con Huawei. La politica anti cinese di entrambi i presidenti, colpisce maggiormente l’Europa e il settore manifatturiero tedesco in primo luogo, mette in crisi il WTO, ma non sembra colpire la Cina più di tanto. Perché dunque questa politica? Trump è l’espressione di una contraddizione profonda che ci rimanda ai primi due punti dei cinque indicati alla fine della prima parte di questo studio: 1) il mercato è a occidente, la geopolitica no. 2) L’Europa è un costo che gli Usa non possono più mantenere ma così facendo la colano a picco. La politica di Trump, fondata sul breve termine per recuperare posti di lavoro nel tempo più breve possibile, ha funzionato eccome, ma è di corto respiro perché non riguarda i settori di punta. Questa dinamica schizofrenica è destinata ad approfondirsi e infondo il timore espresso da Biden nella dichiarazione all’inizio delle conclusioni va proprio nel senso una radicalizzazione dello scontro interno da un lato, e di un allargamento della forbice fra un mercato che continua a essere in larga prevalenza a occidente e una geopolitica che lo sarà sempre di meno. Tutto questo sembra portare a una collisione con la Cina, che le amministrazioni democratiche saranno probabilmente più determinate a perseguire fino alla guerra; ma chi spera che una presidenza Trump possa modificare le cose prende una grande cantonata. Quando Trump afferma l’inutilità della guerra ucraina, è solo per dire all’Europa: questa guerra fatevela voi, mentre sullo scontro geopolitico con la Cina non potrà tirarsi indietro. E se vincesse Harris? L’agenda di Harris è dettata da Biden e lo si vede molto bene dall’incontro settimane fra il Presidente e il leader britannico. Il teatrino sulla guerra ucraina andato in scena è una divisione delle parti. Biden nicchia sulla possibilità di usare le armi occidentali per colpire a Russia e il leader britannico lo vorrebbe: ma lo vuole davvero oppure è una scelta obbligata, un modo più soft della rozzezza trumpiana di dire all’Inghilterra la guerra fatevela voi che siete i nostri valletti in Europa? Quanto alla politica aggressiva anticinese s’inasprirà qualunque sia il presidente e lo dimostra proprio il discorso di Biden, non quello alla Convention democratica, ma quello fatto il giorno dopo, successivamente all’apoteosi festiva. In quel discorso sono stati posti due limiti precisi: di Gaza non si parla e Harris non potrà fare nulla di diverso sulla Cina. Biden è stato chiaro: il programma nucleare statunitense deve guardare in direzione cinese, Harris non potrà scostarsi di un millimetro da questa linea, a meno che non ci siano contrasti interni che ancora non vediamo. Del resto, nell’intervista successiva alla convention Harris ha già fatto molte marce indietro rispetto a quanto affermato in precedenza. La sua affermazione nel confronto diretto con Trump è dovuta maggiormente all’incapacità del secondo di porre un limite alla propria sgangherata emotività, oppure è il frutto di una scelta che gli è suggerita dallo staff, vai a sapere. In ogni caso, i nodi verranno presto al pettine. Rimane un’ultima questione cui cercare di dare risposta. Lo spostamento geopolitico verso l’estremo Oriente implica un abbandono parziale del campo mediorientale ed europeo? Le due questioni vanno a mio avviso tenute in parte separate. Le scelte suicide dell’Europa sulla guerra ucraina l’hanno messa ai margini, indipendentemente dalle dinamiche geopolitiche principali e cioè lo spostamento strategico verso l’estremo oriente. Proprio in questi giorni, la seconda tappa del suicidio si materializza nelle reazioni scomposte e al limite dell’incredibile al piano Draghi, che peraltro è stata la stessa commissione europea a commissionargli e non si può pensare che non sapessero già in partenza quali fossero le sue intenzioni, dal momento che quanto scritto nel rapporto Draghi lo ha detto più volte e infondo si muove nel solco del famoso whatever it takes di alcuni anni fa. La risposta è stata un no su tutta la linea. Il piano Draghi non è niente di che, non si scosta dai canoni del liberismo, prevede un’economia di guerra ma con due proposte logiche e di buon senso: se l’Europa è unita deve muoversi come una sola entità e questo vuol dire investimenti pubblici solidali e debito comune, altrimenti non stiamo parlando di un progetto comune ma di una accozzaglia di staterelli. Draghi è stato netto anche nel dire che se non sceglierà questa strada il declino dell’Europa diventerà inarrestabile e potrebbe aprire scenari nuovi e inquietanti; se sarà o meno conseguente con le sue parole è un altro discorso, ma non cambia la sostanza della cosa e cioè la marginalizzazione dell’Europa. Diverso ma altrettanto inquietante lo scenario mediorientale. Da tempo gli Usa cercano una soluzione che consenta loro di allentare la presenza mediorientale, delegando a Israele la funzione di cane da guardia della regione, ma le politiche al tempo stesso criminali e potenzialmente suicide della leadership israeliane – non solo del primo ministro ma di tutto l’establishment israeliano – hanno messo in scacco gli Usa in una misura fin troppo visibile a livello mondiale. Presi a pesci in faccia da Israele si sono macchiati di crimini di guerra – che differenza c’è fra chi il genocidio lo attua e chi gli fornisce le armi per farlo? – ma al tempo stesso il ricatto israeliano è riuscito a mettere ai margini qualsiasi tentativo di mediazione promosso dagli Usa, anche nelle forme più deboli e sempre sbilanciate in funzione antipalestinese. Fino a quando andrà avanti il ricatto israeliano nei confronti del mondo intero e di tutte le istituzioni internazionali? Potenzialmente sempre perché Israele – non solo il suo primo ministro e i coloni – sa fare solo la guerra e niente altro, ma questa politica rischia di creare un vortice nella quale cadranno in molti. Un commentatore israeliano è intervenuto in un dibattito recentemente ricordando una frase pronunciata anni fa da Golda Meir e quanto ma attuale: dopo la Shoah gli ebrei possono fare quello che vogliono e Golda Meir era addirittura una progressista secondo la disgustosa ipocrisia occidentale. Nel giudizio sulle prossime elezioni statunitensi, tuttavia, occorre distinguere alla fine due diverse questioni. La propaganda di entrambi i partiti metterà su di esse la sordina anche perché al popolo statunitense la politica estera interessa fino a un certo punto: una volta stabilito che 4 su cinque fra chi si esprime sta dalla parte di Israele e una volta detto che le perplessità sulla guerra ucraina sono molte, tali questioni saranno materia di scontro fra gli apparati di intelligence che se ne occupano: a questo proposito il controllo quasi monopolistico delle reti satellitari da parte Elon Musk potrebbe avvantaggiare Trump nelle elezioni ma sarà a disposizione di qualsiasi presidenza per scopi bellici. Le ragioni di politica interna determineranno probabilmente chi fra i due vincerà ma la crisi continuerà, con esiti imprevedibili perché il connubio fra cecità politica – gli Usa generano il caos ovunque ma non hanno vinto una sola guerra dalla fine della Seconda Guerra Mondiale in poi – e la possibilità di usare una forza ancora immensa è l’aspetto più pericoloso della politica imperiale statunitense-anglo.

APPENDICE A L’IMPERO E LE MULTINAZIONALI

Il potere delle multinazionali negli Stati Uniti

Pubblicato: 16 Ottobre 2012

 (ASI)

… Lo Stato americano spende 500 miliardi di dollari l’anno in armamenti. Il budget per gli aiuti ai Paesi in via di sviluppo invece ammonta solo a 15 miliardi di dollari.  Oltre a ciò la maggior parte dei media degli U.S.A., soprattutto i giornali e le stazioni televisive, sono proprietà di grosse imprese. Le multinazionali Disney, Viacon, CBS, Time Warner, News Corp, Bertelsmann e General Electric controllano più del 90% del settore dei media, e guadagnano i loro soldi principalmente con costose pubblicità. In Germania gli utili delle imprese e i redditi patrimoniali sono aumentati del 31% dal 2000 al 2005. Le imposte pagate su questi redditi nello stesso lasso di tempo sono invece diminuite del 10%. La stessa evoluzione diventa visibile in modo ancora più drastico se si guarda ancora più indietro: tra il 1960 e il 2006 le tasse sugli utili delle imprese e sul patrimonio sono diminuite dal 20 al 7,1%. L’imposta sul reddito da lavoro dipendente nello stesso periodo invece è aumentata dal 6,3 al 16,3%. L’imposta sulle persone giuridiche, di cui si è discusso molto e con la quale vengono tassati gli utili delle imprese, dal 1980 al 2007 è diminuita in tutta Europa dal 45 al 24%. Nello stesso periodo, l’aliquota più alta per i redditi maggiori è diminuita dal 62 al 48%…. Dall’altro lato, persone normali e piccole imprese pagano sempre più tasse e contributi, nonostante traggano sempre meno vantaggi dal nostro sistema sociale. Nel 1980 la somma delle imposte e dei contributi sul reddito da lavoro dipendente ammontava a circa il triplo delle tasse sul capitale, nel 2003 aveva raggiunto il sestuplo. Un insegnante e un operaio non possono dire così facilmente: “Bè, allora mi trasferisco in un altro Paese dove pago meno tasse”. I 55 miliardari tedeschi possiedono insieme un patrimonio di 180 miliardi di euro. Questa somma raggiunge quasi l’ammontare dell’intera Germania, cioè della cifra che lo Stato ha a sua disposizione in un anno per le spese: nel 2006 erano circa 260 miliardi di euro per questioni di lavoro e sociali, 8 miliardi per l’istruzione e 4 miliardi per gli aiuti ai Paesi in via di sviluppo. Le spese per i cittadini più indigenti nello stesso anno ammontavano a 30 miliardi di euro scarsi, e ogni beneficiario doveva cavarsela con 345 euro al mese.

Davide Caluppi – Agenzia Stampa Italia

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Fonte: www.attac.it

Il libro che le multinazionali non ti farebbero mai leggere” di Klaus Werner-Lobo

Le società madri delle maggiori multinazionali sono concentrate per oltre il 95% in una decina di paesi ricchi. Il 42% delle esportazioni mondiali è effettuato all’interno delle filiali delle multinazionali. Rispetto al fatturato ed al potere economico di cui dispongono le multinazionali producono un numero di posti di lavoro molto basso.

Il controllo delle attività estere. Tra le multinazionali di ciascun paese un gruppo molto ristretto concentra nelle proprie mani la maggior parte delle attività delle filiali estere. Negli USA l’1% delle multinazionali controlla il 45% delle filiali all’estero di tutte le multinazionali. In Germania lo 0,7% delle multinazionali (50 società) controlla oltre i 2/3 di tutte le filiali estere tedesche. Il controllo delle filiali estere viene esercitato dalla società madri non necessariamente detenendo il 100% del loro pacchetto azionario, e spesso nemmeno con la quota maggioritaria, ma attraverso il controllo della tecnologia, dei marchi, dei servizi finanziari e del marketing.

La concentrazione geografica delle multinazionali

Il 96,5% delle società madri delle 200 maggiori multinazionali del mondo si concentra in appena 9 paesi. Queste società realizzano il 98% del fatturato e il 95% dei profitti complessivi delle 200 multinazionali. Nel mondo esistono oltre 63.000 multinazionali che controllano oltre 690.000 filiali estere. L’intero sistema delle multinazionali rappresentava nel 1997 ¼ del PIL mondiale. Negli Stati Uniti l’1% delle società madri (22 multinazionali) controllano il 45% di tutte le filiali estere delle multinazionali

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Analisi del comportamento delle maggiori multinazionali

La fonte principale cui faremo riferimento è la Forbes. Ecco come la redazione introduce il problema.

21 Settembre, 2018 @ 10:11 La redazione di Forbes.

Le più grandi aziende del mondo stanno diventando sempre più grandi. Ma quasi tutte hanno due cose in comune: sono tecnologiche e americane. La gara tra chi è più grosso, è una questione che si gioca tra pochissime aziende, tutte statunitensi: Apple, Amazon, Microsoft, Alphabet e Facebook. Si tratta di una competizione serrata e dove chi primeggia può perdere la posizione in poche ore. Infatti, la valutazione dei titoli azionari di una società può cambiare rapidamente. Così, quest’anno, Microsoft ha detronizzato Apple, che era l’azienda più grande nel 2018. I problemi di Apple e il successo di Microsoft. Attualmente, Apple soffre a causa delle scarse vendite di iPhone e MacBook. Al contrario, il modello di business di Microsoft è incentrato su flussi in costante aumento di entrate ricorrenti. Mentre le persone non hanno bisogno di un nuovo smartphone o laptop ogni anno, se hanno acquistato una licenza software, un pacchetto cloud o un abbonamento ad un videogioco, è probabile che lo rinnoveranno anche l’anno successivo. Ecco spiegato il sorpasso dell’azienda di Bill Gates a spese della Apple. Tuttavia, il valore delle azioni in circolazione di una società, cioè la sua capitalizzazione di mercato, può essere influenzato da una miriade di fattori imprevedibili. Ad esempio, i mercati azionari hanno ripetutamente perso valore a causa dei tweet del Presidente Donald Trump, comprese le società che avevano poco o nulla a che fare con l’argomento dei tweet: la Cina. Dietro ai numeri c’è sempre della verità. C’è chi si domanda se la capitalizzazione di mercato rifletta il valore oggettivo o il valore intrinseco di un’azienda. Warren Buffett a riguardo disse che “Nulla è più lontano dalla verità”. Tuttavia, essendo lui il fondatore di Berkshire Hathaway (in sesta posizione della graduatoria), sa bene che dietro ai numeri, capitalizzazione di mercato compresa, c’è sempre della verità. Mentre quasi tutte le prime 10 aziende più capitalizzate sono americane, spiccano due eccezioni: le società tecnologiche cinesi Tencent e Alibaba. Hanno infatti preso il posto di due colossi americani del calibro di Exxon Mobil e Wells Fargo. La loro ascesa ha segnato uno spostamento non solo nella composizione geografica della classifica, ma anche settoriale. Infatti, fino a un decennio fa, le società più capitalizzate sul mercato azionario erano società nel settore dell’energia, con una lunga storia alle loro spalle (Exxon, Generale Elettric e AT&T). Oggi sono quasi tutte le aziende tecnologiche. Meglio una gallina domani che un uovo oggi. Infine, è interessante notare come le aziende più grandi (in termini di capitalizzazione) non siano quelle che generano più fatturati. Tutte e dieci le società di questa graduatoria non sono nella Top 10 mondiale dei fatturati (Microsoft è solo in 60esima posizione). Come è possibile? Gli investitori preferiscono le start-up tecnologiche alle aziende che generano grandi fatturati perché hanno un potenziale di crescita molto maggiore. Chi ha acquistato 100 dollari in azioni Amazon durante la IPO del 1997, adesso (agosto) ne ha 106.000. Proprio Jeff Bezos, fondatore e proprietario di Amazon, ha sempre sostenuto che investire nella redditività futura attraverso nuovi prodotti e servizi ha la priorità rispetto a fare utili nell’immediato. Ma andiamo a vedere la classifica 2019 (i dati sono riferiti al 1 agosto) delle 10 maggiori aziende del mondo in termini di capitalizzazione di mercato.

Le 10 maggiori aziende del mondo per capitalizzazione di mercato nel 2019

  1. MICROSOFT (Stati Uniti): 1.058 miliardi di dollari
  2. APPLE (Stati Uniti): 959 miliardi di dollari
  3. AMAZON (Stati Uniti): 959 miliardi di dollari
  4. ALPHABET (Stati Uniti): 839 miliardi di dollari
  5. FACEBOOK (Stati Uniti): 550 miliardi di dollari
  6. BERKSHIRE HATHAWAY (Stati Uniti): 496 miliardi di dollari
  7. TENCENT (Cina): 436 miliardi di dollari
  8. ALIBABA (Cina): 431 miliardi di dollari
  9. VISA (Stati Uniti): 389 miliardi di dollari
  10. JPMORGAN CHASE (Stati Uniti): 366 miliardi di dollari

Fonte: AISOM

Cominciamo da Microsoft Corporation, azienda d’informatica con sede a Redmond nello Stato di Washington e quindi sulla costa atlantica. Creata da Bill Gates e Paul Allen il 4 aprile 1975, cambiò nome il 25 giugno 1981, per poi assumere nuovamente nel 1983 l’attuale denominazione. Dipendenti: 114.000 (dato del 2016) Slogan: «Do Great Things».1 In Italia sua sede centrale è a Milano e a Roma all’Eur. Cominciamo da questa azienda non tanto perché sia attualmente la più ‘avanzata’ (Amazon e Apple lo sono molto di più e persino Facebook – seppure un po’ claudicante – insieme a Google e a tutto il gruppone della Silicon Valley), ma perché occupa una posizione strategica e monopolistica in un uno dei settori europei più delicati: i desktop della pubblica amministrazione, che da solo rappresenta il 30% dei ricavi dell’Information Technology in Europa. L’attività di lobbying intrapresa da Microsoft ha naturalmente bypassato i diversi stati nazionali concentrandosi su Bruxelles, anche se poi gli esiti di tale campagna è a macchie di leopardo.Ecco come la situazione viene riassunta da Martin Schallbruch, fino al 2016 capo del servizio informatico del governo federale tedesco:

“Il lock in delle amministrazioni sarà un tema molto serio nel futuro, se non si agisce con investimenti importanti i nostri Stati rischiano di perdere il controllo sul proprio sistema informatico. È una questione di sovranità”.

La Microsoft ha annunciato di sospendere il sistema di sicurezza di tutti i computer delle amministrazioni pubbliche, se i governi non si affrettavano a sostituire il vecchio Windows XP con Windows 7. Non c’era possibilità di negoziare. Risultato: solo per un anno il governo olandese ha dovuto sborsare 6.5 milioni di euro per un software di protezione del suo vecchio sistema operativo, prima di migrare verso il nuovo modello Microsoft. Lo stesso hanno dovuto fare le altre amministrazioni europee. Il problema si ripresenterà nel 2020, quando Microsoft aggiornerà i suoi sistemi operativi Windows. Perché l’amministrazione pubblica dei nostri Paesi è incatenata ai programmi Microsoft. Gli esperti lo chiamano “vendor lock-in” essere legati a un solo venditore. I documenti sono tutti formattati con Windows. Diego Piacentini, il commissario voluto da Renzi per digitalizzare l’Italia, manager in aspettativa di Amazon, spiega:

“Nella Pubblica amministrazione italiana ci sono tanti servizi che non sono utili e non si parlano tra loro. Il vero problema oggi è la mancanza di operabilità e questa la puoi ottenere non solo con open source, ma anche con un altro applicativo proprietario”.

Ma se si continua a investire in software e nuove applicazioni (l’anagrafe unica, le fatture on-line, i documenti on line) che si agganciano sempre al sistema operativo Windows, della Microsoft, non se ne uscirà più.

“La Pubblica amministrazione non può e non deve essere ricattabile”, dice Flavia Marzano, Assessore IT al Comune di Roma, una lunga carriera come professore di Tecniche per l’Amministrazione Pubblica.

Devo avere il controllo sul software che controlla i dati dei miei cittadini”.

Tutto vero e di buon senso: ma che si fa allora? Lo capiremo meglio fra poco. Difficile, invece, comprendere se la strategia di Microsoft sia stata semplicemente dettata da ragioni commerciali e di realizzo oppure anche da una qualche velleità politica (diretta o eterodiretta) di controllo sulle amministrazioni e indirettamente su tutto il comparto politico e militare; né si capisce da questi dati se da parte degli stati europei e di Bruxelles si sia agito più per incompetenza che per connivenze o corruzione. Sappiamo però che il problema è sul tavolo dal 2013 e che nel 2020:

“… firmeremo con la Microsoft, stiamo valutando le alternative, ma per il momento non ce ne sono, non possiamo bloccare tutto il sistema”,

ha detto a Bruxelles Gertrud Ingestad, direttrice generale per le infrastrutture digitali. Corruzione, connivenza, incapacità di decidere su basi competenti? Probabilmente un mix, dal momento che l’alternativa invece esiste e si chiama open source, software libero: chi sviluppa i codici li mette a disposizione della comunità, basta scaricare gratuitamente un programma e poi cercare l’assistenza sul web o pagare dei professionisti. Il paradosso è che Google, Facebook e Skype (che appartiene a Microsoft) usano il sistema a codice aperto Linux. La stessa cosa per il controllo del traffico aereo europeo, per gli uffici fiscali di mezza Europa (ma non in Italia), per la Marina olandese. Dai dati emerge una prima constatazione, anch’essa ovvia: non esiste una politica europea comune su questo come su un po’ tutto e ognuno di arrangia come può. In questo contesto i soli a prendere l’iniziativa in Italia sono stati i militari su iniziatica del generale Camillo Sileo che tre anni fa, in spirito di spending review, ha proposto ai suoi superiori di tagliare il costo delle licenze Microsoft, 28 milioni di risparmi in 4 anni. Il ministero della Difesa ha accettato. Microsoft non l’ha presa bene: si racconta che il Capo del servizio commerciale della Microsoft sia volato da Redmond per impedire questa migrazione, ma niente.).

Abbiamo scoperto che solo il 15 per cento degli utenti usa appieno Office, cioè WordExcell e Power Point, per il resto il desktop è come una macchina per scrivere. Non c’era quindi bisogno di pagare tutte queste licenze”.

Libre Difesa: da settembre 2015 ad oggi sono stati cambiati 33.000 computer, si arriverà a 100.000 nel 2020. E nei tre corpi della Difesa, l’Esercito, la Marina e l’Aviazione.

“Abbiamo preparato questa migrazione con l’aiuto di Libre Italia, un’associazione no profit che diffonde l’open source nella Pa italiana”.

Dietro al generale Sileo, per sei mesi, c’era l’occhio attento di Sonia Montegiove, presidente di Libre Italia, un’informatica della Provincia di Perugia. Sileo mostra due schermi con i due software da lavoro, Office e Libre Office. “Sono uguali”. Solo che uno costa 280 euro a utilizzatore, ogni tre anni, l’altro è gratuito e lo posso cambiare come voglio. Sonia Montegiove spiega che altre Pa italiane sono passate a Libre Office: “I comuni di Bari, Verona, Trento, Assisi, Norcia, Todi, la Provincia di Perugia e il consiglio regionale dell’Umbria. Alcuni altri hanno migrato, ma non vogliono farlo sapere, per paura della Microsoft”.

In Italia il codice per l’amministrazione digitale o CAD, esiste dal 2005 ed è stato riveduto già tante volte. Però l’impianto resta:

Le pubbliche amministrazioni acquisiscono programmi informatici, dopo una valutazione comparativa tra (nell’ordine): “software sviluppato per conto della pubblica amministrazione; riutilizzo di software sviluppati nella Pa; software libero o a codice sorgente aperto; software fruibile in modalità cloud computing e software di tipo proprietario”.

Prima il software libero e poi quello proprietario. Peccato che non ci siano sanzioni, né incentivi. E dunque chi si avventura verso l’open source, rischia di scontrarsi con Microsoft. Nella provincia di Bolzano per quattro anni un’equipe di quattro funzionari ha lavorato a tempo pieno al viaggio verso Libre Office: si risparmiavano 500 mila euro di licenze il primo anno e 1 milione ogni anno successivo. Ma nel 2014 cambia la giunta e il 12 aprile 2016 viene approvata una nuova delibera in cui si annuncia un contratto con la Microsoft, 5,2 milioni su tre anni per andare sul Cloud (il software O365). Delibera votata dopo aver chiesto a una società “indipendente”, la Alpin di Bolzano, di dire la sua tra Libre Office, Google a sempre Microsoft. La Alpin, che nel suo sito fa promozione di prodotti Microsoft e chiede a chi cerca lavoro di saper usare i suoi programmi operativi, in sei giorni e con un compenso di 12 mila euro, conclude che ormai è un’esigenza andare sul cloud, quindi meglio restare con la Microsoft. Ma lo stesso responsabile IT, Kurt Pöhl, nella delibera di aprile ammette: “La banda non è pronta a sopportare una tale migrazione verso il cloud”. Intanto da maggio 2016 la Provincia versa 150 mila euro al mese nelle casse della Microsoft per un programma non ancora installato. Nella Regione Emilia Romagna la Microsoft ha dovuto essere più generosa: a ogni utilizzatore in regione sono state date quattro licenze in più, da usare privatamente, più cinque licenze per smartphone e 5 per tablet. E un nuovo contratto è stato firmato. Dobbiamo pensar male?

“La nostra priorità non è fare la guerra a Microsoft”, risponde l’onorevole Paolo Coppola (Pd) – stia tranquillo onorevole Coppola, non ne dubitiamo NDR – presidente di una Commissione parlamentare d’inchiesta che dovrebbe dirci come vengono usati i 5,2 miliardi che ogni anno la pubblica amministrazione spende sul digitale. “Noi dobbiamo insegnare agli italiani ad usare un computer. Se i big ci possono aiutare, ben vengano”.

Ma quanto si spende per le licenze? Nessuno lo sa. Né in Italia, né in Germania, in Francia, in Portogallo. La pressione sui dipendenti Microsoft è altissima, ogni tre mesi ricevono una graduatoria sulle loro prestazioni. “Se per due anni non vai bene, ti propongono un pacchetto di soldi, ma ti mandano a casa”, ha raccontato un impiegato italiano. “Le licenze vengono fatturate dall’Irlanda, da noi tutto si concentra sulle vendite, sulla lobby”.

Questa è la situazione in Europa ricostruita in un’inchiesta del fatto Quotidiano:

La potenza politica della Microsoft è evidente. Nel Regno Unito i suoi finanziamenti ai partiti politici sono pubblici, ma un ex-consulente IT dell’ex premier Cameron, Rohan Silva, ha rivelato le minacce della società americana al governo conservatore: niente fondi in caso di passaggio all’open source. In Portogallo, il giovane manager Microsoft Mauro Xavier è stato scelto dal capo del partito conservatore Pedro Coelho come capo della sua campagna elettorale nel 2011, per poi tornare in azienda dove oggi è a capo dell’Europa orientale. E continua a consigliare i governi portoghesi sulle migliori scelte in materia digitale. In Francia Investigate Europe ha trovato almeno cinque impiegati al ministero degli Interni e della Difesa, membri dello staff del ministero, con regolare indirizzo mail e telefono fisso, ma pagati da Microsoft e con un profilo da consulenti o venditori dentro l’azienda americana. Roberta Cocco è assessore al comune di Milano per la trasformazione digitale: in Microsoft dal 1991, ex direttore del Marketing in Italia e ha quasi quattro milioni di dollari in azioni Microsoft, per ora congelate. In Italia, come in molti altri Paesi, i prodotti Microsoft vengono venduti attraverso delle gare pubbliche della Consip (società del ministero del Tesoro, azionista unico). Ogni due anni in media la Consip apre un bando chiamato “Enterprise agreement per prodotti Microsoft”, la concorrenza è già tagliata fuori. Chi li vince? A ruota la Telecom o Fijutsu che rivendono dunque software, hardware e servizi della società americana. Una volta firmata questa Convenzione, le Pa non hanno più bisogno di andare a gara, firmano contratti sulla base dell’accordo Consip: 5 milioni qui, 10 là, i soldi vanno tutti in Irlanda da dove la Microsoft fa partire le fatture per le licenze. Abbiamo chiesto a vari avvocati in diversi paesi europei se lanciare bandi per una sola società, fosse in linea con le norme europee sugli appalti pubblici. “Non aprire ad altri fornitori è una chiara violazione della direttiva Ue sugli appalti”, risponde Matthieu Paapst, un avvocato olandese tra i massimi esperti in materia. “Il problema è che la Commissione europea è la prima a non rispettare le regole, firmando contratti con la Microsoft senza un bando pubblico”. “Cominciare una causa costa tempo e denaro”, spiega Marco Ciurcina, un avvocato torinese che nel 2006 vince una causa contro il ministero del Lavoro che voleva acquistare 4,5 milioni di licenze Microsoft. L’associazione Assoli riuscì a far bloccare l’acquisto per non rispetto della concorrenza. L’avvocato Ciurcina oggi però pensa ad altre soluzioni: “Non si può cambiare il sistema per vie legali. Deve cambiare la consapevolezza politica”. Microsoft non ha mai voluto rispondere alle nostre richieste d’interviste, nè dalla sede europea, né da molte sedi nazionali, tra cui l’Italia.

Cosa è cambiato nella politica di Microsoft negli anni successivi a questi dati? Poco o nulla se non l’aumento dei prezzi dei servizi cloud e poco altro. La sola vera novità sembra essere l’accordo del maggio  2024 con gli Emirati Arabi Uniti potrebbe trasferire all’estero chip e tecnologia chiave degli Stati Uniti e al tempo stesso un alleggerimento dei rapporti con la Cina e un rafforzamento della presenza in Giappone.

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AMAZON

Da: it.businessinsider.com

“Gli incredibili dati che rivelano le mostruose dimensioni raggiunte da Amazon”

Da: ilsole24.com

mar 2018 – Amazon spiegata con cinque grafici

Apple (Stati Uniti): 959 miliardi di dollari:

Mappa diffusione iOs e Android

ALPHABET

it.businessinsider.com › la-societa-un-tempo-nota-come-google-e-molto-…

  1. luglio 2018 – E mercoledì 11 luglio il ramo per la ricerca e lo sviluppo di Alphabet, X, ha … dai palloni aerostatici per la diffusione di internet alle macchine a guida autonoma … Google è diventata ufficialmente Alphabet nell’ottobre del 2015, con la … che volino ininterrottamente per anni
  2. diffondendo internet per il mondo.

Fonti: Forbes, Il fatto quotidiano, Multiplayer.

Alcune deduzioni che si possono trarre da quanto detto sopra le vedremo nel capitolo conclusivo di questa prima parte; per avere un quadro esaustivo rispetto agli interrogativi posti nella premessa, è infatti necessario capire prima come Microsoft si muove negli altri contesti geopolitici.

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La politica di Microsoft in Estremo Oriente

I riferimenti che seguono danno un quadro sufficientemente ampio dell’espansione di Microsoft in estremo oriente:


Microsoft vuole una nuova divisione Xbox Asia incrementare la …

Sembra che Microsoft abbia intenzione di tornare a concentrarsi anche sul … in estremo oriente di Phil Spencer per questioni di sviluppo della divisione Xbox. I grandi sempre più verso l’Estremo Oriente – Punto Informatico

www.punto-informatico.it › i-grandi-sempre-pi-verso-lestremo-oriente

Microsoft progetta di aprire il primo centro di sviluppo per MSN in Cina, Sony Ericsson sposterà il grosso delle proprie produzioni in India.


Touchscreen – Ordine record di Surface per Microsoft – Focus.it

www.focus.it › tecnologia › microsoft-surface-diventa-un-karaoke-bar

Microsoft festeggia il capodanno cinese con otto Xbox One …

www.everyeye.it › Scheda Xbox One › Notizie


1     Il valore azionario non viene indicato perché varia di giorno in giorno ed è facilmente reperibile in rete.

DI EPICA NUOVA AL SALOTTO GALZIO

Vi confermo l’appuntamento di martedì 8 ottobre, ore 17.00, per una serata di letture e scambi all’insegna di “Poesia e ricerca nel mare che ci spetta”. Questo, il titolo scelto dai due curatori, Paolo Rabissi e Franco Romanò, dell’antologia di epica nuova appena uscita, cui sarà affidata anche la conduzione della serata, al fine di presentare al meglio l’antologia e gli autori antologizzati presenti.

Personalmente, ritengo che questa antologia, che porta come sottotitolo “laboratorio di poesia critica”, abbia il pregio di invitare a confrontarsi sull’epica a un livello più alto, quello della teoria letteraria e della sua messa in discussione.

DUBBIO E VERITÀ

Premessa

Anni fa fui invitato al festival della letteratura di Alessandria. Partecipai con qualche perplessità dal momento che il tema era di carattere filosofico. Alla fine decisi di farlo. Quella che segue è la trascrizione scritta del mio intervento. Non ho cambiato nulla, anche se oggi il finale meriterebbe ulteriori riflessioni alla luce di quanto sta succedendo a Gaza.

Filosofia e poesia

Il tema che avete proposto è filosofico e la filosofia è stata per migliaia di anni la scienza della verità secondo una nota definizione aristotelica. Sempre Aristotele diceva che: verità è dire le cose come stanno. La frase, o meglio la sentenza, non lascia margini al dubbio: è apodittica, come è nel suo stile dogmatico. Non vi è alcuno spazio, in essa, per il dubbio nel senso moderno, cartesiano e post illuministico che noi diamo a questa parola: qualora esso fosse espresso, lo sarebbe in modo tale da essere un altro darsi della verità.

Per la nostra civiltà occidentale la filosofia è stata per oltre due millenni la lingua in cui la verità poteva essere detta. Tanto è vero che la religione cristiana ha dovuto inventare la teologia, cioè la filosofia applicata alla divinità, per parlare della propria verità; il che è una limitazione in sé e un’involontaria ammissione che il solo modo di parlarne nel contesto occidentale fosse proprio quello, nato peraltro in un contesto pagano.

Perché, allora, mi sono chiesto, una domanda filosofica rivolta a poeti, scrittori e critici, per di più in un tempo in cui la filosofia non è più la scienza della verità?

Pensando ai rapporti fra filosofia e poesia un nome che mi è subito balzato alla mente è ovviamente quello di Giacomo Leopardi. Se apriamo lo Zibaldone, anche a caso, non passeranno molte pagine prima di trovare spunti filosofici, frasi fulminanti e aforismi. La modernità secondo Leopardi porta con sé come effetto inevitabile un processo di razionalizzazione del mondo che tende a cancellarne il mistero: anche la filosofia ne è travolta, diventa frammentaria. Dalla rivoluzione scientifica del 1600 e con le matematiche sempre più sofisticate, poi con Marx e con la fine del 1800 e gli inizi del secolo scorso, con l’opera di Nietzsche, e specialmente con l’irruzione della psicanalisi, i pretendenti a dire la verità sono diventati molti in Occidente, ma specialmente è venuta meno la possibilità di definire la filosofia come scienza della verità. Allora mi sono interrogato, volendo tenere fede il meglio possibile al vostro cortese invito a partecipare a questo convegno, su che tipo di percorso scegliere.

Naturalmente la morte della filosofia come scienza della verità, sancita da Nietzsche che in fondo della filosofia sistematica fu il curatore fallimentare, non significa di per sé né la morte della verità né il venir meno della necessità di cercarla; ma il punto è proprio questo. Dubbio e verità appartengono entrambi a un contesto culturale: come parlarne al di fuori di quel contesto? Da persona che ha a che fare da sempre con la scrittura poetica, narrativa, letteraria in genere, cosa posso dire su un tema come questo? Ma forse c’è una domanda ancora prima di questa, che occorre porsi anche se si dovesse ritenere positiva la riposta: non è una forma di presunzione tornare a parlare di verità?

Tutto il percorso compiuto dalla cultura occidentale durante il secolo scorso si potrebbe leggere come un cammino dall’andamento schizofrenico, che passa bruscamente dalle certezze assolute all’impossibilità del darsi di una qualunque verità. Se immaginiamo una specie di bilancio del ‘900 scritto secondo i dettami di un bilancio aziendale potremmo mettere sulla colonna delle certezze assolute i totalitarismi politici e nell’ultima parte del secolo, che sconfina nell’oggi, quelli religiosi, scaturiti tutti dall’alveo delle religioni monoteiste e che si definiscono, con un termine per me sempre più ambiguo e inquietante, positive. Sempre dal lato delle certezze assolute possiamo annoverare la tecnologia, ma anche un certo modo di concepire l’economia.

D’altro canto, se mettiamo dall’altra parte della colonna tutti i momenti di incrinatura di queste certezze, avremo un elenco altrettanto ricco. È curioso, per esempio, che il secolo dell’onnipotenza tecnologica e scientifica sia stato inaugurato dal principio di indeterminazione di Heisemberg e, nel 1931 dal teorema di Gödel. La filosofia, caduti i totalitarismi, sembra diffidare di qualsiasi pensiero forte. Il pensiero comune d’altro canto, ha spesso esteso, talvolta equivocandole, alle teorie scientifiche – trasformandole in pure metafore – lo statuto veritativo perso dalla filosofia. Così, per esempio, la Teoria della Relatività (cui peraltro Einstein aveva dato il nome molto meno evocativo di Teoria delle Invarianti), è diventata uno dei secchi per portare l’acqua al mulino del relativismo. Tuttavia, anche il relativismo assoluto è una forma di totalitarismo. Il pensiero debole non ci risparmia dal dominio: solo che invece di essere dominati dalle idee forti siamo dominati dalle sciocchezze, dal mercato, dalle opinioni.

La poesia è stata un altro modo di dire la verità nel senso che veniva delegata ad essa una funzione equilibratrice, di cui i poeti erano il tramite. Alla poesia e anche agli sciamani e poi ai sacerdoti competeva di rappresentare le sentinelle delle paure o delle gioie collettive, oppure di vigilare sulla soglia che separa l’umano dal sacro e anche dal divino. In tempi molto lontani dai nostri, la poesia ha rappresentato la voce più profonda della comunità. La poesia nasce rituale e orale, ma nella modernità essa diviene una specializzazione fra le tante; si è verificata in sostanza la previsione di Leopardi. Oggi, almeno in Occidente, la poesia, ma potremmo parlare dell’arte in generale, è diventata una disciplina, oppure un business nelle mani dei galleristi, dei critici, dei poteri editoriali, dell’industria culturale, di lobbies di varia natura.

Di tutto questo io cerco di darmi una ipotesi di spiegazione che ha poco a che vedere con la poesia o l’arte in senso stretto. Penso che questo fenomeno sia un deja vu e che appartenga per necessità a tutte le civiltà in decadenza. Mi sembra di assistere a un film che ho visto a scuola quando mi parlavano della caduta dell’Impero Romano: tutte le grandi civiltà passano da alcune certezze incrollabili (non molto diverse dai postulati della matematica o della geometria), sulle quali costruiscono il loro edificio storico, e finiscono in un’equivalente di quello che la seconda legge della termodinamica definisce con il termine di entropia. Se così fosse, quale strade si aprono davanti a chi, pur intuendo l’ineluttabilità di questo processo (così come lo intuiva Leopardi), non vuole tuttavia arrendersi al nichilismo o a una rassegnata e passiva accettazione della fine?

Alcuni grandi poeti che appartengono alla nostra cultura, credo si siano cimentatati più di altri con questo nodo gordiano e pur dando risposte fra loro diverse, non hanno cessato di rappresentare un’alterità, minoritaria finché si vuole, ma omeopaticamente resistente nel tempo. Petronio e Rutilio Namaziano sono stati, nella tarda romanità, i maestri di questa resistenza passiva, sebbene al secondo mancasse la consapevolezza che sono sempre i barbari a rifondare le civiltà. Nei nostri tempi moderni Leopardi ha rappresentato e rappresenta ancora un esempio di resistenza di lunga durata. Ripercorrere i suoi grandi idilli e specialmente alcuni di essi (il Canto del pastore errante, per esempio), significa essere di nuovo posti di fronte al limite dell’umano e all’irriducibilità del mistero.

Nel secolo appena trascorso alcuni grandi poeti hanno saputo attraversare la modernità, aprendo orizzonti di superamento: l’Eliot più mistico, non quello minimalista che va di moda in Italia, Wallace Stevens, Wislawa Symborska. Ce ne sono altri, ne cito solo alcuni che conosco meglio per lunga frequentazione e anche per la possibilità (per i primi due), di frequentarli nella loro lingua originale. Ciò che questi grandi della poesia contemporanea hanno in comune è una visione che cerca di andare oltre l’occidente. La fine di una civiltà, o la sua decadenza, non è mai la fine di tutto, ma il compiersi di un ciclo.

I barbari, dicevo, sono sempre stati i rifondatori delle civiltà. Credo che sia vero anche oggi, sebbene sembri che di barbari in senso storico non ne esistano più. Storicamente il barbaro veniva da un altrove sconosciuto. Oggi i luoghi sconosciuti non esistono più e quando l’occidente è invaso da flussi migratori imponenti come accade oggi, chi arriva ha già largamente assorbito valori occidentali, è già occidentale; oppure, come una parte del mondo islamico, reagisce violentemente ma in modo subalterno a un modello culturale verso il quale prova un’inestricabile ambivalenza. Chi sono allora i barbari contemporanei? Mi verrebbe da dire che sono prima di tutto i disertori dalle certezze dell’occidente e gli eterodossi passati attraverso il maglio delle ortodossie. Ciò che mi stupisce di una poeta come la Symborska ogni volta che la leggo, è proprio il suo avere raggiunto una cifra gnostica e sapienziale dopo essere passata attraverso niente meno che l’estetica del realismo socialista. Proprio per avere attraversato questo momento dell’arte europea la sua testimonianza diventa decisiva. E allora uno dei modi per tornare a ragionare sulla verità ci potrebbe riportare, dopo avere percorso strade tortuose, proprio a quella definizione aristotelica così perentoria e autoritaria: la verità è dire le cose come stanno; con una differenza cruciale, tuttavia. Per il filosofo greco equivaleva a dirla in modo filosofico. Per noi potrebbe voler dire testimoniare, raccontare le cose come stanno, riportando il pensiero dentro la testimonianza e non facendone un’entità separata deputata a dire verità assolute inesistenti. È il coro delle testimonianze a dire la verità di un’epoca e forse allora anche la poesia, se la intendiamo in questo modo, può essere di nuovo un modo di testimoniare dove, in un’epoca come la nostra, si colloca il limite che è bene non superare, l’assenza che genera il vuoto che deriva dalla mancanza di senso. Il coro delle testimonianze, tuttavia, implica anche che un percorso di verità, visto come un andare verso, debba a mio avviso liberarsi della gabbia del pensiero unico, che non è superficialmente quello che noi intendiamo oggi, ma che viene da lontano, da una visione della verità che poteva essere detta in un solo modo. E non è un caso che Aristotele fosse scelto come filosofo d’elezione dal cristianesimo: è la reductio ad unum delle religioni monoteiste il primo pensiero unico che va messo in questione. E allora vorrei concludere citando un grande poeta che questa volta, tuttavia, vi proporrò come pensatore. Non è un poeta occidentale, anche se la sua cultura vasta lo porta spesso verso il confronto con la nostra cultura. Parlo del poeta siro libanese Adonis. Quello che egli dice in questo brano si riferisce al Mediterraneo, ma può essere, a mio giudizio, esteso all’intera Europa che cerca oggi in modo alquanto disorientato la propria identità. Dice Adonis:

… la visione monoteista è una dismisura della divinazione. Così il monoteismo si pone agli antipodi della presenza mediterranea: sole, amore, amicizia, vino, carne, piacere, tavola, ospitalità ed è agli antipodi della vita come festa perpetua. Separando dio dalla natura e dall’umano la vicenda monoteista ha separato l’uomo dalla sua natura, dalla natura. Questa separazione esprime il disprezzo della materia per meglio glorificare l’astrazione … Accade oggi che questa visione è essa stessa sulla via di distruggere lo spirito mediterraneo e l’unità fra le due rive. Noi ci ricordiamo bene che l’Europa ha preso il suo nome dalla dea fenicia Europa e che questo nome dipende da un fatto puramente culturale. Cadmo, il fratello d’Europa, andando alla sua ricerca nel paese di Zeus che l’aveva rapita, non era accompagnato dai soldati o da una qualunque armata. Aveva l’alfabeto come solo compagno … La cultura delle due rive del Mediterraneo è oggi antimediterranea, e io non prenderei che un solo esempio per illustrare la mia tesi: Gerusalemme, la città più sacra del monoteismo istituzionalizzato, è ormai una sorta di vai e vieni tra una preghiera quasi cieca e una spada totalmente cieca …

PENOMBRA

Ho appena completato la lettura di Penombra, un romanzo di Uwe Timm pubblicato in Italia qualche anno fa. Di lui lessi un precedente dedicato alla prima vittima degli scontri sociali degli anni ´60 e ´70, lo studente universitario Benno Ohnesorg, ucciso dalla polizia durante una manifestazione Berlino in occasione della visita dello scià di Persia Reza Pahlevi.

Mi aveva colpito di quel romanzo la struttura ad affresco, che si compone sotto gli occhi del lettore poco per volta, attraverso una fitta rete di testimonianze incrociate. I personaggi di Timm vivono nelle parole degli altri, cioè della memoria storica di chi li ha conosciuti e la storia personale s’intreccia con quella più grande, quella tedesca in primo luogo, fino alla caduta del muro.

Lo spunto narrativo iniziale di Penombra  è tanto semplice quanto potentissimo. Il narratore, Timm stesso, che non si nasconde affatto, visita un camposanto accompagnato dalla guida e tutto avviene nell’arco di una giornata compresa negli orari canonici di apertura e di chiusura. Il cimitero non è uno qualsiasi, ma Die Invaliden e cioè il luogo dove stanno sepolti la maggior parte degli eroi, delle eroine ma anche dei dannati della storia tedesca. Generali di campo di Otto von Bismarck si alternano a capi della Gestapo come Heyindrich.

Il narratore e il custode, modernissime incarnazioni di Dante e Virgilio, si aggirano fra le tombe e i morti cominciano a parlare: non solo dialogano con i due visitatori, ma anche fra di loro e i due vivi a loro volta dialogano fra loro. Prende corpo una narrazione corale, dove la barriera fra vivi e morti diventa a ogni riga più labile. Il lettore non sempre capisce chi sta parlando a chi ma è la narrazione corale e frammentaria della storia tedesca ad avvolgerlo che viene ricostruita saltando da una tomba all’altra, da una voce all’altra.

Alcuni protagonisti, però, tornano più di altri, percorrono l’opera intera, scompaiono e ricompaiono: una fra tutte, Marga von Etzdorf, che fa parte di  quella schiera di donne temerarie, protagoniste dell’emancipazione femminile a cavallo fra ´800 e ´90: antropologhe, scrittrici viaggiatrici come Karen Blixen, esploratrici, scalatrici. Lei è un’aviatrice, fra le prime donne a sorvolare gli oceani e a saltare in aereo da un continente all’altro. Il volo aereo è  un altro dei temi che corrono nelle vene del romanzo: il volo fisico, quintessenza del futurismo, della potenza umana di divorare lo spazio. Marga fu la prima tedesca a sorvolare l’Atlantico e la sua fu una vita avventurosa e tormentata. Insieme a lei un altro protagonista Dahlem, ex pilota di caccia della Prima Guerra Mondiale. Si conoscono in Giappone dove lei è atterrata dopo un volo rocambolesco. Il loro è  uno strano rapporto. Dormono nella stessa stanza la sera stessa del loro primo incontro, ma separati da una tenda: si raccontano per una notte intera le loro vite.        

Da una tomba all’altra emerge un altro tema di fondo: il fascino che i tedeschi hanno per la cultura giapponese. È qualcosa che viene prima dell’alleanza fatale durante la seconda Guerra mondiale, affonda in un sentimento comune difficile da decifrare. Agli Invaliden sono sepolti anche dei giapponesi e a volte parlano, recitano degli aiku. Infine, la Shoa, il nazismo con tutto il suo carico di tragedia.

La narrazione, naturalmente – e non potrebbe essere diversamente da così in un romanzo come questo – non segue la lettera degli eventi, ma li mescola, salta temporalmente dalla Germania guglielmina alla DDR: dipende dalla tomba del momento. Romanzo polifonico che trova nella partitura musicale uno dei suoi modelli strutturali: sembra proprio di ascoltare una sinfonia. Il prologo, i temi annunciati per intero nelle prime 50 pagine del libro, vengono ripresi continuamente con continue variazioni, cambi di ritmo anche se il tono di fondo è dolente, mai retorico. Solo quando ricostruisce certe atmosfere militari, specialmente riguardanti la Prima Guerra Mondiale, il linguaggio si fa più aspro e amaro: quando per esempio descrive il riposo dei guerrieri fra bordelli e feste surreali, alcol e altro, prima del combattimento. Non mancano siparietti comici e grotteschi: la morte del conte Von Hüslen Haersilz aiutante generale dell’Imperatore, morto nel guardaroba della principessa di Fürstenberg!

E di nuovo Marga e Dahlem a inseguirsi fra un continente e l’altro senza che nulla accada fra di loro. Il volo del loro possibile amore sublimate in una frase che lei ripete sempre e cioè che:

… il volo vale la vita …

Se così è, Marga la perde nel modo peggiore anche se il motivo del suo suicidio rimane alla fine oscuro. Sono tre gli incidenti di volo nei quali si è imbattuta, uscendone sempre illesa sul piano fisico o quasi: l’ultimo le costa però l’ostracismo dell’ambiente: nessuno vuole più darle un aereo. Il tempo passa fra un incidente e l’altro e Marga poco prima del 1933 viene contattata dai nazisti; in lei vedono una grande risorsa.

Finora hai volato per te stessa… ora volerai per la Germania, per la riscossa del nostro popolo.

Lei aderisce, ma fino a che punto? Non si sa. Certo che loro ne sono convinti. Pare che Hitler, ormai assediato nel bunker, abbia persino detto:

Se i tedeschi fossero stati tutti come Marga i russi non sarebbero arrivati a Berlino.

Leggenda o meno, lei finisce prima della grande tragedia finale, in modo più prosaico. Commette quello che sembra essere il solo errore veramente imperdonabile per un pilota: atterrare con vento a favore. È questo atterraggio pericoloso che le costa lo sfascio del velivolo. Si salva, ma qualcosa dentro di lei si rompe oppure si era già di fronte al rifiuto di Dahlem di una relazione con lei, oppure a fronte della responsabilità troppo grave che i nazisti vogliono caricarle addosso. Si spara nella toilette dell’albergo dove era stata ricoverata dopo l’incidente e siamo proprio nel 1933. 

IL FESTIVAL FUORI ASSE A MILANO

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Ci vediamo all’Anfiteatro Martesana.

Il prossimo weekend a Milano c’è un appuntamento imperdibile (e gratuito, il che non guasta mai, signora mia): il festival di circo contemporaneo Fuori Assedel quale quest’anno siamo presentatrici ufficiali, dj, formatrici, spargitrici di lacca ecologica e majorettes!

Se desideri, puoi partecipare al secondo incontro del laboratorio intensivo Drag (Con)Fusion, sabato 21 settembre dalle 10 alle 14.

Qui sotto trovi tutte le informazioni.

Ti aspettiamo al festival!

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Dal 20 al 22 Settembre 2024 arriva la terza edizione di Fuori Asse Festival a cura di Quattrox4 in collaborazione con noi e Cascina Martesana.

Sono 3 giorni di festa all’aperto all’Anfiteatro Martesana, tra spettacoli di circo contemporaneo, musica e laboratori creativi.

Noi saremo le “fate madrine” delle serate, presentando gli spettacoli e accogliendo il pubblico in questo colorato mix di saperi scenici e incontri.

In particolare, sabato 21 condurremo un laboratorio (vedi qui sotto) e cureremo il dj set serale palleggiandoci la consolle con TURBOLENTA.

Trovi qui il programma completo delle attività del festival.
Sono tutte gratuite e (salvo che per i laboratori) non è necessaria prenotazione.

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Durante il laboratorio proveremo a lasciarci ispirare dalle sonorità e dalle diverse lingue già presenti nel Parco della Martesana, per tracciare collegamenti e visioni, tra cover inedite e una sapiente (si spera) invasione dello spazio!

Costruiremo un’azione collettiva drag, che verrà presentata all’Anfiteatro Martesana, per aprire la Serata Spaccatacchi, il nostro dj set!

Il laboratorio è aperto a persone di ogni età, etnia, genere e esperienza.

Quando: sabato 21 settembre 2024
Dove: Giardino Nascosto (Cascina Martesana)
Orari: workshop dalle 10 alle 14

+ ritrovo alle 20 per prepararsi per la performance alle 22 circa

Il laboratorio è gratuito previa prenotazione a: info@ninasdragqueens.org

L’ANIMALE PERTURBANTE: UNA RIFLESSIONE SU TRA UOMINI E LUPI DI VINCENZO PARDINI.

Questo riflessione critica fu pubblicata anni fa sulla rivista Il Cavallo di Cavalcanti quando il libro era da poco uscito. Vicenzo Pardini continua a essere per me un autore importante nella narrativa italiana contemporanea.

Amare gli animali può fare soffrire. Persiste in loro quanto noi abbiamo perduto di sacro. Tanto più allorché si tratta di animali che ci sono alleati e che, insieme a noi, [1]hanno contribuito alla storia dell’umanità1.

È un mulo il protagonista di questo racconto, l’ultimo di un libro affascinante, con il quale Vincenzo Pardini si conferma autore forte e appartato, come appartati e forti sono i luoghi nei quali ambienta le sue opere: l’Appennino toscano dall’Abetone alla Garfagnana, una zona d’Italia che non fa notizia in senso mediatico.

I protagonisti sono pastori d’altura, greggi, cani di varia natura, lupi, contadini che sembrano venire da un tempo arcaico anche se possiedono il cellulare e sono pienamente immersi nel nostro presente, donne inquiete, ubriachi da vecchia osteria e balordi come il Nandaccio (protagonista del racconto omonimo), insieme a qualche extracomunitario dell’ultima ora.

Su tutto questo però dominano gli animali, sempre presenti anche quando non sono in primo piano.

In questo mondo di fatica e forti emozioni, Pardini mette in scena quello che definirei un teatro dell’analogia. I protagonisti che si muovono su questo ideale palcoscenico sono alcune specie viventi, fra cui quella umana, ma i racconti di Pardini non si ricollegano alle tradizioni illustri dei bestiari in narrativa o nella cinematografia: Esopo e La Fontaine sono lontani, e ancora di più lo è Walt Disney.

Gli animali di Pardini, infatti, non sono antropomorfi, non rappresentano per mimetismo i vizi umani, né vengono presi a prestito per intenti moraleggianti. In che cosa consiste allora la differenza e il fascino di questi racconti? Prima di tutto nel fatto che lo scrittore toscano sa cogliere come pochi la traccia animale, a volte inquietante a volte imbarazzante, a volte commovente, che ci fa, in alcuni momenti e per alcuni tratti, simili a loro. Il gioco messo in scena è dunque quello della somiglianza e del rispecchiamento, che tuttavia rimane parziale: loro non sono noi e noi non siamo loro, perché questi animali solo in alcuni casi sono davvero e completamente domestici. Tuttavia, appartenendo a un’unica natura, a volte accade che ci si sfiori e quando ciò avviene e riguarda un animale come il mulo, così fratello nella fatica che accompagna dal millenni l’agricoltore e la sua terra, ecco che sembra quasi di potersi scambiare i ruoli, di sentire fino in fondo la sofferenza dell’altro come nostra e di potere immaginare che accada la stessa cosa anche a lui. Oppure succede che ci si capisca o ci si scontri su questioni di vita quotidiana. È ciò che succede anche con il cane Lotar, in Ritratto di cane.

L’animale viene rimproverato dal padrone perché, pur essendo adulto, si comporta in modo strano: trancia il nailon che ricopre delle travi in cantina, oppure le funi. L’uomo attribuisce il comportamento alla solitudine, dal momento che la sua compagna Lusca è morta di vecchiaia da poco tempo. Solo dopo qualche giorno l’uomo si rende conto che i suoi gesti sono dovuti ad altro. In cantina, infatti, si sente un olezzo molto forte, proprio dietro le travi su cui Lotar richiamava l’attenzione proprio lacerando i rivestimenti che le ricoprono. Dopo una breve indagine salta  fuori la carogna di una gatta che era scomparsa da qualche tempo e che era andata proprio lì a nascondersi per morire.

Era andata a morire nella stanza di Lotar, a farsi vegliare e assistere da lui. Che adesso, venutomi accanto, m’interrogava e mi rimproverava con gli occhi: uno sguardo fermo e vivido che mi fissava incessante. Chi di noi – chiedeva – aveva ragione? Lo accarezzai, ma non scodinzolò. Aveva parlato e non voleva aggiungere spiegazioni. I veri duri non sono molto loquaci2.

In altri casi l’animale riacquista in pieno la sua valenza misteriosa e magica che aveva per gli antichi, incarnando il presagio di un destino di cui diviene messaggero. È così per Il ghigno della lupa.

Fin dall’inizio aleggia su questa storia un fato che incatena i personaggi, a cominciare da Ginesia, la figlia bellissima e inquieta di Ovidio Calmassi e della moglie Almira. La ragazza subisce tutti i richiami e le contraddizioni di una generazione di cui anche lei fa parte, nonostante l’isolamento delle montagne in cui vive; fa la pettinatrice in una cittadina della vallata, dove spesso pernotta presso Graziana, la quale a sua volta è pesantemente corteggiata da Alì, un marocchino che vende prodotti nella zona. I genitori di Ginesia, d’altro canto, soffrono delle stesse incertezze e sensi di colpa di quelli che abitano la grande città. Temono di non averla saputa educare, s’interrogano, ma lo fanno con amore, senza pregiudizio, capaci di accettare la vita raminga e assai trasgressiva di Ginesia che condivide con Graziana un rapporto che sconfina dalla semplice amicizia, per quanto intensa.

La vita della famiglia di pastori è stata difficile negli ultimi tempi, a causa delle continue aggressioni da parte dei lupi: i cani hanno il loro daffare a custodire le pecore e talvolta ne escono malconci. Un giorno si sono tutti allontanati, hanno fiutato il branco e così Ovidio li va a cercare. S’imbatte poco dopo nei lupi che hanno già fatto qualche preda e in particolare in una lupa con tre cuccioli, che non si accorge di lui finché non suona il cellulare dell’uomo: è la moglie Almira che lo avvisa che Ginesia è venuta a trovarli e che i cani sono tornati. Allo squillo, la lupa s’accorge dell’uomo e ghigna verso di lui in modo sinistro, senza tuttavia fare altro.

Ovidio ritorna e sollecitato dalla continue domande delle due donne racconta la sua avventura, nonostante non gli andasse di parlarne perché

L’incontro coi selvatici l’aveva lasciato di malumore 3.

Il racconto, sempre più incalzante, suscita un interesse crescente in Ginesia:

Quanti erano?” incalzò Ginesia.

Una lupa e tre cuccioli, disse sedendosi davanti il televisore.

E i cuccioli com’erano? chiese compiaciuta.

Erano animaletti di tre, quattro mesi non diversi dai piccoli di cane, spiegò lui.

Mi sarebbe piaciuto vederli, aggiunse, con tono fintamente turbato, la ragazza.

Gli si era seduta davanti. Indossava l’accappatoio, aveva le gambe nude e i capelli neri splendenti come la madre … Sembrava una pellerossa, con un che di misterioso e selvaggio, come quando sorrideva e mostrava i denti bianchi, tra labbra carnose e mascelle un poco pesanti … Chissà perché ebbe la sensazione che, fra lei e la lupa del Circasso, ci fosse qualche analogia4.

L’analogia si presenta a Ovidio come un lampo improvviso, il selvaggio ricompare inquietante in ciò che è umano e vicinissimo, una figlia addirittura: non la lupa di Verga, ma piuttosto il Perturbante, che era già comparso, tuttavia, nello sguardo ambiguo del padre sulla figlia.

La vita sembra proseguire normalmente finché una sera, mentre Ovidio è seduto davanti al televisore, sul quale scorrono le immagini dell’Italia di oggi, la moglie è in cucina e Ginesia e Graziana se ne stanno in camera loro, l’ululato della lupa fa trasalire l’uomo un’altra volta; fuori però non vi è nulla ma la casa è come circondata dagli animali. Infatti, al risveglio avvertono un tramestio e trovano Graziana e Ginesia con un cucciolo di lupo trovato al bordo della strada, ferito. Le due donne decidono di tenerlo, nonostante la legge imponga di denunciarlo alla forestale, non intendono ragione. Ginesia reagisce con violenza alle rimostranze del padre, minacciandolo in modo molto grave:

In polizia ho un’amica molto intima. Se tu fai scappare il cucciolo, ti denuncio. Dico che hai abusato di me. Le donne, come saprai, in questo sono credute. Hai capito? 5

La frase della ragazza è del tutto sproporzionata, oppure apre uno scenario nuovo ambiguo, inquietante. Il padre Ovidio reagisce con disperazione all’accusa infamante ma non sa cosa fare; la sua debolezza di reazione, tuttavia, non sembra quella di un imbelle, ma piuttosto la resa a un destino immutabile, tragico nel senso greco del termine.

La vita sembra proseguire come sempre, con il suo tran tran quotidiano, ma la catena che stringe tutti i personaggi in un ingranaggio implacabile continua a muovere il suo ingranaggio: il corteggiamento sempre più insistente di Alì nei confronti di Graziana, l’attenzione che le due donne e in particolare Ginesia rivolgono al cucciolo di lupo, la presenza della lupa che ogni giorno viene a reclamare il suo cucciolo senza mai assumere però atteggiamenti aggressivi nei confronti di Ginesia, come se fra le due femmine si fosse instaurata una sorta di complicità sottile che esclude però tutti gli altri. L’improvvisa scomparsa di Graziana accelera fino al tragico epilogo il ritmo incalzante della vicenda, che si chiude con la liberazione del cucciolo e l’ennesimo ghigno della lupa, una specie di coro greco in forma animale che commenta i fatti accaduti senza alcun giudizio.

In Costagrande i protagonisti sono un gruppo di uomini e donne di paese, lo scenario d’apertura è un giorno di festa e di chiacchiere al bar. Gli animali entrano presto in scena sia nella conversazione degli uomini (un gallo da combattimento ferito), sia concretamente quando dalla strada arriva un mulo montato da Casimirro, che si trascina dietro un becco e cioè un caprone da monta di nome Costagrande, che segue e si trascina per la strada, abbacchiato come se fosse un prigioniero. Da un’osservazione ironica all’altra il discorso scivola sulle somiglianze fra esseri umani e animale. Al becco di Casimirro, oltre che possedere un istinto sessuale molto forte, piace lottare con gli uomini e li sfida. Un giorno il protagonista e narratore in prima persona del racconto, si batte con lui e lo atterra attirandosi la simpatia degli amici da bar con i quali va poi a brindare, scherzando insieme agli altri sulla somiglianza fra lui stesso e il caprone. L’uomo, però, si rende anche conto che l’odore forte dell’animale gli è rimasto addosso, anche sui vestiti. Cerca di lavarli in continuazione finché sembra essere scomparso, anche se:

L’odore scomparve in apparenza insinuandosi nel sottocute. Non sapevo più di pesce crudo e vivo, appena sventrato, bensì di sesso giovane e umido 6.

La vita dell’uomo e quella del caprone proseguono parallelamente: Costangrande, nonostante fosse stato portato alla monta delle capre in estro, è sempre più insofferente alle regole, cerca di scappare dai recinti per andarsene nel bosco e inseguirne altre, tanto che spesso il suo padrone o altri paesani devono intervenire per contenerlo e non suscitare l’ira di altri proprietari. Capita di nuovo anche a lui di doverlo fare, uscendone questa volta sconfitto e atterrato dall’animale; e a ogni nuova lotta di nuovo l’odore gli si attaccava addosso.

Una sera in cui s’incontra con una giovane ragazza che da tempo corteggia inutilmente, l’uomo si rende conto che qualcosa sta improvvisamente cambiando e che l’attrazione che da tempo prova per lei sta per essere ricambiata. S’allontanano in auto e fanno l’amore sul greto del fiume in modo selvaggio e a cose fatte lei si rivolge all’uomo con queste parole:

Quanto sei fico. E che buon odore ha la tua pelle!7

L’uomo trasale perché comprende che l’odore non può che essere quello del becco, ma non se ne sente turbato più di tanto. I loro incontri proseguono anche se la donna sta per sposarsi con un altro, ma ciò che accade a loro due non è altro che il prodromo a una serie di altri corteggiamenti amorosi. In una girandola quasi shakespeariana che ricorda i giochi e gli equivoci divertenti e imbarazzanti del Sogno di una notte di mezza restate, la girandola di walzer amorosi coinvolge molti altri in paese:

Fu un’estate insolita. In fatto di sesso, esseri  umani e capre sembravano contagiarsi a vicenda8.

La girandola di relazioni clandestine crea risse tragicomiche, addirittura il ricorso ai carabinieri. Quanto al becco, aveva ripreso le sue scorrerie nei boschi, lottando con gli altri maschi per inseguire le capre selvatiche, dandosi sempre più alla macchia fino alla scomparsa. Casimirro e altri uomini, fra cui il protagonista-narratore decidono, fucile in spalla e insieme ai cani, di andarlo a cercare. Guardinghi per non farsi trovare armati dalla guardie forestali, ingannavano il tempo con il racconto di eventi trascorsi: primo fra tutti il ricordo del colera del 1854, che aveva funestato quelle terre, fino al lucchese. Finalmente scorgono il becco in lontananza, il muso fra due rocce; decidono che non è il caso di abbatterlo, né di cercare di raggiungerlo. Con l’inverno di lui si perdono le tracce, Casimirro pensa che con le prime nevi se ne tornerà all’ovile e invece non accade e tutti lo danno per morto. Invece l’animale si fa vedere sempre in lontananza, irraggiungibile; ritorna persino all’ovile ma non vi entra, con il suo belato particolare che assomiglia a un flauto, attira le capre che gli vanno incontro e fugge di nuovo nella macchia. Tutto il paese ne parla e sul caprone cominciano a fiorire le leggende, nutrite anche dai racconti di qualcuno che sa leggere i classici antichi e ricorda che i caproni possono essere la reincarnazione di un dio pagano … Passa un’altra estate e i pastori che tengono i greggi solo in altura si rendono conto che le loro capre danno alla luce cuccioli ben più resistenti, che assomigliano a Costagrande. Il povero Casimirro, che aveva comperato l’animale per migliorare la sua razza di capre, scopre così di avere lavorato per il re di Prussia; è il becco a guidare il gioco misterioso e a prendersi gioco degli uomini e al tempo stesso attirandoli a sé come fa con le capre. Finché un giorno d’estate il narratore s’imbatte improvvisamente in lui che se ne sta tranquillamente pascolando. Lo chiama e il caprone lo guarda e si lascia avvicinare; è ormai abbastanza vecchio e dal belato che cerca di emettere l’uomo si rende conto che anche per lui il tempo sta passando. Tuttavia si muove e l’uomo decide di seguirlo:

Zoppicando si volse e, con la leggerezza di un’ombra, s’inerpicò nell’erta di sassi e sterpi. Lo tallonai fino alla cima, ossia al valico del più impraticabile degli scoscendimenti rupestri che mi sia mai capitato di vedere. Un precipizio. Lo discese candeggiando fra rocce avvolte d’azzurro. Tornai indietro spaventato. M’era parso d’avere attraversato il confine di un sogno 9.

Lupi tibetani

[1]


1              Vincenzo Pardini, Tra uomini e lupi, peQuod, Ancona 2005, pag.174.

2              Op. cit. pag.131.

3              Op. cit. pag. 54.

4              Op. cit. pag. 54.

5              Op. cit. pag. 61.

6              Op. cit. pag.156.

7              Op. cit. pag.159

8              Op cit. pag. 160.

9              Op. cit. Pag. 169.

RIFLESSIONI RAPSODICHE SU MATEMATICA, LINGUAGGIO ED ECONOMIA

Tutte le epoche in regresso e in dissoluzione sono soggettive, mentre tutte le epoche progressive hanno una direzione oggettiva.” W. Goethe nei colloqui con Eckermann

«La posizione consapevole significa che lo scopo precede il risultato. Questo è il fondamento dell’intera società umana, » 739. Lukacs, Ontologia dell’essere sociale II volume pag. 739.

Premessa

Tempo fa mi capitò di leggere un saggio che mi ha fatto saltare sulla sedia già dal titolo: Smarriti nella matematica. Il testo si trova nel sito www.iltascabile.com, ma è stato rilanciato anche in Sinistra in rete. L’autore si chiama Massimo Sandal (La Spezia, 1981) è stato ricercatore in biologia molecolare, specializzato in dinamica delle proteine, ha conseguito un dottorato in biofisica sperimentale a Bologna e uno in biologia computazionale ad Aquisgrana, dove vive tuttora. Collabora con Le Scienze, Wired e altre testate. Uno scienziato con le carte in regola dunque.1 La matematica divide l’umanità in due schiere distinte: chi ne gode e chi la subisce, difficili le mezze misure, che si trovano facilmente per le altre discipline. Anche uno stonato può cantare e ci sono persino i cori degli stonati. Anche chi non è poeta può scrivere una poesia e leggerne molte godendone comunque: difficile invece per chi la matematica proprio non la digerisce improvvisare un’equazione! Chi subisce la matematica – come il sottoscritto – è il più delle volte un rassegnato a non capire metà del mondo, ma se poi gli capita di leggere che la fisica moderna e i fisici si sono smarriti nella matematica, lo spirito si risolleva.

Uso della matematica e pratiche sociali

Usciamo dal paradosso: sto ovviamente parlando dell’uso che si fa della matematica, non della matematica in quanto tale. Gli esempi di Sandal nel suo saggio sono inquietanti per quello che affermano e anche per il sostrato ideologico che s’intravede dietro di essi e sono esempi che anche chi di fisica legge soltanto libri divulgativi può capire. Quello che mi ha particolarmente colpito della sua riflessione, tuttavia, è una tipologia di ragionamento che dalla fisica può essere trasferita ad altri campi, anche sorprendentemente lontani come la linguistica, o in generale lo studio del linguaggio e persino l’economia politica. Quando Sandal, per esempio, ricorda che la fisica si chiama così perché, in definitiva, ogni speculazione e teoria o teorema deve poi trovare un sostrato – fisico appunto – senza il quale finisce per smarrirsi in un circolo vizioso, il mio pensiero è corso subito al rapporto fra significato e significante. I cultori estremi di quest’ultimo, che lo considerano una variabile del tutto indipendente con la quale si può giocare finché si vuole, mi ricordano assai i fisici smarriti di cui parla Sandal. Il linguaggio trova il suo senso – parola che a volte sembra essere diventata una bestemmia – nella sua relazione con qualcosa che sta fuori dal codice e che sta al significante come la natura fisica dei fenomeni sta al linguaggio matematico di cui si servono i fisici come gli altri scienziati: lo stesso Wittgenstein negli scritti successivi al Tractatus, si era reso conto, che non è possibile ricercare una sorta di essenza del linguaggio in sé, al di fuori dei diversi usi che se ne fa; dunque, che non si poteva prescindere dalla dimensione antropologica e dalle diverse pratiche sociali e culturali che coinvolgono gli esseri umani: altrimenti il linguaggio diventa una macchina autoreferenziale, ma anche paradossalmente arbitraria in senso soggettivistico. La frase di Goethe che ho ricordato in esergo viene, in questo senso, quanto mai a proposito perché a me sembra una drammatica rappresentazione della nostra epoca di solipsismo soggettivistico e identitario, di post verità e questo mi riporta ancora una volta agli esempi che Sandal porta nel suo testo.

Che c’entra però l’economia politica in tutto questo? Anche in economia esiste prima di tutto una sostanza fisica: tutto ciò che serve per riprodurre la vita di ogni giorno, che richiede cura e attenzione, oggi come migliaia di anni fa. Tale sostanza fisica si estende poi alle costruzioni, alle case, poi a quello che nel gergo economico si definisce infrastruttura e cioè le strade, i ponti, le ferrovie: in sintesi, i beni che permettono di vivere. Questa è l’economia, ma non è di ciò che si parla quando nella nostra contemporaneità si usa il termine. Oppure, come accadde in Italia dopo il crollo del Ponte Morandi a Genova, si nomina la sostanza fisica dell’economia soltanto per registrare le catastrofi che accadono: i ponti che si sbriciolano, gli argini dei fiumi che collassano, i comportamenti anomali del clima che generano altre catastrofi. La pandemia da Covid 19 ha confermato tutto questo a livello planetario, il che lascia sgomenti ma contiene pure l’ovvietà che la terza globalizzazione ha reso da tempo i confini permeabili, non solo alle merci e agli esseri umani, ma anche ai virus. Del resto gli scienziati e gli epidemiologi ammonivano da anni che si stavano creando le condizioni per la diffusione di nuove pandemie, ma nessuno li ha ascoltati; salvo poi abbandonarsi a teorie assurde e complottiste quando invece, le spiegazioni sono più semplici e hanno a che fare proprio con l’assetto generale dell’economia e, nel caso del Covid, con la distruzione dei sistemi sanitari pubblici, che ha gettato nel panico i governi, i quali hanno scelto la via più facile: mettersi in modo più che disgustoso nelle mani di Big Pharma senza contrattare nulla, come dimostra la stessa inchiesta della commissione europea sul comportamento per nulla trasparente di von Der Leyen .

E la matematica? C’entra anch’essa, ma i passaggi, per arrivarci, sono un po’ un avventurarsi nel bosco e come Pollicino, sarà bene avere con noi qualche semino da lasciare come traccia per uscirne fuori. I beni sono anche quantità e non solo qualità, cioè valori d’uso, su questo non c’è alcun dubbio; dunque la necessità di quantificarli e misurarli fa parte della natura fisica dell’economia. Quale matematica è però necessaria e sufficiente per discuterne? Due riferimenti ci possono aiutare. Il primo è che nelle scuole medie italiane s’insegnava l’economia domestica, il secondo che l’autorità massima di controllo dei conti si chiama “ragioniere generale dello stato”. Nel primo caso, l’insegnamento dell’economia domestica era viziato da un’evidente discriminazione di genere: era la materia che doveva preparare buone mogli, madri e massaie, cui spettava il ruolo di gestire la casa e la famiglia nella divisione sessuale del lavoro in una società patriarcale che era considerata naturale e che nessuno metteva in discussione. La scelta di abolirla dall’insegnamento, però, fu – come spesso avviene in questi casi – del tutto sbagliata e controproducente: non intaccò per niente le radici patriarcali della società italiana, ma provocò un danno di cui forse non ci siamo resi conto della portata. Bisognava estendere alla popolazione scolastica maschile l’insegnamento dei rudimenti di economia domestica e di gestione della casa. Essa ha prima di tutto a che fare con le risorse materiali, i beni prima che non il denaro, la cura di cose e persone. Se si ascolta il rumore di fondo sgradevole che ci sommerge quotidianamente con discorsi che si spacciano per economia, di tutto questo non si parla, ma sono altri i parametri che vengono usati, talmente alienati, che il primo effetto di questa narrazione, prima di tutto ideologica, è l’avere introiettato in ciascuno di noi la convinzione che l’economia sia qualcosa che non possiamo capire. Invece dovrebbe essere sufficiente ragionare sul semplice fatto che ognuno di noi, mediamente, sa fare i conti di casa propria, per comprendere che non è così. Certo, possiamo farli più o meno bene, essere più o meno oculati o spendaccioni, ma se davvero l’economia fosse qualcosa di totalmente precluso alla comprensione dei non economisti, se non capissimo i meccanismi fondamentali che regolano i rapporti fra risorse e obiettivi, nel giro di un anno saremmo ridotti in miseria.

Il revisore di più alto livello dei conti statali si definisce come Ragioniere generale dello stato e le definizioni non sono casuali: significa che per gestire il bilancio dello stato, come quello della famiglia o di una comunità qualsiasi, la competenza di un ragioniere è più che sufficiente, ma intimoriti come siamo dalle cifre iperboliche, abbiamo scordato questa verità elementare. Un piccola parentesi sui numeri iperbolici: qualsiasi cifra che riguardi l’economia è pur sempre un numero dall’uno al 9, seguito da una piccola o grande montagna di zeri. I bilanci e la partita doppia si fanno ricorrendo ancora oggi alle quattro operazioni, anche se le macchinette del calcolo nascondono le procedure. Anche per calcolare l’ammortamento di un bene che si consuma nel tempo sono sufficienti poche operazioni. Comunque, per dare uno scherzoso riferimento in più: se si parla di decine e centinaia di migliaia di euro si tratta del mercato immobiliare, se parliamo di milioni di euro si tratta del mercato calcistico, se si parla di miliardi di euro si parla di economia. Questo è necessario ricordarlo anche per non prendere abbagli.

La capacità di gestire risorse è più entusiasmante, ma a questo non veniamo più educati. Questa competenza necessaria, anzi indispensabile, è stata tolta dalla formazione e i risultati si vedono. Certo, si dovrà riformarla l’economia domestica, introdurre principi nutrizionali, principi di riciclo e riuso che sono andati perduti tutto quello che si vuole, ma poiché sono ormai convinto che nulla sia casuale, la sua scomparsa ha contribuito a sequestrare l’economia politica relegandola, come il vecchio latinorum, in una regione incomprensibile ai più e di cui noi possiamo solo misurare gli effetti che produce: povertà, precarietà, odio sociale, pandemie, guerre e miseria. La matematica entra in gioco a questo punto del discorso e cioè quando, dopo avere occultato la natura fisica dei beni economici, li si è smaterializzati e dissolti in un universo finanziario e soggettivistico (la propensione del consumatore di cui parla la teoria marginalista, o l’utilità marginale) facendo diventare l’economia – con un paradossale doppio salto mortale – qualcosa d’altro.2 Con il primo salto essa diventa una scienza soggettiva del gusto, con al centro la figura del consumatore, poi con il secondo salto con doppio avvitamento, una scienza esatta cui si può – anzi si deve – applicare la matematica delle scienze cosiddette dure: algoritmi, equazioni, simulazioni avveniristiche. A questo punto il gioco è fatto: mentre scompare del tutto la sostanza fisica dell’economia e del valore (quali beni e perché? Come si producono e da dove viene il loro valore? Come si distribuiscono? Come si conservano? Come si riproducono?), rimane un sistema di algoritmi e di simulazioni che si muovono nello spazio vuoto e desertificato dell’accumulazione del capitale. Tornare a ragionare d’economia, dunque significa uscire dalla gabbia mentale e mortifera degli algoritmi e delle simulazioni, che hanno prodotto una narrazione che ha posto un’entità metafisica come il Mercato al posto di dio e costruito intorno a esso una teologia medioevale rozza, fatta di deliri algebrico-computazionali, potenziata dall’intelligenza artificiale e gestita da una casta sacerdotale ieratica e feroce, che si presenta con il volto anonimo della banalità del male e che produce miseria, precarietà, odio sociale, imbarbarimento dei rapporti sociali e di genere, razzismo.3

Riprendersi l’economia è oggi un gesto di opposizione e ribellione primario e lo è anche perché è prima di tutto un parlar d’altro rispetto alla sostanza grettamente economicistica dell’economia. Non è un caso infatti che tutti gli economisti degni di questo nome e non i funzionari anonimi al servizio del capitale come soggetto automatico, si sono posti domande che sconfinano assai – chi più chi meno – dall’aspetto strettamente economico. William Petty si chiedeva chi fossero il padre e la madre del valore economico, Ricardo e Marx da dove venisse il valore, Smith come si formano i prezzi, Keynes – addirittura si domandava perché ci piace il denaro. A proposito di Keynes, è assai interessante notare cosa pensasse della matematica. Un recente e prezioso saggio di Anna Carabelli, pubblicato su Kritica economica e ripreso da Sinistra in rete, è illuminante al proposito4. Ne cito alcuni passaggi:

… Nella sua discussione con Roy Harrod nel 1938, cioè nel suo manifesto metodologico più maturo e schietto, quando afferma che “l’economia è una branca della logica, un modo di pensare, piuttosto che una scienza pseudo-naturale”, Keynes sta semplicemente riaffermando la sua posizione precedente (CW XIV, 296) …

… Cos’è dunque l’economia per Keynes? La risposta è che egli considera l’economia sia una scienza morale che una branca della logica. È una scienza morale nella misura in cui si occupa di valori etici e di introspezione (CW XIV, 300). E, allo stesso tempo, è un ramo della logica, un modo di pensare. È fondamentalmente un metodo, che aiuta gli economisti a trarre conclusioni logicamente corrette per evitare di cadere in fallacie logiche nel ragionamento, come la fallacia additiva della probabilità o la fallacia della composizione in economia …

… Il punto chiave, secondo Keynes, è che senza tale logica, gli economisti potrebbero perdere la strada nel bosco empirico e matematico, come, secondo lui, era stato il caso di econometristi come Tinbergen e Colin Clark, e degli economisti matematici. Il problema, secondo lui, è che l’applicazione di linguaggi matematici e statistici con i loro presupposti di omogeneità, atomismo e indipendenza a materiale economico che è essenzialmente “vago” e “indeterminato”, dà luogo a fallacie logiche, una delle quali è la fallacia dell’”ignoratio elenchi” nella teoria economica classica (Carabelli 1991). La definizione di Keynes della matematica ne La teoria Generale come “imprecisa” significa che la cieca applicazione della matematica e della statistica all’economia, con i suoi aspetti non numerici, non comparativi e non ordinali, richiede attenzione logica (CW VII, 298; Carabelli 1995) …

Queste citazioni sono già sufficienti per mettere in evidenza sia la complessità del pensiero di Keynes sia la preziosità del saggio di Carabelli nel focalizzare aspetti della sua teoria che sono stati sottovalutati o volgarizzati.

Per concludere

Con tutti gli autori citati in precedenza siamo dentro l’economia, con le loro diversità e anche contraddizioni, e cioè dentro l’epoca che secondo Goethe è progressiva in quanto oggettiva, con il marginalismo usciamo da quel mondo ed entriamo in quello di un’aberrazione e non di una teoria. La parola aberrazione, riferita al marginalismo, fu usata da Piero Sraffa ed è stata proprio la rilettura del suo grande libro- Produzione di merci a mezzo merci – e di alcune e prime incursioni nel suo sterminato archivio, a convincermi che, per tornare a parlare di economia, occorre prima di tutto uscire dalla narrazione corrente, sfidandone il senso comune e specialmente violando quel confine che i guardiani armati del neoliberismo non vogliono che venga sorpassato. Per farlo si deve parlare di economia ma non solo, come tutti i classici Smith compreso, hanno sempre fatto. Uno degli arcani dell’economia, infatti, è che quanto più ci si avvicina alla sua sostanza fisica, tanto più essa ci sfugge se pensiamo di poter calcolare qualsiasi grandezza, perché l’economia è una scienza umana – forse – che ha che fare come afferma Keynes con l’etica e l’indeterminatezza. Travalicare i confini invisibili, ma pur sempre presenti, significa finire in un gorgo di sabbie mobili che una matematica e una tecnologia fintamente onnipotenti hanno reso ancor più pericolose. Per esempio, parlare e scrivere di economia significa fare i conti con il tempo, cioè con una tematica centrale nella tradizione filosofica occidentale, ma fondamentale per qualsiasi cultura. 5

Math equations written on a blackboard – mathematics and science concepts

1     Il saggio è del 2016 e nel sito, che si trova indicato nel testo, Sandal cita anche una collega in questo modo:

… la fisica è fuori rotta? Rischia di schiantarsi seguendo il canto di sirene dai nomi irresistibili di simmetria, naturalezza ed eleganza matematica? Cassandra di questo possibile naufragio è Sabine Hossenfelder, fisica teorica della gravità quantistica all’Istituto di Studi Avanzati di Francoforte, blogger e ora autrice di Lost in Math: How Beauty Led Physics Astray (letteralmente “Smarriti nella matematica: come la bellezza ha portato la fisica fuori strada”),

2 Ecco come il filosofo Mario Trinchero affronta il tema della matematica nella sua introduzione alle Ricerche filosofiche di Ludwig Wittgenstein. La citazione è tratta da Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, a cura di Mario Trinchero, Piccola biblioteca Einaudi.  dove l’intera opera del filosofo è riprodotta integralmente in traduzione italiana: L’aritmetica non è lo sviluppo di una logica unica e assoluta, cosi come non è prodotto del pensiero o dell’intuizione, o sistema assiomatico: essa è, in realtà, un «guazzabuglio di tecniche» in cui è appena possibile fare un po’ d’ordine. In questo è simile al linguaggio quotidiano: un insieme di strumenti eterogenei, creati per scopi diversi, che fanno parte di un complesso sistema di forme di vita. Il matematico non contempla essenze, ma le crea; non scopre, ma inventa. Ciò che in matematica c’è di profondo, di essenziale, è depositato nella grammatica; la forza costrittiva delle prove, il carattere necessitante delle regole, sono legati alla stabilità delle istituzioni umane; sono consuetudini che abbiamo assimilato col linguaggio, convenzioni di cui è intessuto il nostro agire quotidiano.  Ciò fa sorgere in noi l’illusione che la matematica sia legata a forme immutabili del pensiero o della realtà, ma in effetti le sue proposizioni sono modelli, paradigmi grammaticali «assunti una volta per tutte tra gli strumenti del nostro linguaggio». In esse non è insita nessuna necessità logica: un cambiamento nelle regole della matematica e nei nostri giochi linguistici quotidiani è logicamente possibile; lo rendono di fatto irrealizzabile i legami di queste regole e di questi paradigmi con tutta quanta la nostra «storia naturale».  Ciò non significa, tuttavia, che la matematica sia psicologia, o si fondi su basi empiriche; in quanto paradigma, modello linguistico primitivo, essa non dipende né dai nostri stati interni né dalle strutture del mondo esterno. Ciò significa soltanto che per rendere conto della sua intersoggettività e della sua possibilità di interagire col mondo dell’esperienza occorre partire non già dall’analisi delle sue strutture algoritmiche, ma da quella del linguaggio quotidiano, in cui sono depositati gli schemi sui quali costruiamo le nostre conoscenze …

3 La citazione qui di seguito, è tratta dallo scritto di Benjamin del 1921 sul capitalismo. Si tratta di uno dei saggi giovanili più importanti insieme al Frammento teologico politico e al saggio sulla violenza: …  Nel capitalismo va scorta una religione, vale a dire, il capitalismo serve essenzialmente all’appagamento delle stesse ansie, pene e inquietudini alle quali un tempo davano risposta le cosiddette religioni. L’essenza di questo movimento religioso che è il capitalismo implica perseveranza fino alla fine, fino all’ultima e completa colpevolizzazione/indebitamento di Dio …

4        4 Il saggio di Carabelli è di grande importanza perché offre un’interpretazione del pensiero di Keynes assai originale e illuminante. Peraltro l’autrice ha scritto libri e altri articoli sull’argomento che sono citati nel saggio pubblicato da Kritica economica. Il mio dunque è un invito a leggerla, aldilà delle poche citazioni che vengono riportate in questo mio saggio.

5 Sull’opera di Sraffa Paolo Di Marco ed io abbiamo appena pubblicato un libro dal titolo La Dissoluzione dell’Economia Politica: Note, commenti e qualche elaborazione a margine agli appunti di Piero Sraffa per le lezioni sulla teoria neoclassica  Sulla rivista online Overleft, ho pubblicato un saggio dal titolo La Sfinge marxiana, sempre dedicato a Sraffa.

NARRAZIONI FRA STORIA E MEMORIA: PORTOGALLO

Premessa

Ho ritrovato quasi per caso questa breve narrazione scritta molti anni fa, subito dopo il ritorno dal Portogallo. Me la ricordavo, ma per ragioni che stanno a metà strada fra casualità e rimozione, si era persa nei meandri di chiavette e computer. Le ragioni per un eventuale oblio ci sono tutte. Quel viaggio, insieme a Laura, era nientemeno che il nostro viaggio di nozze, ma la scelta del Portogallo aveva una forte componente di militanza politica, espressione che oggi non userei più, ma che nel 1975 era ancora pane quotidiano. I capitani d’aprile, nel 1974, avevano posto fine alla dittatura di Caetano, l’erede di Salazar; l’esplosione di rivolta sociale che ne seguì fu accolta con entusiasmo in Italia e si formarono anche delle piccole brigate internazionali, fra cui quella italiana, composta da attivisti di diverse organizzazioni: questo gruppo italiano era stato molto presente nella caserma autogestita di Tancos a Lisbona.

La nostra partenza era prevista per il 12 dicembre, avevamo tutti i contatti giusti con le diverse formazioni politiche più formali come i partiti, ma anche informali e nate in pochi mesi. Tutte avevano appoggiato i capitani d’aprile, seppur con modalità diverse.

Pochi giorni prima della nostra partenza lo scontro divenne convulso e alla fine fu rovesciato il governo in carica presieduto da Vasco Gonçalves da parte di un gruppo di militari moderati capeggiati da Melo Antunes. Dal fervore estremo che ci aspettavamo di vedere in città, si passò nel giro di pochi giorni a un clima spettrale nel quale ci trovammo di colpo catapultati. Capimmo subito che non avremmo rischiato niente da un punto di vista personale perché non eravamo stati sottoposti ad alcun controllo particolare alla frontiera e quindi decidemmo lo stesso di avviare i nostri contatti. Fummo ricevuti da tutti, seppure nel mezzo di misure di sicurezza e luoghi improbabili degli incontri; a parte il solo che avvenne in una sede ufficiale, quella del partito comunista portoghese. Due persone, uomini per l’esattezza, coinvolti in tutte le fasi del processo iniziato nel 1974, ci fecero da guida in città, ma quando capimmo che continuare con i contatti poteva essere pericoloso per loro, prendemmo accordi su come gestire le comunicazioni dall’Italia e decidemmo che, dopo un’ultima visita a casa di un operaio – un incontro di cui vi è traccia nello scritto di allora – ci saremmo dedicati unicamente al nostro viaggio di nozze e così fu. Quella parte del viaggio però è fatto di ricordi solo nostri e nel testo di allora non c’è traccia.

A pensarci bene ad anni di distanza, tutta la vicenda è molto portoghese. Solo lì poteva accadere che dei militari ponessero fine a una dittatura e si presentassero con i fiori  nei loro cannoni per le strade di Lisbona e poi decidessero di porre fine al loro tentativo rivoluzionario ritornando nella caserme ma – cosa da non dimenticare – Melo Antunes si oppose sempre alla messa fuori legge del partito comunista e altre organizzazioni. Uno solo pagò per tutti: Othelo Sarajva de Carvalho, un uomo generoso ma assai confuso.

Detto questo, il testo che segue ha degli aspetti che sono anche datati ma ho deciso di non toccare nulla, perché lo spirito profondo di quello che mi è parso di cogliere in quella surreale esperienza di viaggio è del tutto attuale. Sono pure contento di avere ritrovato questo scritto dopo la pubblicazione di Frattali, perché forse mi sarebbe venuta la tentazione di inserirlo nel libro. Invece la sua collocazione è proprio un’altra: una narrazione che è un piccolo frammento di memoria storica, di un evento fra i più rimossi dalla scena politica europea contemporanea.    

Lisbona

Le immagini che conservo di Lisbona si ripetono e si rinnovano in continuazione, nutrite da molteplici sorgenti; tanto che i ricordi sono una parte minore di quest’anfora preziosa. Le une e gli altri si confondono e si sovrappongono, facendo così venire meno quel confine sottile fra realtà e immaginazione che nel caso di Lisbona sembra ancor più rarefarsi e sciogliersi in un impasto di colori che ricordano quelli dei suoi cieli, oppure la mescolanza amorosa delle sue acque.

Forse era vera quella passeggiata lungo l’Avenida Pombal alla ricerca di un ristorante dal nome altisonante: La cocina del rey; o forse me l’ero inventata dopo avere letto che in quel locale si tenevano cene sontuose… E poi il traghetto che attraversa il Tago per approdare al Barreiro, il quartiere più popoloso della città.

Il Tago a Lisbona non è un fiume, ma un braccio di oceano con cui l’acqua dolce lotta instancabilmente, dando luogo a un miscuglio allargato di liquidi e umori che si distendono fino ad assumere le sembianze di un lago; o di più corpi sfiniti e calmi dopo un’orgia.

Al Barreiro si respirava un’aria di antica e nobile povertà, fatta di storia, di abitudini, di fierezza proletaria scolpita sui volti scavati dei suoi operai; oppure l’opulenza sformata delle donne, la magrezza dei troppi figli e figlie. Portane una in Italia ci aveva chiesto Vazco; sulle prime abbiamo finto di non capire, poi rifiutato mostrando tutto il nostro imbarazzo. La cosa era finita lì, poi venimmo a sapere che un altro figlio in Italia c’era già venuto e che lavorava presso un elettricista di Milano; l’invitai a lasciarmi un messaggio per lui. Fu la madre a scrivere il biglietto per Manuel, così si chiamava il ragazzo; lo fece lentamente, con il tracciato incerto di chi non padroneggia la scrittura.

Dopo pranzo, mentre ascoltavamo musica ad altissimo volume, Vazco ci mostrò orgoglioso i suoi cimeli: la bandiera rossa custodita segretamente durante gli anni della dittatura salazarista e poi esposta ogni domenica sul cancello di casa, le fotografie di alcuni incontri politici clandestini, poi quelle più distese e piene di sguardi sorridenti delle prime assemblee popolari seguite alla Rivoluzione dei garofani.

Rientrando a Lisbona, la sera, me ne stavo da solo sul ponte della nave, Laura aveva preferito non uscire fuori a causa del vento forte. Nel buio che calava e immerso nei miei pensieri, improvvisamente udii fischiare un canto rivoluzionario che conoscevo benissimo, perché era italiano, nato nel pieno del ‘68. Non capii subito da dove provenisse quel suono acuto e teso come un filo d’acciaio: poi vidi l’uomo. Era un giovane marinaio che indossava il berretto tipico di tutti i marinai, con la tesa un po’ abbassata e curva; teneva le mani nelle tasche di una giacca a vento leggera. Era solo e si aggrappava a quel canto come ci si aggrappa al vestito di una donna che ci ha lasciato. Il suo fischio era così forte da superare il rumore delle acque e si ergeva da solo contro la logica ferrea della pagina pesante che si era abbattuta con tutta la ragionevolezza della storia sulla fervida passione di quei pochi mesi.

Lui non si era accorto di me e nessuno poteva udirlo, quel ricordo era soltanto suo; ma c’era, nel gesto di regalare quel fischio alla notte, tutta la grazia e la forza della gratuità. Forse per questo a Lisbona mai nulla finisce veramente; perché c’è sempre qualcuno che conserva il lembo di ogni cosa, così che tutto si stratifica dando alla città quel tono barocco che soltanto in essa, tuttavia, mantiene una sorprendente leggerezza.

Al tempo di quel viaggio non conoscevo Pessoa, per me era soltanto un nome; del resto, tutto del Portogallo e di Lisbona era poco più che un nome.

M’imbattei in lui una volta tornato in Italia e compresi subito che alla nostra vista era sfuggito molto della magia del luogo.

Il caffè dove lui scriveva, per esempio, l’avevamo visitato diverse volte durante quel soggiorno, avevamo visto pure qualche sua fotografia, ma tutto era finito lì. Ricordo delle vetrate eleganti, un clima decrepito da nobiltà decaduta, un’eleganza sobria e fuori moda; intorno al locale le stradine strette e scoscese che portavano al mare o risalivano ancora di più verso la cima della collina, fra ampie case a terrazza e tetti piani.

Eppure quel caffè e quelle strade si sono veramente materializzate per me solo dopo essere rimasto a lungo in compagnia di Bernardo Soares e di Fernando stesso. Perché soltanto nelle loro parole e nei loro sguardi mi fu possibile vedere e sentire di nuovo l’atmosfera che avevamo solo sfiorato. Lisbona colpisce a distanza, come una ferita leggera che non guarisce mai; ma forse anche questo è un sogno, forse anche sulla città si sarà abbattuta la monotonia omologante di cui non vi era traccia, allora. Anche per questo non tornerò mai più a Lisbona, ma continuerò a soggiornarvi nelle parole di Fernando, in quelle di Ricardo Reis o di Álvaro de Campos.

Le terra e l’oceano

Dall’alto delle scogliere di Estoril lo sguardo si perde verso il mare e non solo in direzione delle lontane Americhe, perché a destra come a sinistra la terra sfuma verso l’interno: sembra di essere in groppa a un’aquila immensa dalle grandi ali di sabbia.

Il promontorio di Estoril è il punto più occidentale del continente europeo e le onde dell’oceano sembrano, guardandole dall’alto, oscillanti e contraddittori pensieri, sospesi fra due estremi: il desiderio di partire, quello di restare.

Considerando la storia dei viaggi europei verso altri continenti e culture non si colgono solo le tracce lasciate dai conquistadores spagnoli o inglesi, ma anche quelle più incerte e meditabonde degli esploratori portoghesi. Essi sentirono per primi il fascino della smisurata grandezza che il Tago trascina fin dentro Lisbona e per primi partirono. Tuttavia le loro navi oscillarono sempre, incerte se approdare o salpare, tanto diffidenti verso il mare aperto quanto verso l’entroterra. Perciò le rovine che i portoghesi hanno lasciato sono segni enigmatici, quasi dei vuoti sulla cartina storica: di tutti gli imperi, quello portoghese sembra essere l’unico costruito per gioco. Portogallo! Anche nel nome si nasconde la tua magia. Portogalli si chiamano le arance per le popolazioni del sud e l’immagine del sole sull’albero evoca colori smaglianti, sorrisi di amanti, cieli trasparenti e diafani; ma Portogallo è pure un nome duplice. Il porto, luogo del distacco e del ricongiungimento, e il gallo, l’animale che più di ogni altro evoca l’immagine della veglia, ma anche quella di un tradimento. Nella complessità del nome sembra nascondersi qualcosa, come se fra il potente richiamo del mare e i nostalgici canti dell’Algarve, qualcosa nel mezzo si sia dissolto o cancellato. Questo gioco rimanda ad altri giochi; prima di tutto a quelli della lingua portoghese.

Il periodo ipotetico, il congiuntivo e l’infinito personale la segnano in modo indelebile, producendo effetti sconosciuti alle altre lingue neolatine.

Il congiuntivo è il tempo e il modo dell’eventualità, dell’incertezza, dell’irrealtà, mentre l’infinito personale indica un’azione compiuta da un soggetto ma spogliata di ogni concretezza; pura potenzialità infinita nel tempo e nello spazio, simile a una formula matematica che attende d’incontrarsi con una realtà fisica inesistente, al momento, ma non del tutto impossibile. Non è forse ancora al gioco e alle sue trame gratuite che tutto questo rimanda?

La corrida portoghese si presenta del tutto simile a quella spagnola, identica nella ritualità e nell’intenzione finale. Arrivati però alla soglia della consumazione del rito, il toro è risparmiato: se lo spagnolo vuole dominio e sacrificio, il portoghese vuole attesa e rinvio. Dietro queste trame giocose, dietro gli arabeschi della lingua e la ripetizione del rito, è la sospensione del tempo a farsi strada, quella stessa che è nel gioco del bambino, nella festa, nella poesia, in tutto ciò che rompe la continuità seriale del quotidiano.

I portoghesi erano sulle terre di Estoril molto prima che Inglesi, Spagnoli e Francesi li travolgessero passando loro innanzi. Tutti videro soltanto ciò che stava oltre Estoril, mentre essi attesero, finsero di agire, si mossero, ma in fondo non lo fecero e le loro navi continuano a oscillare davanti alle coste di tutti i mondi che hanno toccato. Il tempo li ha risparmiati, restituendoceli nella loro immobilità malinconica e incantata, quasi fossero dei sogni che attendono un mattino. Non potrebbero proprio per questo suggerirci una strada? L’insonne cavaliere portoghese non attende forse l’alba del nostro risveglio e il ritorno a casa delle nostre navi?

Di epica nuova

Di epica nuova, laboratorio di poesia critica nasce dal blog diepicanuova, creato nel 2013. Nel 2022 abbiamo deciso di farne testo cartaceo. Il percorso compiuto negli anni aveva un punto di partenza: documentare la presenza di un filone epico nella poesia contemporanea, assai fiorente in altre letterature, ma presente sotto traccia anche nella poesia contemporanea italiana. Nel farlo ci siamo resi conto che c’era con noi un convitato di pietra: l’Espressionismo. Proprio da questo siamo partiti con un ampio primo capitolo, che ne considera i diversi aspetti, sia in pittura sia in poesia.

Nel secondo capitolo, intitolato Metaloghi sulla poesia, la riflessione entra nel vivo ponendo in termini problematici e interrogativi  questioni di estetica e critica letteraria più focalizzate sulla poesia italiana di primo e secondo novecento.

Nel terzo capitolo sono raccolti gli autori che nel blog avevamo indicato con il titolo di testi manifesti e che costituiscono un punto di riferimento.

Nel quarto capitolo, dal titolo il Multiverso il dibattito fra molti e molte, la riflessione continua sugli stessi temi, ospitando le riflessioni critiche di poet* contemporanei.

Infine, nel quinto capitolo dal titolo Laboratorio, la parola è ai testi poetici contemporanei.

Il libro è disponibile in Amazon, Mondadori store e può essere ordinato su richiesta anche le maggiori librerie.

ASJA LĀCIS

Teatro agitprop Berlino 1928

Introduzione

Asja Lācis, è fortemente legata all’esperienza sovietica e rimane un personaggio tipico della parte orientale dell’Europa dei primi trent’anni del secolo scorso. Tuttavia, la sua opera ha influenzato anche le correnti rivoluzionarie che si sviluppavano nella parte occidentale dell’Europa, tanto che alcune delle esperienze da lei fatte arriveranno fino al 1968 e oltre. Per queste ragioni, lei e i suoi sodali, furono un tramite che permise alle sperimentazioni più ricche avvenute in alcuni anni decisivi – dal 1917 al 1927 – nell’Europa orientale, di approdare a Berlino ed esservi custodite e riproposte anni dopo. Fu questa preziosa mescolanza a resistere nel tempo, a superare la tragedia dello stalinismo e a nutrire nuove esperienze rivoluzionarie.1 C’è un anno emblematico, il 1927, in cui tutto quello che era maturato nel decennio precedente inizia a essere travolto; ma ancor più dell’anno in sé che è poi quello in cui si rafforza il potere personale di Stalin nell’Unione Sovietica orfana di Lenin, mi sembra importante un episodio che può apparire minore. Durante il decennio 1917-27 e nonostante la guerra civile e le invasioni straniere, esperimenti d’avanguardia in ogni campo della scienza e della pedagogia avvennero proprio in Russia. Un esempio per tutti: nella cura dall’autismo, furono condotti nel centro aperto da Sabina Spielrein e Vera Schmidt a Rostov percorsi di cura e sperimentazioni che si sarebbero diffuse ovunque.2 Fra i bambini curati presso questo centro vi fu pure il figlio di Stalin, Vasilij. L’illustre padre lo fece chiudere per decreto nel 1927, un anno con il quale si conclude una lunga fase della storia Russa iniziata con l’invasione napoleonica! Qual è il tratto distintivo di quel decennio? Si tratta della riproposizione di un tema antico che risale alle origini della Russia e cioè la costante oscillazione mai risolta fra la propensione ad aprirsi verso occidente e la spinta contraria. In un certo senso lo stesso interrogativo si può porre anche rispetto alla stessa rivoluzione del 1917: fu una manifestazione della propensione russa verso l’Ovest oppure fu un prodotto dell’Ortodossia russa e dei caratteri profondi di quella cultura, senza intendere il termine ortodossia in senso strettamente religioso? Asja Lācis visse entrambe queste tensioni in modo non sempre consapevole, ma fedele nel registrarle nei suoi diari e taccuini. Tutto questo è stato finalmente raccolto ed è diventato un libro, edito in Italia da Meltemi nel 2021: Asja Lācis, l’agitatrice rossa, a cura di Andris Brinkmanis.

La sua adesione al processo rivoluzionario fu senza riserve: però si legò subito alle esperienze più radicali dell’avanguardia russa. Tuttavia, durante il suo soggiorno a Capri e Napoli, poi a Parigi e a Berlino, fu acutissima nel saper cogliere le differenze e i problemi in parte diversi che si vivevano nella parte occidentale dell’Europa. La scelta d’instaurare un rapporto organico con Berlino e con la sinistra radicale berlinese, fu anche un modo per salvaguardare quanto di meglio aveva sperimentato a Riga e a Mosca. Questa mossa le permise di uscire in un certo senso indenne, pur pagando un prezzo personale altissimo, dalle derive della restaurazione staliniana: il campo di concentramento non spense il suo ardore rivoluzionario e trovò modo anche in quel contesto estremo di mettere al primo posto la propria capacità di organizzatrice, oltre che di scrittrice e di teorica.3

Fra teatro, cinema e agit prop

La Rivoluzione Bolscevica la vede protagonista da subito sul piano politico, oltre questo c’è la vastità d’interessi, la sua curiosità intellettuale; infine, un nucleo molto forte intorno al quale si dirama ogni altro interesse e che è ben riassunto da una frase di Lācis medesima riportata nel libro alla fine del saggio introduttivo di Brinkmanis:

Nella lotta, l’arte deve diventare strumento e alleato.4

Tutta la sua vita fu improntata a tale intento e nella sua esperienza arte significa in primo luogo teatro e poi cinema. Oltre a questo, il suo essere donna e femminista ante litteram, la sua militanza politica inflessibile, la decisione nell’affrontare i passaggi drammatici della sua vita: dalla salute precaria alla detenzione. Infine la noncuranza, almeno fino a un certo punto, rispetto all’immagine di sé e la cura del proprio lavoro. In tarda età si rese conto che forse qualcosa doveva dire per fare emergere la sua opera e il suo valore: questo ha aiutato i pochi che le furono vicini fino alla fine – nel mezzo di qualche episodio spiacevole ricordato anche nel libro – a ricostruire tutti i passaggi essenziali della sua vita e di permetterci ora di affrontare l’opera nel suo complesso. Un uomo le fu sempre accanto in modo silenzioso e amorevole: Berhnard Reich, il regista austriaco e suo compagno. Con lui Lācis conobbe Berlino e le prime sperimentazioni teatrali di Brecht con il quale collaborò da subito. Il merito maggiore della sua scoperta, tuttavia, va dato a Hildegard Brenner della rivista Alternative. Fu lei, nel 1968, a ritrovare un fascicolo su Benjamin negli archivi della DDR e a fotocopiarlo clandestinamente. In esso era presente il nome Lācis. La cercarono e scoprirono che era ancora viva e attiva nella cittadina baltica di Valmiera, dove viveva insieme a Reich. Ritrovarla fu l’inizio vero della sua riscoperta.

L’apprendistato di Lācis avvenne in un contesto dove esisteva già una tradizione illustre. La Russia degli ultimi decenni del 1800 è quella di Cechov, di Stanislavskj e delle scuole di teatro di San Pietroburgo: successivamente delle sperimentazioni cinematografiche degli anni ’10.5

Lācis si forma in questo ambiente ma ovviamente il 1917 non è un anno qualsiasi nella storia europea. La ricostruzione di questi passaggi della sua vita, come riportata dal libro di Brinkmanis è più che esauriente per mettere a fuoco questo percorso iniziale e a esso rimando. Il tratto essenziale e costante di queste esperienze è la sua vicinanza alle correnti più estreme delle associazioni e delle istituzioni culturali e politiche nate con il bolscevismo. La prima traduzione in un progetto concreto della sua attività fu la sperimentazione teatrale di Orël, dove Lācis si propose di dare una prospettiva ai bambini e ai ragazzi abbandonati che erano un numero considerevole ovunque e costituivano un serio problema sociale. Il racconto di questa esperienza entusiasmò Benjamin che le propose una propria riflessione teorica sull’esperienza. Lei accettò. Il saggio di Benjamin ebbe due diverse versioni di cui una andata perduta.6

Dal ’21 al ’30

Sono gli anni decisivi sia per lei sia per Benjamin. Il saggio che prendo in considerazione per primo è proprio un testo del 1921, dal titolo Nuove direzioni dell’arte teatrale, che inizia così:

L’arte non è fine a se stessa ma aiuta a raggiungere i più alti obiettivi dell’umanità. In questo senso, il socialismo e l’arte devono andare di pari passo … Questa nuova vita si collegherà con l’arte. Allora arte e vita diventeranno tutt’uno … La vita è creativa fluisce sempre, la vita è dinamica. L’arte fa parte di questo movimento, se inizia a fermarsi si sclerotizza. Tutto ciò che diventa statico nella vita, non è più necessario, anche se si tratta di arte … 7

Questo incipit perentorio è una critica alla presunta autonomia assoluta dell’arte e indirettamente all’idea di un’art pour l’art, anche se questo secondo aspetto è meno rilevante per Lācis. Nella parte finale della citazione si precisa meglio un concetto che ha certamente influenzato anche Benjamin e cioè che la tradizione (ciò che diventa statico) perde la sua necessità, anche se continua a essere arte: è questa la ragione per cui la semplice contemplazione dell’opera, sia individualistica, sia – rapportata al nostro presente – come consumismo culturale di massa, non porta ad alcuna consapevolezza critica. Nella citazione vi è indubbiamente qualcosa di estremo, ma non necessariamente di estremista; lei stessa si renderà conto della difficoltà di tenere sempre alta la tensione rivoluzionaria implicita nella citazione e infatti in un passaggio successivo afferma:

Non possiamo avere subito il teatro-vita e il teatro-estasi. Abbiamo bisogno di unità sociali, per questo dobbiamo incentrare il nostro metodi lavoro sul futuro e non sul passato.8

Non si tratta dunque di rinunciare del tutto all’aspetto contemplativo e anche di autonomia dell’arte, ma essa è un punto di arrivo in un contesto completamente diverso. In una successiva citazione emergono tutte le ragioni della scelta prioritaria di Lācis per il teatro:  

… Il teatro è già collettivo nella sua essenza, è una sintesi dell’arte e si avvicina al futuro … Attualmente, per certi versi, il teatro è un laboratorio di sperimentazione che sviluppa nuove tradizioni. Questo laboratorio ritiene il collettivismo necessario, poiché le sue ultime produzioni sono improvvisazioni eseguite da tutti, pubblico compreso 9

Tale intento si concretizzerà in esperimenti teatrali di notevole portata ma avrà un influsso anche sull’agitprop, mentre alcune sperimentazioni avranno, come vedremo, un futuro che andrà ben oltre il momento storico in cui nacquero. Il rifiuto del teatro intimistico è solo uno degli aspetti della critica in atto perché anche il naturalismo è sottoposto a una critica serrata:

… Il teatro naturalistico è troppo angusto, troppo statico per le idee e gli sforzi ardenti di ricerca. Il nuovo teatro mira ai simboli, al realismo stilizzato e alla semplicità per esprimere con il minimo dei mezzi il massimo del pensiero e dell’azione. Il contenuto rivoluzionario cerca una forma rivoluzionaria …10

Il teatro naturalistico è quello che nasce dal realismo ottocentesco. La volontà di cercare la forma adeguata e nuova per contenuti nuovi sarà costante in tutta la vita di Lācis e probabilmente tale continua accelerazione, tipica dei movimenti rivoluzionari, non poteva essere protratta nel tempo indefinitamente. L’accenno all’uso del minimo di mezzi è certamente dovuto alla scarsità, ma se si pensa all’essenzialità delle scene del teatro brechtiano, si può dire che questa ipotesi ha avuto una traduzione che è diventata un canone novecentesco per il teatro.

Nel 1922 Lācis è a Berlino una prima volta e in momenti diversi ci sarà fino al 1924. Inizia la collaborazione con Brecht ma specialmente entra in contatto con la Volksbühne – il teatro del popolo berlinese – e con Ernst Toller. Un resoconto vivace di questa prima esperienza si trova nel saggio Teatro espressionista e Brecht, sempre nel libro di Meltemi Asja Lacis L’agitatrice rossa alle pagine 81-87. 11

Il secondo saggio importante riguarda invece il cinema, è scritto a quattro mani con Ludmilla Keilina nel 1928 e s’intitola I bambini e il cinema. L’attrazione di massa dei bambini al cinema cattura immediatamente l’attenzione di Lācis e questo mette in evidenza il secondo aspetto decisivo in tutta la sua ricerca e cioè l’interesse per un’arte che sia anche pedagogica. Il saggio parte da alcuni dati statistici e osservazioni empiriche sull’interesse che i bambini manifestano spontaneamente nei confronti del cinema, ma subito dopo nota come non vi sia da parte delle organizzazioni rivoluzionarie l’attenzione dovuta a tale constatazione. Perciò i bambini frequentano molto i cinema commerciali dove:

… Assistono prevalentemente a film stranieri polizieschi e di avventura o sentimental-borghesi che ostentano i lussi della società borghese

Le due autrici raccolgono testimonianze dirette da alcune lettere scritte da bambini e bambine che rivelano una sorprendente effervescenza sociale, un attivismo quanto mai prezioso e che è indubbiamente il risultato delle trasformazioni rivoluzionarie in corso. Alcune lettere sono davvero sorprendenti anche per l’età di chi le scrive e si propone come attore o attrice e comunque come interessato al cinema.12

L’inchiesta diviene così la documentazione di base per poter poi avanzare delle proposte, un metodo di lavoro che Lācis cercherà di non abbandonare mai. Le due autrici dell’articolo censiscono le pellicole proiettate e rivolte all’infanzia. La sintesi cui giungono è tuttavia impietosa:

 … Le cifre la dicono lunga su quanto siano trascurate, in termini quantitativi, la fornitura di film speciali per i bambini, ai bambini stessi.13

La critica, tuttavia, non è mai fine a se stessa, proprio perché basata su inchieste rigorose. Alla fine del saggio, infatti, nelle conclusioni i suggerimenti per migliorare la situazione sono quanto mai precisi e realistici.14

Il terzo saggio s’intitola Becher, Brecht, Benjamin. È un scritto sulla drammaturgia sovietica che contiene anche una lettera di Benjamin ad Asja. Siamo nel 1928 e alcune cose hanno già cominciato a cambiare. L’esperienza rivoluzionaria a Riga si era conclusa nel 1926 quando l’ambasciatore sovietico aveva organizzato il suo espatrio in Russia per evitarle l’arresto da parte delle autorità della capitale baltica. La sua attività in ambito teatrale era continuata a Mosca fino al 1927 e di questo periodo si trova una testimonianza puntuale nello scritto Teatro nell’illegalità e cinema per ragazzi.15 Nel 1928, però, avviene la svolta importante che Lācis così ricostruisce:

Nel 1928 lasciai il lavoro al Sojuskino, che faceva capo al Narkompros, per essere distaccata in Germania. Il gruppo Teatro proletario di cui facevo parte, mi incaricò di prendere contatto con la Lega degli scrittori proletari. 16

Non sono del tutto chiarite le ragioni per cui lasciò il lavoro, che forse hanno a che fare anche con i mutamenti della situazione in Russia.17

Il trasferimento a Berlino inaugura un rapporto molto stretto fra le avanguardie sovietiche e quelle tedesche. Inoltre, come si evince dalla testimonianza di Lācis, i comunisti tedeschi, nel 1928, erano ancora convinti della possibilità di una prossima rivoluzione in Germania: prendere contatti fra le due avanguardie era dunque un modo di continuare a Berlino le esperienze più radicali maturate durante il comunismo di guerra.

L’accoglienza è calorosa, Brecht le pone continuamente domande sulla situazione in Russia e su Majakovskj e si batte per portare a Berlino anche la drammaturgia di Mejerchold. Lācis si lascia coinvolgere nelle atmosfere berlinesi, partecipa a dibattiti e assemblee, spesso interrotte dall’arrivo delle SA naziste, discute molto con i tre autori citati nel titolo, ma in particolare con Brecht e con Benjamin, di cui nota un cambiamento di stile nella scrittura, diventata più semplice. Le abilità organizzative di Lācis le permettono d’inserirsi facilmente nell’ambiente, cui cerca di proporre gli autori russi del RAPP, il raggruppamento degli scrittori proletari. Il clima è di aspra lotta, ma anche di grande fiducia nel futuro e persino Benjamin si lascia prendere da un certo entusiasmo. La testimonianza di Lācis è preziosa perché ricostruisce un clima che in parte contraddice la visione che gli storici proporranno successivamente. Lācis, tuttavia, nota anche l’inquietudine di Benjamin e di Kracauer, rispetto all’atteggiamento della piccola borghesia tedesca in rapporto a classe operaia. Il tema è assai importante e ossessionerà Brecht.18 Lācis registra puntualmente queste preoccupazioni di Benjamin, anche se non sempre le comprende perché è difficile per lei capire quanto sia pervasiva ed estesa una classe come la piccola borghesia che nell’Europa orientale praticamente non esisteva o quasi. Le anime morte gogoliane o gli zio Vanja di Cechov erano un’infima minoranza insignificante nella Russa zarista, mentre erano milioni nella Germania del tempo e tutto sommato anche in Italia, seppure in misura minore. Benjamin e Kracauer comprendono subito il ruolo da peso morto che questa massa inerte piccolo borghese può esercitare in Germania e specialmente temono che la propaganda nazista abbia su di essa una presa che Lācis stenta a comprendere. La discussione più accanita fra di loro, tuttavia, riguarda altro e viene così ricostruita da lei nel saggio:

 Gli rimproverai  di non riuscire a liberarsi dell’estetica idealistica … In seguito ho capito che aveva ragione: poiché aveva individuato il difetto di molti critici di allora: la sociologia volgarizzata ….19   

La sociologia volgarizzata, una sorta di marxismo volgarizzato che Benjamin avrebbe chiamato con il suo nome nelle Tesi sulla storia, era peraltro parente della deriva staliniana che stava cancellando il meglio delle avanguardie in Unione sovietica; altrettanto si può dire del Saggio popolare di Bucharin aspramente criticato da Gramsci nei Quaderni. Infine altri due saggi che chiudono questa parte del libro curato da Brinkmanis, sono importanti come testimonianza. 20

Erwin Piscator e Felix Gasbarra

1968: la riscoperta

La terza parte del libro di Brinkmanis dal titolo Teatro rivoluzionario in Germania, amplia ulteriormente lo scenario e permette di capire meglio alcune dinamiche di quegli anni.

Il 1968 fu infatti un anno importante per molte cose e lo fu anche per Asja Lācis e per Walter Benjamin. Oltre alla riscoperta della loro opera e anche di altre coeve e dimenticate come quelle già citate di Vera Schimdt e Sabine Spillrein, fu il Living theatre a ispirarsi a tali esperienze. Judith Malina e Julian Beck, che ne sarebbero stati i fondatori, parteciparono a un seminario di Piscator a New York, insieme a Paulo Freire e Augusto Boal. Fu il primo passo per creare il gruppo teatrale più sperimentale della seconda parte del ‘900. L’improvvisazione, in particolare, divenne uno strumento indirizzato alla formazione di attori e attrici, ma fu un mezzo pedagogico di grande importanza per tutti. Anche Kantor, lo pseudo teatro di Grotowskj e altri gruppi teatrali che si muovevano fra arte e arte terapia, sono senz’altro debitori nei confronti di Asja Lacis e Erwin Piscator.

Il problema di fondo di questa parte riguarda il nesso fra teatro vero e proprio e agitprop, cioè l’uso direttamente politico dello spettacolo teatrale a fini propagandistici. I saggi di questa terza parte, pur avendo titolo diversi, si possono considerare come uno solo dal titolo Piscator, iniziatore del teatro Agitprop. In esso Lācis ripercorre tutta l’esperienza berlinese.

Nella prima parte, l’introduzione politica, pur breve, è assai significativa. La relativa stabilità dell’economia tedesca nel 1923, aveva causato un allontanamento dal teatro rivoluzionario da parte di molti attori e attrici che percepivano maggiori introiti scegliendo di recitare nei teatri privati. Piscator era uno dei pochi rimasti fedeli al teatro rivoluzionario anche nei momenti più difficili. In occasione delle elezioni del 1924 il clima cominciò di nuovo a cambiare e riprese vigore una impetuosa ondata di  lotte operaie. Il ruolo della Volksbühne e cioè il teatro popolare venne rivitalizzato.

Nasce nel 1924 la Revue Rote Rummel (RRR): i testi furono redatti da Piscator e da Felix Gasbarra. La partecipazione di massa agli spettacoli si trasforma spesso in vere e proprie improvvisazioni cui il pubblico in gran parte fatto di proletari interagisce in modo attivo. Vi sono alcune figure tipiche che sono sempre presenti: un borghese e un proletario che discutono animatamente, il reduce di guerra mutilato piuttosto che il ricco impresario. Nel 1925 Piscator e Gasbarra mettono in scena Trotz alledem, (Nonostante tutto). Il regista definì lo spettacolo:

Un unico gigantesco montaggio di discorsi autentici, saggi, estratti dal giornale, appelli, volantini e film di guerra.

Una sorta di opera totale di nuovo tipo. Altrettanto importante è il commento di Asja Lācis:

… Il successo e l’impatto della rappresentazione furono senza precedenti … La novità consisteva nel fatto che il materiale storico era stato elaborato senza includervi storie d’amore e senza riferimento alle vicende personali degli eroi. Nuovo era anche l’uso del materiale documentario, che allora faceva un effetto più potente di qualsiasi artificio letterario o sofisticherie composte in giambi …21

Un ulteriore sviluppo avviene nel 1928 quando viene fondato l’Arbeiter-Theater Bund Deutschland di Friederich Wolf. Nasce però intorno a questa esperienza un dibattito vivace, in cui si contrappongono due diverse visioni del rapporto fra arte e propaganda. I sostenitori, per esempio della Blaue Bluse (che potremmo tradurre con le tute blu), sostengono una stretta relazione fra teatro e propaganda e insistono nell’eliminare dal canovaccio dei testi tutto ciò che non sia finalizzato alle lotte in corso.

Dietro questa convinzione c’è un aspetto squisitamente politico di cui tenere conto e che Asja Lācis aveva peraltro evidenziato in saggi precedenti e specialmente in quello al titolo Becher, Brecht, Benjamin e cioè la convinzione dei comunisti tedeschi che ancora nel 1928 fosse possibile una rivoluzione comunista in Germania. Gli storici negano tale possibilità, per alcuni definitivamente fallita con la sconfitta spartachista del 1919, per altri ancora possibile successivamente ma non di certo nel 1928. Il clima di quegli anni però sembrava suggerire anche altro, tanto che lo stesso Benjamin di solito assai prudente ne era stato contagiato. Le ricostruzioni sono sempre difficili specialmente quando – cosa non secondaria – bisogna pur dire che furono anni di straordinaria creatività che proprio a Berlino ebbe le sue punte più alte.

Se questo dibattito squisitamente politico si può considerare del tutto datato, le obiezioni che il secondo fronte contrapponeva alle Blaue Blusen sono ancora quanto mai attuali. George Pijet, nell’articolo  Rotes Kabarett oder proletarisches drama, pubblicato sulla rivista Arbeiterbhüne nel 1929, polemizza sulla tendenza a trasformare tutto in cabaret satirico, piuttosto che rappresentare drammi veri e propri. La parte più acuta dello scritto, quanto mai attuale anche nell’Italia di oggi, è la critica alla satira troppo superficiale, quella per intenderci che tende a rappresentare l’avversario come un imbecille, a prenderlo in giro in modo epidermico, mettendo in evidenza i lati più deboli senza prendere in considerazione le ragioni più forti. Tuttavia, anche le scene di massa che pure avevano avuto un grande successo con Gasbarra e Piscator, non sempre si rivelavano efficaci o all’altezza delle prime anche per i costi eccessivi che richiedono. Per questo la scelta di scene brevi ed efficaci si sostituisce alle grandi scene di massa: rimane però sempre importante la capacità di unire testo a improvvisazione. L’orientamento verso un canone più sobrio sarà il cavallo di battaglia Brecht con l’essenzialità delle sue scene e la teoria dello straniamento su cui Benjamin scriverà un saggio decisivo.22

Tuttavia e nonostante dibattiti spesso troppo laceranti e altro, a Berlino in cento giorni era possibile che il teatro Agitprop  assemblasse qualcosa come un pubblico di un milione e mezzo di lavoratori, cioè circa un quarto degli spettatori che frequentavano il teatro popolare della Volksbhüne nell’intera Germania.

Una nuova svolta avvenne dal ’29 al ’31, quando si diffusero altre forme di improvvisazione e veri e propri teatri di strada. I tempi però stavano di nuovo cambiando e in peggio. La dissoluzione della Repubblica di Weimar e il suo collasso istituzionale convissero ancora per qualche tempo con una diffusa insorgenza sociale che tuttavia non si trasformava mai in un progetto politico: quando la repressione si abbatté sulle rappresentazioni teatrali proletarie la resistenza fu solo difensiva e anche Brecht fu messo al bando. La rappresentazione della sua versione della Madre di Gorkj non si tenne. L’avvento di Hitler alla cancelleria e poi gli arresti seguiti all’auto procurato incendio dei Reichstat segnarono la definitiva sconfitta del movimento operaio tedesco e dei suoi partiti. La Volksbhüne resistette fino al 1934 quando fu chiusa. Asja Lācis era già tornata in Russia ma di lì a poco sarebbero arrivati i tempi bui anche per lei. Internata in un campo di concentramento in Kazakistan nel 1938, ne uscì dieci anni dopo.   

Conclusioni

Ci sono alcune tensioni costanti che accompagneranno Lācis fino alla fine: quella rivoluzionaria, quella pedagogica rivolta in primo luogo ai bambini e la passione per la sperimentazione teatrale. Sono tensioni non facili da armonizzare, eppure la sensazione che si prova arrivati alla fine della sua vicenda umana e politica, è che lei ci sia sempre riuscita anche nei momenti peggiori, con una determinazione e una forza di carattere fuori dal comune. Tuttavia, nonostante questo e alcune asprezze che le costarono la costante inimicizia di Adorno, come conclusione, scelgo uno scritto che potrebbe apparire minore. Si tratta di un taccuino del suo viaggio in Italia avvenuto nel 1924, ma che è stato pubblicato solo nel 1970. Le caratteristiche stilistiche del taccuino ricordano anche il suo diario parigino e Napoli, scritto a quattro mani con Walter Benjamin.

Il diario inizia da un dato biografico e cioè l’irresistibile desiderio di salire su un treno per conoscere altre città e luoghi. La tendenza al nomadismo è costante in tutta la sua vita e non era dovuta solo alla necessità di fuggire, ma è legata a questo sentimento profondo che lei riporta alla sua infanzia. Da studentessa si muove solo nella parte orientale dell’Europa, poi approda in Italia e la percorre da nord a sud, ma quando arriva sulla costa amalfitana non la lascerà più e ci tornerà nel 1924 con la figlia. A Capri conoscerà Benjamin, Gorkj, Marinetti, Adorno e Kracauer. Va a Positano per conoscere l’artista Caspar Neher e scrive nel suo taccuino:

… le case son scavate nella roccia come strani nidi. Passammo la notte sul pavimento di pietra perché all’epoca era frequentata soltanto da artisti poveri; non c’era ancora quel confort e lusso che si può trovare ora….23

Il diario ci restituisce una Lācis più leggera e a tratti persino scanzonata e ironica , comunque capace di una serenità che contrasta con l’immagine di rivoluzionaria tutta d’un pezzo e che testimonia fra l’altro l’amore autentico per i luoghi visitati.

Un’ultima nota la riservo ai viaggi nell’Italia centrale: da Orvieto alle altre città d’arte e monumentali. Infine Roma, dove la sua curiosità la porta a chiedere un lasciapassare per incontrare il Papa: glielo fornisce un giornalista italiano. In fila con altre donne e bardata di veli neri attende l’arrivo di Pio XI, ma quando viene il suo turno lei rifiuta di abbassare la testa e lo guarda dritto negli occhi. Il Papa non si scompone, le impone le mani sula testa e notando il vestito arancione sotto i veli le sussurra a bassa voce “Mosca.”

Asja Lacis a Valmiera

1 Del rapporto fra Asja Lācis e Walter Benjamin  mi sono occupato più diffusamente in un libro che spero possa essere presto pubblicato.

2 La documentazione di questi esperimenti non si trova facilmente. Una testimonianza recente si trova nel libro Prendimi l’anima a cura di Aldo Carotenuto, da cui è stato tratto anche il film di Roberto Faenza con lo stesso titolo.

3 L’oscillazione della Russia fra Europa e Asia è un problema molto affrontato dalla storiografia, ma riguarda un campo assai più vasto. Lo stesso dilemma, per rimanere in campo politico e storiografico, si pose negli anni cruciali che vanno dal 1917 al 1923, sul versante occidentale, ai rivoluzionari tedeschi e italiani. L’oscillazione fra Europa e Asia, è un dilemma che ha una data d’inizio con la Russia di Pietro I il Grande e la sua continuazione in periodo zarista con Caterina II la Grande (1729-1796) e il suo illuminismo di corte. Il tema è troppo vasto per trattarlo qui. Mi limito a suggerire la lettura di due autori che, senza conoscersi pur essendo contemporanei o quasi, hanno riflettuto sulle oscillazioni della politica e della cultura russe:  Edward Carr e Iosif Brodskji. Diversissimi, anzi opposti per convinzioni politiche, la loro riflessione ha tuttavia tratti comuni assai interessanti

4 Asja Lācis, l’agitatrice rossa, a cura di Andris Brinkmanis, pag. 125.

5 Nell’agosto del 1907 fu pubblicata in Russia Kino (Cinema), la prima rivista dedicata al cinema. L’impresa durò poco, solo un anno, ma testimonia un interesse che si manifestò subito negli ambienti culturali russi. Il primo imprenditore di documentari e di film a soggetto fu il giornalista e fotografo Alexandr Drankov. Il 28 ottobre 1908 egli presentò nelle sale il primo cortometraggio narrativo, Sten’ka Razin, sceneggiato da Vasilij Gončarov. Il film (224 metri, poco più di 6 minuti) ha un interesse puramente storico, piuttosto che artistico, ma ebbe tuttavia successo. Drankov, associatosi nel frattempo con altri imprenditori, lanciò nel 1911 la prima Rassegna degli avvenimenti, a imitazione del Pathé Journal francese. Dal 1909 si affermò la casa di produzione già fondata a Mosca nel 1906 da Alexandr Chanžonkov. I suoi film trattavano episodi storici. Il filone dei film tratti da opere letterarie, dai classici agli autori più recenti, fu largamente sfruttato: addirittura persino Dante e Shakespeare furono rappresentati, ma le piccole consistevano di poche scene degli episodi più famosi delle loro opere. I primi registi professionali furono Gončarov e Čardynin, ma il regista che si impose davvero fu Jakov Protazanov. Il primo scrittore a fornire sceneggiature per il cinema, fu Nikolaj Breško-Breškovskij. Nel giro di pochi anni lo spettacolo cinematografico, in Russia come altrove, divenne un’abituale forma di svago della popolazione. Nacquero allora i dibattiti e le prime riflessioni sul ruolo che il cinema poteva rappresentare come mezzo di condizionamento ideologico. Il governo e l’alta burocrazia zarista mantennero nei confronti del cinema un atteggiamento di disprezzo che favorì però la diffusione di opere dal carattere rivoluzionario.

6 Asja Lācis, l’agitatrice rossa, a cura di Andris Brinkmanis, Meltemi 2021,  pp. 65-79.

7 Op. cit. pag. 125.

8 Op. cit. pag. 127.

9 Ivi.

10 Ivi.

11 Op. cit. pp.82-7.

12 Op. Cit. Pp. 159-60.

13 Ivi.

14 Op. cit. pp. 166-7.

15 Op. cit. pp. 96-101.

16 Op. Cit. Pg.101.

17Dal 1926 era iniziato un dibattito piuttosto aspro riguardante in particolare uno spettacolo di Mejerchold: Il revisore. A dire il vero è l’opera di Mejerchold nel suo complesso a generare una discussione che vede opposti due fronti. I giovani cresciuti nella temperie del comunismo di guerra appoggiano il regista, così come i costruttivisti e l’avanguardia di quegli anni che si raccoglie intorno a Majakovskìj. Benjamin prende decisamente posizione come loro a favore del regista, come del resto Lācis e Reich, tutti appartenenti al fronte di sinistra della cultura. Chi si oppone allora a Mejerchold e all’avanguardia? Sono gli uomini nuovi della NEP, varata da Lenin, ma che dopo la sua morte s’intreccia però con il processo di normalizzazione del partito sotto la direzione di Stalin. Può essere che nel 1928 sulla scelta di trasferirsi a Berlino pesasse già la convinzione che il fronte di sinistra si trovasse in difficoltà e che occorresse una sponda fuori dalla Russia.

18 Per quanto riguarda Brecht mi riferisco in particolare alla dramma Tamburi nella notte,  dedicato alla rivolta spartachista. Su questo tema e sulle riflessioni successive di Thomas Mann sono assai significativi gli studi di Furio Jesi. Su questo blog si trovano due saggi dedicati a questo.

19 Asja Lācis, l’agitatrice rossa, a cura di Andris Brinkmanis pag 105.

20 I due saggi in questione sono Il lavoro cinematografico con Piscator, 1931-3 e specialmente Teatro per i contadini dei Kolchozy 1947-57, cioè le esperienze teatrali realizzate a Valmiera nel dopoguerra e successivamente alla sua riabilitazione. Op. cit. pp. 118-22.

21 Op. cit. pp.171-206.

22 Il saggio cui mi riferisco è compreso nella prima edizione einaudiana del 1962 della raccolta di saggi con il titolo L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità  tecnica e fu pubblicato nel 1939. Lo si può considerare una riflessione sintetica e definitiva di tutte le esperienze teatrali che Benjamin aveva potuto conoscere negli anni che vanno dal 1924 al 1928, anche se la predilezione per Brecht e in particolare per il concetto di straniamento siano evidenti. A questo tuttavia va aggiunto il rapporto costante fra i due, le discussioni in Danimarca e altri luoghi del loro esilio.

23 Asja Lācis Dal taccuino degli appunti, viaggi all’estero, Italia, in Asja Lācis L’agitatrice rossa, Meltemi 2021, Milano, pp.154-7.

GIUSEPPE DE NITTIS

Giuseppe De Nittis, Autoritratto, 1884

La Mostra che gli è stata dedicata a Palazzo Reale merita una visita attenta e ci restituisce un pittore di certo conosciuto, ma non considerato nella sua grandezza in Italia e neppure altrove in definitiva; nonostante la Legion d’Onore che gli fu attribuita nel 1878 e l’elogio funebre sulla tomba in Père-Lachaise che gli dedicò Alexandre Dumas junior:

Qui giace il pittore Giuseppe De Nittis morto a trentotto anni. In piena giovinezza. In pieno amore. In piena gloria. Come gli eroi e i semidei.

Al netto della retorica, ai francesi piaceva molto questo italiano che sembrava  inserirsi perfettamente nei canoni dominanti dell’impressionismo, cui di certo De Nittis offrì più di una sponda, almeno fino a che l’amico Cecioni  non lo rimproverò aspramente per l’acquiescenza troppo smaccata che egli manifestava verso quel mondo. In effetti De Nittis è molto altro e la sua collocazione nel movimento impressionista gli sta stretta e alla lunga non gli ha affatto giovato. Del resto, se si vanno a vedere i titoli delle cinque tele che inviò all’esposizione del 1874 presso lo studio del fotografo Nadar, che segnò il suo successo definitivo a Parigi, ci si rende conto di quanto della sua esperienza italiana piuttosto che parigina vi è in quei dipinti: Paesaggi presso il Bois; Levar di luna; Campagna del Vesuvio; Studio di donna; Strada in Italia.

Parigi gli permise di condurre una vita agiata e felice seppure breve, specialmente tenendo conto delle difficoltà che aveva dovuto affrontare. Decisivo fu l’incontro e poi il matrimonio con Léontine Lucile Gruvelle, amatissima e spesso rappresentata nei suoi ritratti insieme al figlio.1

Il macchiaiolo pugliese

I suoi esordi mi sembrano non lasciare dubbi: i minuscoli quadri dedicati alla campagna pugliese intorno al fiume Ofanto, sono piccoli capolavori che mettono in evidenza una cifra stilistica che De Nittis riuscirà sempre a salvare, anche nei momenti di maggiore acquiescenza ai canoni dell’impressionismo. La luce, il gusto per i particolari, uno spirito di osservazione cha la sua pittura restituisce con grande nitidezza, sono le caratteristiche più evidenti che saranno reiterate nella bellissima sequenza di quadri dedicati all’eruzione del Vesuvio, che gli permisero aggiungere un altro elemento che tornerà nei migliori quadri parigini: la capacità di sfumare, di rarefare la luminosità. Nella sequenza vesuviana è la polvere che scaturisce dalle eruzioni a creare nuove suggestioni, ma diventerà poi una cifra stilistica ulteriore che si manifesterà in modo particolare in alcuni quadri, per esempio il numero 11 della mostra intitolato Place invalides, ma anche in un piccolo dipinto che potrebbe apparire minore come Pioppi. Il passaggio dalla Toscana e il rapporto  con i macchiaioli è un ulteriore passo per rafforzare tutte queste caratteristiche.

Con questo bagaglio già notevole di esperienze De Nittis arriva a Parigi e si inserisce subito nei salotti giusti grazie all’amicizia con Goncourt, da lui ritratto. Ha accesso al  salotto di Julie Bonaparte, che ritrae in modo austero e pregevole. Questo periodo, prima del rimprovero di Cecioni, è quello che lo vede più allineato con le atmosfere del Secondo impero. Lascia Parigi nel periodo della Comune, che forse gli ricordava troppo le sue disgrazie famigliari e si reca a Londra.2 Quanto ritorna è ormai una celebrità e saranno quelli gli anni della definitiva consacrazione.

Per concludere

La pregevolezza della mostra da un punto di vista di quanto è stato esposto, in quantità e qualità notevoli, è a tratti contraddetta dalle didascalie e dal titolo stesso: Pittore della modernità o della vita moderna. Quest’ultima può essere definita in tanti modi diversi, ma nel caso in questione appare del tutto parziale. Gli impressionisti e le opere di De Nittis più legate al movimento non dipingono la modernità ma i fasti e i nefasti della borghesia trionfante, con i suoi flaneurs che si aggirano sempre nei luoghi nobili della città: il Bois de Boulogne con le sue signore dai cappellini sgargianti, l’Opera, i salotti eleganti. L’altra città, gli impressionisti non la vedranno mai, ne ignorano l’esistenza o voltano la testa dall’altra parte: saranno gli espressionisti e i grandi caricaturisti come Daumier  a vederla. Quanto alla pittura en plein air, De Nittis in definitiva l’aveva già scoperta sulle rive dell’Ofanto piuttosto che a Parigi. La sua grande capacità tecnica e lo spirito di osservazione gli permisero di penetrare con acutezza di sguardo nelle situazioni più diverse e ne sono testimonianza in particolare la sequenze dedicate a Parigi innevata e la brevissima ma intensa sequenza di quadri dedicati a Londra.

Quanto a Parigi, anche le sequenze più vicine al canone impressionista, portano nel dipinti suggestioni di altra natura: è così nei volti sfumati seppure eleganti di uomini e donne a passeggio. Oppure nei ritratti di donne in interni; è così nei ritratti della Bonaparte, eleganti e molto austeri, oppure nella Signora con il cane. Due dipinti in particolare mi hanno colpito, entrambi dedicati alle rovine di una parte del Louvre distrutta durante gli scontri del periodo della Comune. Uno dei due è più sfumato, le rovine appaiono tali, la folla della piazza è anonima lontana. Nella seconda versione tutto è più nitido e le rovine stesse assomigliano di più a una installazione teatrale. Fu questa seconda versione a essere premiata con una medaglia d’oro di terza classe …

Nella parte finale del soggiorno parigino qualcosa però deve essersi rotto nel profondo anche in lui e lo testimoniano queste parole, scritte nel taccuino dell’agosto del 1884:

Quanti bei progetti ho per l’avvenire! Prima di tutto ce ne andremo da Parigi, dove la vita mi soffoca: Parigi distrugge tutti. E se poi un bel giorno, mi dovessi ritrovare simile agi altri, immeschinito dall’ambizione, dalla stanchezza e dalla collera?

Parole spietate e purtroppo profetiche. Della città e dei suoi riti non ne poteva più e quello che è davvero notevole è la corrispondenza fra questo sentire e gli ultimi dipinti: siamo sempre a Parigi ma le sequenze dedicate a un pranzo familiare sulla terrazza con al centro l’amata Lèontine e il figlio e un altro dello stesso periodo lo testimoniano ampiamente. Sono immagini serene, riconciliate con la luce amica dei primi paesaggi.

L’ictus che lo colpì in modo crudele e fatale il 21 agosto del 1884 se lo portò via nel momento in cui forse era prossimo a una svolta ulteriore che ci avrebbe lasciato altre opere importanti e probabilmente diverse. Lèontine Gruvelle si preoccupò subito di preservarne le opere e catalogarle; a lei dobbiamo essere grati per averlo restituito a tutti noi nella sua reale grandezza.

Giuseppe De Nittis, Colazione in giardino, 1884

 


1 La morte per suicidio del padre, successiva a quella della madre, segnarono pesantemente la sua vita.

2 Il suicidio del padre avvenne alla fine del periodo di detenzione di due anni. Era stato arrestato per ragioni politiche

SULLE COMMEMORAZIONI DEL D-DAY

Premessa

Non pensavo proprio di occuparmene, ma giovedì sera ho seguito la trasmissione di Alessandro Barbero su Rai Storia e alla fine sono stato contento di averlo fatto. Barbero con il suo atteggiamento ridanciano e a volte apparentemente ingenuo riesce sempre a colpire nel segno e lo ha fatto anche questa volta, trasformando – senza darlo troppo a vedere – una commemorazione in una esposizione dello stupidario militare e molto altro. Lo schema delle sua trasmissione è molto semplice. Alcune sobrie note introduttive, una selezione attenta di storici molto documentati e alcune domande ben scelte che provengono da chi assiste alle trasmissioni da casa. Poiché il programma si può rivedere in Rai Play non mi soffermo ulteriormente su di esso, chi vuole potrà rivederlo e dire se il mio giudizio è condivisibile o meno e quindi passo alle riflessioni che il programma ha suscitato in me, limitandomi a una sola citazione e precisamente la domanda decisiva posta da una ragazza e che Barbero ha lasciato per il gran finale:

“Se lo sbarco fosse fallito cosa sarebbe successo?”

“Le cose sarebbero andate nello stesso modo” – risponde Barbero – “solo ci sarebbe voluto un po’ di tempo in più” , ma a giudicare dall’espressione del volto neppure tanto.

Le ragioni di tale risposta molto netta sono riportate nella trasmissione. Esaurite le premesse vengo alle mie rapide riflessioni.

Non erano dei giganti

Uno dei leit motiv che compaiono qui e là in questi giorni è che chi ci governa oggi è uno stuolo di mediocri se paragonati ai giganti di allora. Non lo erano affatto e credo che tale giudizio sia basato su una distorsione ottica che ha a che fare con l’esposizione mediatica. Penso che se Roosevelt, Churchill e Stalin fossero stati seguiti da giornalisti e mass media, reti social, microfoni lasciati aperti per sbaglio o volutamente, interviste più o meno pilotate e continue apparizioni televisive, sarebbero apparsi della medesima statura che oggi viene attribuita al Barnum contemporaneo di giornalisti, commentatori e leaders. Quanto a Hitler e Mussolini, i due godevano di un sovrappiù di grottesco grazie alle caricature che di loro fece Chaplin e per la caricatura di se stessi di cui erano entrambi maestri. I leader di oggi che possono apparire un’eccezione rispetto a tale drastico giudizio lo sono perché – se ci si fa caso – appaiono di meno nei notiziari occidentali e perché in generale sono leader che si espongono di meno; ma la sostanza non muta.

Lo stupidario militare

Gli esempi sono infiniti e del resto è sufficiente avere giocato a Risiko tre o quattro volte (peraltro come per internet il gioco viene dalle accademie militari), per rendersene conto. Tuttavia, a parte i giudizi espressi nella trasmissione, suggerisco la lettura di tre libri. Il primo è Il grande gioco di Peter Hopkirk, Adelphi Milano; un testo prezioso perché ricostruisce, con una documentazione in parte inedita o poco conosciuta, i tentativi compiuti dalle potenze occidentali durante tutto il 1800 per conquistare l’Estremo Oriente o almeno influenzare le politiche dei diversi stati e staterelli di quell’area, in modo da farsene alleati contro le altre potenze concorrenti. Il libro ha aspetti – forse involontariamente – tragicomici e lo si potrebbe definire anche un campionario delle stupidità geopolitiche e militari pensate da cosiddetti strateghi. Si comincia dal progetto di Napoleone Bonaparte d’invadere l’India, progetto che viene preso sul serio dagli inglesi. Comincia così una vera propria corsa verso i luoghi e territori che si trovano nel mezzo fra l’Europa il continente indiano. Era dai tempi di Alessandro Magno che nessuno ci aveva più pensato. Spie, false spedizione scientifiche, frenetici contatti con gli emiri afghani e altro. Poiché una spia tira l’altra come le ciliegie, le spedizioni continuarono per alcuni decenni. A ogni nuova missione si scopriva che c’era sempre qualcun altro che stava battendo le stesse piste e questo faceva pensare all’esistenza di piani segreti che occorreva scoprire: un affollamento grottesco, i cui scopi diventavano sempre più fumosi. Nella seconda metà del secolo, però, accade qualcosa di nuovo: un simpatico cartografo e disegnatore dilettante mandato in avanscoperta in quei territori immensi fra Russia, Afghanistan, Persia scrive che da quelle parti non ci sono strade, ma solo sentieri impervi, che fra una popolazione e l’altra le barriere fisiche di una natura indomabile rende tutto assai complicato: chi invade chi? Improvvisamente, dopo quella mirabolante scoperta, tutto finisce, repentinamente così come era cominciato.

Il secondo è un grande classico scritto migliaia di anni fa: l’Arte della guerra di Sun Tzu. A dispetto del titolo, se lo si legge davvero dall’inizio alla fine e fra le righe, questo manuale di strategia militare si traduce paradossalmente nel suo opposto e questo forse spiega molto della Cina e dei cinesi.

Il terzo è un classico del ‘900 che andrebbe continuamente riletto e studiato: Le tre ghinee di Virginia Woolf.

Orfeo: Parte seconda

Aristeo

Premessa

In questa seconda parte, la riflessione sarà focalizzata sul mito di Orfeo in quanto tale, ma senza dimenticare il testo rilkiano e il saggio di Brodskj cui è dedicata la prima parte del saggio che trovate nella stessa rubrica con il titolo Rilke – Brodskj – Orfeo.

Il mito è assai complesso perché – più di altri – è in realtà un intreccio fra miti diversi e la stessa definizione mito di Orfeo si presta a molti fraintendimenti, prima di tutto perché il suo nome è sempre associato a quello di Euridice; ma al tempo stesso, come vedremo, proprio quest’ultima, più ci si addentra nel labirinto e più sfuma in una nebbia che la nasconde sempre di più. Del mito nella sua interezza esistono peraltro versioni diverse. La mia scelta va a quella di Robert Graves, che ritengo l’autorità più affidabile del ‘900 in campo mitografico, il cui pregio più grande è proprio quello di raccogliere nella sua opera proprio le diverse e a volte contrastanti versioni dei miti, citando le fonti antiche e dando conto delle diverse interpretazioni di alcuni passaggi della vicenda. In nota ho riprodotto il suo testo preso dal capitolo eponimo, con poche modifiche irrilevanti in passaggi che erano ripetitivi e non aggiungevano nulla a quanto detto in precedenza.1 Accanto a Graves, però mi sono avvalso anche del racconto di Virgilio, che nella parte finale delle Georgiche, inserisce la favola dal titolo Aristeo e le api, per poi stabilire una relazione assai originale e suggestiva fra la favola e il mito di Orfeo.

Un labirinto di miti

La mia rilettura parte da un libro di Alessandro Carrera. Egli vede in Orfeo ed Euridice due figure simboliche di cui la seconda, il principio femminile, rappresenta l’ispirazione poetica, che svanisce nel momento in cui l’opera è compiuta. Orfeo, dal canto suo, per creare qualcosa deve rinunciare al proprio delirio di onnipotenza giovanile che pretende di tenere presso di sé sia l’opera sia l’ispirazione. Fin qui Carrera.2 Nel momento in cui Orfeo permette all’opera di esistere, perde Euridice.3 Nel mito classico, dunque, i due sono una coppia indissolubile, nonostante il loro diverso destino. Naturalmente il fatto che l’ispirazione debba avere sembianze femminili mentre l’opera sia compiuta da un agente maschile non è affatto neutra: si tratta di un’idea platonica e patriarcale. Il non detto (o detto a metà) è che l’ispirazione deve essere per forza un principio femminile perché il femminile è in rapporto diretto con la divinità (e la poesia è ispirata dagli dei secondo gli antichi), mentre il maschile –  pur limitato –  è il solo produttore di cultura.4 I momenti topici del mito sono l’iniziazione alla sua arte da parte di Orfeo – che ha diverse tappe – e la morte di Euridice. Nella prima fase della narrazione la relazione del poeta con quest’ultima appare del tutto separata dalle vicende della sua vita. Dal testo, si capisce che a Orfeo guardavano in molte e anche in molti, ma che lui aveva occhi e orecchi solo per Euridice. Di lei, tuttavia, non sappiamo molto, a parte il fatto di essere sposa di Orfeo, ma qualche fonte suggerisce che fossero solo fidanzati per dirla in termini a noi consueti. Quanto a Orfeo, egli è decritto secondo i canoni del mondo classico: il viaggio con gli Argonauti sulla nave Argo alla ricerca del Vello d’Oro fu un’impresa eroica, anche se nel caso specifico è strano che egli non ci abbia raccontato nulla di quel viaggio e il mito ci dice semplicemente che egli andò con loro e che con la sua cetra, cui aveva apportato delle modifiche, li aiutò a superare molte difficoltà. Vita e arte, impresa eroica e relazione matrimoniale s’incontrano in un momento tragico: un tentativo di stupro, a causa del quale e per cercare di sfuggirvi, Euridice muore morsa da una serpe. Entra così in scena Aristeo che è la causa prima, seppure indiretta, della morte di lei, ma è anche un figura importante per molto altro nel Pantheon greco. Apicoltore e pastore di greggi, a lui dobbiamo, secondo il mito, la lavorazione del miele. La storia di Aristeo s’incrocia solo in quel momento con l’altra narrazione, tanto che in certe versioni il suo stesso nome viene riportato di sfuggita. Andando alle fonti, ci s’imbatte subito in alcune sorprese. Per esempio che di Euridice ne esistono tre e che molte righe vengono dedicate alle altre due prima che gli estensori delle note ricordino che “la più famosa è la ninfa che fu sposa del poeta Orfeo.” Cito la frase fra virgolette perché è un ritornello che si ritrova in più definizioni e specialmente nel libro di Graves. Detto ciò, le note passano a narrare in modo più o meno completo la discesa nell’Ade da parte di lui e tutto quello che già sappiamo. La seconda sorpresa può essere il constatare che fosse una ninfa, cioè una creatura non proprio del tutto umana. Come abbiamo visto Rilke non se ne cura e tanto meno lo rileva Brodskj, ma questo secondo aspetto rende ancor più impalpabile la sua figura. Le ninfe appartengono alle forze ctonie della terra, sono entità che sfuggono alla nostra piena comprensione e anche il ricorso alle definizioni canoniche mette fra noi e loro una distanza difficilmente colmabile. Se andiamo un po’ avanti nel tempo e arriviamo a Virgilio, a noi più vicino come sensibilità, forse troviamo un’altra chiave d’accesso alla complessità di questa narrazione. Il poeta latino, mettendo in parallelo la vicenda di Orfeo con quella di Aristeo e riferendosi a sua volta ad altre fonti, afferma che le due narrazioni vanno poste in contrapposizione per fare risaltare la differenza di comportamento fra i due uomini. A che cosa si riferisce Virgilio? Al fatto che l’apicoltore, ritenuto dagli dei il responsabile indiretto della morte di Euridice, viene punito con la sottrazione delle api, cioè viene privato non solo del suo lavoro ma anche della sua identità. Disperato, egli ammette la sua responsabilità, compie un atto di umiltà e chiede cosa possa fare in riparazione. Gli dei gli impongono un sacrificio e gli restituiscono le api. Orfeo, invece, a fronte della perdita di Euridice, sfida gli dei, viola il confine fra vita e morte, si preclude la strada della riparazione e infatti la parte finale del suo mito ci racconta di un cambiamento radicale di vita, su cui ritorneremo perché è in quella trasformazione che si nasconde molto del fascino che dal romanticismo in poi il mito ha attirato di nuovo su di sé. In sostanza, se si sta al testo di Virgilio, Euridice nella dinamica relazionale fra le due narrazioni occupa nel suo mito di appartenenza lo stesso spazio che hanno le api in quello di Aristeo! Vuoi vedere che il tutto non è altro che una storia fra uomini in cui lei viene messa in mezzo come puro pretesto? Lasciamo parlare allora l’autorità maggiore in questo campo: cosa dice Graves a proposito della ninfa? Ebbene, sulla nostra Euridice Graves non dice nulla, nel senso che non vi è alcuna voce autonoma nella sua mitografia, che porti il suo nome come invece avviene per Orfeo e per altri! La ninfa esiste solo nella narrazione del mito e in alcune note, due in particolare. La sua presenza è un puro pretesto per significare altro, un simbolo e niente più. Quanto ad Aristeo, egli rappresenta l’agricoltore, colui che compie delle opere le quali, oltre che gratificare chi le compie, sono utili alla comunità. Virgilio fra i due eroi sposa senza dubbio il secondo, che si sottopone al giudizio degli dei e ne esce con un gesto riparatore, che non solo gli restituisce la sua identità, ma lo riporta all’interno della comunità da cui era stato bandito. Veniamo ora alle due note che riporto nelle loro parti essenziali e si trovano sempre in Graves. La prima la troviamo nel capitolo dal titolo I Figli del mare, nel quale il mito di Orfeo non è neppure citato:

Pare che l’appellativo della dea-Luna la proclamasse onnipotente nel cielo e nella terra (si riferisce alla ninfa Doride ndr); l’appellativo Euribia … signora del mare; Euridice (ampia giustizia), signora dell’Oltretomba, che essa stringeva nelle spire di serpente. Sacrifici umani maschili erano offerti alla dea come Euridice e le vittime morivano per il morso di una vipera. La morte di Echidna per mano di Argo, si ricollega probabilmente alla soppressione del culto argivo della dea-sperpente. Suo fratello Adone è il serpente oracolare che alberga in ogni paradiso, le cui spire sono avvolte nell’albero di mele.

La seconda la troviamo nel capitolo dal titolo Orfeo. Nella prima parte, che riassumo,  Graves cita le fonti antiche dove si dice che la morte di Euridice per il morso del serpente si trova soltanto nella versione tarda del mito e come essa sia basata su un certo numero di equivoci. La parte finale, che si riferisce alla citazione riportata in precedenza, si conclude in questo modo: 

Erano le vittime di Euridice e non Euridice stessa che dovevano morire per il morso del serpente.”5

Ce n’è quanto basta per rivedere tutta la faccenda in ben altro modo!

Non mi occuperò delle assonanze con il mito biblico della cacciata dal paradiso terrestre presenti nella prima citazione (il serpente avvolto nei rami dell’albero di mele), che mi sembra un problema decisamente minore rispetto agli altri. Ripartiamo dall’inizio e dagli appellativi con cui si designa la ninfa Doride: sono tre e uno di questi è proprio Euridice che significa Signora dell’oltretomba. La cosa più sorprendente però è che Doride, nel mito orfico, viene indicata come la madre di Euridice. Dunque, si crea un’evidente e paradossale sovrapposizione di funzioni. La sposa di Orfeo sfuma in una sempre più rarefatta indeterminatezza e questo spiega il motivo per cui Graves non le dedica una voce autonoma. Chi è Euridice in sostanza? La sua identità, quanto più ci addentriamo nel dedalo degli intrecci fra miti diversi, tanto più si allontana da noi, fino a diventare un appellativo di sua madre. L’elemento veramente dirompente, tuttavia, è quello che segue immediatamente: Euridice viene descritta come colei che stringe l’Oltretomba nelle spire di un serpente. Per comprendere bene l’importanza di questo passaggio dobbiamo fare una piccola digressione che ci porta in un grande museo e poi a una statuetta.  

Il museo è il Pergamon di Berlino, giustamente famoso per l’altare della città in dimensioni naturali. In esso, tuttavia, si trova anche un altro gioiello archeologico meno noto: la riproduzione della porta che a Babilonia si apriva sulla via processionaria. Tale reperto viene indicato anche con l’appellativo di Porta di Ishtar, la dea babilonese più importante del Pantheon arcaico. Di lei esistono poche riproduzioni, ma una assai famosa è una statuetta che la ritrae in posizione eretta, le gambe leggermente divaricate così da conferire all’immagine, maggiore potenza e solennità. Le braccia della dea sono leggermente piegate ai gomiti e le mani, all’altezza delle spalle, stringono fortemente due serpenti. Gli animali sono il simbolo della potenza femminile che trova la sue radici nelle forze ctonie della terra,  o anche dell’acqua in misura minore: il serpente le rappresenta benissimo entrambe. Se ora passiamo alla seconda nota e precisamente alla sua parte finale citata, ecco che il cerchio si chiude. In tempi antichissimi, i sacrifici umani erano sempre maschili. Una traccia importante di questo si trova, per esempio, nella ricchissima analisi che Frazer (Il ramo d’oro) fa dei miti e delle leggende legate al lago di Nemi e al culto di Diana. Il Re dei boschi era un uomo molto anziano (probabilmente uno schiavo) che durava in carica un anno e che veniva sacrificato ritualmente alla fine del medesimo. Diana, come Ishtar, era dea protettrice della natura nel suo aspetto più selvaggio, con i loro simboli già ricordati. Quando Graves ricorda che non era Euridice (cioè le donne) a essere sacrificata, ma i maschi, ci rimanda a un’epoca precedente. Come mai allora quello che era il simbolo della potenza femminile – il serpente – diventa nel mito di Orfeo la causa efficiente della morte di Euridice? Per trovare una risposta possibile dobbiamo tornare ancora una alla preziosa indicazione che ci ha fornito Virgilio e cioè che il mito di Orfeo va letto in parallelo a quello di Aristeo. Azzardo allora un sintesi. I due miti, se letti insieme, alludono al passaggio da una società precedente a una società patriarcale. Che tali società precedenti si possano definire matriarcali o matrilineari oppure no è questione troppo controversa per affrontarla qui.6 Quello che mi sembra certo, invece, è il significato simbolico che assume la morte di Euridice per il morso di una serpe. Lo potremmo definire in questo modo, secondo un’interpretazione libera della legge del contrappasso: quello che era un tempo il simbolo del potere femminile diviene ora la causa efficiente della sua morte. Se stupro vi è stato, è quello di un’intera cultura, vinta dal nascente patriarcato e infatti la prima delle note lo dice esplicitamente quando parla di una soppressione del culto argivo della donna-serpente.

Un mito romantico

Orfeo ritorna in auge con il romanticismo ed è l’ultima parte della narrazione che può aiutarci a capire perché. Il fallimento della sua impresa provoca un radicale cambiamento nella sua vita. Così lo racconta il mito nella versione di Graves:

Si rifugiò allora Orfeo sul monte Rodope, in Tracia trascorrendo il tempo in solitudine e nella disperazione. Rifiutava le donne e riceveva solo ragazzi e adolescenti maschi che istruiva all’astinenza e sull’origine del mondo e degli dei.

Alcuni commenti si soffermano sull’implicito richiamo all’omosessualità in questo passaggio, ma non credo si tratti dell’aspetto più importante perché lo è di più il fatto che istruisse i ragazzi all’astinenza delle pratiche sessuali e che rifiutasse le donne, un comportamento radicalmente diverso rispetto alla sua vita precedente. Orfeo si ritira in una sorta di eremo e l’accento va posto proprio su questo e sull’astinenza (che sia etero od omo poco importa). Proprio intorno a tale scelta rinasce il mito di una funzione sacerdotale del poeta, che diventa una figura sciamanica; nella tradizione a noi più prossima, tale narrazione mitica trova le sue traduzioni moderne nel titanismo di Worsdsworth e Coleridge, per esempio, oppure in una concezione della libertà sottratta a qualsiasi vincolo (il poeta come figura che si colloca al di là del bene e del male) e in tempi a noi ancora più  prossimi nell’immagine della torre d’avorio tanto cara a Rilke. Quanto sia aderente alla lettera del mito tale interpretazione è assai discutibile: ovviamente, come si è già detto, tutte le interpretazioni sono legittime purché motivate, ma alcune si offrono più di altre alle critiche. Torniamo allora per un’ultima volta al mito e alla sua conclusione. Dopo avere detto del ritiro eremitico di Orfeo ecco cosa accade:

Quando Dioniso invase la Tracia Orfeo trascurò di onorarlo, iniziando i suoi fedeli ad altri misteri e condannando i sacrifici umani.

Da tale accenno possiamo trarre una conferma di quanto detto in precedenza e cioè che Orfeo rappresenta una figura molto arcaica, legata a una società precedente a quella in cui si afferma e si consolida il patriarcato. Quello che avviene successivamente, tuttavia, ci mostra quanto fosse feroce la lotta fra due (diremmo oggi) visioni del mondo. Dioniso incarica:  

le Menadi di far vendetta. Arrivato il momento stabilito, si scagliarono contro di lui con furia selvaggia, lo fecero a pezzi e sparsero le sue membra per la campagna gettando la testa nel fiume Ebro, ma la testa che galleggiò sempre cantando fino al mare, fu portata dalle onde all’isola di Lesbo.

Da questo capiamo ancora una volta che Orfeo è una figura chiave di quelle società precedenti il consolidarsi del patriarcato, ma ci fa anche comprendere quanto sia discutibile l’idea che tali società si potessero definire pacifiche. Tuttavia, alla vendetta delle Menadi segue puntualmente la punizione degli dei.

Ogni essere del creato pianse la sua morte, le ninfe indossarono una veste nera in segno di lutto e i fiumi si ingrossarono per il troppo pianto. Le Muse recuperarono le membra di Orfeo e le seppellirono ai piedi del monte Olimpo e ancor oggi, in quel luogo, il canto degli usignoli  è il più soave che in qualunque parte della terra. Ma gli dei che tutto vedevano e giudicavano, decisero di inviare una tremenda pestilenza in tutta la Tracia per punire il delitto delle Baccanti.

Infine la conclusione.

La popolazione allo stremo delle forze consultò l’oracolo per sapere come far cessare quella disgrazia e questi sentenziò che per porre fine a tanto dolore era necessario cercare la testa di Orfeo e rendergli gli onori funebri. Fu così che la sua testa venne ritrovata da un pescatore nei pressi della foce del fiume Melete e fu deposta nella grotta di Antissa, sacra a Dioniso. In quel luogo la testa di Orfeo iniziò a profetizzare finché Apollo, vedendo che i suoi oracoli di Delfi, Grinio e Claro non erano più ascoltati, si recò alla grotta e gridò alla testa di Orfeo di smettere di interferire con il suo culto. Da quel giorno la testa tacque per sempre. Fu recuperata anche la sua lira che fu portata a Lesbo nel tempio di Apollo che però decise di porla nel cielo in modo che tutti potessero vederla a ricordo del fascino della poesia e delle melodie dello sfortunato Orfeo, alle quali anche la natura si arrendeva, creando la costellazione della Lira.

Quello che si può intravedere nella conclusione è che gli dei impongono che anche Orfeo venga reintegrato nella comunità, nonostante la violazione del divieto divino ed è probabile che questo avvenisse perché resistevano, all’interno di una società ormai patriarcale, le culture e i culti precedenti. La sua testa ritrovata pone fine alla contesa, ma l’ingiunzione di tacere, cioè di non profetizzare più e la successiva giubilazione nella costellazione della lira, lo riducono a puro simbolo museale: sono altri ormai i paradigmi su cui si muove la società greca, Orfeo può continuare a piangere in eterno la perdita di Euridice, ma può farlo in cielo, non più sulla terra.

Tre ninfe


1 Robert Graves, I miti greci, traduzione di Elisa Morpurgo, presentazione Umberto Albini, Milano 1995, pp.99-102

Orfeo, il più famoso poeta e musicista che la storia abbia mai avuto, era figlio di Eagro, re della Tracia e della musa Calliope (o secondo altri di Apollo e di Calliope). Il Dio Apollo un giorno gli donò una lira e le muse gli insegnarono a usarla e acquistò una tale padronanza dello strumento che aggiunse anche altre due corde portando a nove il loro numero per avere una melodia più soave. Come prima grande impresa Orfeo partecipò alla spedizione degli Argonauti e con la  sua cetra li aiutò a superare molte difficoltà. Ogni creatura amava Orfeo ed era incantata dalla sua musica e dalla sua poesia ma lui aveva occhi solo per una donna: Euridice, figlia di Nereo e di Doride che divenne sua sposa. Un giorno, nei pressi di Tempe, Euridice s’imbatté in Aristeo, che cercò di usarle violenza. La fanciulla per sfuggire alle sue insistenze si mise a correre ma ebbe la sfortuna di calpestare un serpente nascosto nell’erba, che la morsicò, provocandone la morte istantanea. Orfeo, impazzito dal dolore e non riuscendo a concepire la propria vita senza la sua sposa decise di scendere nell’Ade per cercare di strapparla dal regno dei morti. Convinse con la sua musica Caronte a traghettarlo sull’altra riva dello Stige; il cane Cerbero e i giudici dei morti a farlo passare e nonostante fosse circondato da anime dannate che tentavano in tutti i modi di ghermirlo, riuscì a giungere alla presenza di Ade e Persefone. Una volta giunto al loro cospetto, Orfeo iniziò a suonare e a cantare la sua disperazione e solitudine e le sue melodie erano così piene di dolore e di disperazione che gli stessi signori degli inferi si commossero; le Erinni piansero, la ruota di Issione si fermò e i perfidi avvoltoi che divoravano il fegato di Tizio non ebbero il coraggio di continuare nel loro macabro compito. Ade gli concesse di ricondurre Euridice nel regno dei vivi a condizione che durante il viaggio verso la terra la precedesse e non si voltasse a guardarla fino a quando non fossero giunti alla luce del sole. Orfeo, presa così per mano la sua sposa iniziò il suo cammino verso la luce, ma appena sorse la luce del sole Orfeo si volse per vedere se Euridice era con lui e  così la perdette per sempre. Si rifugiò allora Orfeo sul monte Rodope, in Tracia trascorrendo il tempo in solitudine e nella disperazione. Rifiutava le donne e riceveva solo ragazzi e adolescenti maschi che istruiva all’astinenza e sull’origine del mondo e degli dei. Quando Dioniso invase la tracia Orfeo trascurò di onorarlo, iniziando i suoi fedeli ad altri misteri e condannando i sacrifici umani. Ogni mattina egli si alzava per salutare l’alba sulla sommità del monte Pangeo  e affermava che Elio, che lui chiamava Apollo, era il più grande di tutti gli dei. Irritato, Dioniso incaricò le Menadi di far vendetta. Arrivato il momento stabilito, si scagliarono contro di lui con furia selvaggia, lo fecero a pezzi e sparsero le sue membra per la campagna gettando la testa nel fiume Ebro, ma la testa che galleggiò sempre cantando fino al mare, fu portata dalle onde all’isola di Lesbo.. Ogni essere del creato pianse la sua morte, le ninfe indossarono una veste nera in segno di lutto e i fiumi si ingrossarono per il troppo pianto. Le Muse recuperarono le membra di Orfeo e le seppellirono ai piedi del monte Olimpo e ancor oggi, in quel luogo, il canto degli usignoli  è il più soave che in qualunque parte della terra. Ma gli dei che tutto vedevano e giudicavano, decisero di inviare una tremenda pestilenza in tutta la Tracia per punire il delitto delle Baccanti. La popolazione allo stremo delle forze consultò l’oracolo per sapere come far cessare quella disgrazia e questi sentenziò che per porre fine a tanto dolore era necessario cercare la testa di Orfeo e rendergli gli onori funebri. Fu così che la sua testa venne ritrovata da un pescatore nei pressi della foce del fiume Melete e fu deposta nella grotta di Antissa, sacra a Dioniso. In quel luogo la testa di Orfeo iniziò a profetizzare finché Apollo, vedendo che i suoi oracoli di Delfi, Grinio e Claro non erano più ascoltati, si recò alla grotta e gridò alla testa di Orfeo di smettere di interferire con il suo culto. Da quel giorno la testa tacque per sempre. Fu recuperata anche la sua lira che fu portata a Lesbo nel tempio di Apollo che però decise di porla nel cielo in modo che tutti potessero vederla a ricordo del fascino della poesia e delle melodie dello sfortunato Orfeo, alle quali anche la natura si arrendeva, creando la costellazione della Lira.Orfeo, il più famoso poeta e musicista che la storia abbia mai avuto, era figlio di Eagro, re della Tracia e della musa Calliope (o secondo altri di Apollo e di Calliope). Il Dio Apollo un giorno gli donò una lira e le muse gli insegnarono a usarla e acquistò una tale padronanza dello strumento che aggiunse anche altre due corde portando a nove il loro numero per avere una melodia più soave. Come prima grande impresa Orfeo partecipò alla spedizione degli Argonauti e con la  sua cetra li aiutò a superare molte difficoltà. Ogni creature amava Orfeo ed era incantata dalla sua musica e dalla sua poesia ma lui aveva occhi solo per una donna: Euridice, figlia di Nereo e di Doride che divenne sua sposa. Un giorno, nei pressi di Tempe, Euridice s’imbatté in Aristeo, che cercò di usarle violenza. La fanciulla per sfuggire alle sue insistenze si mise a correre ma ebbe la sfortuna di calpestare un serpente nascosto nell’erba, che la morsicò, provocandone la morte istantanea. Orfeo, impazzito dal dolore e non riuscendo a concepire la propria vita senza la sua sposa decise di scendere nell’Ade per cercare di strapparla dal regno dei morti. Convinse con la sua musica Caronte a traghettarlo sull’altra riva dello Stige; il cane Cerbero e i giudici dei morti a farlo passare e nonostante fosse circondato da anime dannate che tentavano in tutti i modi di ghermirlo, riuscì a giungere alla presenza di Ade e Persefone. Una volta giunto al loro cospetto, Orfeo iniziò a suonare e a cantare la sua disperazione e solitudine e le sue melodie erano così piene di dolore e di disperazione che gli stessi signori degli inferi si commossero; le Erinni piansero, la ruota di Issione si fermò e i perfidi avvoltoi che divoravano il fegato di Tizio non ebbero il coraggio di continuare nel loro macabro compito. Ade gli concesse di ricondurre Euridice nel regno dei vivi a condizione che durante il viaggio verso la terra la precedesse e non si voltasse a guardarla fino a quando non fossero giunti alla luce del sole. Orfeo, presa così per mano la sua sposa iniziò il suo cammino verso la luce, ma appena sorse la luce del sole Orfeo si volse per vedere se Euridice era con lui e  così la perdette per sempre. ” Si rifugiò allora Orfeo sul monte Rodope, in Tracia trascorrendo il tempo in solitudine e nella disperazione. Rifiutava le donne e riceveva solo ragazzi e adolescenti maschi che istruiva all’astinenza e sull’origine del mondo e degli dei. Quando Dioniso invase la tracia Orfeo trascurò di onorarlo, iniziando i suoi fedeli ad altri misteri e condannando i sacrifici umani. Ogni mattina egli si alzava per salutare l’alba sulla sommità del monte Pangeo  e affermava che Elio, che lui chiamava Apollo, era il più grande di tutti gli dei. Irritato, Dioniso incaricò le Menadi di far vendetta. Arrivato il momento stabilito, si scagliarono contro di lui con furia selvaggia, lo fecero a pezzi e sparsero le sue membra per la campagna gettando la testa nel fiume Ebro, ma la testa che galleggiò sempre cantando fino al mare, fu portata dalle onde all’isola di Lesbo.. Ogni essere del creato pianse la sua morte, le ninfe indossarono una veste nera in segno di lutto e i fiumi si ingrossarono per il troppo pianto. Le Muse recuperarono le membra di Orfeo e le seppellirono ai piedi del monte Olimpo e ancor oggi, in quel luogo, il canto degli usignoli  è il più soave che in qualunque parte della terra. Ma gli dei che tutto vedevano e giudicavano, decisero di inviare una tremenda pestilenza in tutta la Tracia per punire il delitto delle Baccanti. La popolazione allo stremo delle forze consultò l’oracolo per sapere come far cessare quella disgrazia e questi sentenziò che per porre fine a tanto dolore era necessario cercare la testa di Orfeo e rendergli gli onori funebri. Fu così che la sua testa venne ritrovata da un pescatore nei pressi della foce del fiume Melete e fu deposta nella grotta di Antissa, sacra a Dioniso. In quel luogo la testa di Orfeo iniziò a profetizzare finché Apollo, vedendo che i suoi oracoli di Delfi, Grinio e Claro non erano più ascoltati, si recò alla grotta e gridò alla testa di Orfeo di smettere di interferire con il suo culto. Da quel giorno la testa tacque per sempre. Fu recuperata anche la sua lira che fu portata a Lesbo nel tempio di Apollo che però decise di porla nel cielo in modo che tutti potessero vederla a ricordo del fascino della poesia e delle melodie dello sfortunato Orfeo, alle quali anche la natura si arrendeva, creando la costellazione della Lira.

2 Alessandro Carrera, La distanza del cielo, Edizioni Medusa, Milano 2011, capitolo V pp. 159-202. Il libro di Carrera è assai importante per ricostruirne il suo percorso di poeta e critico ed è un lungo excursus su alcuni momenti chiave della poesia europea, da Dante a Leopardi. Di altri capitolo di questo testo mi sono occupato in un lungo saggio dedicato al mito di Amore e Psiche, anch’esso oggetto dell’analisi di Carrera.  

3 Una suggestiva testimonianza su questo passaggio dal desiderio all’opera ci è stato offerto nella contemporaneità da Marcel Proust. Riferendosi a Jean Santeuil egli afferma a un certo punto che quella scrittura fu anche un modo di non far nascere la Recherche, un modo di girare intorno al tema e al problema senza risolverlo. Per definire tale situazione usa la parola paresse che ha un significato più articolato di pigrizia e allude all’accidia ma anche agli ignavi danteschi perché in definitiva decidere di far nascere l’opera è anche prendersi la responsabilità di una scelta. La recherche nacque dopo quando il suo autore decise di obbligarsi in una sorta di clausura. Pur sfrondata da elementi suggestivamente narrativi delle proprie vicende personali, questa testimonianza rimane importante per comprendere quel doloroso passaggio che dal desiderio porta alla sua realizzazione.

4 La critica femminista alla filosofia classica greca, al platonismo in particolare e poi alla filosofia classica tedesca ha prodotto numerosissimi libri e studi a partire dalla prime riviste degli anni ’70. Mi rifaccio a questi e ad alcuni testi Sputiamo su Hegel di Carla Lonzi e il Manifesto di Rivolta femminile. A queste aggiungo le opere di Ida Magli.  Sul tema specifico del rapporto fra cultura, maschile e femminile, in particolare, lo ha affrontato in Viaggio intorno all’uomo bianco.

5 Robert Graves I miti greci, cit., pag 114- 1 e pag. 102-4.

6 In una semplice nota non è possibile affrontare una tematica tanto complessa e su cui lo stesso femminismo è diviso. Mi limito perciò ad alcuni suggerimenti di lettura.

Chi afferma con decisione l’esistenza dei società matrifocali e matrilineari e matriarcali precedenti il patriarcato  si rifà prima di tutto all’opera del teologo protestante Bachofen, che trovò l’entusiastico consenso da parte di Engels. L’opera di Bachofen è stata poi ripresa da esponenti di primo piano del femminismo internazionale come Marjia Gimbutas, Mary Daly, Heide Goettner-Abendroth, la cui opera è stata pubblicata recentemente da Mimesis; infine Riane Eisler. In Italia sono importanti gli studi di Momolina Marconi, Luciana Percovich, Gabriella Galzio, Luisella Veroli. Una ricostruzione attenta di tutto il dibattito a partire dai miti arcaici delle Amazzoni si trova alla voce Matriarcato, a cura di Eva Cantarella nell’enciclopedia Treccani. Dello scritto di Cantarella riporto le sue conclusioni che personalmente condivido:

Come emerge da quanto visto nel precedente capitolo, il potere femminile, oggi, non è più solo un sogno femminista: è diventato un modello pacifista ed ecologista. E per chi desideri leggerlo in questa chiave è ovviamente più che legittimo trovare in esso conforto e speranza. Ma non senza aver chiarito un equivoco: quello di chi sembra ritenere che per essere pacifisti, ecologisti o femministi sia necessario credere nella storicità del matriarcato, della gilania, o di un qualsivoglia scomparso potere femminile. Pensare che chi dubita della storicità del potere femminile sia antifemminista, antipacifista o antiecologista significa confondere pericolosamente il piano delle ideologie e quello della ricostruzione storica. E se è vero che operare una totale separazione tra questi settori è tutt’altro che semplice, è anche vero che essi non possono essere appiattiti al punto da essere sovrapposti, come è quasi sempre accaduto quando si è discusso e si discute di matriarcato. La breve rassegna della storiografia sul potere femminile sin qui tracciata sembra fornirne una chiara dimostrazione, ponendosi al tempo stesso come ammaestramento. La diversa valenza politica che nel corso di poco più di un secolo è stata attribuita al matriarcato (di volta in volta marxista, razzista, femminista, pacifista ed ecologista) sta a indicare quanto possa essere grave il pericolo di pensare che il compito della ricerca storica sia quello di mandare messaggi. A seconda dei momenti, delle situazioni, e soprattutto di chi li invia, questi messaggi possono cambiare e assumere segni non solo diversi ma addirittura opposti. Il che non toglie, peraltro, che il dibattito sul matriarcato abbia avuto risultati molto importanti. Grazie alle caratteristiche che il preteso potere femminile avrebbe avuto (soprattutto, come già detto, nella formulazione bachofeniana), esso ha fornito lo spunto a una serie di indagini di grande attualità e interesse sull’opposizione tra virilità e femminilità nelle strutture psichiche. Sul piano storiografico, mettendo in discussione la naturalità e quindi l’inevitabilità della dominanza maschile, ha stimolato indagini, sia storiche sia antropologiche, che hanno consentito di cogliere la varietà e l’eterogeneità delle organizzazioni familiari e sociali nello spazio e nel tempo, individuando l’esistenza di organizzazioni matrilocali e matrilineari tanto nel passato quanto nel presente delle società di interesse etnografico. E questo, certo, non è merito da poco.

Infine un libro recente di grande importanza è l’Alba di tutto scritto da David Graeber e David Wengrow e pubblicato da Rizzoli.   

RILKE – BRODSKJ – ORFEO

Bassorilievo napoletano: Orfeo, Euridice, Eermete

Premessa

Orfeo non era fra i miei miti più frequentati fino a che non ho letto un saggio di Brodskj, dedicato a una poesia di Rilke, un altro autore rispetto al quale mi ero sempre tenuto un po’ a distanza finché non l’ho incontrato in quella straordinaria avventura epistolare a tre – Settimo sogno –  su cui ho già scritto in questo blog un saggio a cui rimando.1 La diffidenza rispetto a Rilke come a Orfeo riguardava più che altro la riproposizione dell’orfismo nel pieno della modernità. Era stato Apollinaire ad annunciare la nascita del cubismo orfico nel 1912. Dell’impresa facevano parte Delaunay, il gruppo di pittori del Blaue Reiter, Duchamp e addirittura i futuristi italiani e Léger! Secondo Apollinaire il carattere orfico del gruppo sarebbe consistito nel fare riferimento alla parte irrazionale dello spirito, con sconfinamenti nel magico. I testi in auge durante quegli anni erano, in poesia, Coup de dés di Mallarmé e per quanto riguarda la teoria o la filosofia, un libro scritto a sei mani da Henri Martin Barzun, Fernand Divoire e Sebastien Voirol La poesia dell’oralità, dove si parla fra le altre cose del simultaneismo orfico. Con tutto ciò, a dire il vero, Rilke non ha nulla a che fare, anche se il nome di Orfeo è presente dall’inizio alla fine della sua opera. Peraltro, a un secolo di distanza, è pure arduo capire cosa potessero avere in comune Leger e i futuristi italiani (e anche quelli russi), se non una generica e comune attenzione alla civiltà industriale. Tuttavia, mentre Leger e i russi esaltavano l’operaio e lo mettevano al centro della fabbrica, i futuristi italiani vedevano solo nel macchinismo, nella velocità e nella tecnologia il cuore del processo. Allo stesso modo, l’associazione fra orfismo e poesia sonora stabilita dal simultaneismo è assai risibile: scambiare il ta ta ta ta ta futurista per una formula magico rituale orfica indica soltanto una grande confusione e superficialità, trattandosi semplicemente dell’imitazione del suono di una sequenza di spari. Tornando a Rilke, il suo orfismo andava cercato altrove e cioè negli aspetti esoterici della sua ricerca e il suo legame con i miti, come avevano messo in luce tutti gli studiosi che si erano occupati di lui, sia nella prima parte del ‘900 sia nella seconda: Furio Jesi fu lo studioso che più se ne occupò in Italia proprio in quegli anni. Tuttavia, Rilke rimane anche oggi una presenza sfuggente e infatti il suo curioso destino è sempre stato quello di essere molto osannato e al tempo stesso preso con le molle, tenuto un po’ a distanza, considerato oscuro; oppure oggetto di aneddoti che costituivano un alone di mistero intorno a lui. Questo saggio per la sua lunghezza sarà diviso in due parti. Nella prima mi occuperò prima di tutto del saggio di Brodskj, nella seconda del mito di Orfeo.

Parte prima: Il saggio di Brodskj

Il titolo del saggio di Brodskj, Novant’anni dopo, è tanto impegnativo da diventare rivelatore dell’importanza che il suo autore attribuisce al poemetto di Rilke, la cui stranezza si evidenzia a partire dal titolo: Orfeo, Euridice. Ermes

La virgola separa i due primi nomi, poi il segno di interpunzione: nulla dopo il terzo nome.1 L’interpretazione che Brodskj ne dà è semplice e convincente: Orfeo ed Euridice, in quanto appartenenti al mondo degli umani, sono esseri finiti, mentre Ermete essendo un dio è aperto all’infinità. Con questo titolo, tuttavia, Rilke sembra volerci dire anche qualcosa d’altro e cioè che non ha alcuna intenzione di attualizzare il mito, ma di tornarvi in senso letterale, senza porsi particolari interrogativi, per cui fin dall’inizio vuole farci intendere che non dobbiamo attenderci alcuna sorpresa: lui, come noi, sa già come andrà a finire. Questo poemetto è del 1904 ed è stata scritto quando Rilke non era ancora diventato tale. Spesso ci dimentichiamo che un poeta o uno scrittore non sono gli stessi prima e dopo certe opere: vale per Dante con la Commedia, per Leopardi con L’infinito; vale in misura minore anche per Rilke. In quell’anno egli è un giovane poeta come tanti altri, ramingo per l’Europa: un flaneur un po’ fuori tempo massimo che prende per la coda uno dei vezzi più comuni agli artisti e intellettuali centro e nordeuropei del ‘700 e dell’800: il Grand Tour. Il motivo ispiratore occasionale del testo sembra essere stato un bassorilievo visto in un museo di Napoli, in cui sono scolpite tre figure ripiegate su se stesse: Orfeo, Euridice ed Ermete. Non è chiaro in quale occasione o passaggio delle lettere o altro, Rilke abbia accennato a tale bassorilievo. Forse Brodskj ne parla come di un proprio ricordo, perché pure lui non indica la fonte e a leggere il testo pare persino che abbia dato credito a qualcosa che gli è stato raccontato. Tutto questo, a ben vedere, è molto rilkiano perché il poeta boemo era noto per cancellare o lasciare nel vago le fonti delle sue ispirazioni e persino le sue letture. Le lettere spedite a Lou Salomé dall’Italia proprio in quel periodo non aiutano, così come non aiutano in altri casi. Peraltro, Brodskj nega che esista un rapporto di qualche importanza fra il bassorilievo e la poesia e inizia la sua analisi con una lunga premessa con la quale vuole escludere qualsiasi riferimento personale alla base di questo testo. Tuttavia nel parlare di una fuga dalla biografia, egli usa un’espressione assai ambigua e in molte altre parti della sua acutissima analisi del testo rilkiano, gli accenni a possibili elementi biografici non mancheranno; il che fa supporre, se mai, una ritrosia a parlarne, ma anche l’impossibilità di negarli. Del resto, se sono così labili le tracce di questo bassorilievo, perché mai dedicarvi tanto spazio per poi negarne l’importanza? Bisogna considerare che Brodskj, anche in altri saggi, insiste sulla necessità di non ricercare elementi biografici o altro in un testo poetico, dichiarando più volte (cito a memoria) che quando la metafora è riuscita non occorre altro. Vero, ma fino a un certo punto: la sua insistenza eccessiva sembra fatta apposta per suggerire il contrario e l’espressione fuga dalla biografia può essere letta come il segno evidente di un motivo ispiratore molto forte e assai personale, tanto personale che si potrebbe addirittura pensare alla faccenda del bassorilievo come a una voluta opera di depistaggio messa in atto da Rilke medesimo.

Il poemetto inizia quando Orfeo, già disceso nell’Ade, sta risalendo insieme a Euridice e a Ermes che li accompagna:

Era la prodigiosa miniera delle anime./Come vene d’argento silenziose/scorrevano il suo buio. Tra radici/ sgorgava il sangue che affluisce agli uomini/e greve come porfido appariva nel buio./Di rosso altro non c’era.//Rupi c’erano, selve incorporee e ponti sul vuoto/e quell’enorme, grigio, cieco stagno,/sospeso sopra il suo lontano fondo/come cielo piovoso su un paesaggio./E in mezzo a prati miti di pazienza,/pallida striscia, un unico sentiero era visibile/come una lunga tela distesa ad imbiancare.//E per quest’unico sentiero essi venivano.2

Siamo dunque in medias res, ma il mito non inizia da quel momento, se non altro per la banale considerazione che Euridice prima di essere morta è stata viva e nell’Ade non c’è andata di sua volontà. L’affermarsi di un’interpretazione, oppure il riferirsi solo a parti di un mito ha certamente le sue ragioni; ciononostante, non va dimenticato che si tratta pur sempre di visioni parziali che, se non vengono più sottoposte da lungo tempo a un vaglio critico, rischiano di diventare altrettanti stereotipi. Inoltre, il mito è stato più e più volte rivisitato, riattualizzato, setacciato, interpretato da altri scrittori, musicisti, pittori. Per rimanere solo al ‘900 italiano basterà ricordare Pavese nei Dialoghi con Leucò. La ricchezza e la complessità di questo mito, mettono chiunque ne voglia parlare e scrivere di fronte a un compito assai arduo. Inoltre, sebbene il momento in cui Orfeo si volta sia uno dei passaggi chiave, rimane pur vero che ce ne sono altri, per esempio l’inizio della storia e ciò che provoca la morte di Euridice; ma ancor più stupisce che Rilke, a differenza di quasi tutti coloro che nella storia se ne sono occupati, non sembra dare particolare rilevanza neppure a quel momento. Lo abbiamo visto a cominciare dal titolo, ma sarà ancora più evidente in alcuni versi su cui anche Brodskj si sofferma a lungo:

Venivano, gli parve, ma con passo inudibile,/i due. Se per un attimo/gli fosse dato volgersi (se il volgersi a guardare/non fosse la rovina dell’intera sua opera/prima del compimento)/li vedrebbe i silenziosi due che lo seguivano:…

L’accenno alla necessità di non voltarsi è messa fra parentesi, come se fosse scontato per l’uditorio che legge il suo testo; lo è, tutti sappiamo – lo ripeto – come va a finire la storia, ma si mette fra parentesi anche ciò che non è rilevante, come nota anche Brodskj, seppure dando un’interpretazione della mossa compiuta da Rilke diversa. Invece, credo che chiunque abbia udito questa narrazione la prima volta (nel mio caso fu in un’aula scolastica), arrivato alla fine si sia chiesto perché mai Orfeo si fosse voltato, visto che era la sola cosa che non doveva fare! Tuttavia, sembra che a Rilke tale domanda non interessi e in fondo anche il bassorilievo di Napoli non se ne cura: esso infatti riproduce le tre figure nel momento in cui si avviano per il sentiero di risalita. Di questo bassorilievo, peraltro, esistono diverse copie e anche altri miti vengono raffigurati in queste tavolette che sono anche l’imitazione di pezzi antichi e autentici ritrovati a Pompei: uno famosissimo è quello che riproduce l’immagine di una fanciulla che diventerà la Gradiva, un altro personaggio che all’inizio del ‘900 ha occupato le fantasie di Jensen e specialmente di Freud. L’immagine di Euridice ricorda assai quella della Gradiva e tutto questo rimanda a un immaginario popolare e al tempo stesso ingenuamente classicista. Brodskj vede nel segno grafico della parentesi entro la quale il poeta boemo accenna al divieto di voltarsi imposto a Orfeo dagli dei, un segno di attenzione nei confronti del lettore e forse di ironia: un ricordargli la storia, in sostanza. Anch’egli afferma subito dopo che ciò che si mette fra parentesi è anche qualcosa cui non si dà importanza ma nell’economia della sua critica Brodskj privilegia la versione di un avvertimento fornito al lettore. Credo invece che la ragione forte sia la prima: Rilke mette fra parentesi l’accenno al divieto perché per lui non è quello il motivo che lo ha spinto a scrivere il suo testo. Inoltre: è davvero realistico pensare che un lettore di Rilke nel 1904 e negli anni successivi, avesse bisogno di ricordare il divieto? La parentesi serve a Rilke per ribadire che non è quello per lui il momento topico del mito. Per giungere al passaggio che gli sta a cuore, il poeta ha ancora bisogno di tempo, deve girare un po’ al largo, caratterizzare tutti i personaggi, ma specialmente deve ritardare il momento in cui il testo lo porterà ad attraversare un passaggio particolarmente difficile; i versi che precedono servono anche a tenere quel momento, finché si può, lontano da sé. La parte centrale del poemetto ha questo scopo e Brodskj l’analizza puntualmente mettendo in evidenza la bellezza e le immagini davvero uniche di questa poesia, specialmente quando descrive Euridice, come si muove, le sue espressioni, il suo corpo. Il momento topico arriva con questi versi che seguono e che introducono un elemento di differenziazione che è proprio l’apporto che Rilke dà alla rilettura del mito. Insieme a essi riporto anche quelli immediatamente precedenti, che completano la descrizione di Euridice:

…/Era già sciolta come lunga chioma/e già dispersa come pioggia in terra/e divisa come un retaggio in cento/E quando all’improvviso/il dio la fermò e con dolore/pronunciò le parole Si è voltato! – lei non comprese e disse piano: Chi?/

Il monosillabo sussurrato da Euridice a Ermete risuona a lungo nelle orecchie di un lettore, anche di quello silenzioso; sebbene sussurrato sembra aprirsi in chi legge in un urlo senza fine. Anche Brodskj sottolinea l’importanza di questo passaggio che fa balzare sulla sedia, ma l’interpretazione che ne dà non mi convince e suona come un indoramento della pillola. Riconosce che in esso emerge qualcosa di personale e profondo che Rilke tradurrebbe nell’esperienza dell’estraniamento romantico, di cui, il chi sussurrato da Euridice sarebbe la metafora riuscita. Per spiegarlo meglio Brodskj ricorre a un aneddoto: immagina che un uomo (e uso il termine in senso parziale perché a mio avviso Brodskj aveva in mente un soggetto maschile forse perché penso che una donna non si comporterebbe così), passando per caso davanti alla casa di una ex che sia stata importante nella sua vita, venga preso dalla tentazione di suonare il citofono e di presentarsi con il proprio nome e di udire dall’altra parte la persona che fu la nostra compagna risponderci – dopo un momento di smarrimento – con un laconico: Chi? Brodskj afferma che se ci capitasse un’esperienza del genere capiremmo di essere stati sostituiti. Non concordo. Rilke in questo passaggio mette in scena ben altro e non ha in mente un accadimento in fondo così minore, anche se non abbiamo indizi ma solo supposizioni su quale sia il retroterra personale sullo sfondo del poemetto. Se ci capitasse un’esperienza come quella descritta da Brodskj, se mai, verremmo colpiti nel nostro narcisismo secondario e basta; ma se quel chi fosse l’eco di qualcosa di più profondo e fosse risuonato nelle orecchie di Rilke perché legato a un’ossessione che lo ha costantemente accompagnato per tutta vita – la ricerca spasmodica delle sue origini – quel chi avrebbe un altro significato: non capiremmo semplicemente di essere stati sostituiti, ma di essere morti per l’altro o l’altra che abbiamo interpellato, di non esserci più, addirittura di non esserci – forse – mai stati. Rilke mette veramente in scena qualcosa di nuovo e di diverso, che afferra allo stomaco e al cuore, nonostante che la scelta, felicissima sul piano poetico, abbia tuttavia anche degli aspetti paradossali, se ci fermassimo al teatrino. Perché Rilke sa che Euridice è già morta, lo ha descritto con accenti di straordinario struggimento e bellezza in versi precedenti questi e sui quali Brodskj ha scritto pagine mirabili cui nulla vi è da aggiungere. Perché allora fare parlare una defunta che per di più si rivolge a un dio, cosa che è vietata dal pantheon classico? La spiegazione che Rilke può farlo perché è un moderno e addirittura forse già un post moderno non convince per nulla. Non vi è in questo testo niente di postmoderno, la sua grandezza è dovuta in buona parte proprio a tale assenza. Rilke può farlo perché non rilegge il mito secondo il canone letterale e tradizionale delle sue interpretazioni correnti, ma vi introduce un elemento del tutto nuovo: il dolore che mette in scena non è quello di chi ha subito una perdita, o è stato sostituito, ma quello inspiegabile e definitivo di chi è stato perduto o non riconosciuto e nemmeno accolto nel mondo. La poesia però non finisce qui e non poneva finire qui: sarebbe stato concluderla con un colpo di teatro, con una battuta geniale ma – questa sì – postmoderna; ma ciò presupporrebbe un’intenzionalità diversa, parodiare il mito, che non era l’intento di Rilke. Perciò la poesia necessita di uno scioglimento che avviene con questi versi:

/Ma lassù scuro all’uscita chiara,/stava qualcuno, irriconoscibile./Stava e guardava un tratto del sentiero/in mezzo ai prati dove il dio del messaggio/si voltava in silenzio, mesto in viso,/e si avviava a seguire la figura/che già ripercorreva quel sentiero,/con il passo frenato dalle bende,/incerta mite e senza impazienza./

Il tono è dolente, il tutto finisce in una lunga scia che si attenua e ricorda certi struggenti finali wagneriani. Appare però un nuovo personaggio, che Rilke nei suoi versi decide di non nominare direttamente, ma solo tramite l’aggettivo irriconoscibile. In realtà è riconoscibilissimo e lo sa anche il poeta. Brodskj si chiede se avesse potuto nominarlo direttamente: in teoria sì, ma c’erano almeno tre buone ragioni per non farlo. Prima di tutto una citazione diretta sarebbe suonata troppo didascalica; in secondo luogo perché il lettore può capire da solo di chi si tratta. Per la terza ragione bisogna passare attraverso una domanda che la precede e cioè chiedersi se Rilke non avrebbe fatto meglio a non nominarlo del tutto. La risposta sta nel primo verso della parte finale, ma lassù all’uscita chiara. Rilke si è già congedato dalla scena e considera il finale come il compiersi oggettivo e impassibile del fato, da un lato; dall’altro, egli vede le cose dal punto di vista di Orfeo, ma non nel senso di un’immedesimazione diretta, diciamo psicologica nel personaggio, ma semplicemente oggettiva e realistica. Tornando alla luce dall’Ade, Orfeo ne è abbagliato e non può vedere il qualcuno scuro che sta in alto – Crono – il dio che sintonizza gli orologi che scandiscono un tempo diverso per i vivi e i morti. Orfeo ed Euridice andavano fin dall’inizio in due direzioni opposte, era solo un’illusione di Orfeo che tutti e due stessero davvero andando verso la luce e la vita e quando Crono ha fatto scattare il meccanismo del tempo, si sono trovati l’uno di fronte all’altra; oppure – come ipotizza Brodskj, Crono li ha fatti voltare tutti due contemporaneamente. A conclusione di questa parte ricordo di nuovo l’inizio del saggio di Brodskj e il suo titolo impegnativo: Novant’anni dopo. La spiegazione di tale scelta è il poeta russo medesimo a darcela e a leggerla essa suona un’ovvia conseguenza del titolo stesso:

Era il 1904 quando Rainer Maria Rilke scrisse Orfeo. Euridice. Ermes, e qualcuno può domandarsi se la più grande opera di questo secolo non fu creata novant’anni fa.” (ndr: il saggio di Brodskj fu scritto nel 1994)

L’iperbole usata da Brodskj è accettabile, anche perché il poeta non ignora di certo quanto sia difficile stabilire delle graduatorie in questo campo, ma essa può essere accolta senz’altro non solo come iperbole ma anche nella sua parziale verità. Tuttavia, nell’affermazione di cui sopra vi è una seconda parte nascosta, che Brodskj non credo avrebbe sottoscritto una volta resa esplicita e la cui responsabilità dunque è tutta mia. Il titolo del saggio, che il poeta russo lo volesse o meno, contiene un po’ di veleno nella coda e avendo a che fare con un mito in cui una parte rilevante ce l’ha anche il morso di una serpe, forse la cosa vale la pena di notarla. Dire che questa è la più grande poesia del ‘900, significa anche affermare che quanto Rilke ha scritto dopo e cioè le Elegie duinesi e il Sonetti a Orfeo, sono opere inferiori rispetto a questa. Faccio mia senza riserve tale ipotesi. Orfeo, Euridice. Ermes chiude a mio giudizio la stagione del Rilke poeta e ne apre un’altra: quella del letterato erudito e grande illusionista. Tuttavia, poiché un poeta può rimanere ed essere decisivo anche per avere scritto una sola poesia, Rilke, grazie a questo testo, merita anche l’iperbole di Brodskj, forse con una leggera aggiunta: è la più grande poesia del ‘900 secondo i canoni di una poetica. Del resto il poeta boemo, in uno dei non frequenti momenti in cui ha lasciato delle vere tracce di sé e non dei depistaggi, ha ammonito il lettore e il critico della sua poesia con queste parole che cito a memoria: Guardate che io sono l’ultimo di una lunga schiera. La schiera cui allude è quella dei poeti orfici, ma nel dirlo Rilke dimostra anche di avere avuto quanto meno la consapevolezza che essere l’ultimo potrebbe anche voler dire, oltre che esserlo in ordine di tempo, che la miniera è stata scavata a lungo, che l’oro rimasto è poco, che non si può pensare che l’orfismo possa rinascere nella sua pienezza, che le poetiche sono necessarie come punto di partenza, ma che in definitiva un poeta è tale se poi è capace o meno di apportarvi del nuovo; altrimenti si cade nella ripetizione. È quanto avviene dopo, specialmente nei Sonetti a Orfeo, che sono, rispetto al poemetto del 1904, pura letteratura erudita, o addirittura come scrisse Giovanni Papini in un articolo del Corriere della Sera del 1954: “trappolerie più pretenziose che preziose.”


1 Il saggio s’intitola Rilke – Cvetaeva – Pasternak e si trova nella rubrica Amori letterari del blog.

1 Josip Brodskj. Dolore e ragione, Adelphi, Milano 1995, pp. 207-67.

2 Il testo in questione si trova nel libro di Brodskj, in coda al suo saggio, ma è reperibile facilmente anche in rete.

FIGLIO DI SUO FIGLIO: UNA LETTURA DI PINOCCHIO

Premessa

Anni fa, fui a partecipare a Pisa a un convegno su Pinocchio. Le diverse relazioni furono pubblicate in un libro collettivo edito da Bruno Mondadori e curato da Rossana Dedola e Mario Casari, dal titolo Pinocchio in volo tra immagini e letteratura. Ripropongo nel blog la mia relazione, con qualche modifica e un titolo diverso, che nel tempo mi è parso più appropriato.

Introduzione

Nel preparare questo intervento sono partito da una domanda che mi ero fatto altre volte: perché questo libro affascina così tanto? Rileggendolo per l’ennesima volta mi sono dato più o meno la stessa risposta e cioè che la straordinarietà de Le avventure di Pinocchio sta nel fatto che si tratta di una vera e propria quest, un viaggio iniziatico che però non è classificabile come tale perché il sostrato sapienziale è avvolto in una storia che sembra troppo semplice per reggerlo. Eppure mai come ora questa valenza mi è parsa così evidente. Del resto tale interpretazione è stata ormai fatta propria da molti studiosi appartenenti a culture e sensibilità diverse. Allora mi sono posto un’altra domanda: cosa ci fa un libro simile, così semplice e sapiente, alle porte di un secolo che avrebbe fatto del disincanto, dell’intellettualismo, della complicazione, del virtuosismo, dell’originalità a tutti i costi, della secolarizzazione, il proprio leit motiv?

Se Jung ha qualche ragione nel dire che un grande artista o una grande opera d’arte sono tali perché mettono in evidenza ciò che più manca a un’epoca, forse Le avventure di Pinocchio ci parlano di qualcosa che era stato rimosso o stava per esserlo; è in questa prospettiva che ho di riletto il testo, dividendolo idealmente in tre parti.

Due vecchi e un pezzo di legno

Mastro Ciliegia e Geppetto litigano in modo infantile, sono rissosi e puerili e si comportano come bambini capricciosi. L’effetto è comico e inquietante perché evoca un mondo in cui le età dell’essere umano non sono al loro posto.

Dei due, Mastro Ciliegia si disinteressa subito al pezzo di legno, evitando ogni coinvolgimento; l’altro, che si trova fra le mani questo strano lascito, vuole costruire un figlio-burattino. Il falegname del mito cristiano non si accontenta più di essere padre putativo; vuole sostituirsi al padre celeste, ma si comporta in realtà come un apprendista stregone!

Il burattino, dal canto suo, rifiuta il processo di crescita e i riti di passaggio che la società secolare gli propone: andare a scuola, imparare a leggere e a scrivere. Ad essi contrappone l’onnipotenza infantile: farò tutto quello che voglio dice al grillo parlante; e quando parla fra sé e sé andando a scuola con l’abbecedario, penserà: Oggi imparo a leggere, domani a scrivere ecc. con una fretta che ignora la fatica di una qualsiasi conquista. D’altro canto, però, la legge che dovrebbe seguire s’incarna in esempi assai improbabili, a cominciare da Geppetto che è un padre a metà e non può guidarlo veramente nel mondo. È premuroso con Pinocchio, per esempio nel curargli i piedi bruciati, ma nei suoi slanci è improvvido, come quando vende la giacca per comperare l’abbecedario. Il grillo parlante, d’altro canto, è saccente e moralista, rappresenta una funzione educativa astratta; attualizzandone la figura potremmo dire che si tratta di un superio scisso da altre funzioni psichiche.

Pinocchio in realtà è solo e in balìa di se stesso e della propria natura.

Il segno distintivo del suo comportamento è la coazione a ripetere: egli oscilla fra l’adesione formale alla morale astratta del superio e gli agiti puramente istintivi che lo portano sempre laddove egli dice razionalmente di non volere andare. Ciò che manca sono il senso di realtà e la capacità di ascolto e apprendimento dall’esperienza; l’ultima sirena che suona è quella che lui segue. Crede al Gatto e alla Volpe oltre ogni limite di ragionevolezza ed è l’immagine speculare dell’ambivalenza di Geppetto, da cui paradossalmente impara quello che sarebbe meglio non imparare: quando vende l’abbecedario per andare al teatro dei burattini, si comporta come Geppetto che aveva venduto la giacca per comperare l’abbecedario.

Tuttavia, se questo è il quadro generale del suo comportamento, alcuni scarti dalla norma si manifestano da subito; la coazione a ripetere non è assoluta, forse non lo è veramente mai ed è proprio grazie ai piccoli spostamenti che avvengono i cambiamenti profondi.

Del primo scarto è inconsapevolmente responsabile Mangiafoco che, dopo avere risparmiato a Pinocchio il fuoco, gli rivolge una domanda di buon senso, vedendolo solo in balìa del mondo:

E il tuo babbo e la tua mamma sono sempre vivi?

La risposta di Pinocchio è duplice, ma è sulla seconda parte che sarà bene soffermarsi:

Il babbo sì; quanto alla mamma non l’ho mai conosciuta

Giorgio Manganelli si è soffermato su questo passaggio, il più importante della prima parte; in esso, afferma il critico, Pinocchio nomina per la prima volta uno dei temi di fondo della sua vicenda. Fino ad ora, infatti, il femminile non è mai apparso nel testo. Ponendo la domanda appropriata al momento giusto Mangiafoco ha svolto meglio di chiunque altro fino ad ora la funzione educativa che un adulto dovrebbe esercitare; ha fatto emergere alla coscienza del burattino il dato più vistoso di questa storia paradossale e cioè che Pinocchio è nato da due mezzi padri ma non ha una madre.

Il secondo importante scarto è la determinazione con cui Pinocchio difende Arlecchino da Mangiafoco che lo vuole bruciare al suo posto. È la prima volta che egli manifesta una volontà orientata al conseguimento di un obiettivo razionale e giusto; ma è anche la prima volta che il burattino si è comportato da essere umano. Pinocchio si è rafforzato: ha vinto la prova del fuoco e ne ha incorporato la forza.

Veniamo ora al momento in cui finisce la prima parte. Pinocchio è inseguito dal Gatto e dalla Volpe e non ha scampo, si è cacciato in un vicolo cieco. In realtà, però, la questione è un po’ più complessa perché i suoi agiti inconsci, si potrebbe anche dire il daimon che lo spinge senza che lui ne abbia ancora una chiara coscienza, lo hanno portato nel luogo della sua origine: Pinocchio è un burattino di legno e torna al bosco. Egli si trova dove il pezzo di legno ha la sua origine; ma per quella strada non c’è sviluppo possibile ma solo la regressione infinita. E proprio nel luogo del materno indistinto, ecco che il femminile si concretizza nella bambina che abita la casetta incantata. Pinocchio chiede aiuto ma lei non lo asseconda. È un passaggio che può apparire crudele. Invece è proprio il suo comportamento che provocherà il primo cambiamento consistente nella vicenda del burattino. Pinocchio deve ricominciare daccapo se vuole diventare umano; ma perché questo avvenga è necessario passare attraverso la sua fine e così da mezzo nato che era ora conosce una mezza morte: con  l’impiccagione finisce la storia del burattino e ne comincia un’altra che sembra proporre gli stessi temi della prima; ma è solo un’apparenza superficiale.

Prima di tutto la bambina è diventata una Fata dai capelli turchini. Se Pinocchio, passando attraverso la porta stretta della propria morte come burattino, si è aperto a un’altra vicenda, anche la bambina è uscita dalla sua prigione. Fuor di metafora, non solo il burattino è cambiato, ma anche il femminile, da assente che era, comincia ad essere protagonista di questa storia. Il secondo vistoso cambiamento riguarda Pinocchio stesso. Egli sembra ripercorrere il ciclo della coazione a ripetere, ma in modo sempre più accelerato e con vistosi scarti dalla pura e semplice ripetizione. Rifiuta la medicina amara, ma si rende subito conto che questa volta non può scherzare di fronte ai becchini che vengono a prenderlo. Si fa abbindolare ancora dal Gatto e dalla Volpe, ma per l’ultima volta perché quando li incontrerà di nuovo li saprà riconoscere per quello che sono. Va dal giudice a denunciare il furto degli zecchini d’oro e viene imprigionato. Pinocchio scopre che i giudici non mettono in galera i ladri ma i derubati; si scontra, cioè, con le leggi reali e non scritte del mondo. Tuttavia capisce presto l’antifona perché quando il re della città di Acchiappacitrulli concede un’amnistia lui subito si dichiara malandrino perché capisce che in un mondo rovesciato anche la verità è rovesciata e dunque menzogna e se si dichiarasse innocente non verrebbe liberato.

Vorrei aprire a questo punto una piccola parentesi. Quando si pensa a Pinocchio ciò che tutti ricordano, adulti e bambini, è che gli cresce il naso quando dice le bugie. Questo particolare, però, ne fa dimenticare un altro altrettanto importante e cioè che questo non avviene sempre; per esempio quando si dichiara colpevole, oppure quando inganna le faine e le fa catturare, il naso non gli si allunga affatto. Esso gli cresce quando si verificano due condizioni: in presenza dell’elemento femminile (la Fata turchina) e quando la menzogna gli impedisce di crescere e di evolversi. E l’espediente del naso, intuizione geniale quanto mai per i suoi sensi e sotto sensi molteplici e per l’effetto comico che suscita, sta però a significare anche una presa di coscienza: Pinocchio sa di mentire e se ne vergogna, prima non lo sapeva. Anzi, parole come verità o menzogna non avevano alcun senso riferite a chi vive in balìa dell’ultimo che parla.

Tuttavia il burattino non è ancora maturo per il gran salto e la fata turchina, madre a metà che rimane tale, non può essere una vera guida spirituale come non lo è Geppetto. Quando agisce sul piano razionale suscita in Pinocchio sentimenti di colpa, ma non è per quella via che può educarlo, tanto meno con le sue finte morti che si presentano come ricatti sentimentali destinati a cadere nel vuoto. È lei stessa a sapere questo, anche il suo comportamento è all’insegna della coazione a ripetere. Quando lo aiuta veramente lo fa in modo analogico, oppure perché suscita in lui un sentimento d’identificazione. È il colore azzurro la vera forza dell’elemento femminile in questa storia, il colore che sarà anche della capretta, il colore che apparirà ogni volta che Pinocchio affronterà le prove più dure; quasi fosse una guida, un angelo custode dalle sembianze femminili. Ancora una volta in balìa di adulti dimezzati Pinocchio conosce alla fine della seconda parte la regressione che sembra più disastrosa e definitiva.

Il paese dei balocchi, morte e rinascita

Questa parte del testo di Lorenzini, che non esito a definire profetica, è quella che maggiormente si proietta verso di noi. Sono tutti ragazzi dagli otto ai quattordici anni, cioè adolescenti e preadolescenti maschi. Si tratta dunque di un mondo senza padri e senza madri, un’orda primitiva di fratellini, orizzontale; dove la verticalità è rappresentata soltanto dai gestori occulti del sistema di relazioni esterne, un vero e proprio potere impersonale che si manifesta attraverso figure ridicole e meschine come l’omino di burro. Visto dopo tutto quello che sappiamo dei meccanismi di manipolazione di massa questa parte del libro di Collodi è davvero stupefacente. In essa Lorenzini mette in scena una società istupidita e bambina, preda di ogni potere, dove domina lo spettacolo continuo, il gioco che non finisce mai e qui le analogie con gli apparati propagandistici contemporanei è  molto forte. Tuttavia, quando Pinocchio finalmente esce dalla città dei balocchi non è più un burattino ma entra nella vita organica come asino, ma per la prima volta è costretto a sentire su di sé il dolore della propria condizione e la fatica che si fa a sopportarlo.

Dopo essere scampato alla morte per fuoco (Mangiafoco), aver conosciuto la morte per aria con la prima impiccagione, Pinocchio finisce impiccato una seconda volta in fondo al mare e conosce la morte per acqua; grazie alla seconda impiccagione egli ritorna burattino, ma vi ritorna però per l’ultima volta. Nel ventre del pescecane incontra Geppetto; ma specialmente entra finalmente in contatto con quella parte dell’elemento femminile che gli mancava. La pancia del pescecane-balena non è più la regressione al femminile indistinto, ma il luogo della nascita, sebbene anche il femminile si presenti qui altrettanto poco individuato quanto il maschile. Se la fata turchina è un’essenza puramente spirituale e astratta, il ventre del pescecane è un femminile ridotto a puro contenitore riproduttivo, ricambio organico fra vita e morte. È la scissione della cultura occidentale che Lorenzini mette in scena, non l’assenza del femminile nella vicenda; piuttosto una strana forma di sparagmos. Il maschile e il femminile sono presenti in eguale misura in questo testo, ma disseminati e scissi. Nato finalmente da un ventre vero, seppure mostruoso, Pinocchio deve superare l’ultima prova: la morte di Lucignolo, che rappresenta da un punto di vista intra psichico, la parte di sé asinina. Pinocchio tuttavia ne ha pietà e reintegra così quella piccola luce così come reintegrerà alla fine della storia anche il grillo parlante; perché anche quella piccola luce, se metabolizzata e non agita indiscriminatamente, può essere il lume di una creatività che non va del tutto spento.

Pinocchio dunque è finalmente nato, nato insieme a suo padre e questo mi riporta al titolo del mio intervento: Figlio di suo figlio. Due sono stati gli elementi decisivi per farmelo scegliere. Il primo è l’incipit di un romanzo famoso, di cui Carlo Lorenzini è stato grande ammiratore: mi riferisco al Tristram Shandy di Laurence Sterne. Rossana Dedòla, nel suo libro Pinocchio e Collodi ha ricostruito molto bene il rapporto fra l’opera e il suo autore, mettendo bene in evidenza l’importanza che questo romanzo ha avuto per Lorenzini; oltre – naturalmente – quella avuta dalle fiabe del ciclo perraultiano, di cui fu impareggiabile traduttore.

Il secondo elemento decisivo per farmi scegliere il titolo, è proprio questo parto paradossale di un padre e di un figlio insieme.

Partirò da Sterne. L’episodio cui mi riferisco è nella parte introduttiva, la dedica che l’autore indirizza al pubblico. Tristram racconta la sua nascita e come è venuto a sapere della stessa. È un brano così celebre che arrivo in fretta alla sintesi. Dice Tristram che nel momento decisivo, quello in cui lo spermatozoo fuoriesce e va verso la sua sede naturale la moglie di suo padre e dunque sua madre si rivolge al marito con la seguente domanda:

Caro, ti sei ricordato di caricare l’orologio?

Su questo episodio hanno scritto in molti, con osservazioni acutissime e intelligenti; ma se ho capito qualcosa di Lorenzini io penso che lui sia stato attratto da qualcosa di semplice che lo toccava di più nel profondo: perché è sempre andando alla radice ultima del proprio dolore o della propria gioia che si può scoprire la grazia di una parola che non riscatta solo chi la scrive ma tutti. E questo qualcosa ha a che fare con la scoperta che la nascita biologica è un evento bizzarro nel quale s’incrociano il caso e il miracoloso. Quando si scopre questo si è di fronte a due strade: o rimanere ancorati a tale constatazione elaborandola nel segno di un pessimismo nichilista di cui il secolo scorso ha abbondato; oppure declinare questa scoperta nel senso di un’apertura alla possibilità che nel corso della nostra vita noi possiamo conoscere e sperimentare il ciclo nascita-morte-trasformazione e dunque metamorfosi; senza necessariamente ipotizzare favolosi altrove, aldilà, altre vite, ma anche lasciando fluttuare la questione senza occuparsene troppo.

Essere al mondo coscientemente nel senso indicato in precedenza implica un processo di individuazione o iniziazione; cioè una seconda o più nascite. Ma il tempo di queste nascite non è più quello biologico e lineare: è un tempo psichico che arriva quando arriva. Il paradosso di un padre e di un figlio partoriti insieme è allora meno paradossale di quanto non sembri. Geppetto era tanto poco individuato quanto il suo burattino! L’istinto vitale, irriducibile di Pinocchio, che nel momento decisivo spinge se stesso e il padre fuori dal pescecane, azzera il tempo lineare e anche quello biologico.

Le avventure di Pinocchio si possono davvero riassumere in un ciclo di nascita, morte, rinascita e metamorfosi e questo mi porta al confronto con un testo fra i più noti della tradizione antica e classica: L’asino d’oro di Apuleio. Anche Lucio, il protagonista del romanzo, vuole essere iniziato senza passare attraverso la dura fatica che tale percorso comporta; perciò chiede a Fotide, sua amica e amante, di rubare l’unguento magico che lo trasformerà in uccello. Lucio vuole volare alto ma cerca scorciatoie, vuole gabbare gli dei e pensa che basti una formuletta new age dell’epoca sua per raggiungere l’illuminazione; ma si trova trasformato in asino come accade a Pinocchio. Anche per lui, tuttavia, tale condizione è al tempo stesso punizione per la sua stoltezza, ma premessa per la vera iniziazione ai culti di Iside. Ecco allora di nuovo che il Pinocchio di Lorenzini affonda le proprie radici in un vasto territorio che spazia dalla fiaba, al mito, alla tradizione popolare toscana; dove il culto di Iside non si è mai del tutto perduto.

Per concludere

Il finale del libro di Collodi è criticato praticamente da tutti i commentatori più illustri. Si avverte in ognuno di loro una sottile delusione. Non piace alla Von Franz e anche Manganelli lo manifesta in un modo curioso: il suo testo, bellissimo, ha nel finale una sorta di rapido declino, come se egli volesse scappare via. Quale è l’elemento di delusione? Beh alla fin fine questo burattino che diventa finalmente un bambino fa poi le cose più prosaiche: va a scuola, aiuta suo padre, lavora. Insomma, Pinocchio da ribelle senza causa diventerebbe un borghese ordinario, cultore dell’ordine. Magari visto che nel ‘22 ha poco più 40 anni avrà fatto anche la Marcia su Roma e se lo immaginiamo sessantottino oggi sarebbe nel consiglio d’amministrazione di una multinazionale.

Con tutto il rispetto e le cautele del caso io credo invece che il finale di Pinocchio sia del tutto riuscito e coerente sia da un punto di vista letterario, sia da un punto di vista psicologico; il problema è capire in che cosa consiste l’elemento eroico in questo testo; ma anche come esso si colloca in un contesto letterario che sarà dominato dalla figura dell’antieroe. Pinocchio non è né l’uno né l’altro. Non è un antieroe perché è capace di stupirsi, perché il suo solare vitalismo lo tiene lontano dal disincanto, dallo scetticismo, ancor più dal cinismo; ma non è neppure un eroe nel senso della fiaba classica o in quello antico del termine; né in quello delle moderne saghe. Non vi sono né principesse con cui vivere felici e continenti da conquistare, né mirabolanti vittorie militari da conseguire contro imperi del male, il grande nulla di Ende o altro, né ritorni del re come nel Signore degli anelli. C’è invece una declinazione originalissima dell’eroe moderno come colui che cerca se stesso, che sa che nascere biologicamente non basta e che per diventare compiutamente umani occorre un processo di individuazione doloroso e faticoso; un eroe che rovescia il famoso aforisma roussoniano – l’uomo nasce libero e finisce in catene – nel più realistico e saggio: l’essere umano nasce in catene o burattino – se si preferisce – e può diventare libero. Se tutto questo processo di individuazione ha poi anche un risvolto sociale e universale questo si dà come valore aggiunto; altrimenti anche le grandi utopie collettive sono destinate a fallire perché interpretate da burattini coatti piuttosto che da umani consapevoli e capaci di autogestirsi; e chissà che la storia tragica del 900, non ci dica proprio questo e quale sia la voragine o la mancanza che questo libro sapiente indica.        

     

FANGO RADIO 5YEARS

Premessa

Quella che segue è la presentazione della performance Non è un reading che si è tenuta presso il circolo Gagarin di Busto Arsizio il 20 aprile scorso e in streaming su www.fangoradio.com in occasione dei cinque anni di trasmissioni dell’emittente Fango Radio. Di seguito i link ai podcast degli interventi.

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Schermi neri e scritte verdi: è il fondale su cui per 5 anni si è mossa la vostra Fango Radio. Messaggi criptici di color verde su fondo nero per comunicare con le macchine che amplificano la vocina del mago di Oz. (Non sempre riuscendoci.)
Per sessanta mesi abbiamo provato a muoverci in maniera piuttosto disordinata per indovinare cosa ci fosse sotto il pelo dell’acqua, o giù attraverso gli strati geologici del terreno.
Scendendo dall’underground abbiamo toccato il fondale del sub-underground, il benthos si è smosso, l’acqua si è fatta un po’ più torbida ma molto più saporita, abbiamo provato a manomettere maccalube e vulcanelli dove ci sembrava che sedimentassero i fanghi più interessanti. Per raccontarvi questo e altro, tra un concerto e un dj set, per proporvi una visita nel nostro bazar di bigiotteria e mercanzie, per produrre insieme a voi la “Trasmissione n. 9” e in buona sostanza per festeggiare il nostro quinto compleanno un po’ più in gita del solito, ci vediamo il 20 aprile nientemeno che al circolo Gagarin di Busto Arsizio, a pochi minuti dal nostro avamposto prealpino dello Studio G. Garantiamo l’imprevisto dalle 18.00 alle ore piccole.
Per seguire tutte le ore di spettacolo bisogna aprire la pagina andare alla voce events e scorrere verso il basso fino al podcast con le 6 onde sonore.

SRAFFA E WITTGENSTEIN

Ludwig Wittgenstein

Premessa

Le relazioni fra Piero Sraffa e Ludwig Wittgenstein a Cambridge sono state affrontate in vario modo da diversi studiosi e sono anche oggetto di controversie, per un certo alone di mistero che – si suppone – avvolga le biografie di entrambi; e anche, infine, per le spigolosità ed eccentricità dei loro caratteri. Inoltre, i due facevano parte di una costellazione di rapporti, al cui centro troviamo Maynard Keynes, mentore di molti di loro, nonché grande e perspicace organizzatore di uomini oltre che economista. Sullo sfondo due ultimi convitati di pietra: Antonio Gramsci e l’italianista Raffaello Piccoli. I cosiddetti misteri vanno a mio avviso ridimensionati e molti di essi riguardano un aspetto delle loro relazioni su cui porre subito attenzione, tanto esso è particolare e sorprendente nel secolo dell’esplosione abnorme dell’esposizione mediatica. Nel loro caso, le relazioni sembrano provenire da un mondo precedente, in cui le conversazioni mentre si passeggiava o si andava in canoa erano altrettanto importanti quanto le conferenze ufficiali e le lezioni accademiche. Naturalmente tale circostanza, assai affascinante, pone però chi si occupa di loro nella stessa condizione di un archeologo che ritrova dei reperti cui mancano sempre dei pezzi; inoltre tale circostanza favorisce il moltiplicarsi di ipotesi, gli aneddoti e le dicerie. Infine, ci sono diversi aspetti di tali relazioni che s’intrecciano – personali e non – altrettanto affascinanti. Quello di cui mi occuperò prevalentemente in questo scritto riguarda però una questione specifica. Essa è stata sollevata in un saggio di Giorgio Gattei: se e in che modo le Osservazioni e le Ricerche filosofiche di Wittgenstein e cioè le opere successive al Tractatus, abbiano influenzato gli scritti economici di Piero Sraffa.1 Tale questione, tuttavia, può essere rappresentata come un pianeta intorno al quale ruotano diversi satelliti e – per continuare la metafora astronomica – le orbite e le masse di ognuno di questi altri corpi – hanno delle influenze sugli altri e questo moltiplica i temi e gli interrogativi. Eccone solo alcuni, perché altri si vedranno strada facendo: quanto – a sua volta – Sraffa ha influenzato Wittgenstein nella stesura delle opere successive al Tractatus? Più in generale, qual è stato il rapporto di Sraffa con Wittgenstein e quali i temi delle loro conversazioni? Che ruolo ebbe Keynes nel pilotare quelle relazioni in modo talvolta esplicito e in altre nell’ombra? È raro, infatti – almeno in prima istanza – trovarsi di fronte a giudizi così radicalmente opposti da parte dei loro contemporanei, come ricorda Giancarlo de Vivo in un passaggio del libro Nella bufera del Novecento.2

Il contesto

Wittgenstein approda una prima volta in Inghilterra nel 1911 e vi rimarrà fino allo scoppio della guerra. Conosce Bertrand Russell, che sarà il primo degli incontri importanti della sua vita. Dopo vari nomadismi che lo trascinano un po’ ovunque in Europa e che contraddistinguono ogni fase della sua vita, torna a Cambridge nel 1929 ed è allora che entra in contatto con Keynes, Ramsey e Sraffa. Quest’ultimo aveva dato le dimissioni da docente di economia in Italia e aveva lasciato il paese nel 1926, dopo il varo delle leggi fascistissime. La vera svolta nel suo lavoro iniziò quando Keynes, nel 1927, gli propose una lectureship di qualche anno. Sraffa accettò, stabilendosi nella città inglese, dove rimarrà tutta la vita. Nel 1928, aveva dato una prima forma alle proposizioni iniziali di Produzione di merci a mezzo merci.3 Comincia anche a occuparsi della Teoria avanzata del valore e nel frattempo entra in relazione con Michal Kalecki, Maurice Dobb, Joan Robinson, Nicholas Kaldor, Frank Ramsey, infine con Wittgenstein: a metterli contatto è Keynes, che aveva intuito una loro possibile affinità. Tuttavia, il suo intento era anche un altro: non essere troppo assillato dal filosofo, di cui non apprezzava l’ascetismo. In quel periodo, Sraffa riceveva continue pressioni dagli Usa perché si trasferisse là e Keynes era riuscito a fargli avere un finanziamento a quello scopo; ma non se ne fece nulla. Sraffa rifiutò anche il consiglio di Richard Kahn, di insegnare italiano, dopo la morte di Raffaello Piccoli. Di lì a poco, però, Keynes gli avrebbe affidato la cura degli scritti di David Ricardo, cui Sraffa avrebbe dedicato due decenni e questo sarà un altro snodo assai importante e con molte conseguenze che vedremo. Nel libro di de Vivo vengono ricordati alcuni giudizi di Perrry Anderson e altri che tendono addirittura a sminuire del tutto le influenze reciproche fra Sraffa, Keynes e Gramsci, sposando la tesi che fra di loro esistesse una grande amicizia ma non un rapporto intellettuale di scambio vero e proprio.4 Diverso il rapporto con Wittgenstein perché in questo caso abbiamo la sua testimonianza, riportata anche nel libro di de Vivo. Alla fine dell’introduzione alle Ricerche filosofiche, il filosofo infatti scrive:

 … sono stato aiutato a correggere i gravi errori che avevo commesso nella prima fase del mio pensiero … dalla critica che un insegnante di questa università, Piero Sraffa, ha per molti anni esercitato incessantemente sul mio pensiero.5

Non vi è dubbio che per prima fase del pensiero si debba intendere proprio il Tractatus. La critica di Sraffa verte su quello, ma su che cosa esattamente non lo sappiamo poiché tutto avveniva in conversazioni di cui esistono tracce indirette, anche se da alcune testimonianze sparse qui e là e in un passaggio del libro di de Vivo è possibile avanzare qualche ipotesi. Sempre nell’introduzione alle Ricerche filosofiche Wittgenstein ringrazia anche Frank Ramsey e questo è assai interessante perché crea, una triangolazione che non si può ignorare, sia perché Ramsey assistette Sraffa durante la stesura delle prime equazioni di Produzione di merci a mezzo merci, sia perché fu a sua volta un importante economista; sia infine, perché esistono ampie documentazioni sui loro incontri a tre, purtroppo troncati dalla precoce morte di Ramsey. Perché, tuttavia, il Tractatus fu criticato da Sraffa nelle loro conversazioni? Gli studiosi sono piuttosto divisi nel commentare l’opera. Alcuni tendono a sottolineare come in questo libro Wittgenstein cercasse ancora l’essenza, termine che va inteso in senso molto ampio.6 Per altri, invece, il nodo del problema è se le proposizioni elementari di Wittgenstein nel Tractatus si possono considerare alla stregua di affermazioni particellari e quindi atomiste – secondo la linea di pensiero di Russell – oppure se non lo siano affatto; infine la questione della logica e del suo ruolo sia rispetto alla matematica, sia rispetto alla possibilità di applicarla al linguaggio. Quando Wittgenstein riassume il suo percorso in una pagina di diario del 1916, così si esprime:

l’idealismo separa dal mondo, come unici gli uomini, il solipsismo separa solo me dal mondo, ma alla fine vedo che anch’io appartengo al resto del mondo: da un parte resta dunque nulla, dall’altra, unico il mondo. Così l’idealismo pensato con rigore finisce per arrivare al realismo.7

Il brano è a dire il vero un po’ ellittico e certamente non chiarisce molto! Il passaggio dal solipsismo al mondo sembra un salto mortale che ci porta addirittura al realismo, un atteggiamento filosofico che sembra escludere sia il ricorso alle essenze trascendentali, sia al fondamento, parola che ritorna però nelle Osservazioni sulla matematica. La critica di Sraffa verteva proprio su questa contraddittorietà fra realismo e ricerca del fondamento e addirittura dell’essenza? Oppure è sull’atomismo  che i due s’intendono ma anche fraintendono? Per arrivare a una possibile risposta  dobbiamo superare molti ostacoli e vedere come alcune proposizioni del Tractatus vengono trasformate nelle opere successive. Prima di proseguire in tale direzione, tuttavia, occorre affrontare il primo ostacolo: la tempistica. Come ho già affermato, Keynes propose a Sraffa la cura delle opere complete di David Ricardo e l’impegno era talmente gravoso che egli abbandonò il progetto iniziale di Produzione di merci a mezzo merci, cui ritornerà vent’anni dopo. Le conversazioni con Wittgenstein e con Keynes, tuttavia, non vennero affatto meno, ma lavorarono nell’ombra in un duplice senso: perché poco ne sappiamo da un lato e perché possiamo solo dedurne qualcosa dagli effetti che avrebbero prodotto a distanza di anni. Tuttavia, anticipo le conclusioni con una prima affermazione che sarà meglio argomentata nel prosieguo: i discorsi con Wittgenstein ebbero un ruolo nella scelta radicale compiuta dall’economista, che consiste nel determinare il valore del prodotto economico in termini fisici, scostandosi in questo modo sia da Ramsey sia da altri economisti marxisti.8 Le discussioni lavorarono sotto traccia, probabilmente in un duplice senso: proprio il ricorso continuo da parte di Wittgenstein al fondamento e alla logica convinsero Sraffa che anche in economia occorresse abbandonare il tentativo di reductio ad unum della eterogeneità delle merci, che era poi il mantra del marginalismo. Il modello a due e poi a tre merci su cui sono basate le prime proposizioni di Produzione di merci a mezzo merci, va incontro a tale esigenza; infine, riconoscere i limiti del calcolo matematico applicato in sede economica. Su tale questione, tuttavia, furono ben più decisive le conversazioni con Keynes che aprono un altro capitolo di questa storia affascinante.9 Quanto alla questione dell’atomismo si può affermare con certezza che Sraffa era un anti atomista e si muoveva nel solco di Marx e di Gramsci: è probabile che l’oscillazione nei rapporti fra Sraffa e Wittegenstein fossero dovute all’incertezza del filosofo su questo punto. La domanda secca da porre è proprio questa: Wittgenstein era atomista oppure no? Quando Sraffa in una conversazione parla del Tractatus definendolo un libro sbagliato, si riferiva a questo o ad altro?10

John Maynard Keynes

Dopo il Tractatus

Come possiamo capire quale reale influenza abbia esercitato Sraffa sulle opere successive al Tractatus? Possiamo inferire alcune conseguenze prendendo in considerazione un libro del tutto particolare dove si parla di un tema apparentemente lontanissimo da quello qui trattato e chiamando in scena un nuovo personaggio. Il testo in questione è Ludwig Wittgenstein e la musica, di Pietro Niro, pubblicato nelle Edizioni Scientifiche Italiane, mentre il nuovo protagonista, peraltro già citato, è l’italianista Raffaello Piccoli.11 Nel Terzo capitolo del libro vengono prese in considerazione proprio le opere successive al Tractatus e in particolare come alcune proposizioni del primo vengono trasformate in quelle successive. Il confronto fra le due versioni e la citazione di una pagina di Sraffa riportata nel libro di de Vivo possono offrire argomenti per sostenere che la critica mossa dall’economista al filosofo riguardasse proprio il fondamento. Vediamo per prime alcune proposizioni del Tractatus e recisamente la 3.262 e la 3.226:

Ciò che nei segni non viene espresso lo mostra la loro applicazione Ciò che i segni occultano  lo rivela la loro applicazione.

 Per riconoscere il simbolo nel segno se ne deve considerare l’uso munito di senso.

Ecco come nella Grammatica filosofica e nelle Ricerche filosofiche tali proposizioni vengono trasformate:

L’uso della proposizione, ecco il suo senso

L’uso della parola nel linguaggio è il suo significato.

Il significato della parola è il suo uso nel linguaggio.

La filosofia si limita, appunto, a metterci tutto davanti, e non spiega e non deduce nulla. – Poiché tutto è lì in mostra non c’è nulla da spiegare. Ciò che è nascosto non ci interessa.

Dietro tali cambiamenti mi sembra di sentire l’eco delle conversazioni con Sraffa, specialmente per quanto attiene alla parola uso. Come afferma Diego Marconi nel libro di Niro:

 … Il primo Wittgenstein vuole trovare l’essenza della proposizione … il secondo pensa che tale essenza non ci sia … il primo pensa che se una proposizione ha senso il suo senso deve essere perfettamente determinato, il secondo pensa che si tratta di un illusione …

Riferirsi all’uso è proprio il tramite con cui in fondo Wittegenstein si rifà a quella citazione del diario in cui addirittura approdava al realismo. Certamente dosi di realismo erano presenti nelle conversazioni con Sraffa, che aveva la particolare abilità nell’usare il rasoio di Occam per liberarsi dei falsi problemi. Lo stesso avviene in una lunga citazione di Sraffa riportata libro di de Vivo, alle pagine 85-6. Nelle argomentazioni di Sraffa sembra di cogliere sotto traccia la eco delle discussioni con Wittgenstein e in particolare sulla difficoltà intrinseca della comunicazione verbale e scritta e i limiti del linguaggio. Il paradosso è che leggendo tale citazione sembra proprio che chi cerca di mettere in pratica il famoso aforisma con cui si chiude il TractatusSu ciò di cui non si può parlare è bene tacere –  sia l’economista piuttosto che il filosofo! Va pure osservato che tale aforisma non è stato sempre interpretato e ripensato nella sua valenza conoscitiva, perché ha prevalso la sua fulminante ed elegante concisione, che ha nascosto il senso probabile di quella resa e cioè l’abbandono da parte dei filosofo della convinzione che le armi della logica potessero essere definitive nel delineare il rapporto fra linguaggio e mondo. Nella parte finale della sua vita – ma tale convinzione è presente sotto traccia da sempre e va fatta risalire al suo rapporto con la musica – Wittgenstein si convinse che il peso da lui attribuito alla logica nei suoi anni giovanili, doveva essere invece riconosciuto all’estetica. Quanto a Piccoli, il suo ruolo è al tempo stesso molteplice e indeterminato. Le notizie che si trovano su di lui sono scarse, ma ognuna di esse conferma la sua importanza di studioso, ma anche di mentore, forse non così importante come Keynes ma di certo rilevante. In che modi possa avere influito sugli altri suoi compagni di ventura a Cambridge è assai difficile da stabilire ma il suo nome è citato in varie occasioni. 12

Del metron e del calcolo

Quale sia il posto da assegnare alla matematica nel calcolo economico, è un problema che si pone fin dal momento in cui l’economia diviene un reale oggetto di studio. Fu questa, per esempio, una delle ragioni di dissenso profondo fra Ricardo e Malthus. Lo ricorda Giorgio Gattei nel saggio postfazione all’Introduzione a Ricardo di Sraffa. Proprio a Malthus, Ricardo rimproverava di pensare che l’economia non fosse e non dovesse essere una scienza rigorosa come la matematica, mentre lui lo pensava. Tuttavia, la questione va considerata da un punto di vista storico: la matematica di cui entrambi parlano non ha niente a che vedere con le simulazioni contemporanee, gli algoritmi ecc., ma è sempre una matematica da ragionieri e contabili. Ovviamente da allora la matematica ha fatto passi da gigante: le interazioni con la logica erano già diventate decisive per tutti i protagonisti di questa storia complessa. Cosa accade successivamente alle critiche di Sraffa al Tractatus e nelle loro discussioni e in quelle con Piccoli, fino a un anno fatidico e cioè il 1947? Nelle Ricerche filosofiche, oltre che di logica e linguaggio, Wittgenstein si occupa anche delle comunicazioni non verbali e anche questo divenne un argomento di discussione fra lui e Sraffa durante le famose passeggiate. Di quelle discussioni nulla possiamo dire, ma c’è una relativa certezza sull’aneddoto che è stato costruito su di esse, a partire almeno da un dato che sembra sicuro perché confermato anche da Sraffa. Si tratta di una domanda che l’economista pose a Wittgenstein durante una passeggiata:

Che logica c’è nel gesto napoletano di mettersi due dita sotto il mento e sfregarle per indicare il menefreghismo?

Il filosofo non seppe rispondere e da quel momento finirono le passeggiate per responsabilità di Sraffa più che di Wittgenstein, che soffrì molto di questa perdita.13 Si può comprendere l’insofferenza di Sraffa verso i meandri del pensiero di Wittgenstein e specialmente lo sconcerto nel ritrovare la parola fondamento nei suoi discorsi e ancor più nel suo voler cercare a tutti i costi una logica in ogni cosa. Tuttavia rimango convinto che abbia ragione Gattei e che quelle estenuanti discussioni ebbero un ruolo nel senso che aiutarono Sraffa a porre un argine alle pretese della matematica e della logica, sebbene su questo il contributo di Keynes fosse probabilmente più importante. Forse Sraffa scelse di non ringraziare Wittgenstein neppure nel 1960 perché la morte del filosofo nel 1951 senza che le loro relazioni fossero riprese come prima, non poteva in alcun modo avere un senso restitutivo. Veniamo allora alla soluzione di Sraffa, per tappe. Una prima tappa mi porta ad Anna Carabelli e alle sue magistrali lezioni su Keynes. Esse sono facilmente reperibili in rete, mi limiterò dunque a due sole citazioni:

… Keynes ritiene che l’ignoranza e l’incertezza siano le due questioni più difficili da affrontare in economia. Entrambe sono legate alla limitata conoscenza umana. L’ignoranza è una mancanza di ragioni conosciute. L’incertezza di Keynes è un concetto molto più intrigante della semplice ignoranza. L’incertezza, come vedremo, è l’intrinseca incommensurabilità delle probabilità. Essa è collegata alla filosofia della misurazione di Keynes, a cui è dedicata gran parte del mio nuovo libro Keynes on Uncertainty and Tragic Happiness. Questa incommensurabilità intrinseca non è dovuta a una mancanza di potere di ragionamento o all’incapacità pratica di conoscere o misurare le probabilità. È dovuta alla natura stessa del materiale della probabilità logica di Keynes. Il materiale consiste in proposizioni e ragioni parziali, non in eventi empirici … Come vedremo, questo materiale è non omogeneo, non divisibile in parti omogenee uguali e indipendenti, non finito, non chiuso, ed è caratterizzato da interdipendenza organica (parziale o totale). Così, nel Trattato sulla Probabilità Keynes non è un atomista nel suo approccio alla probabilità. La materia della probabilità è “complessa o molteplice”, per prendere in prestito le parole che Keynes usa nel suo Trattato sulla Moneta. Non esiste un’unità comune per misurare le diverse quantità di probabilità … L’incertezza di Keynes caratterizza anche i dilemmi razionali tragici. In situazioni di dilemmi tragici, non possiamo formare giudizi ragionevoli basati sulla probabilità logica (che non sono calcolabili numericamente); prevalgono l’indecisione e la vacillazione del giudizio. Nei dilemmi morali, il conflitto è tra rivendicazioni morali contrastanti ed eterogenee; nei dilemmi razionali, il conflitto è tra ragioni parziali opposte. Il conflitto è irriducibile: non può essere riconciliato attraverso la composizione o il compromesso. In Keynes il conflitto rimane aperto, come il conflitto tra interessi individuali e aggregati nella sua macroeconomia …

La seconda:

… la visione della razionalità del Trattato sulla Probabilità di Keynes è basata sulle nozioni aristoteliche di ragionevolezza ed esattezza. La ragionevolezza differisce sia dalla razionalità forte che dall’irrazionalità, mentre l’esattezza differisce dalla precisione. Fin dall’inizio delle sue riflessioni sulla probabilità, Keynes rimane costantemente contrario a un concetto numerico e calcolabile di probabilità, tranne in alcuni casi molto limitati che sono logicamente irrilevanti per la macroeconomia. Keynes non è contrario all’uso della matematica in linea di principio, anche se preferisce la logica simbolica all’algebra e ai calcoli. È contro l’applicazione cieca della matematica alla macroeconomia e preferisce il discorso ordinario per evitare fallacie logiche e una falsa aria di precisione. Per lui, è meglio avere approssimativamente ragione che precisamente torto. Gli interessa l’esattezza, non la precisione.

Insomma, Keynes non è uno humiano ortodosso, ma non è neppure un dilettante che trasferisce nell’economica le logiche della meccanica quantistica e della probabilità come la intendono i fisici. Il brano citato, assai complesso, è decisivo in questo contesto per la distinzione fra ignoranza e incertezza e per quanto afferma sulla irriducibilità del conflitto, tema che è ben presente anche in Sraffa. Per entrambi l’economia non è una scienza esatta ma un ramo dell’etica in cui il conflitto morale assume a volte caratteristiche che appartengono al tragico. Tutto questo distanzia anni luce il Keynes reale – nonostante le sue contraddizioni di uomo – dal burattino delle politiche del dopoguerra che in realtà non sono mai esistite. Giorgio Lunghini fu fra i primi a denunciare l’inconsistenza della formula politiche keynesiane, ma dopo gli studi di Carabelli chi ne parla dovrebbe vergognarsene.14 Il presupposto delle conclusioni di Sraffa richiede preliminarmente un ulteriore passaggio e cioè un più convinto distacco da strumenti matematici che non avevano alcuna capacità di misurazione reale. Il ruolo che in questo passaggio decisivo ebbero le discussioni con Wittgenstein, Piccoli e Ramsey va ulteriormente chiarito. In sostanza, per Sraffa la realtà economica andava pensata prima per poi ricorrere in un secondo tempo alla matematica, ma senza affidare a quest’ultima un compito veritativo che non poteva avere. In questa scelta certamente Sraffa era più vicino al secondo Wittgenstein, che non a Ramsey. Da questa premessa si può meglio capire la conseguenza logica che Sraffa ne trae e che si evince da questa citazione: 

Il profitto del produttore di grano, viene determinato indipendentemente dal valore, mediante il solo confronto della quantità fisica che si trova dalla parte dei mezzi di produzione con quella che si trova dalla parte del prodotto, quantità che consistono entrambe della stessa merce; e su ciò si fonda la conclusione di Ricardo che “i profitti dell’agricoltore regolano i profitti di tutte le altre industrie.” La stessa terminologia può essere espressa nella terminologia adottata in questo lavoro dicendo che il grano è il solo “prodotto base” nel sistema economico esaminato …. È forse bene avvertire qui che solo quando, nel corso della presente ricerca, il concetto di “Sistema tipo” e la distinzione fra prodotti base e prodotti non-base avevano preso forma, la suddetta interpretazione si presentò come conseguenza naturale.15

La sostanza fisica dell’economia ha qui una preminenza che ci riporta addirittura a Quesnay e al Tableau economique che infatti viene citato da Sraffa nel capitolo finale dedicato proprio alle fonti cui si era riferito.

Infine Gattei e precisamente un passaggio della sua Postfazione che riporto per intero perché in essa ricostruisce sinteticamente l’opera dell’economista:

… La nota sulle fonti del libro del 1960 è d’altronde esplicita al riguardo: l’indicazione del rigoroso indirizzo analitico che sospende ogni funzione del valore per una determinazione in termini fisici del saggio generale del profitto di un insieme eterogeneo di merci, trova il suo precedente più illustre in alcuni scritti di Ricardo e precisamente nell’Essay on the influence of a low price of corn in the profits of stocks (1815). O almeno tale è l’interpretazione data dalla nostra introduzione ai Principi di Ricardo, perché subito dopo Sraffa, con sorprendente inversione dei rapporti, precisa che solo dopo aver dato forma alla soluzione generale di Produzione di merci a mezzo merci la suddetta interpretazione di Ricardo si presentò come conseguenza naturale. Per esplicita ammissione dell’autore la connessione fra il testo teorico del 1960 e l’introduzione del ’51 ai Works di Ricardo, è quindi rovesciata rispetto alla naturale successione cronologica: non è Ricardo che introduce Sraffa alla problematica del sovrappiù, ma è piuttosto Sraffa a ricondurlo in tal senso. Se così stanno i fatti, si ha ragione di scrivere che, come i 34 anni che separano i due lavori del 26 e del 60 non sono serviti a Sraffa per farsi neo-ricardiano, ma per completare la critica alla teoria neo classica (leggi marginalismo ndr.), così i 25 anni che separano l’incarico della edizione delle opere di Ricardo e la pubblicazione dell’Introduzione, non sono stati spesi nel tentativo … celebrativo di rivalutazione di un economista del passato, ma per fornire l’apparato indispensabile per una lettura dei Works del tutto coerente con la proposta contenuta in Produzione di merci a mezzo merci.16

Alla luce di queste tre citazioni, riprendo il discorso dalle proposizioni iniziali di Produzione di merci a mezzo merci analizzandole con uno sguardo che si colloca in parte al di fuori della loro natura economica:

Consideriamo una società primitiva che produce appena il necessario per continuare a sussistere. Le merci sono prodotte da industrie distinte e vengono scambiate l’una con l’altra al mercato che si tiene dopo il raccolto. Supponiamo da prima che siano prodotte due merci soltanto, grano e ferro. Entrambe sono usate, in parte per il sostentamento di coloro che lavorano il resto come mezzi di produzione … Supponiamo che nell’insieme,  280 quintali di grano (q) e 12 tonnellate di  ferro(t) vengano usati per produrre 400 quintali di grano; mentre … 120 quintali di grano e 8 tonnellate di ferro per produrre 20 tonnellate di ferro. Le operazioni produttive dell’annata possono riassumerci nella tabella seguente:

280 q di grano + 12 t di ferro = 400 q di grano

120 q di grano + 8 t di ferro = 20 t di ferro.

…. Nulla viene aggiunto dal processo di produzione a quanto la società possedeva nel suo insieme.

Ciò che colpisce in questa proposizione è la sua simmetria. C’è in essa qualcosa che si richiama persino all’armonia, ben presente anche nelle opere di Wittgenstein se le si legge nella loro partitura e non nei loro significati e tenendo conto del suo approdo all’estetica.

Nel capitolo secondo, Sraffa introduce in nuovo elemento. Fino a ora, il suo modello era circolare e chiuso. Cosa accade però quando s’introduce una terza merce? La sua scelta cade sui porci:

240 q di grano + 12 t di ferro + 18 porci = 450 q di grano

90 q di grano, + 6 t di ferro + 12 porci = 21 t di ferro

120 q di grano + 3 t di ferro + 30 porci = 60 porci.17

Siamo sempre in uno stato reintegrativo, ma il cambiamento è un salto qualitativo radicale. Cambiano com’è ovvio le quantità, visto che c’è qualcos’altro da produrre ma specialmente e anche supponendo che le merci che si trovano nella parte di sinistra dell’equivalenza, quella dei mezzi di produzione (cioè le quantità previste di ciascuna merce per produrre le altre merci) non entrino tutte nella produzione di ciascuna delle altre due, la ragione di scambio può essere calcolata solo in modo triangolare e diviene 10 q di grano = 1 t di ferro = 2 porci. Ancor più: introdurre una terza merce o k merci è la stessa cosa, ma ha implicazioni notevoli e cioè che una di queste merci deve funzionare per forza anche da misura del valore delle altre. Se dunque diciamo che il valore di quella merce è uguale a 1, esisteranno k-1 proporzioni-equazioni per determinare i valori delle altre. Questo procedimento che va dal semplice al complesso, non va però inteso in senso diacronico e tantomeno lineare, perché il semplice costituisce sempre il nucleo da cui si riparte e che Sraffa elaborerà meglio nei capitoli successivi. Ciò che è decisivo in questo passaggio è che semplice e complesso non stanno in un rapporto gerarchico, ma di reciproca dipendenza; in altre parole, lo stato reintegrativo costituisce sempre il punto di partenza che si rinnova ogni anno solare. L’ulteriore deduzione Sraffa la esplicita in un capitolo successivo, le cui conseguenze però sono state ignorate dagli studiosi che si sono occupati di lui, tranne che da Claudio Napoleoni. Nel capitolo in questione, Sraffa afferma in modo perentorio che se una società produce un sovrappiù o surplus, il sistema economico diventa subito contraddittorio. Il surplus è il vero arcano maggiore dell’economia. Anche nella più perfetta società comunista il surplus sarebbe comunque un’entità difficile da maneggiare, proprio per i limiti della sua calcolabilità e dunque della sua equa distribuzione.18

Divagazione

Ho trovato la migliore rappresentazione scenica di questo limite del calcolo matematico applicato all’economia, in un racconto arabo della tradizione sufi, la cui origine si perde nel tempo. Il sufismo è una corrente particolare del pensiero islamico, fondato su narrazioni brevi, a volte brevissime e sulla matematica.19 Se per noi occidentali, infatti, quest’ultima è il linguaggio della scienza moderna o anche il modo in cui la natura parlerebbe a noi umani, per il sufismo essa è un ramo della mistica. Il racconto cui mi riferisco s’intitola L’eredità. Che cos’è l’eredità se non un surplus? Lo possiamo considerare appannaggio di un solo individuo, di una famiglia o più membri della stessa famiglia: siamo dunque in una relazione che potremmo definire microeconomica. Si potrebbe, pensare, allora, che in un microcosmo, le possibilità di misurazione, calcolo e distribuzione del surplus siano più semplici, ma come vedremo si tratta di un’illusione. Del racconto esistono diverse versioni, narrate da diversi maestri del sufismo. Ne ho fatto una sintesi narrativa che naturalmente rispetta il nucleo centrale di ordine matematico. 

Un giorno un maestro sufi radunò i suoi allievi alla fine di un corso per festeggiare il lavoro compiuto. Uno di essi, però, se ne stava in disparte molto scuro in volto. Il maestro si avvicinò e gli chiese cosa avesse: “Maestro, sono triste perché nonostante il vostro insegnamento io non riesco ancora a capire chi sia un vero sufi e come si deve comportare.” Allora il maestro li radunò di nuovo tutti e disse loro che avrebbe raccontato un’ultima storia. Questa è la storia che raccontò. Una sera un maestro sufi se ne andava con il suo cammello in una zona desertica perso nei suoi pensieri, tanto perso che non s’accorse che stava arrivando la notte e che non aveva un rifugio. Preoccupato, si guardò intorno e vide in lontananza una luce che poteva essere un accampamento. Accelerò e quando fu vicino vide che era così. Tre uomini stavano discutendo in modo concitato e addirittura piangendo. Quando riconobbero in lui un maestro i tre gli fecero subito posto fra loro. “Cosa avete?” Chiese il maestro. Gli dissero di essere tre fratelli e che la causa del loro pianto era l’eredità che il padre aveva lasciato loro: “Questi 17 cammelli” disse il maggiore indicandoli “sono la causa delle nostre disgrazie perché nostro padre ha lasciato scritto che fossero divisi per metà al figlio maggiore, per un terzo al secondo e per un nono al figlio minore; ma in questo modo dobbiamo ucciderne alcuni.” Il maestro ascoltò attentamente e disse:

“In aggiunta ai vostri cammelli vi offro il mio.” I tre fratelli lo guardarono increduli, ma il maestro aveva preso un bastoncino e con esso cominciato a scrivere i numeri sulla sabbia, spiegando loro: “Così in totale sono diciotto. Il maggiore ne riceverà la metà: nove. Il figlio di mezzo ne riceverà un terzo: sei. Il minore ne riceverà un nono: due.

Mentre i fratelli si abbracciavano piangendo finalmente di gioia, il maestro si allontanò con il cammello che era rimasto come resto del calcolo.

Su questo racconto si potrebbero scrivere decine e decine di pagine, ma mi occuperò solo di quello che è strettamente necessario, anche perché la sua semplice esposizione può suggerirci da sola il motivo per cui il sufismo vedeva nella matematica una corrente della mistica piuttosto che una scienza esatta del calcolo. Il maestro usa la matematica come sistema di conto, ma fra l’entità fisica dell’eredità e cioè il produit net (il prodotto netto) costituito da 17 cammelli e lo strumento di misurazione c’era uno iato prima e c’è uno iato anche dopo. Essendo il rapporto fra i numeri scritti sulla sabbia del deserto, il vento e la notte un rapporto assai precario, i tre fratelli – dopo che il maestro si è silenziosamente allontanato – forse verso la morte visto che il deserto a notte senza un rifugio è un luogo assai inospitale – continueranno a vedere 17 cammelli e potrebbero pensare, non vedendo più il maestro, di essere stati vittima di un’allucinazione e tutto potrebbe ricominciare daccapo. Tuttavia, sarebbe accaduta la medesima cosa se il maestro fosse rimasto, perché di quel diciottesimo cammello, dopo avere fatto il calcolo, solo una cosa si poteva fare: farlo sparire.

Per concludere

C’è una parte essoterica nel percorso di Sraffa ma ce n’è una esoterica. Uno dei grandi insegnamenti del racconto sufi e anche delle proposizioni finali di Sraffa riguardanti il grano, è che la misura necessita del calcolo ma che il calcolo è fatto di resti che non sono integrabili, oppure di surplus che generano contraddizioni. In sostanza, mentre in matematica due più due fanno sicuramente quattro, nella matematica applicata ad altri campi e come mi disse una sera un simpatico ingegnere, due più due fanno quasi quattro o quattro più. Per comprendere che è proprio così basterà ricordarci di tutte le volte che abbiamo cercato di montare un mobile di una famosa casa produttrice seguendo semplicemente le istruzioni fai da te del foglio di accompagnamento e renderci conto dopo molto tentativi, che bisogna usare trapani e altri strumenti per far quadrare i conti.

L’opera di Sraffa non va vista solo come un ritorno all’economia classica – anche perché egli risale addirittura fino a Quesnay – e un rifiuto dell’aberrazione marginalista, ma come un tentativo grandioso e non importa se pienamente riuscito o meno, di fondare su basi diverse la scienza economica come strumento di riorganizzazione di una comunità, piuttosto che come semplice critica dell’economia politica capitalistica; dunque un tentativo di sottrarre l’economico al giogo capitalistico per ricondurlo nel sociale. In questo senso Sraffa a me pare si collochi nel solco di Marx, ma per andare oltre, ragionando cioè come un uomo, un pensatore e un economista che si trova già nella fase di transizione e non più solo in quella di messa punto degli strumenti di una critica dell’economia politica. Quello era stato il compito prevalente di Marx e dei primi che si posero anche il problema di coprire i vuoti o le aporie lasciate dal Moro, in primis Rosa Luxemburg. Sraffa come pensatore della transizione dentro la transizione e che rimanda anche a un concetto tornato attuale: quello di economia fondamentale, da con confondersi però con i discorsi sul fondamento fatti in precedenza. Per economia fondamentale s’intende qualcosa di molto più realistico e semplice, che troviamo per esempio in questo passaggio di Marx:

… per poter « fare storia » gli uomini devono essere in grado di vivere. Ma il vivere implica prima di tutto il mangiare e bere, l’abitazione, il vestire e altro ancora. La prima azione storica è dunque la creazione dei mezzi per soddisfare questi bisogni, la produzione della vita materiale stessa, e questa è precisamente un’azione storica, una condizione fondamentale di qualsiasi storia, che ancora oggi, come millenni addietro, deve essere compiuta ogni giorno e ogni ora semplicemente per mantenere in vita gli uomini.20

Anche l’economia di Sraffa parte dalle condizioni minime di sussistenza di una comunità e primitivo vuol dire solo questo. Quella che Sraffa indica come costante che non è sottoposta ad alcun cambiamento, è tale necessità riproduttiva o reintegrativa, che non dipende tanto dal volume dei prodotti, ma dalle scelte di una comunità e dal concetto di equilibrio e persino di armonia: quando si parla oggi di economia della cura non siamo molto distanti da questi concetti. Una seconda e più importante conseguenza del ragionamento di Sraffa riguarda proprio il tempo, ma che diviene in questo passaggio una discriminante. Che ne fosse del tutto consapevole o meno, è una questione da lasciare sullo sfondo, ma la concezione del tempo che è implicita nel ragionamento di Sraffa non è affatto neutra o neutrale, ma indica una propensione nel senso della circolarità del processo economico e non quella di una sua direzione lineare. Questa scelta, che è implicita anche nel brano di Marx tratto da l’Ideologia tedesca appena citato, non è solo una critica radicale alla concezione economica marginalista che vede invece l’attività economica come un flusso continuo dalla produzione al consumo secondo una linearità del tempo e senza soluzione di continuità. Tuttavia, la soluzione di Sraffa pone problemi filosofici di non di poco conto, dal momento che tempo lineare e tempo ciclico sono da sempre oggetto d’indagine per la filosofia; ma su questo mi fermo.

Che senso ha, tuttavia, tornare su questa vicenda novecentesca oggi, un secolo dopo questi discorsi che sembrano tutti provenire da uno stato giurassico del mondo? Chi ha avuto la pazienza di leggere fin qui forse se lo è già chiesto. Che cosa è l’economia oggi, nel dibattito pubblico? Si discute di simulazioni avveniristiche, di bit coin e altre monete virtuali, di algoritmi informatici che vengono tarati in base a criteri stabiliti da umani ma anche dall’intelligenza artificiale, il tutto governato da sofisticati calcoli logico matematici. Se si guarda alle cose da un altro punto di vista oggi l’economia non appare neppure più come appariva a Marx uno sterminato mondo di merci; o meglio, le merci continuano a circolare ma il loro flusso sembra a volte del tutto irrilevante, a meno che non s’inceppi la logistica, vero punto nevralgico che sembra sfuggire alle tre scimmiette sindacali nostrane, per esempio. La discussione pubblica però è su altro. Per chi oggi ha a che fare con l’economia come mondo a se stante e se ha dei soldi può comprare per esempio un future sul petrolio, cioè può acquistare una cosa che non avrà mai in senso fisico – un barile di petrolio. Il future è qualcosa che non esiste ma che io posso comprare oggi, per rivenderla domani: una inesistenza al quadrato, iniziata alla fine del’ottocento in un modo che oggi è ridicolmente artigianale: vendere allo scoperto cioè prima di avere comprato ciò che si venderà. Non solo, ma questa inesistenza al quadrato non è il petrolio estratto oggi ma una previsione su quello che si estrarrà nel futuro (future), magari fra un anno e che rivenderò fra cinque anni: dunque una inesistenza al cubo, ecc. ecc. Questo meccanismo finanziario che sembra ormai un automatismo è quello che insieme ad altri disastri contemporanei come il ritorno della guerra in grande stile e le emergenze climatiche, l’agricoltura sempre più inquinata, una violenza sociale diffusa indotta da uomini di potere sempre più necrofili, ci sta portando verso una soglia di non ritorno. Se l’umanità o una parte di essa si salverà e sopravvivrà a tutto questo, può essere che nel futuro post catastrofico, tornare a contare i sacchi di grano a inizio e a fine stagione piuttosto che misurare algoritmi possa tornare utile e insieme a questo anche tornare alle opere di questi uomini geniali e forse un po’ matti, caduti nel frattempo nell’oblio.


1 In Piero Sraffa, Introduzione a Ricardo, Biblioteca Cappelli, a cura di Giorgio Gattei Bologna, 1979, pag.101.

2 Giancarlo de Vivo, Nella bufera del Novecento. Antonio Gramsci e Piero Sraffa fra lotta politica e teoria critica, Castelevecchi, Roma 2017.

3 Piero Sraffa, Produzione di merci e a mezzo merci, premessa a una critica della teoria economica, Einaudi Torino 1960, introduzione dell’autore. Altrettanto importante è sottolineare come fin dal 1926, Sraffa avesse concluso il suo affondo critico nei confronti del marginalismo e cominciato a occuparsi delle teorie del valore. 

4 Giancarlo de Vivo, Nella bufera del 900, Castelvecchi  pp. 82-3. Tali giudizi sono paradossali e abnormi in qualche caso, smentiti da altri, ma comunque interessanti per chi voglia approfondire la questione. Alcuni misteri o presunti tali si potrebbero forse spiegare con il fatto che Sraffa godeva di un supporto famigliare che non gli venne mai meno. Le buone relazioni sociali del padre, primo rettore della Bocconi, nonché le risorse economiche, gli permettevano di condurre la sua vita senza l’assillo di trovare a tutti i costi un lavoro. Keynes fu il solo a capirlo e anche per questo gli propose un’opera monumentale come la cura degli scritti economici di Ricardo, consistente di 17 volumi. Altri giudizi mi sembrano invece del tutto fuorvianti. Negare che fra Gramsci e Sraffa esistesse un rapporto intellettuale molto intenso e non solo una grande amicizia mi sembra del tutto paradossale. Il tema esula dall’intento di questo scritto ma nel libro di de Vivo ci sono testimonianze molto forti e probanti al proposito, che si ritrovano anche nei molti libri dedicati all’argomento da altri: Vacca, Canfora, Lo Piparo e Santucci e la conversazione di Sraffa con Paolo Spriano. Infine, una recente tesi di Lucia Morra – 2023 – dell’Università di Torino, approfondisce in modo assai accurato e documentato le relazione fra Keynes, Sraffa e Ramsey; dal suo lavoro si deduce quello che mi sembrava già evidente e cioè che fra i tre è esistito eccome un intenso rapporto intellettuale, seppure segnato da convergenze, forti contrasti e talvolta bizzarrie.

5 La frase è riportata nel libro di de Vivo, nel capitolo dedicato ai rapporti fra Sraffa, Keynes e Wittgenstein.

6 Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico philosophicus, traduzione di Amedeo Conte, Einaudi Torino 1962.

7 Il modo in cui Wittgenstein arrivò a questa intuizione, lo spiega egli stesso nella pagina datata 15.10.1916 dei Quaderni.

8 Nell’introduzione a Produzione di merci a mezzo merci del 1960, Sraffa ringrazia Frank Ramsey, Alister Watson e A.S. Besicovitch che:   

… mi hanno aiutato in parte con la matematica. Mi corre l’obbligo però di avvertire che non sempre ho seguito i loro consigli.

Infine, a conclusione dell’introduzione Sraffa ringrazia Raffaele Mattioli:

 che instancabilmente ha lavorato con me per preparare questa edizione italiana.

Se stiamo alla lettera del testo, Sraffa riconosce un ruolo a tutti coloro che lo hanno aiutato, ma c’è in questa sequenza  qualche stranezza e una vistosa assenza: proprio Wittgenstein. Tale circostanza sembrerebbe smentire l’ipotesi di Gattei di un’influenza del filosofo sugli scritti economici. Assai curioso, è che Sraffa citi i tre di cui sopra solo per l’aiuto matematico che ne ebbe, senza ricordare che tutti erano anche economisti e che Ramsey era l’autore di un’opera assai importante e che Sraffa di certo non poteva ignorare, sebbene sia stata pubblicata dopo la sua morte. Impensabile che non ne avessero discusso nelle conversazioni a tre o a due. Vuol dire che non condivideva le sue tesi, ma che preferiva evitare l’argomento e una possibile polemica? Se pensiamo a Ramsey, più che non per gli altri due, la circostanza non è affatto neutrale perché egli aveva formulato una nuova ipotesi di conciliazione possibile fra il Primo e Il Terzo libro del Capitale, un tema fortemente e polemicamente dibattuto fra i marxisti. Perché Sraffa evita di parlarne? Se seguiamo tutto il suo lavoro, ci rendiamo conto che fin da allora, probabilmente, egli era convinto che si dovesse seguire una strada diversa da quella intrapresa da Ramsey. Vediamo di raccapezzarci un po’. La pubblicazione del Terzo libro de Il Capitale, nel 1894, aveva posto la teoria economica marxista di fronte ad alcuni problemi di incongruenza fra il Primo Libro e il Terzo, su cui naturalmente si era buttata la critica marginalista.  Forse una delle ragioni della reticenza e di certi silenzi di Sraffa sta in una duplice volontà: non criticare esplicitamente certe scelte dell’Unione Sovietica in campo economico per non recare ulteriore danno a Gramsci, ma neppure trascurare il fatto che la pubblicazione del Terzo Libro del Capitale aveva posto problemi che attendevano una soluzione che egli cercava come gli altri, ma per altre strade e cioè risalendo proprio a Ricardo. Ramsey, invece, cercava la soluzione lungo la via indicata da Marx e cioè che occorreva trasformare le equazioni del valore in equazioni dei prezzi: soluzione che Sraffa non condivideva, ma verso la quale voleva mantenere un atteggiamento di rispetto, anche perché la morte così precoce e repentina di Ramsey lasciava ampio spazio a possibilità di revisione. Può essere che nelle conversazioni a due e a tre fossero emersi dubbi e ripensamenti. Forse ridurre il loro aiuto e in particolare quello di Ramsey alle sole questioni matematiche ma con la precisazione che non seguì tutti i loro consigli senza dirci però altro nel merito, voleva dire schivare la polemica. La cancellazione di molte fonti novecentesche da parte di Sraffa era dovuta alla necessità di occuparsi del problema senza entrare troppo nel merito di una diatriba fra economisti marxisti, che lo avrebbe esposto troppo e i cui termini, una volta compresa la soluzione individuata da Sraffa nel libro del 1960, sono a mio avviso più chiari, perché nel 1960 la sua sicurezza rispetto a una diversa soluzione del problema era ormai consolidata. Perché però la cancellazione riguarda anche Wittgenstein? La questione è assai complessa e verrà affrontata nelle conclusioni.

9 La questione dei rapporto fra Keynes e Sraffa non può essere del tutto elusa anche perché le loro relazioni furono improntate da grande stima reciproca ma anche animate da forti contrasti e una certa dose di emotività da parte di entrambi – stupefacente in Sraffa, la cui riservatezza era da tutti giudicata proverbiale. Keynes temeva le conversazioni con Sraffa e sono sufficienti alcuni  giudizi per testimoniarlo. Parlando alla moglie Lydia Lopuchova, di un incontro avuto con lui nel 1933 in merito alla Teoria generale, Keynes scrive:

 Piero naturalmente ha tirato fuori estenuanti difficoltà, ma per fortuna niente di grave

E dopo un altro incontro il 18 giugno del 1934:

Anche oggi ce l’ho fatta, ma di stretta misura …  riferendosi alle sei ore di discussione con Sraffa.

La rabbia con cui Sraffa, in una conversazione con Maurice Dobb definisce Keynes addirittura un reazionario la dice lunga sull’ambivalenza dei suoi sentimenti, anche perché tale giudizio è subito contraddetto dal doloroso sgomento di cui alla sua morte Sraffa si fa interprete. Come si spiega tutto ciò? La schizofrenia dei giudizi non è solo di Sraffa e non appare solo in chi si occupa di lui ma convive anche in Keynes. L’aristocratico acutissimo e sprezzante che aveva abbandonato la conferenza di Versailles sbattendo la porta e fulminato tutti qualche anno dopo con un giudizio lapidario e senza appello – Hitler è nato a Versailles – conviveva con il piccolo borghese inglese che giocava in borsa e lisciava il mondo imprenditoriale. Tutti i giudizi riportati qui sono disseminati nel libro citato di de Vivo, in particolare nel capitolo intitolato Il rapporto intellettuale fra Sraffa e Gramsci. Il materialismo storico. Per approfondire invece il ruolo che Keynes ebbe durante la conferenza di Versailles è importante il libro Lord Keynes a Versailles. Una mia riflessione su di esso si trova sulla rivista online Overleft.

10 Tale giudizio perentorio fu riferito da Amartya Sen, che tuttavia non dice per quale motivo Sraffa lo ritenesse sbagliato.

11La musica ha accompagnato tutta la vita di Wittgenstein e pur esulando dall’argomento centrale di questo scritto vale la pena di sottolinearlo almeno per un aspetto, notato anche da molti critici e cioè che le proposizioni del Tractatus si potrebbero leggere come partiture musicali

12 Figlio del deputato socialista Domenico e nipote, per parte di madre, dello statista Pasquale Stanislao Mancini si laureò in Lettere a Padova e proseguì gli studi a Firenze, dove, entrato in contatto con Prezzolini. Collaborò Giuseppe alle riviste “Leonardo” e “La Voce”. Trasferitosi nel 1912 in Inghilterra, divenne l’anno successivo professore di italiano all’Università di Cambridge, dove intrattenne relazioni di studio e amicizia con i colleghi Piero Sraffa e Ludwig Wittgenstein[2]. Fu traduttore e commentatore di Oscar Wilde, Percy Bysshe Shelley, William Shakespeare, John Keats, per editori quali Sansoni e Vallecchi. Per la collana degli “Scrittori stranieri” di Laterza tradusse nel 1914 i Drammi elisabettiani. Interventista democratico, partecipò alla prima guerra mondiale, dopo la quale si oppose al fascismo, entrando in relazione con Giovanni e Giorgio Amendola, con i Fratelli Rosselli e con Benedetto Croce, della cui filosofia fu originale divulgatore in Inghilterra e negli Stati Uniti. Fu autore di Grammatica ed estetica, tratto da «La scuola» (circa il volume di Trabalza ‘Storia della grammatica italiana’) (30 gennaio 1909). Mi sembra che Piccoli appartenga a quella schiera di intellettuali italiani – molto spesso meridionali – che hanno la caratteristica di essere al tempo stesso defilati e centrali, specialmente nel creare relazioni. Pensando a lui altri nomi si affacciano: Alberto Savinio, Mario Praz, Sibilla Aleramo, Augusto Monti , Lucio Piccolo, Michelangelo Notarianni. Sono  personalità che hanno avuto un ruolo importante nella formazione di altri, oltre che essere importanti per le opere che hanno scritto.  

13 Questo episodio è stato raccontato da molti, ne esistono diverse versioni e persino sulla datazione ci sono delle discordanze. La connessione da me stabilita fra la domanda e la fine delle passeggiate nel 1947, è smentita sia da altre versioni che a loro volta sono piene di rimandi ad altro e altrettante contraddizioni. Morra nella sua tesi, per esempio, retrodata  l’aneddoto a un viaggio in treno del ’33, altri la collocano in altri momenti e Sraffa stesso, cui fu chiesto qualcosa al proposito, rispose di non ricordare un momento specifico ma che l’uso delle due dita sotto il mento per discutere di comunicazione non verbale era stato frequente. Il tramite sembra essere proprio Raffaello Piccoli, che in quanto napoletano era avvezzo a quel gesto e ne conosceva il senso

14 Sulla rivista Overleft, ho pubblicato un saggio dal titolo La Sfinge marxiana, dedicata proprio a Piero Sraffa. Insieme a Paolo Di Marco ho tradotto e commentato le Lezioni di Cambridge. Questo studio è diventato un libro scritto a quattro mani dal titolo La dissoluzione dell’economia politica. Disponibile su Amazon.

15 Piero Sraffa, Produzione di merci a mezzo merci, ultimo capitolo pag. 121.

16 Giorgio Gattei, Postfazione a  Piero Sraffa, Introduzione a Ricardo, Biblioteca Cappelli, a cura di Giorgio Gattei Bologna, 1979.

17 Piero Sraffa, Produzione di merci a mezzo merci . pag. 4.

18 Piero Sraffa Op.cit.pag.7. In un certo senso, nell’esperimento mentale che Sraffa propone, il surplus è un elemento di disturbo che altera il funzionamento ‘normale’ di una comunità. Tuttavia, il ragionamento non va inteso superficialmente come un semplice esperimento mentale di tipo ‘pauperista’, anche se qualche seguace della decrescita potrebbe intenderlo in questo modo. Il pensiero di Sraffa è assai diverso ed è basato su un concetto di simmetria, che è certamente di tipo economico ma anche estetico. La comunità ipotizzata da Sraffa può benissimo decidere di aumentare i consumi e migliorare il proprio stato reintegrativo o di sussistenza; tanto è vero che nel modello a tre merci viene introdotto il consumo di carne (i porci) che all’inizio non esisteva. Il problema è diverso e cioè che il modello reintegrativo può essere migliorato ma sempre rispettando la simmetria fra mezzi di produzione e prodotto; al massimo possiamo prevedere sensatamente una certa quantità di scorte alimentari. Il surplus, invece è un’altra cosa, perché rompe la simmetria fra ciò che sta dalla parte sinistra delle equazioni e ciò che sta dalla parte destra. Per quanto riguarda la teoria economica applicata all’esperienza dei paesi socialisti sono importanti gli studi di Kalecki.

19 I matematici sorrideranno di certo a leggere queste note, facendo notare che nel caso del racconto non si parla neppure di matematica ma solo di aritmetica: pazienza.

20 Karl Marx L’ideologia tedesca, Opere complete on line. Il sito migliore per accedere alle opere è l’Indice archivio internet Marx-Engels. Aprendo il file Ideologia tedesca, al secondo capitolo dal titolo L’ideologia in generale e in particolare l’ideologia tedesca la citazione si trova nel quinto paragrafo.  Forse è bene precisare che Marx ed Engels non scrissero mai un libro dal titolo Ideologia tedesca. Questo titolo esiste solo nelle edizioni italiane e si tratta di una collezione di scritti da opere diverse.

REGINE DI PERIFERIA

ecologia drag nei quartieri

Ulisse Romanò in Botanica Queer

“Si sente il bisogno di una propria evoluzione
sganciata dalle regole comuni, da questa falsa personalità
Segnali di vita nei cortili e nelle case all’imbrunire,
le luci fanno ricordare le meccaniche celesti”

Franco Battiato

Che cos’hanno in comune un oleandro e una drag queen?
Che cosa significa queer – e perché mai dovrebbe interessarti scoprirlo?
È possibile trasformare la vita di una città piantando dei semi?

Attraverso quattro laboratori, uno spettacolo itinerante e una balera in piazza, il progetto intende stimolare una riflessione sul rapporto tra diversità di genere, ecologia e riqualificazione del territorio. Il progetto, realizzato in partenariato con Teatro Fontana, si sviluppa in tre quartieri di Milano – Baggio, Chiesa Rossa e Gallaratese – alla ricerca delle Regine di Periferia… siano esse piante o sgargianti drag queen!

Tutti i laboratori del progetto sono gratuiti, aperti a persone di ogni età, genere e esperienza.
In ogni quartiere, verranno modulati per incontrare le esigenze del territorio e si può seguire più di un laboratorio.
Per iscriversi, inviare una mail a teatroscuola@teatrofontana.it

Ecco il dettaglio dei quattro laboratori:

NATURA E TRASFORMAZIONE
laboratorio di pratiche ecologiche a cura di Associazione Argot

Un percorso sviluppato su due moduli che vuole sia osservare che sperimentare nella pratica il potere trasformativo della Natura e le sue interconnessioni con l’esperienza queer.
Il laboratorio metterà a confronto reti ecologiche e tessuti sociali, l’adattamento della natura in contesti apparentemente ostili e il fiorire in contesti di discriminazione. Proporrà pratiche di cura e riappropriazione dello spazio pubblico ma anche del corpo, dell’individuo e della comunità.

due moduli, 15 posti disponibili

CHE COS’E’ QUESTO QUEER?
laboratorio su corpo, genere e identità a cura delle Nina’s Drag Queens

Che cosa significa queer, e perché mi riguarda?
Che relazione c’è fra il queer e la vita nel mio quartiere?

Le persone della comunità LGBTQIA+ spesso non sono a loro agio nelle zone periferiche, apparentemente non preparate a ricevere un’espressione di genere non standardizzata. Ma è davvero così?
Il laboratorio mira a costruire una riflessione che tenga insieme tematiche di genere e qualità di vita nelle città, attraverso gli strumenti del teatro e della partecipazione attiva.

un modulo, 20 posti disponibili

SPAZIO PUBBLICO PLURALE
laboratorio di design partecipato a cura di Polimi Desis Lab

Quante vite diverse, anche non umane, convivono negli spazi di questo quartiere?
Come sarebbero gli spazi pubblici se fossero progettati in maniera collaborativa e tenendo in considerazione necessità e desideri di tutt3?

Il laboratorio intende agire in questa direzione, immaginando e progettando insieme degli elementi per modificare uno spazio del quartiere, abbracciando una varietà di prospettive. Si esplorerà lo scenario urbano camminando nelle scarpe (o zampette) di vari abitanti del quartiere, dando vita ad un viaggio di co-progettazione in cui le visioni uniche di chi partecipa sono fondamentali per il futuro degli spazi pubblici del quartiere.

due moduli, 15 posti disponibili

REGINE DELLA FESTA
laboratorio intensivo di teatro drag a cura delle Nina’s Drag Queens

Diventa Drag in un pomeriggio! Un flash lab per dare un assaggio della poetica Nina’s, creare un momento di divertimento e gioco, e realizzare una performance corale.
Attraverso improvvisazioni, playback e facili coreografie scopriremo la divina che c’è in noi e costruiremo anche un’azione collettiva drag, che verrà presentata la sera stessa del laboratorio per aprire le danze della Balera.

un modulo, 20 posti disponibili

BOTANICA QUEER

In ogni quartiere, si svolgeranno quattro repliche di Botanica Queer, con un percorso rimodulato sul territorio. Sono disponibili 35 posti per ciascuna replica.
Per iscriversi, inviare una mail a teatroscuola@teatrofontana.it

Botanica Queer è uno spettacolo-passeggiata alla scoperta delle aree verdi della città. Fra odi alla fisiologia vegetale, canti per stimolare l’apparato radicale degli alberi, affondi eco-femministi e coreografie collettive, Demetra condurrà le spettatrici di una realtà semplice e scottante: le piante sono queer!


BAGGIO

NATURA E TRASFORMAZIONE (2 moduli)
sabato 11 e sabato 18 maggio,
luogo e orario da definire

CHE COS’E’ QUESTO QUEER? (1 modulo)
domenica 26 maggio, ore 15-18,
luogo da definire

SPAZIO PUBBLICO PLURALE (2 moduli)
martedì 21 maggio e martedì 18 giugno, ore 18.30-20.30
Biblioteca di Baggio, via Pistoia 10, Milano

REGINE DELLA FESTA (1 modulo)
sabato 22 giugno, luogo e orario da definire

BOTANICA QUEER (4 repliche)
da giovedì 20 a domenica 23 giugno, pomeriggio
Il punto di ritrovo per Botanica Queer sarà segnalato al momento dell’iscrizione

BALERA
sabato 22 giugno, orario serale

Tutti i laboratori e gli eventi sono gratuiti, previa iscrizione a teatroscuola@teatrofontana.it
Vai al calendario generale

Nina’s Drag Queen
Aparte Soc. Coop.
Via A. Soffredini, 77
20126 Milano – ITALY
P. IVA IT06211350969
Inviaci una email

ONDA SONORA, UN PROGETTO INTERMEDIALE

Festa per Vocale.

Premessa

Su invito della curatrice Elisa Longo ho partecipato a una puntata di Vocale, andata in onda su Fango Radio il primo aprile scorso e ora disponibile in podcast: un’esperienza per me nuova, assai intrigante che mi ha spinto a una riflessione che vuole essere però anche un dialogo. Ho proposto allora alla curatrice un’intervista che viene pubblicata qui di seguito insieme a tutti riferimenti riguardanti anche tutte le puntate precedenti di Onda sonora di Vocale e il progetto trasmesso da Fango Radio.

Franco Romanò: Parto dalla mia esperienza di ascoltatore che ha cercato di dimenticare la sua partecipazione in quanto autore: ho ascoltato tutto due volte, seguendo le istruzioni che lei aveva dato e cioè di ascoltare in cuffia. Il tempo è passato rapidamente e giunto alla fine a me era arrivato l’effetto di flusso, peraltro evocato anche nell’espressione onda sonora: probabilmente per cogliere anche le sfumature due ascolti non bastano, oppure è una questione di abitudine e di certo andrò ad ascoltare anche le puntate precedenti. Questa è la mia prima riflessione e questione che le pongo, basata unicamente sulla mia esperienza.

Elisa Longo: In primo luogo sono contenta del dialogo, per le sue riflessioni e la curiosità verso questo progetto.

Vocale rappresenta un flusso, un’onda, un viaggio attraverso il vasto campo della Poesia. Il suo fondamento si ritrova nel concetto di stream of consciousness introdotto da Joyce. Quando mi immergo nella lettura e nell’ascolto della poesia, la mia mente si popola di pensieri, suggestioni, e altro ancora, che talvolta sembrano estranei alla stessa poesia. Ho l’abitudine di registrare le poesie che mi colpiscono di più e di riascoltarle durante le mie attività quotidiane. Mentre le ascolto, si mescolano suoni, melodie, parole e dialoghi provenienti dal mondo circostante. Questo fenomeno a volte può risultare fastidioso, ma altre volte arricchisce l’esperienza d’ascolto, spingendomi a essere più attenta. La presenza di scenari reali in cui la poesia si inserisce mi fa percepire la poesia stessa come parte integrante della vita quotidiana. Vocale riporta la poesia alla sua dimensione vitale, integrandola nel flusso della vita di tutti i giorni.

Quante volte ci capita di essere interrotti durante la lettura da suoni estranei, come un messaggio o una canzone? Vocale si muove a destrutturare lo spazio tradizionalmente adibito alla poesia, che sia una pagina, un contesto o un ambiente. La poesia è concepita come un’entità permeabile e penetrante, che convive con l’ambiente circostante senza perdere la sua integrità.

A volte, è necessario fare più di un ascolto per cogliere appieno l’essenza di un’opera. In certi momenti, possiamo guardare qualcosa distrattamente, trascurando alcuni dettagli, ma se ripercorriamo l’esperienza con attenzione, ci accorgiamo che sono proprio quei dettagli a determinare l’intero quadro. Vocale è pensato sia per coloro che desiderano godere della poesia e dei suoni con un semplice ascolto e farsi travolgere dall’onda, sia per coloro che vogliono prendersi il tempo di rallentare, ripercorrere e approfondire. È per questo che ogni episodio del podcast è accompagnato da una tracklist completa degli autori, delle autrici, dei brani e delle suggestioni utilizzate. Io nutro sempre la speranza che ci sia un desiderio di approfondimento, e lo suggerisco senza imporlo.

FR: Vengo ora a un secondo aspetto più teorico: l’esperienza di Vocale è da un lato una evoluzione della poesia sonora, dall’altro però l’uso di diversi mezzi ne fa qualcosa di completamente diverso. Nelle performance che ricordo e mi riferisco in particolare a Milanopoesia, il festival organizzato da Gianni Sassi del 1983 nel ’91, c’era pur sempre un autore che andava su un palco anche se poi ci sono documentazioni video di quelle serate. Ecco, qual è stato lo spunto iniziale che ha dato vita a questo progetto e che relazione c’è – se c’è – con la poesia sonora?

EL: Per me, il processo di decontestualizzazione artistica è di fondamentale importanza. Agire in un ambiente predisposto all’ascolto o che suscita emozioni, è un territorio ben noto e relativamente semplice. Ciò che mi interessa veramente è esplorare la potenza e la resistenza della parola quando viene messa in contatto con ambienti insoliti, anche quelli che contrastano con il suo significato. Ricordo chiaramente un’esperienza in cui ho trovato un vecchio furgone russo in mezzo al nulla, in un prato in alta montagna, o quando ho visto un gregge di pecore attraversare una superstrada. In entrambi i casi, gli elementi principali mi erano noti, ma il contesto a loro estraneo rendeva l’esperienza molto più intensa. Il ricordo di quei momenti mi porta ancora a interrogarmi su come quei soggetti siano arrivati lì e sulle potenzialità del circostante, non come luogo accessorio, ma come luogo del re incontro con ciò che si è appreso, al quale si attribuisce un pensiero marmoreo e statico: una risignificazione dell’oggetto stesso e della parola che ne viene associata. Se penso a un gregge di pecore, in automatico il mio cervello associa a questa immagine un contesto appreso – un campo, un prato – a questo concetto e a questo ambiente a noi noto associamo una serie di vocaboli, emozioni, odori, sensazioni. Se invece le dico: “pensi a un gregge che attraversa una superstrada”, immediatamente a questa suggestione aggiunge una serie di emozioni, sensazioni e odori diversi, ma mette anche in gioco tutta un’area semantica di parole che nell’immagine usuale del gregge non avremmo mai pensato. Mi interessa lo scarto che si crea tra le prime parole, quelle note, e le nuove che il cervello associa all’oggetto stesso in un contesto inusuale. Trovo affascinante il ragionamento deduttivo e il contrasto. Penso che tutto quello che posso fare in questo momento, come amante e autrice di Poesia, sia cercare di portare energia e stimoli, di creare delle suggestioni per altri, che come me, lavorano in modo creativo. Quello che la Poesia rincorre è il linguaggio. A me interessa stimolare la mente di chi ascolta, fare in modo che si creino nuovi scenari e con essi nuove pensieri che risignifichino la parola stessa, non erudire.

La tradizione della Poesia sonora è senza dubbio fondamentale, ma in Vocale tutto viene ampliato, spostato e liberato dai confini. La poesia sonora si fonde con gli esperimenti dei rumoristi e si mescola a suoni diversi, alla musica e alle voci dei poeti, sia con scritture più tradizionali che sperimentali. L’obiettivo è rendere la poesia viva e dinamica in un ambiente non preconfezionato, ma piuttosto in un terreno di scambio, anche se spesso è un terreno denso di rumori e scarti che tentano di sconvolgere il significato della parola. Mi interessa particolarmente osservare e studiare quali parti del linguaggio riescono a sopravvivere a questa miscela o a questa lotta. Questo è ciò che mi appassiona e ciò su cui desidero concentrarmi con Vocale.

FR: Nella presentazione del progetto lei cita Jankins, Baruchello, Cage e Kandinskij. Sono nomi noti e importanti per diverse ragioni, ma la combinazione mi riporta una seconda volta al termine multimediale, ma anche intermediale. Vorrei che su questo punto dicesse qualcosa di più, anche perché mi sembra un aspetto centrale del progetto.

EL: Mi sforzo di sfruttare ogni elemento della realtà e tutti quegli strumenti, sia mediatici che non, che ci vengono messi a disposizione. In Vocale trovano spazio le voci dei lettori di Google, le frasi emesse dai distributori automatici e dalle casse automatiche, così come i suoni delle fontane, delle campane e dei sistemi in disuso come le audiocassette. Inoltre, ci sono riferimenti all’arte contemporanea, al cinema. Tutto ciò fa parte della nostra cultura. Nessuna forma d’arte può sopravvivere da sola. La poesia si inserisce nell’intero panorama culturale, senza confini, le voci dei poeti e delle poete dialogano tra loro e con il circostante.

Inoltre, Vocale opera anche con la dimensione dello spazio-tempo, riportando in auge conoscenze e interrogativi ancora attuali, già esplorati dai grandi maestri della poesia del passato. Mi impegno a recuperare tali domande attraverso l’utilizzo di filmati d’epoca e a reinserirle nel contesto contemporaneo, riattualizzandole. Nell’era attuale, la durata di vita di un libro è sempre più breve, e mi appassiona coinvolgere autori con opere meno recenti affinché leggano estratti dei loro scritti, così da riportare in circolo quel linguaggio e quei concetti.

Spesso, quando si pensa a una lettura poetica o a un programma radiofonico dedicato alla poesia, si crea un ambiente sterile, con una sorta di separazione silenziosa tra le parole, chi le ascolta e l’ambiente circostante. Tuttavia, le parole del poeta traggono origine da suggestioni spesso estranee al silenzio.

FR: Quello che lei dice mi fa venire in mente due nomi e un episodio legato a uno dei due: Benjamin e Brecht. Il primo perché i suoi saggi sul rapporto fra parola, arte in  generale e le trasformazioni tecniche avvenute dall’avvento della fotografia e del cinema in poi, sono una pietra miliare della critica novecentesca. Il secondo perché alla domanda se avesse bisogno del silenzio per scrivere, lui rispose – cito a memoria ma il concetto è quello – che preferiva le finestre aperte e il rumore dei clacson.

EL: I suoni ci rimettono al mondo. Lo dico in ognuno dei sensi che possono essere attribuiti a questa mia frase e in questo sono in totale accordo con ciò che diceva Brecht. I suoni che arrivano da una finestra aperta ci possono risvegliare da un torpore, ci ricordano che esiste altro oltre noi, tengono il nostro ego a bada, ci aiutano a posizionarci nel lavoro artistico che stiamo affrontando.

Posso cercare il silenzio durante la scrittura, ma non mi separo, poiché in ogni cosa esiste un dialogo costante. Vocale incarna la molteplicità di voci, suggestioni e riferimenti che prendono vita nella mente di chi scrive, ma è anche la stessa molteplicità che si anima nella mente di chi ascolta.

Ciò che Walter Benjamin vedeva nel suo saggio del 1936, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica era: la cultura di massa da una parte e l’avanguardia artistica dall’altra, che secondo Benjamin, sono accomunate dalla perdita dell’aura. L’aura per Benjamin era il concetto di sacro che l’arte aveva custodito nei secoli precedenti e che era stata distrutta dalla rapida riproducibilità tecnica che portò alla cultura di massa da una parte, ma anche dalla dissacrazione dell’arte usata in modo provocatorio dalle avanguardie.

L’arte perdeva la sua aura, la sua sacralità e con questa il concetto di autentico e Benjamin vedeva questa spoliazione come funzionale al progredire dell’arte, della sua trasmissione, riproduzione e accessibilità.

Il problema dell’accessibilità, nei nostri giorni pone di nuovo alla ribalta il tema dell’autentico, sia per l’arte massificata, nell’accezione dell’attribuzione di opera di genio ( si veda il caso degli NFT in arte), sia per le aree dell’arte che si occupano di ricerca, nell’accezione di forma.

Vocale usa audio “sporchi”, non perfetti. In questo modo l’opera, seppur riproducibile si autentica sfuggendo alla massificazione, in un’epoca dove la riproducibilità di massa è perfezione (del suono, dell’immagine, etc). Per questo in Vocale tengo gli errori di registrazione, ci sono vasi che si rompono in diretta perché sono caduti mentre registravo, papere, errori di pronuncia. Tutto viene lasciato come marchio di produzione creativa umana fallace.

L’intermedialità mi aiuta invece a livello formale sfidando ciò che definisco la struttura del pensiero borghese, costruito e orientato secondo il binomio bene-male. Vocale adotta una struttura che definirei schizofrenica: un pensiero che non segue le logiche del bene o del male, ma quelle della sopravvivenza. Tale non-struttura mi consente di creare scenari atipici che favoriscono la formazione del pensiero e lo stimolano, inoltre pone il progetto in un continuum che sfugge alla sua definizione.

FR: Nel rivolgervi a poeti a artisti come vi siete orientati? Avete trovare solo consenso oppure anche scetticismo?

EL: Ho selezionato le voci dei poeti e delle poete che avrei voluto ascoltare di nuovo, come facevo con la mia vecchia cassettina da adolescente. Scelgo autori che ammiro, altri che desidero esplorare, alcuni che mi incuriosiscono per un lavoro particolare, mentre altri li scelgo per vedere come il loro testo reagisce a un ambiente diverso.

Devo dire che la stragrande maggioranza degli autori e delle autrici contattati ha risposto con entusiasmo. Alcuni lo prendono come un semplice reading, ma sono pochi; altri provengono da esperienze sonore e sono abituati a questa forma di espressione, mentre altri si cimentano per la prima volta e si divertono. Mi impegno per offrire ai miei ascoltatori il meglio degli autori e delle autrici a cui riesco a accedere, e a volte può essere difficile mantenere un alto livello. Il concetto che è difficile da spiegare ai poeti è quello del pensiero unico che viene decontestualizzato, spezzato, ma integrato. 

FR: Fango Radio è stato il veicolo di Vocale, ma è anche un emittente; oppure è nata solo per il progetto? E perché la scelta di questo nome?

EL: A questa domanda le riporto la risposta del collettivo fondatore di Fango Radio. “FANGO è un nome scelto di pancia. FANGO RADIO è una piattaforma di sperimentazione, una porta aperta alle belle elucubrazioni. FANGO RADIO scava nei suoni. Trasmette dal lunedì al venerdì: qualche volta succede qualche trasmissione speciale il sabato o la domenica. Per ascoltarci puoi usare il nostro player o collegarti direttamente a questo link.  

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FR: Il venti aprile si terrà una vostra performance pubblica a Busto Arsizio al circolo Gagarin: ce la vuole presentare?

EL: Vocale è stato invitato come ospite all’Aperitivo Letterario per festeggiare il quinto anniversario di Fango Radio e ha preparato uno spettacolo unico dal titolo “Non è un reading”.

Si tratta di una performance che unisce poeti, poete e sound artist che leggeranno le proprie opere accompagnate dall’energia di suoni e musica preparati in perfetto stile Vocale. Durante lo spettacolo, non ci si siederà semplicemente ad ascoltare, ma ci si lascerà trasportare dall’intensità delle parole degli autori e delle autrici che saliranno sul palco.

Il vero risultato della performance verrà catturato dalla radio, che oltre alle voci dei performer, registrerà anche i suoni e le voci del pubblico presente.

Alla guida di questa prestigiosa banda ci sarò io, Elisa Longo, accompagnata da Giorgia La Placa, Ilaria Boffa, Laura Recanati, Emanuele Bottazzi Grifoni, Silvia Atzori, Benedetta Manzi e con le interferenze sonore di Mariagiorgia Ulbar, Michelangelo Coviello e Danilo Paris.

L’evento si terrà sabato 20 aprile dalle 19:00 alle 20:00 sul palco Vocale live – Non è un reading presso il Circolo Gagarin di Busto Arsizio (VA), nell’ambito della celebrazione Fango Radio 5Years, dove artisti sonori internazionali, musicisti e poeti si esibiranno fino a tarda notte. Potrete anche ascoltarci in streaming su Fango Radio.

La ringrazio per questo straordinario scambio e invito tutti a seguirci sulla pagina Instagram di Vocale, che trovate con il nome Vocale.poesia. Per chi volesse riascoltare le puntate, potrà farlo visitando il seguente indirizzo: https://www.fangoradio.com/shows/301

NARRAZIONI FRA MEMORIA E STORIA

Tonino con i minatori

Premessa

Il secondo libro di questo ciclo dedicato alle scritture narrative che si collocano fra memoria collettiva e storia, porta a una vicenda tipicamente italiana, l’emigrazione in cerca di lavoro: un problema storico che data dall’Unità d’Italia e che in forme diverse si ripropone a ogni generazione. La novità è che si tratta di un’emigrazione in Francia, precisamente in Lorena, una regione di confine cui sono legati molti ricordi – spesso tristi – che hanno segnato la storia europea: la miniera e il carbone sono sempre i protagonisti, ma l’emigrazione in Francia è meno nota di altre, meno legata a eventi funesti come la tragedia di Marcinelle in Belgio. Tuttavia, un accordo simile a quello con il governo belga era stato stipulato anche con il governo francese. Infine, l’emigrazione in Francia del secondo dopoguerra vive anche nelle bellissime canzoni di Gianmario Testa, il più francese dei cantautori italiani.

Un viaggio nella memoria

Quelle brevi stagioni, è il titolo del libro di Tonino Pecchia, pubblicato per 26 lettere edizioni nel 2021. Il sottotitolo recita così: Carnet di viaggio tra il “popolo delle gallerie.” Anche questa narrazione, come quella di Paola Martini è autobiografica e tutto inizia da un antefatto casuale: Tonino, il protagonista e narratore, legge casualmente nel 2017 un articolo del 2003 pubblicato su un giornale francese, da un giornalista che diventerà poi il prefatore del libro: Pierre-Christian Guiollard. L’articolo celebrava la chiusura della miniera di Merlebach e di colpo Tonino si ritrova proiettato a ritroso negli anni, a se stesso adolescente quando in un anno niente affatto banale – il 1968 – riceve in regalo il biglietto del treno per recarsi in vacanza dallo zio, che in quella miniera lavorava. La lettura dell’articolo diventa una specie di shock che lo spinge a ritornare sugli stessi luoghi di quelle brevi stagioni da lui trascorse in Lorena decenni prima. Le riflessioni sul presente e i richiami della memoria danno vita un intreccio narrativo fatto di rispecchiamenti e sovrapposizioni. La sensazione prima che ne ho ricavato come lettore è che l’emigrazione in Francia, pur nella durezza di qualsiasi migrazione, aveva dei tratti meno precari e cupi di altre. Il gusto dello stare insieme, il ballo in piazza, il gioco delle bocce, il cibo e il vino, tutta una serie di ritualità che Tonino ricorda puntualmente, dipingono un clima che nella mia memoria è diverso sia dai racconti che sentivo fare dai miei parenti emigrati in Svizzera, sia rispetto a una certa cupezza belga, che si ritrova puntualmente nella canzoni di Brel.

Il viaggio in treno

Il viaggio dell’adolescente Tonino comincia in un modo un po’ traumatico, ma il protagonista lo ricorda con sobrietà e leggerezza. La durezza dell’emigrazione compare subito, i litigi per un posto sul treno, un coltello minaccioso che compare e che subito dopo la minaccia – per fortuna domata – serve ad aprire una valigia da cui escono gli aromi rilasciati da cibi famigliari. L’Europa è quella del dopoguerra, ma non siamo già più nei momenti più aspri, se lo zio ha potuto invitarlo. Quel treno poi – l’Europa Express – fu veicolo per tante cose e tante esperienze diverse. Da studente universitario lo prendevo sempre pure io ogni estate per andare in Inghilterra a studiare e su quel treno si facevano incontri. Accadde anche a Tonino di trovare una ragazza su quel veicolo un po’ magico, che attraversava mezza Europa e arrivava a Calais. L’atmosfera di quel viaggio è ricostruita con leggerezza e ironia dal protagonista, che forse avrebbe preferito continuare su quel convoglio piuttosto che essere atteso dall’automobile dello zio alla stazione di Metz.

Da quel momento però si entra nel cuore della Lorena profonda, con le sue miniere, i suoi paesi – Merlebach, uno dei tanti – con le case basse dei minatori, che a me hanno ricordato molto anche quelle di Niccioleta e Follonica in Toscana. Le terre minerarie hanno tratti comuni. Lo zio però coinvolge il nipote anche nella discesa alla miniera:

… La nostra discesa alla miniera  avvenne in un periodo in cui si effettuava soprattutto manutenzione … La miniera … è un labirinto di strette gallerie, non è opera del lento lavorio naturale, qui è l’uomo che scava e avanza, strappando il minerale alla terra, puntella le gallerie, continua a scavare e avanza sempre più in basso. Si scende tra i 500 e i 1250 metri, la discesa  è buia, appena rischiarata dalle lampade sui caschi di protezione … il calore è spesso soffocante può superare i 40 gradi e persino i 60 pp. 150-1.

La durezza dell’esperienza è però supportata dall’esistenza delle cooperative solidali  dei minatori, da un tessuto sociale che cresce intorno alla miniera e produce cultura, musica persino festival letterari.

La fine del ciclo minerario

Quando Tonino ritorna in quei luoghi molti anni dopo, tutto è cambiato. Il suo ritorno non è solo in Lorena ma anche a Parigi e la prima immagine che registra è il passaggio di una piccola processione religiosa sui Campi Elisi (pag. 136.). La memoria corre indietro nel tempo a quel 1968 che aveva potuto comunque osservare da vicino. Ritrovarsi con una processione nel luogo che fu teatro di scontri memorabili suscita in Tonino una sensazione di straniamento. L’Europa è cambiata profondamente, è caduto il Muro di Berlino e in questi ultimi anni, poi, è successo di tutto. Quanto alla  miniera, i distretti minerari di un tempo si sono trasformati in musei di archeologia industriale. Tutto questo spinge l’autore a una riflessione di sintesi su entrambe le esperienze, quella giovanile e quella del ritorno. Il capitolo 29 intitolato Partire o restare Il problema del ritorno inizia proprio questa riflessione conclusiva che si colloca a metà strada fra narrazione e riflessione saggistica. Tre sono i casi presi in considerazione, corredati da una serie di testimonianze:

L’emigrante che sposa  un’autoctona e resta in Francia.

L’emigrante sposato con  una connazionale che per vari motivi ritorna definitivamente al paese d’origine.

L’emigrante che arriva in Francia e sposa una connazionale vi resta.

Lo zio di Tonino appartiene alla prima categoria e la sua come le altre testimonianze raccolte sono assai importanti ma ci presentano un quadro che probabilmente è assai diverso per chi emigra oggi. Nella nostra contemporaneità sono i giovani e le giovani laureate ad allontanarsi dal Bel Paese perché in esso trovano stipendi da precari a vita e poca mobilità sociale, mentre nelle testimonianze raccolte nel libro la sensazione prevalente è quella di una storia di avanzamento sociale, di difficile integrazione ma pur sempre integrazione. Certamente non è così per i migranti che provengono in Europa e in Italia dal sud del mondo.

L’appendice finale dedicata ai flussi migratori fra Francia e Italia, la ricca documentazione delle fonti consultate e la galleria di fotografie in bianco e nero costituiscono altrettanti contributi preziosi. La sorpresa finale è però un’altra. Tonino non smetterà di viaggiare, continuerà a ritornare in quei luoghi, la storia non è finita e le ultime osservazioni intorno ai problemi che i distretti minerari si lasciano a spalle, primo fra tutti l’inquinamento, sono un’esortazione a non lasciarsi catturare solo dalla memoria e dalla nostalgia, ma guardare al futuro. Ci aspettiamo dunque un seguito.

RESISTERE AL PENSIERO UNICO

Premessa

Questo che segue è un video e documentario prodotto nel 2022 sulla convergenza di lotte sociali avvenute fra Firenze e Bologna. Al centro delle attività fiorentine c’è naturalmente la GKN occupata, ma ciò che è importante rilevare è proprio l’effetto di contagio che tale esperienza ha avuto su molte altre realtà. L’auspicio è che questi siano solo dei primi passi per una estensione delle lotte sociali che si colleghino anche all’ampio fronte di lotta in materia di diritti civili, cambiamenti climatici e resistenza al clima reazionario e di guerra che percorre l’Europa intera. In questo contesto mi sembra decisivo ricordare anche la futura e seconda edizione del festival della letteratura working class che si terrà nella sede della GKN.

Insorgiamo



NARRAZIONI FRA MEMORIA E STORIA

Anghiari, panoramica

Premessa

Due libri che ho letto di recente e la nuova edizione del festival della letteratura working class organizzato dal collettivo della GKN occupata di Firenze, hanno sollecitato una riflessione sulle differenze fra narrazione e romanzo, un tema peraltro trattato anche nell’intervista a Vincenzo Consolo pubblicata su questo blog. La presenza di scritture narrative che si muovono fra storia e memoria si collocano a cavallo di generi diversi, sfuggendo a definizioni canoniche. Lo stesso si può dire per il festival della letteratura Working class, che si propone programmaticamente di occuparsi delle scritture che nascono in ambiente operaio – largamente inteso – e riflettono dall’interno di quel mondo sui meccanismi che governano il rapporto fra linguaggio, mondo del lavoro e società nel suo complesso. Il festival, mi sembra, fra l’altro, un tentativo riuscito di mettere alla prova il concetto di general intellect di Marx, partendo dalle competenze che un gruppo operaio di una fabbrica tecnologicamente molto avanzata è in grado di produrre grazie alle proprie competenze e culture trasversali. Un’ultima caratteristica del festival va infine sottolineata come diversità per me fondamentale rispetto ad altri festival analoghi tenuti in Inghilterra: l’iniziativa si svolge dentro una situazione di conflitto – una fabbrica occupata – e non si pone come momento letterario e artistico separato. Da tempo non esiste più un mandato della società a scrittori e artisti per essere la coscienza critica di una comunità. Tale mandato può essere ripreso come orizzonte di senso mettendo al lavoro e a contatto artisti e scrittori con le situazioni dove le aggregazioni virtuose, come quella di GKN, creano atolli di senso nel mare dell’insensato che ci circonda. Lo stesso può avvenire anche con quelle opere che si pongono il problema di una memoria collettiva da salvare.

Gli anni forti di Paola Martini

Pubblicato da Manni nel 2020, il libro è autobiografico e gli anni forti sono quelli che vanno dal dopoguerra all’uccisione di Aldo Moro. Nella prima parte Martini descrive, con ricchezza e generosità di particolari, la formazione e la crescita di una protagonista femminile – Paola – che da bambina diviene adolescente e poi donna adulta. Il contesto sociale è la campagna Toscana e due sono i perimetri portanti della sua esperienza:  un microcosmo – Villa Gina – e una città di riferimento, Empoli; un terzo, sotto traccia, è l’ambiente cattolico di Gs, che diventerà più importante nel momento in cui l’esperienza della scuola di Barbiana irromperà sulla scena diventando uno dei fattori di cambiamento.

I personaggi di questa prima parte sono abbastanza canonici, fanno parte di un universo sociale che si ritrova anche in altre parti d’Italia: da nonno Fogli alla madre – la signora Lia, come la chiamava sempre Tata –  poi Clemetina e Chiara, le prime forti amicizie femminili, la scoperta del maschile e della sessualità. Sullo sfondo, le notizie del mondo e della grande politica arrivano con la radio insieme alle canzoni: è la storia del dopoguerra italiano fra privazioni e slanci vitali, ma c’è un passaggio significativo quando dalle parole della protagonista affiora questo ricordo:

… siamo state però bambine “selvagge” poco composte rispetto alle nostre coetanee di città … Pag. 20)

Lo stare composti era un’ingiunzione che veniva riservata anche ai maschi specialmente in ambito scolastico: il recupero anche linguistico di un’espressione come questa ci rimanda a quel tempo in modo molto diretto .

Da un passaggio scolastico all’altro, fino al liceo, poi all’università, la città assume un ruolo diverso, cresce la voglia di sperimentare, di andare oltre i confini della piccola comunità e iniziano anche i conflitti – quelli con il padre prima di tutto – ancora una volta in linea con un andamento generazionale che riguarda l’Italia intera. La politica è ciò che li divide ma erano pure anni in cui erano i figli e le figlie a costringere i genitori a confrontarsi con nuove realtà. Certo, alle spalle, c’era anche il boom economico che aveva favorito la scolarizzazione dei ceti operai e piccolo borghesi. Insieme a tutto questo, naturalmente, i primi amori, la presenza sempre più importante di Carlo il giessino, la scoperta dell’Italia intera, i campeggi in Calabria e in Sardenga, un altro passaggio generazionale importante di quegli anni: quella generazione unificò l’Italia una seconda volta e ci sono nel libro dei passaggi che lo sottolineano in modo molto efficace.

Che idea della politica e dell’impegno sociale emergono però da questa narrazione? I passaggi significativi sono diversi, ne isolo alcuni che mi sembrano più emblematici di altri. Il primo è importante per il contesto: la Toscana insieme all’Emilia Romagna era l’emblema del PCI. L’avvicinamento a quel partito è segnata da subito dall’ambivalenza, ma non è la mancanza di radicalità che la protagonista mette in evidenza, ma la distanza fra propaganda e realtà del socialismo reale che sfocia in brevi riflessioni fra cui questa:

Come poteva conciliarsi quel modello opprimente con quello dell’”immaginazione al potere”degli irridenti studenti della Sorbonne di Parigi, del variopinto universo dei pacifisti, dei raduni oceanici di Woodstock? … Pag 118.

Il secondo passaggio è il distacco da GS, che matura in modo più lineare senza troppi traumi, ma di quella esperienza la protagonista conserva una traccia, seppure profondamente trasformata anche dall’esperienza di don Milani: la preponderanza del sociale sul politico che si rifletterà anche nelle scelte lavorative. Il terzo passaggio è fatto di due diversi elementi: la diffidenza rispetto a certe derive sessantottine come il 18 politico, che chi aveva studiato con fatica e sacrifici non poteva accettare – a differenza dei figli dei ceti cittadini del nord – pur capendone alcune delle ragioni. Il passaggio più importante, tuttavia, è la distanza che la protagonista mette fra la propria esperienza e una radicalizzazione dei movimenti da cui la Paola si sente estranea. Il modo in cui lo esprime in questo dialogo con un’amica, da cui emerge anche la crisi nel rapporto con Carlo, è quanto mai significativo:

“… Io non lo capisco Paola, non capisco il suo silenzio, il suo mutismo … Discute solo di politica lui …”

“ Non l’hai ancora capito che loro son diversi da noi? Noi siamo terra e ci sentiamo terra, loro no e non accettano di esserlo .Vogliono essere eroi, capi, avanguardie … Il mio uomo e il tuo scommettono tutto sulla mente”…Pag166.

Per molte donne di quella generazione l’estraneità sfocerà nel femminismo, dal quale peraltro la protagonista non sembra tuttavia toccata più di tanto. Nel dialogo, la lucidità di Paola rispetto al linguaggio politico dei due uomini emerge con chiarezza, ma questo non la salverà dalla cecità rispetto al tradimento di Carlo.

Memoria e biografia

Gli anni forti hanno due centri propulsivi. Il primo è antichissimo e ha a che fare con la narrazione orale, il tramandarsi le esperienze tramite la conversazione e nel racconto conviviale; nel mondo contadino questa modalità è presente da sempre. Questo retroterra porta con sé due conseguenze quasi naturali: la girandola dei personaggi che danno al testo un andamento corale, poi lo scrupolo cronachistico che ricorda un po’ i cronisti medioevali che non distinguevano fra piccoli e grandi eventi, ma cercavano di registrarli tutti per quanto possibile. Forse nel fare questo Martini ha esagerato un po’ e alla sua memoria sembra non sfuggire davvero nulla. I momenti che fungono da spartiacque e che segnano un prima e un dopo emergono quasi sempre dall’osservazione scrupolosa ma senza enfasi eccessiva e senza giudizio, come avviene in questo passaggio, drammatico ma al tempo stesso misurato:

Una notte, fatto di alcool e allucinogeni, Andrea ha tentato di spiccare il volo, verso quel cielo dai colori abbaglianti, che ormai aveva dentro, lanciandosi con un balzo dall’appartamento posto in via dei Neri sul tetto della casa di fronte e si è sfracellato al suolo. Qualcun era con lui in quell’appartamento ma se n’era andato prima, o forse spaventato, era fuggito. Il primo morto per droga a Empoli Pag. 108.

Il secondo centro propulsivo è recente e mi riporta ancora in Toscana, precisamente ad Anghiari, capitale dell’autobiografia e della micro storia. Il progetto varato da Duccio Demetrio si poneva proprio il problema di una memoria storica che avesse anche una valenza antropologica e ricostruisse dal basso anche i grandi eventi e per come essi sono filtrati dalle diverse comunità.

Il racconto di Martini si astiene dal giudicare, le scelte della protagonista anche quando sono chiare ed evidenti, emergono sempre dai dialoghi oppure dai comportamenti e la distanza dai comportamenti che si rifiutano non implica alcun giudizio sugli altri ma guarda piuttosto alla drammaticità della situazione. È quanto avviene in questa citazione che chiude una fase della sua vita e porta verso la conclusione del libro. Il giorno è il più drammatico di quegli anni, quando arriva la notizia dell’assassinio di Moro. Paola è per strada e si rende conto che qualcosa di grave sta accadendo vedendo la folla che si raduna nel centro di Firenze. La notizia la sgomenta, ma è la riflessione finale, lapidaria, a chiudere una fase della propria vita, che di certo non rinnega, ma rispetto alla quale c’è la necessità di una cesura: 

Un nodo mi serrava la gola, perché quel lutto, quella costernazione erano anche miei, come se qualcosa si fosse frantumato per sempre, certamente anche per responsabilità nostre, mie e dei miei compagni.

Non colpevoli, ma neppure liberi di pensare che quella conclusione non ci riguardasse. Pag. 187.

Per concludere

Due considerazioni finali sul tempo e sulla conclusione del libro. Nella prima parte il tempo è scandito da riti di passaggio che sembravano ancora immutabili. Dal capitolo ironicamente intitolato Che anno è – pag. 67, le cose cominciano a cambiare. Subentra un tempo più concitato e anche i ricordi non seguono uno sviluppo lineare perché gli eventi sono filtrati dalla percezione che la protagonista Paola ne ha e questo crea delle sfasature. Così può accadere che un fatto enorme come la bomba di Piazza Fontana emerga improvvisamente dopo altri ricordi in apparenza di minore importanza, ma che le hanno permesso però di afferrare a posteriori tutto il senso di quell’evento: un tempo interiore, dunque, ma non intimistico.

La conclusione del libro contiene tutta l’ambivalenza di quella situazione tragica: ritorno al privato? Riflusso? Oppure apertura verso una nuova vita? Ci sono tutti questi elementi e ancora una volta la narrazione descrive e registra senza pretesa di giudizio. Tuttavia, arrivato alla fine del libro, a me lettore, la meticolosa ricostruzione di quegli anni, mi spinge a dire che poche generazioni hanno avuto la fortuna di poter fare così tante e ricche esperienze nel giro di pochi anni. La combinazione perversa fra stragi di stato e terrorismo pose fine a quel sogno generazionale. Paola, la protagonista sceglie alla fine di vivere, di recuperare la relazione Carlo, di aprirsi a un futuro possibile.

Campagna toscana

PROMETEO FRA MITO E STORIA

Heinrich Friedrich Füger, Prometeo porta il fuoco all’umanità, 1817

Nel suo contesto mitologico Prometeo è una narrazione molto arcaica, appena successiva a quelle sulle origini del mondo. Figlio del Titano Giapeto e dell’Oceanina Climene, è facile notare come i genitori siano due forze della natura incontrollabili. Egli stesso viene rappresentato come un Titano, ma il personaggio appare ben più complesso perché il suo nome significa – nonostante che ciò sia probabilmente dovuto alla cattiva interpretazione di un termine, come sostiene Graves –1 colui che pensa prima di agire. Questo denota progettualità, un’attitudine che non appare consona a un Titano e che, falsa o meno che sia la sua origine, si manifesta però ampiamente nei suoi comportamenti. Tuttavia, come spesso accade con i miti, essi si ricordano solo per alcuni particolari che hanno colpito l’immaginazione, ma che rischiano anche di ridurre la portata dei personaggi e delle narrazioni. Prometeo, nella vulgata che tutti conoscono, è colui che ha rubato il fuoco agli dei per darlo agli uomini e per questo fu punito da Zeus. La storia è meno lineare, proprio a cominciare dalla sua relazione con Zeus; per questa ragione, in nota, riporto la narrazione intera del mito stesso con l’indicazione di tutte le fonti consultate al proposito.2 Prometeo è un rivoluzionario e questo spiega l’attrazione di Marx per il personaggio, ma anche tale definizione gli va stretta; oppure, dipende dall’estensione da attribuire al termine rivoluzionario. Egli sa tenere testa al potere supremo di Zeus, cerca pure di rovesciarlo, ma sa accettare anche il compromesso. Prometeo, specialmente in alcuni momenti, è la politica al livello massimo della sua nobiltà, ma il suo scontro con Zeus si conclude con un sostanziale pareggio: egli viene liberato, ma la vicenda non si conclude con il rovesciamento rivoluzionario delle gerarchie olimpiche e questo lascia a noi umani il compito di scegliere fra opzioni diverse rispetto alla questione del potere, che è un’altra delle problematiche che il mito solleva. Prometeo, dunque, non è solo la tecnologia, anche se questa è stata la valenza dominante e il modo in cui è stato recepito nella modernità; con il rischio però di considerarla tendenzialmente buona in sé o almeno neutra e neutrale. Rimane però il fatto che rubare il fuoco per darlo agli umani è prima di tutto un atto politico d’insubordinazione.

Ecco come Marx si occupa di lui nella sua tesi di laurea:

La confessione di Prometeo: (“francamente, io odio tutti gli dèi”) è la sua propria confessione, la sentenza sua propria contro tutte le divinità celesti e terrestri che non riconoscono come suprema divinità l’autocoscienza umana. Nessuno può starle a fianco. Alle tristi lepri marzoline, che gioiscono della apparentemente peggiorata condizione civile della filosofia, essa replica quanto Prometeo replica al servo degli dei Ermete:(“io, t’assicuro, non cambierei la mia misera sorte con la tua servitù. Molto meglio lo star qui ligio a questa rupe io stimo, che fedele messaggero esser di Giove”)3

Il modo in cui ne scrive parla da solo: Marx, coglie la determinazione rivoluzionaria di Prometeo, ignora il furto del fuoco e valorizza la sprezzatura nei confronti della divinità suprema e il valore civile della filosofia, che è prerogativa degli umani. Questo aspetto del mito verrà reiterato nei momenti in cui Prometeo si prenderà gioco di Zeus. Marx sembra dunque accogliere il mito, in primo luogo, per rivendicare la libertà dal vincolo religioso. La narrazione del mito, tuttavia, dice anche altro. Prometeo non riesce a rovesciare il potere supremo di Zeus, ma tutto quello che ha voluto fare per il genere umano è stato compiuto e i doni sono il fuoco, l’architettura e la lavorazione dei metalli e dunque non solo la tecnologia ma anche le scienze e in uno spettro molto ampio: l’architettura confina con l’arte. Tuttavia, a Marx sembra sfuggire la parte finale del mito e cioè l’assunzione di Prometeo fra gli immortali, atto che crea una connessione del tutto imprevedibile ma assai vistosa fra divinità e tecnologia: una conseguenza assai densa di futuro infausto per noi. Il riferimento a Prometeo manterrà nello sviluppo dell’opera marxiana, una forte dose di ambivalenza. La convinzione che lo sviluppo delle forze produttive avrebbe portato di per sé alla rottura dei rapporti di produzione si pone in termini deterministi e prometeici, mentre nel discorso sul general intellect, se lo s’intende dal punto di vista politico e cioè come telos rivolto all’autogestione da parte dei produttori e della società nel suo insieme (l’idea di una umanità socializzata evocata nella decima tesi su Feuerbach), il determinismo scompare, oppure è fortemente limitato e l’esaltazione della potenza lascia spazio invece alla cooperazione. Lasciamo a Marx le sue oscillazioni e domandiamoci: possiamo avere noi il medesimo atteggiamento di fronte ai disastri naturali e sociali causati dal sistema capitalistico, che vediamo ogni giorno? Non possiamo più e questo implica la rinuncia a qualsiasi forme di prometeismo intesa come lo è stata in passato, anche nell’esperienza storica del socialismo reale.

In che modo però Prometeo come mito e personaggio è stato accolto dalla cultura occidentale? In nota riassumo rapidamente i diversi modi in cui la sua azione è stata considerata, mentre prenderò in considerazione per esteso soltanto il Prometeo di Goethe, con una precisazione: la sola traduzione in italiano che io abbia trovato è quella di Baioni del 1967. 4 Sarebbe auspicabile che qualcun altro lo faccia. Il testo cui faccio riferimento è dunque quello facilmente reperibile anche in rete, spesso con l’originale in tedesco.

Copri il tuo cielo, Giove,

col vapor delle nubi!

E la tua forza esercita,

come il fanciullo che svetta i cardi,

sulle querce e sui monti!

 Ché nulla puoi tu

contro la mia terra, contro questa capanna,

che non costruisti,

contro il mio focolare,

per la cui fiamma tu

mi porti invidia.

Io non conosco al mondo

nulla di più meschino di voi, o dèi.

 Miseramente nutrite

d’oboli e preci

la vostra maestà

ed a stento vivreste,

se bimbi e mendichi

non fossero pieni

di stolta speranza.

Quando ero fanciullo

e mi sentivo perduto,

volgevo al sole gli occhi smarriti,

quasi vi fosse lassù

un orecchio che udisse il mio pianto,

un cuore come il mio

che avesse pietà dell’oppresso

Chi mi aiutò

contro la tracotanza dei Titani?

Chi mi salvò da morte,

da schiavitù?

Non hai tutto compiuto tu,

sacro ardente cuore?

E giovane e buono, ingannato,

il tuo fervore di gratitudine

rivolgevi a colui che dormiva lassù?

Io renderti onore? E perché?

Hai mai lenito i dolori di me ch’ero afflitto?

Hai mai calmato le lacrime di me ch’ero in angoscia?

Non mi fecero uomo

il tempo onnipotente

e l’eterno destino,

i miei e i tuoi padroni?

Credevi tu forse

che avrei odiato la vita,

che sarei fuggito nei deserti

perché non tutti i sogni

fiorirono della mia infanzia?

Io sto qui e creo uomini

a mia immagine e somiglianza,

una stirpe simile a me,

fatta per soffrire e per piangere,

per godere e gioire

e non curarsi di te,

come me.4

Il testo di Goethe è a mio avviso equamente distante da tutte le interpretazioni più canoniche del mito, citate nella nota precedente. Non so dire se i suoi versi in tedesco siano della stessa efficacia e bellezza di altre sue liriche e forse l’inesistenza di traduzioni recenti potrebbe far pensare che non si tratti dell’opera poetica più riuscita di Goethe; tuttavia, in questa mia riflessione vi è una oggettiva prevalenza del significato simbolico da attribuire alla sua figura mitologica e il testo di Goethe mi sembra a questo proposito sorprendente e anomalo. La prima scelta sorprendente è di far parlare Prometeo, perché in fondo ciò che colpisce nelle altre rappresentazioni è proprio il suo silenzio. Anche nei ritratti in cui è rappresentato dolorosamente angariato dall’aquila, Prometeo sembra quasi assente. Eroe o demone, oppure angelo ribelle a seconda delle interpretazioni, nonostante sia sempre presente in scena, tutto quello che possiamo dedurre del suo pensiero, lo si evince dai gesti e dai comportamenti: anche quando usa la parola – i suoi avvertimenti a Epimeteo per esempio – questa viene riportata da altri. Il tono della voce, nel testo di Goethe, oscilla fra indignazione e dolenza, dolore e invettiva. Il Prometeo di Goethe rifiuterebbe di essere accolto fra gli dei e infatti non vi è alcun cenno a questo nel testo. Vero uomo ma non vero dio, il Prometeo goethiano si distanzia dal tema eroico senza per questo diventare un antesignano degli anti eroi di cui sarà piena la letteratura novecentesca. Rimane un’ultima considerazione e cioè se l’invettiva che Goethe gli fa pronunciare sia nei confronti degli dei olimpici ma risparmi il dio cristiano. Il richiamo all’indifferenza rispetto alle sofferenze umane mi sembra del tutto riferibile anche a quest’ultimo. Goethe però non anticipa la morte di dio nietzschiana, mi sembra piuttosto che tutto il testo sia la dolente constatazione che lo spazio di dio è ormai uno spazio vuoto, che l’umanità se vuole salvarsi devo farlo da se stessa, senza bestemmiare la vita. Mi sembrano decisivi a questo proposito i versi finali che riporto di nuovo  qui di seguito:  

Credevi tu forse

che avrei odiato la vita,

che sarei fuggito nei deserti

perché non tutti i sogni

fiorirono della mia infanzia?

Io sto qui e creo uomini

a mia immagine e somiglianza,

una stirpe simile a me,

fatta per soffrire e per piangere,

per godere e gioire

e non curarsi di te,

come me.  

Joseph Karl Stieler, Ritratto di Johann Wolfgang Goethe, 1828

1 Robert Graves, Miti greci, alla voce Prometeo e Atlante: disponibile anche in rete in formato pdf.

2 Mi sono prioritariamente rifatto all’autorevolezza di Robert Graves, ma anche ad altre fonti, riportate nella Treccani, oppure da Graves medesimo nelle sue note. Come tutte le scelte è discutibile, la motivazione che mi spinge a ritenere la ricerca di Graves fondamentale, è il suo rigore da mitografo nel riportare tutte le versioni conosciute di un mito, con pochi ed essenziali commenti, che lasciano a chi legge le interpretazioni possibili e le ulteriori riflessioni. Le altre fonti principali, peraltro sempre citate anche da Graves, sono indicate di volta in volta. I miei commenti e note redazionali sono in tondo.  

Da un’unione tra il Mare e i suoi Fiumi nacquero le Nereidi. Non esistevano però uomini mortali; finché Prometeo, figlio di Giapeto, con il consenso della dea Atena, non li formò a immagine e somiglianza degli dei impastando la creta con l’acqua del Panopeo, fiume della Focide; Atena soffiò in essi la vita. Prometeo, il creatore del genere umano, che taluni includono nel numero dei Titani, era figlio della Ninfa Climene e del Titano Eurimedonte, oppure di Climene e Giapeto; suoi fratelli erano Epimeteo, Atlante e Menezio. II Gigante Atlante, il maggiore dei fratelli conosceva tutto quanto si cela negli abissi del mare; il suo regno si estendeva lungo una zona costiera scoscesa, più vasta che l’Asia e l’Africa messe assieme. La terra di Atlante giace al di là delle Colonne di Eracle e una catena di isole feraci la separa da un continente più lontano, che non è unito ai nostri …

Prometeo non agisce senza il consenso Atena anche se l’idea di creare il genere umano è sua, secondo questa versione; il particolare è assai interessante, come vedremo meglio nel prosieguo. Il racconto che segue, cioè la leggenda di Atlante, peraltro ben nota perché riferita anche da Erodoto, riguarda marginalmente i temi qui trattati, se non per un particolare che viene evidenziato alla fine, cioè quando si compie la sconfitta dei Titani ribelli. Così prosegue Graves:   

Prometeo, che era più saggio di Atlante, previde come sarebbe finita la rivolta dei Titani e preferì dunque schierarsi dalla parte di Zeus, inducendo Epimeteo a imitare il suo esempio. Prometeo era, in verità, il più intelligente della sua razza; aveva assistito alla nascita di Atena dalla testa di Zeus e la dea stessa gli insegnò l’architettura, l’astronomia, la matematica, la medicina, l’arte di lavorare i metalli, l’arte della navigazione e altre utilissime, che egli poi a sua volta insegnò ai mortali.

 Da questo passaggio si può capire come la capacità politica sia in Prometeo particolarmente acuta, in ogni momento della sua vicenda e sufficiente per dire che il pensare prima di agire sia effettivamente una costante del suo carattere, anche nei momenti in cui sembrerà il contrario. Non è un rivoluzionario astratto, sa destreggiarsi e anche creare il necessario consenso intorno a sé, riconosce l’importanza dei rapporti di forza, ma questo non gli impedisce di giocare le sue carte, a volte anche con ironia, come quando inganna Zeus, usando un trucco persino banale. Da questo momento in poi la narrazione diviene però meno lineare a causa delle interpolazioni che Graves spiegherà più avanti.

Ma Zeus, che aveva deciso di distruggere l’intero genere umano ed era stato distolto da tale proposito soltanto dall’intervento di Prometeo, s’irritò nel vedere gli uomini divenire sempre più esperti e potenti.

Anche in questo caso, egli esercita l’arte della mediazione piuttosto che quella del rovesciamento rivoluzionario.

Un giorno, nella piazza di Sicione, si accese una discussione a proposito delle parti di un toro sacrificato che si dovevano offrire agli dei, e delle parti che gli uomini potevano riservare per sé. Prometeo fu invitato a fare da arbitro. Egli allora scucì e smembrò il toro e ricucì la sua pelle in modo da formarne due grandi sacche, che riempì con le varie parti dell’animale. Una sacca conteneva tutta la carne, ma ben nascosta sotto lo stomaco, che è il boccone meno appetitoso, e l’altra conteneva le ossa, nascoste sotto un bello strato di grasso. Quando le presentò a Zeus perché scegliesse l’una o l’altra. Zeus si lasciò trarre in inganno e scelse la sacca con il grasso e le ossa (che da quel giorno rimasero la porzione degli dei) ma punì Prometeo, che rideva di soppiatto, privando gli uomini del fuoco. «Che mangino la loro carne cruda!» gridò. Prometeo si recò subito da Atena e ottenne che essa lo facesse entrare di nascosto nell’Olimpo. Appena giunto, accese una torcia al divampante carro del Sole e ne staccò una brace ardente, che pose poi entro il cavo di un gigantesco gambo di finocchio. Spenta la torcia, sgattaiolò via senza che alcuno lo vedesse e ridonò il fuoco al genere umano .

Questo passaggio è molto importante e la burla va sottratta alla sua apparente banalità, anche perché altre versioni presentano qualche contraddizione rispetto a questa e sembra che ci sia in questa ricostruzione la sovrapposizione di vicende diverse, come Graves peraltro avverte. L’intento di Prometeo è di dimostrare che gli dei, a cominciare da Zeus, sono in realtà le paure degli esseri umani e questo è l’aspetto di Prometeo che suscitava l’entusiasmo di Marx. Tuttavia, un altro particolare importanza è l’alleanza di fatto che nei momenti più decisivi, Prometeo trova in Atena. Principio femminile che si contrappone a Zeus? Per niente poiché Atena è nata dalla testa del padre e se mai rappresenta l’ambivalenza del maschile di cui Prometo è abile a servirsi ogni volta che lo deve fare. A questo punto, però, la storia s’ingarbuglia ancora di più:

Zeus giurò di vendicarsi. Ordinò a Efesto di fabbricare una donna di creta, ai quattro venti di soffiare in essa la vita, e a tutte le dee dell’Olimpo di adornarla. Codesta donna, Pandora, fu la più bella del mondo e Zeus la mandò in dono a Epimeteo, scortata da Ermes. Ma Epimeteo, che era stato ammonito da suo fratello di non accettare doni da Zeus, cortesemente rifiutò. Sempre più infuriato. Zeus fece incatenare Prometeo, nudo, a una vetta del Caucaso, dove un avido avvoltoio gli divorava il fegato tutto il giorno, un anno dopo l’altro; e il suo tormento non aveva fine, poiché ogni notte (mentre soffriva crudelmente per i morsi del freddo) il fegato gli ricresceva.

Zeus non affronta Prometeo direttamente e questo significa che lo teme. Il tentativo di sconfiggerlo tramite Epimeteo, però fallisce e questo particolare è più importante di quella parte della narrazione che riguarda Pandora, anche perché la connessione fra i due miti appare forzata e lo vedremo meglio subito dopo. Non è per nulla evidente perché proprio Pandora avrebbe dovuto ingannare i due fratelli. Il mito di quest’ultima andrà preso in considerazione in sé per quello che significa da un punto di vista della codificazione patriarcale, ma rispetto al nostro argomento sia l’atteggiamento prudente di Zeus, sia l’ammonizione di Prometeo a Epimeteo, sono ben più decisive. Così prosegue Graves:

Zeus, non volendo ammettere di aver dato sfogo al suo desiderio di vendetta, cercò di giustificare la propria crudeltà facendo circolare una falsa voce: e cioè che Atena aveva invitato Prometeo sull’Olimpo per un segreto convegno amoroso. Epimeteo, angosciato per la sorte di suo fratello, si affrettò a sposare Pandora, che per volontà di Zeus era stupida, malvagia e pigra quanto bella. Subito essa aprì il vaso che Prometeo aveva affidato a Epimeteo raccomandandogli di tenerlo chiuso, e nel quale si trovavano tutte le Pene che possono affliggere l’umanità: la Vecchiaia, la Fatica, la Malattia, la Pazzia, il Vizio e la Passione. Subito esse volarono via a stormo e attaccarono i mortali.

Ancor più di prima la connessione fra i due miti non appare affatto necessaria: che nesso c’è fra la punizione inflitta a Prometeo e la decisione di Epimeteo di sposare Pandora? D’accordo, Epimeteo è un avventato e infatti il suo nome significa colui che pensa dopo avere agito,  ma ci sono troppe contraddizioni e persino sull’apertura del vaso esistono due versioni. In una è proprio lui – Epimeteo – ad aprirlo e non Pandora. Insomma, un guazzabuglio, rispetto al quale tuttavia, ancora una volta Prometeo ne esce bene: è lui ad avvisare il fratello di custodire il vaso senza aprirlo. Le incongruenze nascondono sempre qualcosa di grosso che c’è eccome ed è proprio Graves ad affermarlo nella sua nota numero 8. La leggenda Prometeo, Epimeteo e Pandora, narrata da Esiodo, non è il mito originale ma una favola antifemminista inventata da Esiodo stesso, benché si ispiri alla leggenda di Demofoonte e Fillide. Il vaso di Pandora, in origine, conteneva anime alate. La rivolta dei giganti, di cui il mito di Prometeo è la parte successiva, è narrata essenzialmente da Apollodoro, Pausania e Diodoro Siculo. Euripide scrisse una tragedia dal titolo i Ciclopi. Altre fonti si ritrovano nell’Odissea, Eschilo scrisse una tragedia sul tema ma è andata perduta.

Fra le fonti autentiche citate Esiodo non c’è proprio e, in effetti, egli è poi il primo di una lunga tradizione misogina. Probabilmente il mito di Pandora andrà visto nella sua autonomia rispetto a quello di Prometeo, cercando se mai successivamente intrecci possibili. Il finale di questa parte della narrazione, tuttavia, merita attenzione perché in realtà i finali sono due e la differenza non è da poco. Vediamoli entrambi di seguito.

Ma la fallace Speranza, che Prometeo aveva pure chiuso nel vaso, li ingannò con le sue bugie ed evitò così che tutti commettessero suicidio. (tutti si riferisce al genere umano ndr.)

Solo la speranza, rimasta nel vaso tardivamente rinchiuso, da quel giorno sostenne gli uomini anche nei momenti di maggior scoraggiamento.

La prima delle due versioni attribuisce a una scelta di Prometeo l’avere inserito anche la speranza nel vaso, ma subito dopo ecco la diffamazione nei suoi confronti: seppure in modo obliquo. La speranza sarebbe solo un inganno per il genere umano, ma è lui Prometeo ad averla messa nel vaso e quindi ad averli ingannati. Ora che sappiamo che tutta la vicenda di Pandora va rivista in altro modo e contesto, rimane il tentativo di usarla nel finale per minimizzare l’opera di Prometeo. La seconda versione più neutra, rivaluta la speranza assegnandole un valore positivo. Con la chiusura di questa parte assai accidentata, torniamo alla narrazione principale. Avevamo lasciato Prometeo nel momento in cui, grazie alla complicità di Atena, ridona il fuoco all’umanità e sempre grazie a lei aveva acquisito anche altre abilità, dall’architettura alla lavorazione dei metalli, che aveva di nuovo donate agli umani. Così prosegue la narrazione principale:

Alla fine, non vi erano più qualità da assegnare al genere umano, ma Prometeo rimediò subito rubando ad Atena uno scrigno in cui erano riposte l’intelligenza e la memoria  che donò agli umani. Zeus in quel momento aveva deciso di distruggerli e non approvava la gentilezza di Prometeo per le sue creature; inoltre considerava i doni del titano troppo pericolosi perché gli uomini in questo modo sarebbero diventati sempre più potenti e capaci.

Questo finale appare più realistico nell’indicare le ragioni per cui Zeus decide di punire Prometeo: gli umani sono diventati troppo potenti, grazie a lui, mentre l’ordine degli dei o del solo Zeus era diverso, lasciare gli umani in una sorta di perenne minorità. La parte finale del mito, Graves la lascia ad altri autori, prima di tutto a Eschilo che racconta nel Prometeo liberato che fu Eracle a trafiggere con una freccia l’aquila che tormentava Prometeo e lo liberò spezzando le catene. Secondo il racconto contenuto nella Biblioteca dello Pseudo Apollodoro, durante un incontro tra Chirone  ed Eracle, alcuni centauri  attaccarono l’eroe che per difendersi usò frecce avvelenate da cui non si poteva guarire. Chirone venne inavvertitamente graffiato da una delle frecce. Non potendo morire perché immortale, cominciò per lui una sofferenza atroce. Zeus quindi accettò la vita di Chirone che poté finalmente morire in cambio dell’immortalità di Prometeo.

3 La tesi di laurea di Marx è facilmente reperibile in rete, la citazione in oggetto è riportata su diversi siti.

4 La tesi di laurea di Marx è del ’41 e si inserisce in un contesto in cui il dibattito su Prometeo è assai intenso. Tendenzialmente i romantici lo avevano rifiutato, tranne Shelley, la cui interpretazione è vicina a quella di Marx. Leopardi lo considera uno sconfitto, dal momento che si era fidato di una imperfezione: l’uomo stesso. Tuttavia è con la generazione successiva ai romantici che Prometeo comincia ad essere apprezzato come costruttore di civiltà, cui si oppone invece la reazione religiosa che lo vede come Satana, l’Angelo ribelle. Prevale sempre di più la prima ipotesi, anche perché il positivismo ne fa facilmente un proprio eroe. Il ‘900 non apporterà grandi modifiche a questa declinazione del mito se non nel caso della scrittore svizzero Carl Splitter che accentua i caratteri roussoviani del mito, rappresentando Prometeo come il ribelle che risponde soltanto alla propria coscienza e si batte contro le ipocrisie della morale comune. Infine Gide che lo attualizza e lo vede tormentato dalla propria coscienza piuttosto che dall’aquila che gli rode il fegato.

4 Johann Wolfgang Goethe – Prometeo (poema: Prometheus) (trad. it. di Giuliano Baioni, in Goethe, Inni, Einaudi, 1967)

INTERVISTA A VINCENZO CONSOLO

A cura di Franco Romanò

Premessa

Questa intervista fu pubblicata sulla rivista Il Cavallo di Cavalcanti nel 2008: ad essa seguirono altri incontro pubblici cui partecipò lo stesso Consolo allo Spazio Coop di via Arona. La ripropongo oggi nel blog per la sua ricchezza e attualità, con due precisazioni. Nella mia introduzione di allora notavo che molti dei suoi libri erano introvabili: per fortuna oggi la situazione è cambiata e questa è una buona notizia. La seconda precisazione. Nella parte finale, pur senza citarlo Consolo mette in evidenza i cambiamenti negativi indotti dal governo Berlusconi. Nel contesto di allora la sua frase era chiarissima, oggi è forse bene ricordarlo in modo esplicito.

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Mi accingo a incontrare Vincenzo Consolo con due pensieri in testa: prima di tutto che i suoi libri sono quasi introvabili, a parte quello d’esordio – La ferita dell’aprile – ristampato di recente da Mondatori. Per fortuna li avevo quasi tutti, e per qualcuno sono ricorso ad amici, ma mi sembra un cattivo segno dei tempi che si faccia fatica a trovare in libreria un autore che ha dato così tanto alla narrativa italiana. Il secondo pensiero riguarda la lingua. Nel prepararmi a intervistarlo mi sono ricordato di un saggio che T.S.Eliot dedicò in anni lontani alla poesia di Marianne Moore: in esso il grande poeta anglo statunitense afferma, fra l’altro (ricordo a memoria), che un poeta va prima di tutto valutato rispetto a quello che ha dato alla lingua d’appartenenza. Penso che questo sia estendibile anche ai narratori e nel caso di Vincenzo Consolo il giudizio di Eliot è quanto mai calzante e di bruciante attualità. Il poeta, infatti, avvertiva già in quegli anni lontani, che l’inglese correva il pericolo di un impoverimento dovuto alla sua estensione planetaria come lingua veicolare, sottoposta quindi a un processo di semplificazione e di impoverimento. Per ragioni diverse anche le altre lingue – e quella italiana in particolare – sono oggi minacciate (sebbene da altri e ben più distruttivi fattori) e questo sarà proprio uno dei temi dell’intervista.

Lo scrittore mi riceve nella sua bella casa milanese; l’ampio salone è pieno di libri e al tempo stesso molto luminoso, due caratteristiche che non sempre vanno a braccetto quando si entra nello studio di un artista della parola; chissà che la solarità della sua terra non abbia a che fare con questo! Entriamo subito in argomento e gli ricordo una frase contenuta in Fuga dall’Etna:

Franco Romanò:

Vorrei partire da questa sua affermazione: “Mi sono sempre sforzato, di sfuggire, nella vita, nell’opera, ai miti. La letteratura per me, ripeto ancora, è il romanzo storico-metaforico. E poiché la storia è ideologia, come insegna il Carr, credo nel romanzo storico ideologico,… cioè nel romanzo critico.” È una dichiarazione del ’93: ha qualcosa da aggiungere, o da modificare, a tale affermazione?

Vincenzo Consolo:

No, sono convinto di questa mia idea del romanzo storico metaforico, critico e nel momento stesso anche ideologico. Quanto alla parola romanzo, però, credo che oggi questo genere letterario non si possa più praticare; io parlo di narrazione piuttosto. Credo che il romanzo d’intreccio, oggi, non sia più possibile perché una volta l’autore aveva presente qual era il suo interlocutore. Si facevano persino delle indagini e si chiedeva agli scrittori a quale tipo di lettore pensavano. Una volta Calvino rispose alla domanda dicendo che pensava a un lettore che la sapesse più lunga di lui ed era assai difficile saperla più lunga di Calvino! Comunque c’era un lettore cui lo scrittore poteva pensare. Oggi in questa nostra società non è possibile pensare a un lettore e allora occorre spostarsi verso la narrazione…

FR:

E come si potrebbe definire la narrazione?

VC:

La narrazione scaturisce da qualcuno che ha fatto un’esperienza, ritorna e la racconta, come ha scritto Walter Benjamin in Angelus Novus. Il fatto di raccontare, di narrare, lo porta a un ritmo che sposta la prosa verso la forma poetica. È quello che ho cercato di fare nei miei libri, dove non c’è mai l’arresto, la riflessione, l’irruzione di quello che si chiama spirito socratico e cioè la filosofia, come era nella tragedia moderna di Euripide. Oggi questo non è possibile perché l’autore non sa più a chi rivolgersi. Io dico sempre che la cavea è vuota. Sulla scena non arriva più l’anghelos, il messaggero, che raccontava al pubblico presente ciò che era successo in un altro luogo e in un altro tempo. Così aveva inizio la tragedia. L’anghelos per me è lo scrittore che non può più apparire sulla scena e la narrazione è relegata al coro, che commenta e lamenta ciò che è avvenuto. Sono quindi per la narrazione e non più per il romanzo, tutti i miei libri di narrativa sono contrassegnati da questa prosa ritmica, a volte con il ricorso spesso alla rima e all’assonanza; questo è stato notato da diversi critici.

FR:

Andare verso la prosa lirica e la narrazione non è forse andare anche verso l’oralità, verso un senso arcaico della narrazione?

VC:

Sì, è anche tipico del mondo mediterraneo. Ce lo hanno insegnato gli aedi, Omero o chi è stato identificato come tale. Fra l’altro gli aedi erano ciechi perché avevano lo sguardo interno. Òmeros, in greco antico, significa ostaggio e ci si domanda ostaggio di chi? Io credo ostaggio della memoria, perché c’era la tradizione del racconto orale. In questo nostro tempo la memoria è minacciata dai mezzi di comunicazione di massa, dal potere economico e politico. L’interesse di questi poteri è di farci vivere in un infinito presente, per cui non sappiamo più da dove veniamo e non riusciamo a immaginare dove vogliamo andare. Quindi io credo che oggi più che mai il poeta, lo scrittore debbano conservare la memoria per cercare di salvarla. Sembra uno sguardo all’indietro ma credo che sia necessario essere ostaggi della memoria e perciò pratico il romanzo storico metaforico. Ho immaginato la trilogia a partire dal 1860 fino ai giorni nostri, ma la metafora era sul tempo storico che stavamo vivendo.

FR:

Quest’idea di romanzo si è affermata subito in lei o si è modificata nel tempo? Nel romanzo d’esordio La ferita dell’aprile, prevale ancora una narrazione più realistica. Gli stessi eventi storici entrano nel libro in modo diverso da come accadrà per esempio nel romanzo successivo Il sorriso dell’ignoto marinaio, che ha pure una forte carattere visionario.

VC:

Sì la visionarietà è una forma di fantasia…

FR:

Qualcuno ha parlato anche di incrocio fra memoria e profezia.

VC:

Sì. Per quanto riguarda il romanzo d’esordio, naturalmente era un libro di ricordi, il tono era ironico e talvolta sarcastico, era una ribellione ai padri e a tutto ciò in cui loro avevano mancato; ma dal primo, uscito nel ’63, al secondo sono passati tredici anni. Il mio silenzio era dovuto al fatto che stavo riflettendo su quella prima esperienza di restituzione dei ricordi personali e anche su quello che sarebbe stato il mio futuro letterario. A cavallo degli anni ’60 Pasolini ci disse cos’era successo in Italia, io avevo studiato molto e quindi ho intrapreso la strada del romanzo storico metaforico dopo la restituzione dei miei ricordi di adolescenza.

FR:

Lei è uno scrittore che ha dato molto alla lingua italiana. Cosa ci può dire su questo, specialmente sulla mescolanza fra l’italiano e i dialetti; cosa questa che mi è sempre apparsa molto interessante.

VC:

Sì, le dicevo che in quegli anni di silenzio avevo riflettuto molto sul momento storico che stavamo vivendo e anche sulla trasformazione della società italiana, quella che Pasolini chiamava la mutazione antropologica, che era anche e soprattutto una mutazione linguistica. La lingua italiana stava diventando orizzontale e anch’io ho sentito l’assillo che hanno tutti gli scrittori da Dante in poi… È sempre l’assillo delle lingua. Anch’io mi sono domandato in quale lingua scrivevo e ritornando in Sicilia con la mia memoria ho capito che lì – un po’ in tutta Italia, ma in Sicilia soprattutto perché c’è stata una stratificazione di civilizzazioni (io non le chiamo dominazioni) – c’erano dei giacimenti linguistici importanti. Ho pensato che andasse recuperata anche la memoria linguistica e quindi anche dei vocaboli che esistono nel dialetto siciliano, ma senza scadere nella regressione dialettale, secondo l’esempio che ci avevano dato il plurilinguismo gaddiano, oppure il romanesco pasoliniano. Io ho pensato che andassero recuperati vocaboli provenienti dall’arabo, dal greco dallo spagnolo e di italianizzarli, farli emergere ma innestandoli sempre nella lingua centrale. Oltre che della mia memoria linguistica mi sono servito dei vocabolari siciliani dei termini arabi nel dialetto siciliano. C’è per esempio un dizionario prezioso di padre Gabriele da Aleppo, sulle parole arabe presenti nel dialetto siciliano. Proprio per un’esigenza di memoria e anche di memoria linguistica, dal momento che questa nostra lingua, a causa della mutazione antropologica, stava perdendo purtroppo quella che Leopardi chiamava l’infinito che aveva in sé. Ecco io credo che sia un dovere dello scrittore, del poeta di recuperare anche la memoria linguistica.

FR:

Infatti leggere un romanzo come Retablo, per esempio, è anche un po’ immergersi in una storia della lingua. Sempre a questo proposito cosa ne pensa dei manifesti in difesa della lingua che periodicamente sono stilati?

VC:

Il manifesto serve come allarme, ma è un po’ una lotta con i mulini a vento. Questa nostra lingua è stata distrutta dai mass media; inoltre l’italiano, diversamente dal francese o dallo spagnolo che hanno dei bacini di parlanti molto vasti, è parlato solo in questa nostra stretta penisola. Siamo invasi continuamente dall’americanismo. Credo che lo scrittore abbia il dovere, al di là dei manifesti, di difendere questa nostra memoria linguistica e sapere cosa ci sta dietro. Una cosa che cerco di fare è anche operare una scrittura palinsestica – così la chiamo – e cioè una scrittura su altre scritture. Nella mia scrittura ci sono sempre citazioni e recuperi di altri scrittori o poeti, a volte più esplicite a volte meno.

Mi ricordo, a questo proposito, la polemica fra Leopardi e Niccolò Tommaseo – che non amava Leopardi – e definì la sua poesia un palinsesto mal cancellato. Il povero Leopardi si offese terribilmente e scrisse un saggio contro Tommaseo; ma la scrittura deve essere palinsestisca!

FR:

Rimanendo alla lingua, anche per lei si può parlare di plurilinguismo…

VC:

Sì qualcuno ha parlato, nel mio caso, anche di plurivocità, nel senso che riporto nella narrazione anche altre lingue. In Sicilia, per esempio, ci sono sette isole linguistiche. Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio ne riporto una che ancora esiste: il gallo italico o medio latino. Si tratta di una lingua che hanno portato i Normanni con le truppe mercenarie raccolte nella pianura padana: finita la riconquista, come accade agli immigrati, si sono chiusi nella loro comunità e hanno conservato la lingua. Ne parla anche Vittorini in Conversazione in Sicilia, precisamente del gran lumbardo che parlava con la ü francese. Nel finale del libro (Il sorriso dell’ignoto marinaio, ndr.) quando riporto le scritte sul muro dei carcerati, quelli sono esempi nella lingua gallo italica.

FR:
Un programma linguistico più dantesco che manzoniano…

VC:

Certo, certo. Dante parla delle due lingue: quella di primo grado che impariamo in casa e la seconda che lui definisce grammaticale. Lui dice però con un bel ossimoro che la più nobile è la lingua volgare, che era nata in Sicilia.

FR:

Retablo Mi porta a un’altra considerazione. In alcuni momenti mi ha ricordato Fiori blu di Queneau, con una differenza fondamentale però: la qualità pittorica del testo, assente invece in Queneau. Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio, i protagonisti sono tanti, ma anche in quel caso si parte da Antonello da Messina e dal suo quadro. Ecco, cosa rappresenta per lei la pittura?

VC:

Per me è un’esigenza di equilibrio fra svolgimento nel tempo e lo spazio. Per me la parola, come la musica, si svolge nel tempo, quindi ho bisogno di riferimenti iconografici e pittorici per equilibrare il tempo e lo spazio. Per me l’ispirazione della pittura è costante: a volte esplicita come è nei due romanzi che lei ha ricordato, a volte nascosta. C’è Guttuso e finanche pittori moderni come Ruggero Savinio, il figlio di Alberto. In Nottetempo, casa per casa, c’è tutto un brano in cui io leggo la pittura di Savinio in forma lirica. Sono delle figure che emergono dalle profondità delle spazio, come affreschi appena dissepolti. Mi interessano finanche pittori contemporanei; per esempio, uno che mi ha ispirato un’immagine è Mario Merz. Una volta vidi un quadro proprio in casa editrice Einaudi di cui ero collaboratore: in un suo quadro veniva raffigurata una lumaca che disegnava un tracciato che era una spirale e da lì sono partito.”Vidi una volta una lumaca…”

FR:

Milano e Palermo, Sicilia e Lombardia. C’è una continua tensione fra queste polarità e la sensazione che siano come due patrie dalle quali però lei si sente sempre anche un po’ esule.

VC:

Sì è proprio così, anzi più che esiliato mi sento estraneo negli anni. Ho fatto i miei studi a Milano e poi sono tornato in Sicilia perché avevo già concepito l’idea di diventare scrittore, dopo aver fatto il servizio militare. Avevo una laurea in legge, ma mi sono rifiutato di fare l’avvocato e ho insegnato diritto ed educazione civica nelle scuole agrarie. Ho insegnato per cinque anni e poi, riflettendo, ho pensato che quei ragazzi che si sarebbero diplomati in agraria sarebbero stati costretti a emigrare come i loro padri. Le racconto un episodio che non posso più dimenticare. Insegnavo nei monti Nebrodi, a Mistretta e Caronìa, che era poi l’antica Calacte… Mi colpì a Caronìa il numero di suicidi di donne che si era verificato in questo piccolo paese. Erano donne il cui marito era emigrato: la solitudine, lo sconforto le aveva portate a quel gesto. Riflettendo sulla loro vicenda anche la scuola mi sembrò una finzione. Consigliai molti di andare nelle scuole alberghiere, dove almeno avevano uno sbocco e non erano costretti a emigrare; alcuni l’hanno fatto. Poi però dopo cinque anni sono stato io a fare le valigie e a emigrare. Mi consigliai con due persone: Leonardo Sciascia e Lucio Piccolo. Quando ero libero andavo a Caltanissetta a trovare Sciascia e stavo lì dei giorni. Con Piccolo, invece, l’accordo era che andavo a trovarlo tre volte la settimana. Per me sono stati due riferimenti importanti. Ho anche fatto in modo di farli incontrare perché entrambi mi dicevano sempre di salutare l’altro. Sciascia una volta ha dichiarato che le due persone che più l’avevano colpito, fra le molte incontrate, erano Borges e Lucio Piccolo. Piccolo aveva una cultura sterminata. Mi diceva venga venga Consolo, che facciamo conversazione: la conversazione era che parlava sempre lui e io ascoltavo.

Lucio Piccolo e Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

Ho imparato molto. Insomma mi consigliai con loro e Piccolo mi disse no, no, non vada via perché quando si è lontani dai centri si ha più fascino. Lui parlava da barone che viveva isolato nella sua villa di campagna. Sciascia invece mi disse che se fosse stato giovane come me e non avesse avuto la famiglia, se ne sarebbe andato anche lui perché – mi disse – “qui non c’è più speranza.” Per me l’unica città possibile era Milano, ma quando tornai non la riconoscevo più. C’era stato il miracolo economico e ora c’era il ’68 e quindi molti fermenti. Si parva licet, ho avuto nei confronti di Milano lo stesso atteggiamento che ebbe Verga quando si trovò a Milano nel 1872, nel momento della prima rivoluzione industriale. Verga rimase spiazzato perché era un mondo che non conosceva e di cui gli mancava memoria e lingua. Però da quell’esperienza nacque la grande conversione verghiana. Anch’io rimasi spiazzato e quindi ho riflettuto su questa realtà milanese e su quello che stava accadendo. Da tutto questo nacque Il sorriso dell’ignoto marinaio, a tredici anni dal primo libro. Non sono tornato fisicamente in Sicilia come Verga, ma con la memoria sì.

FR:

Il Risorgimento è molto presente nei suoi libri e anche nelle opere di molti scrittori siciliani. Mi ha colpito molto il bassissimo profilo delle commemorazioni garibaldine.

VC:

C’è questa regressione verso i localismi e l’individualismo. Le racconto un episodio successo a Capo d’Orlando. Durante una manifestazione pubblica il sindaco ha fatto togliere da una piazzetta del paese la targa con il nome di Garibaldi, intitolandola poi al 4 di luglio. La data si riferisce a una battaglia navale che ci fu nelle acque di Capo d’Orlando fra arabi e normanni. L’anti italianismo è ormai dilagante. Il signor Lombardo, attuale Presidente della Regione Sicilia, ha chiamato Autonomia siciliana il suo movimento; ma la Sicilia è già una regione autonoma, lui intendeva un’altra autonomia e infatti ha fatto riferimento anche alla Lumbardia di Bossi. Siamo alla regressione, alla stupidità e all’ignoranza. Non capire cosa è stato questo evento memorabile che fu l’unificazione d’Italia, per cui morirono eroi e persone degnissime è molto grave. Garibaldi riuscì davvero a compiere il miracolo di unire questo paese campanilistico; che era poi il sogno dei grandi italiani da Virgilio a Dante a Machiavelli. Questa regressione localistica è tipica dei momenti bui della storia. Il Risorgimento aveva acceso molte speranza. Garibaldi era un socialista mazziniano, poi capì che l’unità era più importante, ma comprese che le cose non erano andate secondo le speranze e lui prese la via dell’esilio. Da quello scaturirono anche le rivolte, le vendette nei confronti di quelli che erano stati gli oppressori, i famosi gattopardi, i proprietari terrieri… La prima rivolta fu quella di Alcara di cui parlo nel mio romanzo. Non lo dico nel libro ma risulta che dopo avere domato la ribellione di Alcara gli emissari si spostarono a Bronte.

FR:

Infatti gli episodi sono molto simili.

VC:

Sì, sì, tutta la letteratura siciliana poi ha affrontato questo tema perché è un nodo cruciale. Da Verga a De Roberto. Con I vicerè De Roberto ci ha fatto capire cosa sia il trasformismo, fino a Pirandello e al nostro Lampedusa. Tutti hanno affrontato questo momento importante della storia nazionale .

FR:

Sciascia è stato per lei un punto di riferimento, ma nella sua narrativa e anche nella sua prosa, che non è mai del tutto disgiunta dalla narrazione, io trovo un riferimento anche alla tradizione europea del romanzo saggio e non solo a Sciascia.

VC:
Sì, il romanzo saggio; forse questo c’è di più in L’olivo e l’olivastro, la cui matrice, tuttavia, si trova nel nostos, il viaggio di ritorno, che è assolutamente antico. Colui che l’ha riproposto e insegnato di nuovo è stato Vittorini con Conversazione in Sicilia, che è un viaggio nella terra delle madri e della memoria, anche se poi se ne allontana di nuovo, sollecitato anche dalla madre stessa che lo esorta a fare il suo mestiere di tipografo e compositore di parole, cioè il suo dovere di intellettuale. Pensi che nel 1941 sono usciti contemporaneamente Conversazione in Sicilia e Don Giovanni in Sicilia di Brancati, che sono di segno opposto. In Vittorini c’è la rivisitazione del profondo della memoria e poi il ritorno ai suoi doveri di intellettuale. In Brancati c’è la regressione. Quando Giovanni Percolla ritorna dalla madre e dalle sorelle, mangia e poi si mette a letto a un certo punto afferma: “Un’ora di sonno è stata come un’ora di morte.” Il personaggio di Brancati rimane di nuovo prigioniero delle viscere materne.

FR:

Beh ci sta dietro il mito della grande madre mediterranea…

VC:

È curioso come tutta la nostra narrativa, a parte i grandi poemi come L’orlando Furioso e altri che hanno una geografia straordinaria, il romanzo dell’800 da Manzoni in poi, si svolge sempre in piccoli centri, nella piccola città, quel ramo del lago di Como, piuttosto che Vizzini o Acitrezza. Chi inaugura per la prima volta il movimento è proprio Vittorini e questo scaturiva anche dal rapporto che lui aveva con la letteratura americana. La letteratura inglese e americana è contrassegnata dal viaggio, dal movimento.

FR:

Lei è considerato un autore dal forte impegno civile; tuttavia, seguendola in alcune presentazioni mi ricordo anche il suo fastidio costante rispetto a una retorica dell’impegno. Cosa pensa dello scrittore che si impegna direttamente in politica, pensando anche all’esperienza di Sciascia stesso.

VC:

Mi sembrò allora a quel tempo da parte di Sciascia fosse doveroso accettare l’invito. Lui mi raccontò che dopo la sua elezione al Comune di Palermo, insieme a Guttuso e poi dopo le dimissioni, tutti lo invitarono a entrare nei rispettivi partiti. Lui accettò il radicale e mi disse che lo aveva fatto perché era il meno partito di tutti. Anch’io ebbi un invito in anni lontani a presentarmi al Senato per il PCI. Il segretario del partito mi telefonò dicendomi “ti devi presentare” e al mio rifiuto motivato con il fatto che dovevo lavorare mi disse “è un  tuo dovere”; ma io risposi che il mio dovere era quello di scrivere. Tuttavia penso che lo scrittore, come dice Roland Barthes, ha a disposizione anche la scrittura d’intervento, sui giornali, per esempio. Tutti i grandi l’hanno fatto: da Zola, che è stato il maestro con l’Affaire Dreyfus, a Pasolini, Moravia e Sciascia ecc. Io ho sempre praticato la scrittura d’intervento, ho scritto per L’ora di Palermo, l’ Unità, per Il Corriere della sera. Però la spettacolarizzazione mi disturba molto. Anche la manifestazione di Piazza Navona del giugno scorso, non mi è piaciuta, siamo all’indecenza. Gli intellettuali sono diventati i comici, oppure gli scrittori che fanno spettacolo. Purtroppo, se vivessero oggi, Pasolini, Sciascia, Moravia, non avrebbero più lo stesso impatto. I giornali sono in crisi , le case editrici sono in crisi, il nostro è un popolo che non legge più. Io ho definito quello italiano un popolo telestupefatto… È un’espressione che hanno ripreso in Francia: lo ha fatto Christian Salmon nella sua rubrica su Le Monde. Questo dei mass media e della televisione in particolare è stato una specie di tsunami provocato da questo signore che oggi è il capo del Governo. Anche il suo consenso è dovuto a questo mezzo di distruzione di massa che è la televisione, che è quanto di più volgare, stupido e ignorante che si possa immaginare.

FR:

Cosa c’è nei suoi programmi futuri?

VC:

È difficile parlare di programmi futuri. Sono tanti anni che taccio e non pubblico, scrivo di nascosto e nascondo. Ho un progetto di romanzo storico-metaforico che riguarda una storia di Inquisizione. Ho trovato dei documenti presso la biblioteca di Simancas in Spagna; naturalmente si svolge sempre in Sicilia e mi sembra che in questo momento di fondamentalismi religiosi di ogni tipo che rischiano di diventare teocrazie, che sono momenti terribili della storia umana, mi sembra che sia una storia da raccontare. Quando la smetterò di fuggire mi devo sedere a tavolino a scrivere questo libro.

INTORNO A PROMETEISMO E TRANSUMANISMO

Recentemente il termine prometeismo è tornato in auge insieme a un altro di conio più recente: Antropocene. In merito al primo termine, alcuni studiosi hanno proposto una lettura che, partendo dal mondo preistorico, individua due diverse forme di prometeismo: la prima volta alla distruzione l’altra positivamente orientata.1 Il quadro che ne esce, tuttavia, è altrettanto problematico, perché individuare due tendenze opposte (lo sdoppiamento) rischia di essere un’operazione d’inutile buon senso al punto in cui ci troviamo; così come il ripetersi a ogni occasione che la tecnologia può essere buona o cattiva e dipende da come la si usa. Rimanere dentro tale senso comune non può più aiutarci a comprendere il presente. L’emergenza climatica, il rischio di ripetersi di pandemie innescate dallo spillover, a sua volta agevolato dagli allevamenti intensivi, non permettono più di considerare il prometeismo nei suoi aspetti positivi, se non evidenziandone valenze diverse rispetto a quelle storicamente valorizzate, tutte incentrate sull’esaltazione della potenza. Ancor peggio, poi, se lo scontro fra le due tendenze viene accolto come una sorta di sfida fra due diversi titanismi. Il prometeismo è diventato un vicolo cieco, sebbene il mito da cui deriva e il personaggio Prometeo, meritino una riflessione assai più attenta a partire dall’opera di Mary Shelley a lui dedicata, Frankenstein, or the modern Prometheus. L’importanza dell’opera di Shelley sta nel mettere in scena un Prometeo che non vuole più dare agli umani gli strumenti per poter vivere meglio, ma vuole creare una seconda natura con le proprie mani. La differenza fra l’opera di Mary Shelley e le distopie proposte da altri autori, specialmente quelle che verranno scritte in pieno ‘900, è che lei è la sola a non manifestare alcun ammiccamento o collusione fascinosa con la tematica oggetto del romanzo. Il suo intento sono la denuncia e la paura, che non si ritrovano invece in molti romanzi successivi, in cui l’autore di fatto collude con la distopia che mette in scena e in alcuni casi addirittura esibisce in modo narcisistico il proprio cupio dissolvi. Pubblicata nel 1818, Shelley modificò in parte il romanzo nel 1831 quando uscì la seconda edizione: come tutte le storie gotiche ha alcune caratteristiche tipiche del genere letterario che possono fuorviare dal nucleo e dalla sua origine e cioè un incubo che lei ebbe a seguito di un gioco di società inventato da Byron e dalla sorellastra di Mary, Claire Clarmont. Il gioco consisteva nell’inventare fiabe e narrazioni di fantasmi, ma senza trascurare il fatto che fantasie scientifiche, scoperte reali e narrazioni horror – diremmo oggi – si mescolavano facilmente in molti ambienti in quegli anni. Mary Shelley, forse influenzata dalle scoperte dell’abate Galvani, sogna quello che sarà poi il tema centrale del suo romanzo: un uomo che assembla i pezzi di un altro essere fino a infondergli la vita. L’incubo la terrorizza e lei decide di scrivere proprio per liberarsene, ma la scelta di definire il professor Frankenstein come il moderno Prometeo pone il romanzo ben oltre il genere di appartenenza e per noi che siamo da tempo prigionieri di una commistione perversa fra capitalismo e Big Science, possiamo proiettare l’opera della scrittrice britannica nel futuro. La visione di una seconda natura ha in questo slancio prometeico e titanico al tempo stesso, le sue ragioni d’essere, le stesse che in parte abbiamo trovato anche nel Romanticismo e ancor più nella mitologia intorno al medesimo: gli anni sono quelli. Nel romanzo, la creatura mostruosa decide alla fine di darsi lei stessa la morte.2 Il Prometeo di Mary Shelley è la visione più potente dell’homo capitalistis e prometeico (uso l’espressione dandole anche un significato di genere) coniugato all’esaltazione delle tecnologie nella loro proiezione storica e forse non è un caso che a scriverlo sia stata proprio una donna. Si pensi al ruolo esponenziale delle protesi, alla robotica estesa fino a fare dei robot delle badanti e ora anche delle amanti come nelle più recenti declinazioni giapponesi. Si pensi alle visioni fra l’apocalittico e il fantascientifico di certi guru della Silicon Valley che vagheggiano la possibilità di superare per sempre la morte tramite l’ibernazione, le tecnologie di sostituzione degli organi, o la manipolazione del DNA, le fughe su astronavi alla ricerca di altri mondi in cui vivere.3 Il transumanismo coniugato all’onnipotenza tecnologica è l’estrema propaggine delle distopie e delle narrazioni apocalittiche attuali e non è un caso che nasca in ambienti anglo statunitensi, in una commistione perversa fra millenarismo, letture catastrofiche dell’Apocalisse di Giovanni e deliri tecnologici autodistruttivi. Sulle narrazioni tossiche contemporanee il libro Una vita liberata di Roberto Ciccarelli è quanto mai prezioso.4 In esso l’autore affronta in un capitolo specifico e qui e là nell’intero saggio, il significato attuale delle molte narrazioni catastrofico-apocalittiche che si sono susseguite, specialmente dopo lo scoppio della pandemia da Covid 19. Il suo giudizio è netto: tali narrazioni tossiche confondono fine del mondo con fine di un mondo e si pongono come forme di falsa coscienza e rivoluzione passiva che trova tuttavia collusioni anche in chi critica l’ordine neoliberale. L’analisi di Ciccarelli quanto mai convincente per quanto mi riguarda, ha il merito fra l’altro di mettere in evidenza, seppure sotto traccia, come tali narrazioni nascano in un humus culturale definito, il medesimo peraltro in cui sono nate la maggiori distopie da un punto di vista letterario

Disastri veri e apocalissi fasulle

Nessun genere letterario è più anglo statunitense della distopia, ma ciò che è più interessante per il contesto oltre atlantico, è la commistione fra tecnologia, catastrofismo apocalittico, misticismo e pensiero empirista, che si riscontra anche in molti romanzi, ma che appartiene anche a una élite che fa parte di un establishment trasversale alle diverse presidenze Usa. Il grande modello o archetipo che sta alle spalle di molte narrazioni distopiche è proprio l’Apocalisse di Giovanni, sia nella versione etimologicamente corretta del termine e cioè di rivelazione e anche di missione messianica, sia in quello corrente di catastrofe. Il testo ha profondamente influenzato la cultura statunitense delle origini, sia nel senso proprio di rivelazione, sia nell’altro senso. Alcuni degli elementi fondanti di questa formazione discorsiva si trovano nell’esperienza empirica dei coloni puritani sbarcati nell’America del nord e sono riassumibili a mio avviso in alcuni punti, di cui i primi due sono i pilastri portanti e gli altri due il trascinamento sul suolo americano di formazioni discorsive nate in Europa: la predestinazione, il primato dell’individuo sulla società e la comunità, la natura come oggetto da asservire, la tecnologia e il calcolo come strumenti di tale asservimento.

La predestinazione.

Grazia e predestinazione alla salvezza sono una coppia importante e la seconda parola è una traduzione possibile dell’immagine dei Marcati e dunque dei salvi a priori che si trovano nell’Apocalisse di Giovanni. A questo si aggiunga il fatto che secondo il protestantesimo radicale di Calvino, è proprio il successo mondano uno dei segni possibili della grazia. Ora, se si pensa agli inizi dell’avventura coloniale, alle indubbie difficoltà nell’approdare in un luogo in parte sconosciuto, la capacità di resistere e di farsi largo in quel mondo (sto adottando provvisoriamente il loro punto di vista e non quello dei popoli nativi ovviamente) tutto questo poteva facilitare la convinzione di essere stati predestinati a una missione divina. L’idea più volte ripetuta in tutti i discorsi presidenziali statunitensi – più accentuata in quelli democratici – di una missione degli Usa nel mondo ha le proprie radici proprio in questa narrazione, che tuttavia ha nutrito anche un pensiero laterale democratico come quello, per esempio di Thoreau. Tale presupposto fondante, forse il più importante, non ha se non in minima parte le proprie radici in un pensiero genericamente illuminista, né deriva di per sé dalla concezione che ispirava i rivoluzionari francesi, ma costituisce già in origine una formazione discorsiva che ha obiettivi ben diversi, perché i due contesti sono diversissimi. I diritti dell’uomo e del cittadino nascono prima di tutto in contrasto con l’assolutismo, sono quindi diritti del cittadino singolo rispetto al dispotismo del sovrano e dell’aristocrazia, ma sono anche diritti del popolo e quindi della comunità, tramite il parlamento e il suffragio. Non è affatto vero che la filosofia di fondo che ispirava la prima carta costituzionale francese fosse quella di un individualismo esasperato. I suoi limiti erano di genere e di classe. Il contesto statunitense è totalmente diverso.

L’individualismo statunitense.

Quegli uomini (e il termine va preso alla lettera perché le donne erano escluse), erano già liberi, i nativi per loro erano solo selvaggi che non ponevano problemi di ordine giuridico e costituzionale e neppure morale – se non per alcuni – mentre aristocrazia e assolutismo se li erano lasciati alle spalle in Europa. L’idea di una preminenza dell’individuo sulla società e la comunità – parole che non uso per caso al posto della parola Stato –  non è la traduzione americana dei diritti dell’uomo e del cittadino, ma piuttosto una formazione discorsiva nella quale confluiscono l’assolutizzazione di una concezione della salvezza che è solo individuale (tipica delle versioni più estreme del protestantesimo), un’idea d’individualità come misura di ogni cosa che ha una qualche radice nel solipsismo filosofico di Barkeley, sostenuta probabilmente anche sulla visione ingenua di un teismo che riconosceva nella vastità del territorio vergine e ricchissimo da conquistare e occupare un’immagine possibile del Paradiso Terrestre o almeno di quella prefigurazione della fine dei tempi e della tenda di dio in mezzo agli uomini di cui parla l’Apocalisse. Dicendola un po’ più alla buona: se c’è posto per tutti perché preoccuparsi della società? Che ognuno faccia di se stesso una società o la comunità che vuole, pianti la sua bandiera dove arriva, si armi fino ai denti, recinti la sua conquista per stabilire che quel territorio è di sua proprietà, al massimo estendendola alla famiglia, unica istituzione riconosciuta nel passaggio aldilà dell’Atlantico. Proprietà e famiglia – entrambe armate come sancito dalla costituzione degli Usa –  sono gli ambiti sociali per eccellenza tutto il resto va soltanto limitato nei suoi poteri.

La natura da asservire.

Non è ovviamente una prerogativa statunitense ma di tutto il pensiero occidentale, almeno da un certo momento in poi; tuttavia, nel passaggio al nuovo continente essa si radicalizza e una delle ragioni sta proprio nella vastità del territorio. Poche parole sono necessarie in questo caso: la narrazione della frontiera e dell’espansione verso ovest parla da sola ed è in realtà una narrazione che nega l’esistenza della frontiera e cioè del limite. Infatti, non appena ultimata la conquista, non appena finite le guerre indiane, l’espansione a occidente si tramuterà nel giro di pochi anni in una attitudine imperiale (uso il termine in alternativa a imperialismo che significa altro) e aggressione agli stati vicini (la guerra ispanica del 1888). Per apprezzare meglio il passaggio che riconnette mistica e tecnologia, invece, mi servirò di un libro dello storico statunitense David Noble, intitolato La religione della tecnologia: divinità dell’uomo e spirito d’invenzione. Scelgo questo libro perché è una raccolta di citazioni molto importanti intorno a questa tematica, per cui il lettore non deve fare la fatica di andarsele a cercare. Non sempre le tesi conclusive e le deduzioni di Noble sono accettabili e talvolta troppo ingenue, Più sociologo che filosofo Noble tende alla fine a una visione troppo parziale, però la mole di materiali che egli ha raccolto è indubbiamente impressionante. Mi servirò del suo libro in questo senso cercando però di inserirlo in un quadro più ampio di quanto non faccia il sociologo statunitense. Noble parte da un’osservazione empirica che viene dalla lettura dei testi sacri: come la tecnologia sia stata considerata, dal Medioevo in poi, un’arma affidata dal dio cristiano ai fedeli per combattere il male. Questo vale sia per le tecnologie agricole messe a punto dai monaci benedettini, ma anche per le armi con cui combattere gli infedeli, come si evince da questa citazione tratta dal Salterio di Utrecht:

I malvagi si accontenteranno di usare un’affilatrice di vecchio stampo; i devoti invece … la prima manovella usata fuori dalla Cina e applicata alla prima mola conosciuta al mondo. Ovviamente l’artista vuole dirci che il progresso tecnologico è volere di Dio.

Non solo i padri della Chiesa come Agostino, ma anche eretici o mistici visionari quasi all’indice condividono questo pensiero: da Gioacchino da Fiore a Raimondo Lullo. Nella seconda parte del libro, intitolata Tecnologie della trascendenza,  il libro di Noble affronta il nesso fra tecnologia, potere politico e millenarismo nella contemporaneità ed è qui che entra in scena Hume. Perché, fino a tutto il Medioevo, l’ipotesi di una tecnologia al servizio di dio piuttosto che dei malvagi, si ammanta solo di espressioni metaforiche e in fondo abbastanza ingenue. Quando però tale pretesa diventa calcolabile e si ammanta di oggettività tecnologica assurta a verità teologica, essa produce degli effetti che nei successori, atei o credenti che siano, porta alle aberrazioni qui di seguito. Secondo Edward Fredkin, vi sono stati tre grandi eventi di uguale importanza nella storia dell’universo. Dopo aver detto che il primo è la creazione stessa dell’universo e il secondo l’apparire della vita, eccoci al terzo: 

Penso che la nostra missione sia quella di creare l’intelligenza artificiale, è il prossimo passo dell’evoluzione.

Sempre più preso dall’entusiasmo il nostro si domanda addirittura come mai dio non ci abbia pensato lui a crearla. Ma chi è Fredkin? Ovviamente uno scienziato che si occupa di intelligenza artificiale, ma anche un consigliere di diversi presidenti.  Ma c’è di più. Nel capitolo viii del libro di Noble, dal titolo significativo “Armageddon, la battaglia finale: le armi atomiche”, Noble cita scienziati e politici anglo statunitensi, che sembrano parlare come mistici invasati, ma dotati appunto di un potere tecnologico immenso. Una sola citazione per tutte: 

La bomba atomica è la buona novella della dannazione.

Mi sono chiesto cosa ci sia dietro questo narcisismo della distruzione che alberga nella cultura anglo-americana come in nessun’altra e che ritroviamo puntualmente anche nelle distopie. Nel caso della citazione finale forse la chiave di comprensione diventa assai semplice. Una mondità del tutto affidata al caos, alla legge del più forte e senza alcuna speranza di salvezza e redenzione, alla lunga diventa insopportabile anche per chi la persegue: il mito di Armagheddon e cioè la lotta finale e definitiva fra il bene e il male quanto prima arriva tanto meglio è: ciò giustifica ampiamente il paradosso di una buona novella della distruzione: un vero e proprio corto circuito che chiude il cerchio e che spiega anche l’eclatante deriva complottista e negazionista  – prima del Covid e poi del voto – che ha avuto come protagonista addirittura un presidente eletto. Questa miscela esplosiva di razzismo, deliri tecnologici e pseudo misticismo è nel Dna dell’uomo bianco statunitense fin dalle origini. Non bisogna farsi illusioni sulle intenzioni dell’establishment nordamericano. La politica estera statunitense conosce solo due principi: Carthago delenda est e Vae victis, perché senza nemico esterno, il suo fronte interno si disgregherebbe subito, la guerra civile e le spinte secessioniste sono sempre latenti in ogni momento della sua storia. Il problema non è se potranno cambiare, ma se potranno continuare a farlo oppure no. Come per tutte le distopie, infatti, non è detto che riescano a trionfare; anzi, fanno di certo molti danni ma alla fine non trionfano.


1 Il primo studioso a proporre una definizione specifica per l’era in cui la Terra è massicciamente segnata dall’attività umana fu il geologo Antonio Stoppani nel 1873. Successivamente il geochimico russo Vernadskij definì il periodo col termine di noősphera (ossia mondo del pensiero) per sottolineare il potere crescente della mente umana nel modellare il suo futuro e l’ambiente; lo stesso termine venne usato dal paleontologo e pensatore cattolico Teilhard de Chardin. Nel 1992, Andrew Revkin ipotizzò la creazione di una nuova epoca geologica chiamata Antrocene. Il termine fu diffuso negli anni ottanta dal biologo naturalista Eugene F. Stoermer e adottato successivamente da Paul Crutzen. Successivamente Crutzen formalizzò il concetto in opere quali l’articolo Geology of mankind, apparso nel 2002 su Nature e il libro Benvenuti nell’Antropocene. Per quanto riguarda invece il termini prometeismo, mi riferisco ad alcuni saggi comparsi in Sinistra in rete. Riporto il nome degli autori di alcuni di essi: Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli con un articolo dal titolo L’assalto al cielo, Bellamy Foster – La dialettica della natura di Engels e l’antropocene; infine ancora Burgio, Leoni e Sidoli con Homo Prometeous e marxismo prometeico.

Due libri recenti, il primo scritto congiuntamente da David Graeber e da David Wengrow – L’alba di tutto – e il secondo del solo Graeber – Il debito i primo 5000 anni – sono decisivi nel proporre uno sguardo diverso dalle narrazioni correnti anche sul tema del prometeismo.

2 Figlia di Mary Wollstonecraft e di William Godwin, cresciuta in un ambiente ricco culturalmente e dove l’emancipazione femminile era considerata un valore, Mary Shelley, ha avuto un ruolo importante nella cultura di quegli anni. Il modo in cui termina il suo romanzo è governato dalla pietas, un sentimento che la distanzia ulteriormente da ogni forma di ammiccamento e titanismo, anche involontari. La scelta della creatura mostruosa di darsi lei stessa la morte sta all’opposto del nichilismo e suona come una denuncia delle pretese del suo creatore. Una eco di questa soluzione a me sembra sia stata ripresa nel primo Blade runner e precisamente nell’episodio finale della morte del replicante con il suo celeberrimo monologo. Quanto alla ricezione della sua opera presso di noi, fino al 1970  è stata principalmente conosciuta per l’apporto che ha dato alla comprensione e alla pubblicazione delle opere del marito e per il suo romanzo, che ebbe grande successo e ispirò numerosi adattamenti teatrali e cinematografici. Studi recenti hanno però permesso una più profonda conoscenza del profilo letterario di Mary Shelley; in particolare, questi studi si sono concentrati su opere meno conosciute dell’autrice, tra cui romanzi storici come Valperga, romanzi apocalittici come L’ultimo uomo. Altri suoi scritti meno conosciuti, come il libro di viaggio A zonzo per la Germania e l’Italia contribuirono a fare di Mary Shelley l’esponente di una politica radicale, ma anche in opposizione agli ideali romantici ma individualisti che ispirarono in particolare William Godwin. La sua istanza politica era molto più indirizzata nel senso della cooperazione sociale, distanziandosi così sia dal padre sia da Percy Bessie Shelley.

3 Gli articoli e le interviste a manager, esponenti a vario titoli delle più importanti major statunitensi della Silicon valley sullo sfidare la morte, sono continue. Il Sole 24 ore ha pubblicato diversi articoli al proposito, ma è sufficiente aggirarsi nella rete per trovare tutto quello che serve per informarsi. Citarne una o l’altra non ha molta importanza.  Riporto soltanto l’indicazione di questo articolo dell’Huffington Post: https://www.huffingtonpost.it/2017/01/26/miliardari-silicon-valley-preparano-per-apocalisse_n_14413104.html

4 Roberto Ciccarelli, Una vita liberata Derive Approdi, Roma 2002.

GRADIVA, RIVISTA INTERNAZIONALE DI POESIA ITALIANA

Nello scorso mese di novembre è uscito il numero 64 di Gradiva, rivista internazionale di poesia italiana, diretta da Alessandro Carrera edita da Lo S. Olschki. L’edizione si apre con l’editoriale del direttore dal titolo Il poeta  e la sua ombra. Il numero è diviso in due parti. La prima è dedicata a Gianpiero Neri. La rassegna critica a lui riservata inizia da un’ampia intervista al poeta curata da Claudia Crocco. Le domande, sempre puntuali, nonché le generose risposte di Neri restituiscono a chi legge un ritratto del poeta davvero prezioso. Seguono nella stessa sezione i saggi di Silvio Aman, Pietro Berra, Roberto Caracci, Gabriela Fantato e Daniela Marcheschi.

A questa prima parte seguono le ricerche tradizionali della rivista: la sezione dedicata alla poesia. Si comincia con Italian poetry contemporanea con testi di Rita Argentiero, Maria Rita Bozzetti e Gabriela Fantato, seguita da Intermezzo con testi di Claudia Blanco, Lazzaro Doiepp, Grazia Frisina, Lorenzo Pataro.

A seguire l’ampia e ricca sezione critica, divisa a sua volta in rubriche diverse, Articles Essay and notes e Translations dedicata alla traduzione di poesie italiane da parte di studiosi statunitensi.

Impossibile rendere conto in poche parole della ricchezza delle tematiche e dei contributi. Mi soffermerò allora soltanto su alcuni di essi. Il primo si trova nella rubrica gli strumenti della poesia a cura di Mario Buonofiglio: si tratta di uno studio sulla Chimera nell’opera di Campana, con rimandi ad altri autori che si sono occupati del mostro mitologico.  Il secondo è il saggio che Luigi Fontanella dedicata ad Alessandro Ricci, da lui definito il più nascosto poeta del ‘900: una felice scoperta anche per me.

Infine la rubrica su Musica e poesia e l’ampia rassegna critica riviste curata da Plinio Perilli.

RILKE – CVETAEVA – PASTERNAK

Rilke ritratto da Leonid Pasterenak

Introduzione

Il settimo sogno è un originale canzoniere amoroso in forma prosastica ed epistolare, in cui la commistione fra amour passion e amour de loinh è la cifra stilistica che lo contraddistingue e che rimanda all’analisi che Denis de Rougemont fa dell’archetipo che secondo lui è alla radice della concezione occidentale del sentimento amoroso: Tristano e Isotta.1 La forma particolare e originale del legame a tre fra Marina Cvetaeva, Boris Pasternak e Rainer Maria Rilke sta nel fatto che non si sono mai incontrati e che la loro tormentata e tormentosa relazione vive tutta sulla carta scritta, nel loro pensiero e sfera emotiva.2 Questo è il teatrino, a volte drammatico, a volte comico e in qualche caso miserevole, che peraltro contraddistingue la grande maggioranza degli epistolari amorosi che coinvolgono le vite di scrittori e artisti, tanto bravi e straordinari quando mettono i loro personaggi al centro di dialoghi e situazioni, tanto banalmente comuni quando diventano loro stessi i personaggi. Va da sé, inoltre, che esso è scritto da tre personalità fuori dall’ordinario. In ognuno di loro vi è qualcosa di abnorme: prima di tutto il perseguimento di un ideale romantico in cui arte e vita sono fusi insieme. A tale modello si sottrarrà Pasternak nel tempo della sua seconda vita artistica, Rilke morirà prima di poterlo fare, Cvetaeva vi soccomberà. Anche il 1926 ha la sua importanza, perché fu un anno emblematico nelle vite dei tre protagonisti. Rilke morì il 29 dicembre di quell’anno, Pasternak rinunciò definitivamente al progetto di raggiungere Cvetaeva in Francia; quest’ultima avrebbe poco dopo chiuso la sua stagione poetica. Il 1926, tuttavia, fu un anno cruciale anche per l’Urss e l’intera Europa, anche se gli effetti delle svolte in atto si sarebbero manifestati in modo tragico alcuni anni dopo. In Italia, il Fascismo si era ormai consolidato al potere dopo la crisi seguita all’assassinio di Matteotti e il varo delle leggi fascistissime nel biennio 1925-26. In Germania, la possibilità di una rivoluzione proletaria nella quale avevano sperato i bolscevichi al potere, era tramontata per la seconda volta nel 1923, mentre in Urss finiva il decennio eroico della Rivoluzione Bolscevica. Nell’anno successivo, quello del decennale, Stalin trionferà sui suoi oppositori interni al partito. Rivisti oggi sullo sfondo di queste vicende, i 4 mesi febbrili durante i quali l’epistolario prende forma appaiono come un tramonto boreale nel cuore di un’Europa che andava a rapidi passi in altre direzioni e verso nuove e più immani tragedie.

Le lettere del 1926

Premessa.

Da queste occorre partire e cercherò di farlo come se l’insieme di questa corrispondenza fosse una sorta di partitura teatrale che ha un prologo, uno sviluppo tematico che avviene in due momenti, separati da due intermezzi; infine l’epilogo tragico. Il tutto avviene in un arco di tempo talmente breve e concentrato, da poter dire che in fondo e del tutto casualmente, persino le unità di tempo e azione vengono rispettate; in un certo senso anche l’unità di luogo, visto che il mancato incontro finisce per proiettare nei testi medesimi il luogo per eccellenza in cui tutto avviene. 

Il prologo

Il 12 aprile, dopo l’esortazione ricevuta da suo padre Leonid, mentore occulto di questa triangolazione così particolare, Boris Pasternak scrive a Rilke una lettera piena di ammirazione.  Fra le altre cose, lo scrittore, che sa delle difficoltà in cui si dibatte Marina Cvetaeva a Parigi, lo mette al corrente della stima profonda che anche la poeta russa nutre per lui e lo invita a mandarle una copia delle Elegie duinesi. Infine, gli suggerisce di rispondergli tramite lei stessa oppure il padre Leonid. L’intento di Pasternak è duplice e molto concreto: dal momento che non esistevano rapporti diplomatici fra l’Urss e la Svizzera (dove Rilke risiedeva), la corrispondenza diretta era assai difficile: con Marina si sarebbe aperto dunque un secondo canale di facile comunicazione, dal momento che fra Urss e Francia esistevano normali rapporti diplomatici. In un’altra lettera, indirizzata questa volta a Marina, Boris dice di essere finalmente in grado di partire e di volerla raggiungere in Francia per poi recarsi insieme da Rilke. Il 3 maggio quest’ultimo scrive a Cvetaeva una lettera molto deferente, nella quale parla anche di Pasternak in termini lusinghieri. Cvetaeva risponde a Rilke il 9 maggio e a Pasternak (che le aveva inviato nel frattempo altre due lettere in data 20 aprile e 5 maggio), il 22. L’esaltazione di Pasternak per Cvetaeva cresce: è una passione che a volte si rivolge maggiormente alla poeta altre volte alla donna, in uno scambio fiammeggiante, confuso e simbiotico fra vita e arte. A questa esplosione di sentimenti lei non oppone un rifiuto, ma un atteggiamento che tende a lasciarli decantare. La lettera del 3 maggio di Rilke a Cvetaeva, è uno scritto assai deferente e formale nella sua prima parte. Si rivolge alla poeta con il Voi e, esaudendo la richiesta di Pasternak, le invia due copie delle sue ultime pubblicazioni, aggiungendo poi che presto ne invierà altre due per Pasternak : “se la censura li lascerà passare.

Poi aggiunge:

Sono così commosso dalla forza delle sue parole (di Pasternak ndr.), che oggi non riesco a scrivere più nulla, ma mandate il foglio qui accluso da parte mia, al Vostro amico di Mosca. In segno di saluto.”3

La lettera prosegue ricordando il suo viaggio in Russia di molti anni prima e l’amicizia con Leonid Pasternak. Poi accenna al suo soggiorno a Parigi durante l’anno precedente, dove alcuni amici gli avevano mostrato le poesie di Boris. Subito dopo, però, il tono usato da Rilke cambia repentinamente e tale mutazione pone fine al prologo.

Arte e vita

Ma perché – mi chiedo, perché non mi è riuscito allora d’incontraVi, Marina Ivanova Cvetaieva? Adesso, dopo la lettera di Boris Pasternak, credo che quell’incontro avrebbe potuto dare a entrambi, una profondissima, segreta, felicità. Potremo mai rimediare?”

La curatrice italiana del testo, Serena Vitale individua nell’aggettivo segreta e nella prontezza con cui Cvetaieva ne afferra il significato il “tragico leitmotiv dei loro rapporto.”4  

La lettera di risposta del 9 maggio è divisa a sua volta in due parti. Nella prima Cvetaieva, come aveva fatto anche Pasternak, dichiara immediatamente il suo debito letterario nei confronti di Rilke: 

Rainer Maria Rilke posso chiamarVi così? Ma Voi, poesia fatta carne, dovreste sapere…  che il Vostro nome non fa rima con la modernità… Viene dal passato o dal futuro, o da lontano...”

Dopo altre espressioni entusiastiche nei suoi confronti, scrive:

Non parlo dell’uomo Rilke (l’uomo è ciò cui siamo condannati!), ma del Rilke spirito che è anche più del poeta, è lui che io chiamo Rilke.”5

La lettera prosegue su questo tono fino al punto in cui affronta di petto il tema del loro mancato incontro:

Perché non sono venuta da Voi? Perché vi amo più di ogni altra cosa al mondo. È semplicissimo. E perché voi non mi conoscete. … E ancora, per voi sarò sempre una russa, …. C’è qui tutta la complessità della nostra troppo originale nazione: tutto ciò che in noi – il nostro Io – gli europei considerano russo… Lo stesso succede da noi con i cinesi, i giapponesi …” 6

La frase, di cui avevo già citato l’ultima parte, vista nel contesto della corrispondenza, assume altre valenze rispetto a quelle già indicate. Rilke, nella sua lettera, si attribuiva la responsabilità del mancato incontro: era una forma di gentilezza e di cavalleria, oppure lo pensava veramente? Fatto sta che, al contrario, Cvetaeva attribuisce a una propria scelta e al suo carattere russo il loro mancato incontro; sembra quasi che lei voglia metterlo in guardia rispetto a una complessità che forse all’altro sfugge. Infine, come va inteso quel Vi amo dopo ciò che aveva scritto prima rispetto all’uomo Rilke contrapposto al poeta e allo spirito? Dobbiamo prenderlo alla lettera oppure leggerlo come un esempio del romantico intrecciarsi fra amour passion e amour de loinh, o una metafora rivolta al poeta e non all’uomo?

In ogni caso, se Rilke avesse pensato a un incontro segreto fra loro due, la frase che segue sembra chiudere le porte a una tale possibilità:

Rainer Maria, nulla è perduto: l’anno prossimo (1927) arriverà Boris e verremo da voi, ovunque voi siate…

Tutto chiaro? Neppure per sogno perché alla fine di questa lettera ecco cosa scrive Cvetaeva:

Ho letto la tua lettera sulla riva dell’oceano e l’oceano leggeva con me….  Non ti disturba che lui l’abbia letta? Non ci saranno altri. Sono troppo gelosa (Gelosia – di te.).”7

La gelosia si riferisce solo al poeta o anche all’uomo? Perché ribadire una cosa che dovrebbe essere ovvia e cioè che nessun altro, se non l’oceano, leggerà le lettere che si scambiano loro due? Gli vuole far sapere, fra le righe, che non ne parlerà con Pasternàk? Le contraddizioni e i cambi di registro sono continui e, a volte, anche la sintassi sembra colta da un accesso di furore. Tale tumultuoso avvicendarsi di sentimenti che cozzano gli uni con gli altri, peraltro, è tipico di tutto il carteggio. La risposta di Rilke è del 10 maggio e questo fa sorgere il dubbio iniziale che egli abbia scritto prima di avere ricevuto quella di Marina, che è stata iniziata il giorno 9, ma completata il 10 e spedita quel giorno. Le apparenze ancora una volta ingannano, ma è anche evidente che uno dei due ha sbagliato a scrivere la data. Ecco come Rilke inizia la sua lettera del 10:

Marina, possibile che un attimo fa non foste qui? Oppure: dove ero io? Perché oggi … è soltanto il 10 maggio ed è strano che voi abbiate scritto questa data prima delle ultime righe della Vostra lettera… Voi pensate di avere ricevuto i miei libri il 10 (aprendo la porta come sfogliando le pagine) … ma proprio questo stesso giorno, il decimo di maggio, questo eterno giorno delle spirito, io ti ho accolto Marina, con tutta l’anima ,… sconvolta da te e dalla tua apparizione, quasi che il tuo oceano, che insieme a te leggeva, mi si fosse rovesciato addosso in un enorme flusso del cuore.

Non è davvero facile raccapezzarsi nel mezzo di questo linguaggio, ma due cose sembrano evidenti: Rilke aveva già letto la lettera di Cvetaieva, visto il suo accenno all’oceano, anche se rimane incerta la data di spedizione perché non può essere stata spedita e arrivata nel medesimo giorno: in questo profluvio di alti sentimenti sembra a volte che le lettere arrivino prima di essere state scritte! Nessun accenno a quel ti amo di Marina; anzi tutta la lettera si sintonizza sul tono usato da Cvetaieva. Siamo dentro la metafora, si sta parlando di un rapporto fra anime secondo i canoni più stringenti dell’amour de loinh. Serena Vitale ha ragione quando individua lo scorrere di un tragico leit motiv fra le righe di tutta la loro corrispondenza, ma forse tale tragicità sta in altro. Avviandosi alla conclusione, infatti, ecco come Rilke ritorna su un argomento toccato da Cvetaieva:

Ma stiamo parlando non dell’uomo Rilke e io stesso oggi sono in rotta con lui e con il suo corpo, con il quale prima riuscivo sempre a raggiungere un accordo così totale che spesso non capivo più chi di noi due fosse il poeta: …ma adesso l’anima è vestita in un modo e il corpo in un altro”.8

Quest’ultima parte della lettera, ancora una volta a tono, chiarisce forse definitivamente, che non vi è nessuna delusione dell’uomo Rilke il quale ha capito benissimo il significato di quel ti amo, almeno fino a questo punto della corrispondenza: ma le cose sono destinate a cambiare. Forse, nelle sue parole però, vi è qualcosa d’altro. Quando parla del proprio corpo con il quale si sente in rotta sta usando una metafora, oppure sta cercando di comunicarle qualcosa di più drammatico? Nella debordante lettera successiva, del 12 maggio, Cvetaieva parla d’altro e per un lungo tratto non è facile capire se le sia già arrivata la risposta di lui; lo si vedrà solo alla fine. Lo scritto è un lungo, disordinato e velocissimo viaggio nella poesia di Rilke, nel quale giudizi fulminanti si alternano a divagazioni non sempre facili da seguire, come quando scrive:

tu hai espresso i rapporti fra Giovanni e Gesù (inespressi in entrambi.)tu hai espresso i rapporti fra Giovanni e Gesù (inespressi in entrambi.)

Il centro del suo interesse, in questo scritto, sono proprio i Sonetti a Orfeo, più che non le Elegie:

Sono due notti che sprofondo nel tuo Orfeo...”

Dalla parte finale, si evince tuttavia che Cvetaieva non ha ancora ricevuto la lettera di lui perché si riferisce alla dedica contenuta in una lettera precedente.

Ci sfioriamo, con cosa? Con le ali...”

Commentando questo passaggio della dedica la poeta russa scrive:

Rainer, Rainer, tu mi hai detto questo senza conoscermi, come un cieco (veggente!). Le migliori frecce sono cieche… è arrivata adesso la tua lettera. Per la mia è ora di partire.

La freccia cui si allude non sarà per caso quella di Cupido? Lasciamo per il momento la cosa in sospeso. Il 13 maggio Cvetaieva scrive un’altra lettera, nella quale affronta tutti i temi che Rilke aveva ripreso qui e là in quella del dieci. Essa inizia con una citazione tratta da una delle elegie e subito dopo così prosegue:

E dunque: in modo assolutamente umano e con molta modestia: l’uomo Rilke. Ho scritto e mi si inceppava la lingua. Amo il poeta e non l’uomo. (Adesso sarai tu leggendo a incepparti.) Suona in modo estetico, cioè privo di anima, non spirituale,  (gli esteti sono quelli che non hanno anima ma solo cinque sensi… affilati…Posso scegliere io? Quando amo non posso e non voglio scegliere… Tu sei l’Assoluto. Finché non mi innamorerò di te (finché non ti conoscerò), giacché non ho nessun rapporto con te (non conosco la tua merce!) … No, Rainer, non sono una collezionista, amo l’uomo Rilke, giacché è lui che porta il poeta. Quando dico l’uomo Rilke, penso a quello che vive, che pubblica i suoi libri… penso alla moltitudine dei rapporti umani. Parlando dell’uomo Rilke penso a quella cosa per cui per me non c’è posto. Per questo tutto quanto ho detto dell’uomo e del poeta è puro rifiuto, rinuncia, perché non voglio che tu pensi che io voglia intromettermi nella tua vita… Il rifiuto per non dover poi soffrire.9

In questa lettera ci sono anche dei passaggi imbarazzanti: cosa significa la parola merce in tale contesto? Certi altri sembrano viziati da fraintendimenti assai seri (Rilke l’ha forse accusata, di essere una collezionista (di uomini immagino volesse dire. ndr)? L’ambivalenza viene riproposta continuamente a ogni paragrafo e la conclusione di una parte di questa lunga lettera suona così:

Caro, io sono molto obbediente. Se mi dirai: non scrivere, le tue lettere mi agitano, servo molto a me stesso – io capirò e sopporterò tutto”.10

Cosa ci fosse nelle precedenti lettere di Rilke che potesse farle scrivere una frase come questa non è chiaro; oppure è lei ad avere paura di continuare il carteggio e ancor più dei suoi sentimenti che stanno cambiando? Da questo momento in poi la lettera parla d’altro, con salti velocissimi da un argomento all’altro, senza una logica apparente che li tenga insieme. Sarebbe sbagliato tuttavia, notare solo questo perché, se si mettono l’una accanto all’altra tali affermazioni rapide e perentorie con altre di differenti lettere, il ritratto che Marina vuole dare di sé  ne esce ben delineato nei suoi tratti essenziali. Il suo parlare distratto e lontano da quella che comunemente si definisce realtà è in lei costante, così come l’affastellare, in una medesima frase, elementi disparati e casuali. Josip Brodskj in un saggio scritto su di lei dal titolo Nota in calce a una poesia ne fa un ritratto quanto mai acuto, in cui afferma fra l’altro:

… Per Cvetaeva la realtà è sempre un punto di partenza, mai di arrivo … Perciò si possono, specialmente in una lettera, affastellare gli elementi più disparati perché accomunati da un sentimento di sprezzatura nei loro confronti, che non concede alcuna rilevanza alle loro differenze.”11

Su questa osservazione di Brodskj, si chiude questo primo momento di sviluppo, cui seguono due intermezzi.

Primo intermezzo: l’amante

E Pasternak? Lo abbiamo lasciato in attesa delle risposte di Rilke, che non arrivano, e anche di altre lettere di Cvetaeva (e non arrivano pure quelle). Il 18 maggio, finalmente, riceve il famoso biglietto dedicato a lui e che il poeta boemo aveva messo nella lettera indirizzata a Marina e questo lo riempie di gioia: lo conserverà gelosamente per tutta la vita. Il 19 scrive a Cvetaeva.

Ieri ho ricevuto la tua trascrizione delle sue parole: il tangibile silenzio della tua mano. Non sapevo che una scrittura prediletta, tacendosi, potesse sollevare una simile musica funebre.”

La sensibilità di Pasternak è qui notevole, sebbene non dica all’inizio qual è il nucleo della sua delusione. Nel finale emerge il punto dolente: 

Io avevo pensato, se la sua risposta sarà acclusa alla lettera con la tua decisione, obbedirò soltanto alla mia impazienza, non a te né all’altra mia volontà. Ed è veramente bello che in quel momento voi due foste separati. Ma il fatto che tu ti sia separata da lui una seconda volta che insieme a lui sei arrivata non tu ma solo la tua mano, mi ha sconvolto e spaventato. Tranquillizzami… Marina.” 12

Contorto di certo, ma decifrabile. In sostanza Pasternak ha il sospetto che fra Cvetaeva e Rilke sia nata una corrispondenza che lo mette da parte. Cosa significa però quell’accenno al fatto che anche lei si sia separata da lui (da Rilke) una seconda volta? La lettera che Cvetaeva gli spedisce il 22,13 a prima vista, sembra una risposta a quella di lui del 19, ma le cose non stanno così e questo sarà fonte di equivoci a non finire. Nella prima parte, lo scritto è pieno di osservazioni come sempre rapidissime sui versi di Pasternak, poi continua con riflessioni che toccano i medesimi argomenti che Boris aveva trattato nella sua del 19. Tuttavia, poiché non è una risposta a quella di lui ma una riflessione autonoma, le argomentazioni di Marina assumono, agli occhi di Boris, dei significati in parte diversi rispetto a quelli che noi lettori onniscienti siamo nella condizione di capire meglio. Dopo avere ricordato quello che Pasternak le aveva scritto in una lettera di molto precedente: “Che cosa faremmo noi due se ci incontrassimo? Andremmo da Rilke“, Cvetaeva scrive:

“… Ma io ti dirò che Rilke è troppo preso, che non gli serve niente, nessuno… Rilke è un eremita, … Rilke ha superato Eckermann, non ha bisogno di intermediari fra Dio e il suo secondo Faust… Da lui sento soffiare su di me l’estremo gelo di chi possiede, e nei cui possedimenti, io, e a priori rientro...” Ohibò!14

Questo gruppo di lettere, a partire da quella del 19, è importantissimo perché solleveranno una montagna di fraintendimenti. Tuttavia, se pensiamo alla delusione profonda di Pasternak e alla sensazione di essere stato messo da parte, seppure non del tutto volontariamente, egli non si sbaglia affatto! La sua deduzione è indipendente dagli equivoci e dai fraintendimenti; questi ultimi, se mai, sono un’aggravante che aggroviglia ancora di più il suo vissuto e lo fa dubitare della limpidezza di Marina. Anche chi legge può avere qualche sospetto sulle reali intenzioni di Cvetaeva: si è davvero separata da Rilke una seconda volta, oppure sta cercando di convincere Pasternak a non cercare la relazione con il poeta perché vuole averne lei l’esclusiva?

Ho la vaga sensazione che tu mi stia allontanando da lui. E poiché io tenevo tutto insieme, questo significa che tu ti stai allontanando da me, anche se non nomini direttamente il tuo movimento.”

Seguono ampie dissertazioni letterarie, ma nella parte finale, ritorna sul tema dolente del rapporto fra loro tre in questo modo:

A Rilke adesso non scrivo. Lo amo non meno di te, mi dispiace che tu non lo sappiaCome mai non ti è venuto in mente di trascrivermi le dediche che ti ha fatto sui libri e in genere come è andata, ma anche delle lettere. C’eri tu al centro dell’esplosione, e di colpo ti sei fatta da parte.”15

Le gelosie che provoca l’amour de loinh sono terribili perché affollate di fantasmi! Il 23 maggio Cvetaieva risponde finalmente alla lettera di Pasternak del 19. Inizia con una lunga serie di divagazioni famigliari, poi il punto dolente emerge improvviso e rapido prima di approfondirsi:

Boris ti scrivo lettere sbagliate.”

Seguono altre divagazione e poi un discorso sul mare che lei non ama, che sembra essere una metafora letteraria per dire altro.  Verso la fine arriva al punto:

A Rilke non scrivo, è una tortura troppo grande. Mi fa perdere il filo mi distrae dalle poesie. Come trattare uno che è diventato il tesoro dei Nibelunghi? A lui non serve. E a me fa male. Non sono meno grande di lui (nel futuro) ma sono più giovane.”

Il 25 maggio, dopo avere ricevuto la lettera di Pasternàk, ne scrive subito un’altra in cui lo rimprovera di mettere se stesso davanti a tutto, ma non nega affatto la corrispondenza a due che c’è stata fra lei e Rilke; ma una frase nel finale che sembra escludere ogni nuovo contatto:

Di Rilke. Ti ho già scritto di lui. A lui non scrivo Adesso ho la pace della perdita totale – del suo volto divino – del rifiuto…”16

Si può pensare, leggendo la frase di cui sopra, che lei stia davvero ingannando Boris, tacendogli che la corrispondenza fra lei e Rilke non si è mai interrotta, ma ancora una volta i fatti smentiranno tale interpretazione. Nel momento in cui lei scrive della perdita totale e del rifiuto, Marina è convinta di quello che scrive, ma era caduta in un colossale equivoco, come si vedrà. Pasternak, peraltro, ha nel frattempo del tutto metabolizzato l’impossibilità di una relazione a tre: da un amore travolgente, nel giro di pochi giorni, si passa all’indifferenza. Come in Tristano e Isotta, quando i due non si cercano più, senza che se ne capisca fino in fondo la ragione:

Ti ringrazio calorosamente per tutto. Cancellami per qualche tempo dalla tua coscienza – per un paio di settimane ma non per più di un mese… Tra l’altro fino ad oggi non ho ringraziato Rilke per la sua benedizione. Dovrò rimandare anche questo...”17

Secondo intermezzo: l’equivoco.

Nella lettera del 17 maggio. Rilke aveva scritto a un certo punto:

Marina cara, tutto ciò riguarda me. Scusami… se di colpo smetterò di informarti di ciò che mi succede, tu devi scrivermi lo stesso ogni volta che avrai voglia di volare.”

La lettera si conclude così:

A non spedirti la mia foto del passaporto non mi ha costretto la vanità, ma la coscienza di quanto questa istantanea fosse casuale (anche una fotografia deve essere un Assoluto, perbacco! ndr), però l’ho messa accanto alla tua: abituarsi alla vicinanza dapprima sulla fotografia, d’accordo?”18

Potenza dell’amour de loinh!

Secondo Serena Vitale, con la quale concordo, Cvetaeva aveva letto nella prima delle frasi citate qui sopra un rifiuto da parte di Rilke. Cvetaeva aveva davvero inteso questo, ma si trattava di un equivoco del tutto ingiustificato, che a sua volta aveva alimentato, almeno in parte, tutto il polverone di fraintendimenti con Pasternak. Nella medesima lettera, infatti, Rilke le aveva pure detto di avere posto le due fotografie l’una accanto all’altra perché si abituassero alla vicinanza prima … – di che cosa se non di un incontro reale fra loro due? Credo che la spiegazione logica della frase usata da Rilke in quella lettera sia un’altra. Egli non era più sicuro di poterle scriverle perché le sue forze stavano venendo meno. Non c’era nessun rifiuto da parte sua; forse, soltanto un certo disagio nel comprendere che Cvetaeva non stava affatto capendo la situazione in cui lui si trovava. Dopo un silenzio di due settimane, lei torna a scrivergli il 3 giugno. Il tono è quello di sempre, pieno di entusiasmo e frasi amorose, di ambivalenze e di contraddizioni che diventano addirittura ingovernabili, tanto è l’ardore di questa lettera. In essa, fra l’altro, accenna a quello che lei ritiene essere un rifiuto da parte sua. Questa volta però, l’8 giugno, Rilke le risponde per le rime e sembra finalmente volere uscire dalla metafora in cui lui stesso – peraltro – si è chiuso per una vita intera. Abbandonerà finalmente il mondo degli dei per tornare fra gli esseri umani?

E così una mia parola gettata lì per caso che tu hai eretto davanti me, ha gettato questa enorme ombra e così ti sei allontanata da me…. Quella frase scritta da me non veniva dall’uomo di cui tu hai parlato a Boris… Troppo preso –  ah no Marina, libertà e leggerezza e solo l’imprevedibilità della risposta… E da qualche tempo probabilmente a causa delle mie condizioni fisiche io ho paura che qualcuna delle persone da me amate si aspetti da me una frase fortunata o la stessa perfezione del discorso… Oggi ti ho scritto una lunga poesia, seduto su un muro tiepido fra le vigne… Vedi, sono tornato.”19

Era tutto un equivoco, nessun rifiuto da parte di Rilke e la poesia cui allude è nientemeno che l’ultima delle Elegie, che le regala con una dedica. Leggendo questo passaggio, però, si può capire che quando Marina scriveva a Boris che Rilke non aveva più bisogno di nulla, non gli stava mentendo per gelosia e per volere soltanto per se stessa un rapporto con Rainer: lei era davvero convinta di essere stata rifiutata da Rilke! Il problema è che talvolta, la maledetta realtà si prende le sue rivincite sulle visioni oniriche e sulle suggestioni dell’amour de loinh! Lei incassa il colpo e gli risponde soltanto il 14 giugno: è una lettera di scuse, di grande amarezza, in cui mette di mezzo Pasternak quasi per discolparsi. Eppure, questa del 14 è la lettera in cui Cvetaeva riesce a dire di sé qualcosa che non le riuscirà di dire in molte altre occasioni.

Io siamo molte persone… forse innumerevolmente molte (moltitudine insaziabile) E una non deve sapere nulla dell’altra, disturba. Quando sono con mio figlio la cosa che ti scrive e ti ama non deve starmi accanto.

Alla fine, però, Cvetaeva sembra volere abbandonare davvero la metafora. Descrivendo le fotografie che ha ricevuto da lui ne individua una in cui vede questo:

“… Un uomo che parte e che per l’ultima volta …guarda il suo giardino Un uomo che  si lascia cadere fra le mani tutto il paesaggio (Rainer portami con te!)...”

Il ti amo che ritorna alla fine della lettera, sembra questa volta rivolto all’uomo. Rilke, dopo l’ultima lettera di Cvetaeva, le risponde con lentezza e lei di nuovo se ne adombra. In una nuova lettera a Rilke del 6 luglio, Cvetaeva parla di letteratura. Soltanto alla fine ritorna su loro due e forse indirettamente risponde a una frase di lui, quando aveva scritto che non sempre riesce a essere all’altezza di quanto ci si aspetta da lui:

Ma tu sei ancora anche un poeta, e dal poeta si attende de l’inedit …”20

Rilke risponderà il 28 luglio, molto tempo dopo, ma bisogna considerare che nel frattempo si era recato alla stazione di cura di Ragaz, dove lo attendevano i coniugi Thurm und Taxis. La lettera inizia con meravigliosa Marina e sembra fugare ogni dubbio. Riferendosi a Boris ammette che sia stato lui a indirizzarla verso di sé, ma poi “Sei apparsa tu pura e forte...”

Il prosieguo, dopo alcune osservazioni di carattere letterario, parla di nuovo di sé e della condizione in cui si trova. Dice di essere stato costretto ad andare a Ragaz per:

vedere i miei più vecchi e unici amici (Per quanto tempo ancora? Sono infatti di molti anni più vecchi di me…)

Quell’accenno alla tarda età degli amici e quel Per quanto tempo ancora è riferito a loro oppure è un modo metaforico di alludere alla sua di condizione? Marina risponde il 2 agosto e ribadisce in termini sempre più espliciti di volerlo raggiungere in nome di quel “nuovo io che può realizzarsi soltanto con te…, in te…” 21

Il 14 agosto lei gli scrive una nuova lettera dalla quale si evince che non ha ricevuto la sua del 28 luglio. Rilke le scrive il 19 agosto una lettera di grande amarezza. Le dice di essere meno sicuro di lei che si potranno incontrare, ma non le dice il perché. Le scrive pure che ha cercato sulla cartina quella piccola città dove lei gli aveva proposto d’incontrarsi. Lo vuole o non lo vuole? L’ambivalenza dei sentimenti è forte anche in lui, anche perché nella parte centrale della lettera emerge improvvisamente una preoccupazione che fin qui non era apparsa:

Il silenzio di Boris mi inquieta e mi amareggia: è possibile che la mia comparsa abbia sbarrato il passo al suo violento desiderio di te? E malgrado io capisca bene che cosa tu intendi quando parli delle due «non patrie» (che si escludono a vicenda), penso che tu sia severa e quasi crudele nei suoi confronti (e severa nei miei), esigendo che io non abbia mai e in nessun luogo altra Russia all’infuori di te! Protesto contro qualsiasi esclusione (essa ha radici nell’amore ma crescendo diventa di legno), mi prenderai così, anche così? “22

Rilke si rende conto per la prima volta della potenziale ambivalenza e anche ambiguità della situazione che si è creata fra loro tre, ma poi di nuovo, con il discorso delle due non patrie sembra riportare tutto nell’ambito letterario. Questa volta è lui che si sente escluso dal rapporto con Pasternàk e attribuisce a lei tale esclusione. Forse sarebbe bastato accorgersene prima e dirlo direttamente a lui, a Boris! Attribuire solo alla severità di Marina l’accaduto è troppo semplice perché implica una sicura e razionale volontà di raggiungere quello scopo; ma dovrebbe essere chiaro che in realtà non vi era in atto da parte di alcuno dei tre un’intenzione del genere. Il fatto è che vivendo dentro la metafora, prima o poi si fa di sé medesimi una metafora! In ogni caso, sembra ormai tardi per qualsiasi cosa. Forse alla fine uscirà la parola decisiva, quando Rilke, riferendosi alla possibilità di un incontro con Marina scrive:

Non rimandare fino all’inverno”23

ma purtroppo ancora una volta siamo nella metafora perché si tratta della citazione di un verso! Il 22 agosto Marina gli risponde dicendogli che se si vogliono davvero incontrare è lui che deve agire e lo invita a venire nella località che gli aveva indicato. Nella lettera, però, c’è un passaggio che la rende di nuovo ambivalente e indecifrabile:

Quanto più ci si allontana da me, tanto più si entra in me. Io non vivo in me stessa vivo fuori di me. Non vivo sulle mie labbra e chi mi bacia mi perde...”24

Rilke non le risponderà. Andrà a trovare (ed è il suo ultimo viaggio) Paul Valery a Ouchy, ma non si recherà al 3 di Boulevard de Grancy dove lei lo aspettava. L’ultima cartolina è di nuovo di Cvetaeva, il 7 novembre, con una vista su Bellevue a Parigi e dice semplicemente:

Caro Rainer! Io vivo qui. Mi ami ancora?”25

Rilke non le risponderà più, scriverà invece al vecchio amico Leonid Pasternak. Perché è arrabbiato con lei? No. La lettera spedita al padre di Boris, infatti, non l’ha scritta lui, ma la sua segretaria: egli sta salutando tutti gli amici, forse non è più in grado di farlo personalmente e quindi per pudore e per non farle capire cosa sta succedendo, non le dice nulla.

L’epilogo

Il 31 dicembre Cvetaeva scrive a Pasternak una lettera che inizia così:

Boris, Rainer Maria Rilke è morto.”26

Abituati come siamo al linguaggio barocco, questa lapidaria espressione suona come un urlo di dolore e di sgomento: è l’incipit di chi non si aspetta la notizia. I dettagli sulla sua morte, Rilke li affida ancora a Leonid Pasternak tramite la propria segretaria, Marina continua rivolgendosi a lui come se fosse ancora vivo. Boris non risponde alla lettera di Marina sulla morte del poeta. Un mese dopo, anche Cvetaeva riceverà una lettera dalla segretaria di Rilke, allegata a una copia del libro sulla Mitologia greca che il poeta aveva comperato per lei. Pasternàk risponderà alle reiterate lettere di Cvetaeva solo a febbraio e il tono, pur affranto e nonostante scriva che ora entrambi sono orfani, è segnato da una palpabile distanza. Per Pasternàk era la relazione fra loro tre la cosa più importante, ma forse vi è anche dell’altro. Continuarla solo con lei non avrebbe forse fatto risorgere i fantasmi di un possibile incontro reale di cui lui ormai aveva solo paura? Nella lettera del 9 febbraio,27 Cvetaeva sottolinea il tono burocratico della risposta di Pasternak e poi continua a parlare di poesia come se niente fosse. È una lettera lunghissima allegata alla quale c’è una sua poesia scritta nel giugno del ’26 e intitolata Tentativo di stanza. Infine, Cvetaeva accenna anche al requiem per Rilke che ha intenzione di scrivere e che avrà per titolo Novogodnee (Anno nuovo).28 Marina Cvetaeva cercherà di mantenere viva la corrispondenza e la relazione con Pasternak e non soltanto per ragioni letterarie. In fondo, seppure da lontano, lei li amava entrambi quei due uomini e in una lettera del ’30 scriverà a Pasternak una frase quasi analoga a quella che aveva scritto a Rilke nel ‘26 e cioè che Boris era la sola persona con cui avrebbe potuto ricostruire il proprio io sparso e disgregato in tanti pezzi. Pasternak non le risponderà più. Con Novogodnee, che Brodskj considera il vertice della poesia di Maria Cvetaeva,29 si chiude anche la sua stagione poetica: successivamente si dedicherà solo alla riflessione critica, mentre Pasternak inizierà una fase del tutto nuova del suo percorso artistico.

Ritratto di Mira Nakhman, 1913.

1 Denis De Rougemont, L’amore e l’occidente, Rizzoli, Milano 1998.

2 Cvetaieva, Pasternak, Rilke, Il settimo sogno. Lettere (1926), a cura di Konstantin Azadovskji, Elena ed Eugenji Pasternak. Edizione italiana a cura di Serena Vitale, Editori Riuniti, Roma, 1980.

3 Op.cit. Pag 19 e seguenti.

4 Ivi.

5 Op. cit. pp. 45-6.

6 Ivi.

7 Op. cit. pp. 47-8.

8 Op. cit. pag. 50-52.

9 Op.cit. pp. 52-57.

10 Ivi.

11 Iosif Brodskji, Il canto del pendolo, traduzione di Gilberto Forti, Adelphi, Milano 1987, pag. 238.

12 Op.cit. pp.65-70.

13 Op.cit. pp.71-74.

14 Ivi.

15 Op. cit. pag. 83.

16 Op. cit. pp. 81-84

17 Op. cit. pag. 78.

18  Op. cit. pp..60-64

19 Op. cit. pp. 93-4.

20 Op. cit. pag 136.

21 Op. cit. pp.153-56.

22 op. cit. pag. 160-1.

23 Ivi.

24 Op. cit. pp.162-3.

25 Op. cit. pag 165.

26 Op. cit. pp. 168-9

27 Op. cit. pag. 177.

28 Op. cit. pp. 177-88; l’intenzione di Cevetieva si trova scritta proprio nelle ultime righe della lettera.

29 Il testo di  Nuovo anno è pubblicato in Italia in diverse edizioni. Quella che ho scelto è compresa nella raccolta Marina Cvetaeva, A Rainer Maria Rilke nelle sue mani, a cura di Marilena Rea, con testo a fronte, Passigli Editori, 2012, pp. 44-57. Prediligo tale edizione perché raccoglie altre liriche e testi dedicati a Rilke, così da offrire un quadro più ampio del modo con cui Cvetaeva si è rapportata a lui durante tutta la vita. 

PICCOLI DILEMMI QUOTIDIANI

Introduzione

I testi che seguono furono pubblicati sul numero 23-24 della rivista Poiesis nel 1993. Uno di essi, il primo, fu tradotto da Jean Portante e pubblicato su una rivista francese che non ritrovo. Una soltanto di queste poesie – La piccionaia – è poi confluita nel libro L’epoca e i giorni pubblicato nel 2008 per le edizioni Viennepierre di Milano. Le ragioni per cui un testo entra o non entra in una raccolta sono diverse, il montaggio ha una parte importante nella composizione di un libro, anche se nel pensarci a distanza di anni, non ricordo le motivazioni per cui alcune furono escluse. Le ripropongo nel blog con il titolo originale – Piccoli dilemmi quotidiani –  con il quale furono pubblicate su Poeisis.  

In ogni carne affondano il coltello

versano il vino con la stessa mano

come distilla terra il fungo amico

e veste da sicario il suo gemello.

Sotto la prima crosta la radice

una semplice patata cresce sotto

e sotto la seconda superficie

l’acqua ci nutre mescolando umori.

L’aria che respiriamo è in alto,

l’orizzonte un po’ più in là …

la nube e la luna di cui tutti

guardano ancora l’incedere grandioso

sono entrambe un po’ più sopra.

Così gli animali transitano

e hanno nel letargo quel profondo

che scava il rifugio e il pudore

oppure dall’alto di una rupe

spalancano una porta all’infinito.

Soltanto noi siamo qui

né in alto né sotto né più in là

ombre che abitano la zona grigia

dove si specchia la luna

in un catino d’acqua sporca.

La piccionaia

Amo di Genova il suo disordine ordinato

L’età sovrapposte come le casse impilate

Di piazza Caricamento, i ristoranti

dai tavoli trasandati, dove da sempre

è seduta una signora che sogna

di un americano che la porterà

a New York in transatlantico.

Ed io che vivo nella pianura nebbiosa

un poco la capisco la signora

e ho scelto di abitare un eremo di vento

trafitto dal sole che ci resta

un piccolo scrigno dove danzano insieme

cornici paterne e maschere africane

un coltello da pirata che mio figlio

mi portò da Mali…e dell’India

conservo un’intera madia, intrisa

di odori speziati e nel suo specchio a notte

danzano tigri luminose e quando piove

il vetro scroscia una foresta pluviale.

Forse non è una vera casa

(è persino imbarazzante portarci una donna)

ma uno di quei luoghi da cui sempre si parte

e il ritorno è festa improvvisata

dove trovano rifugio poeti e marinai del tempo

felici d’esser soli in mezzo al brulichio

di ogni vita, come bambini che ascoltano gli adulti

parlare nella stanza accanto

e si addormentano beati

gravidi di ogni idioma del mondo.

Il migratore

È tornato quest’oggi il migratore,

ha cantato alla ringhiera

ferito dolcemente la mia mano.

Non cercava solo cibo, aveva un suono

un suono tutto suo l’esile grido

inconfondibile e raro … diceva

il verso non sia soltanto umano,

è più vasta la culla del tuo sogno.

Cercatore di funghi

Nella matrice signora originaria

cercare fra gli arbusti e i rami secchi

sentire i piedi, il morbido gonfiore

scostare foglie attento a non far male.

Per ore camminare occhio radente

fino alla visione solitaria …

Simile al suo cercare chi si danna

nel bianco deserto rettangolare

distillando dalla mano la sua acqua …

e a sera chinati insieme a misurare

se nel canestro il mosaico di forme

sia la città del rame o il suo miraggio.

A PROPOSITO DI CULTURA DI MASSA: IL FESTIVAL DI SANREMO

Jula De Palma

Introduzione

Questo scritto è la rielaborazione di un mio intervento nel dibattito nato su Overleft intorno al cinema del dopoguerra, al quale oltre la redazione partecipò anche Adriano Voltolin, e una mia riflessione precedente sulla canzone italiana. Lo ripropongo in uno dei momenti topici della cultura di massa in Italia.

***

Cameriere e casalinghe di Voghera

Forse ancora oggi non molti sanno che il fotoromanzo nacque nell’immediato dopoguerra proprio in Italia e da qui si diffuse in tutto il mondo. Un libro di Anna Bravo1 ricostruisce puntualmente la storia di questo prodotto made in Italy, niente affatto minore per impatto ad altri ritenuti più paludati e degni d’attenzione. Il libro di Anna Bravo ricorda le riunioni semiclandestine della casa editrice Universo (che con L’intrepido aveva già avvicinato il pubblico femminile al fumetto) e l’uscita – nel giugno del 1946 – proprio di Grand Hotel. Il libro della Bravo è uno strumento ricco e documentato per chi voglia ricostruire al storia di questa vicenda dal dopoguerra in poi che possiamo suddividere in momenti diversi.

La prima fase. La diffusione del fotoromanzo si scontra con la doppia opposizione piuttosto accesa sia da parte cattolica sia comunista, con motivazioni desolatamente ovvie: traviare i giovani spingendoli verso condotte di vita immorali, instupidire il proletariato distogliendolo dalla lotta di classe.

Seconda fase. Nel giro di pochi anni l’atteggiamento del Pci cambia repentinamente. Bravo accenna a un dibattito interno assai riservato, in cui ebbero una parte attiva e alla fine vincente intellettuali come Cesare Zavattini, Damiano Damiani e Oreste Del Buono. Da quel dibattito nacquero imprese editoriali che approdarono direttamente nell’ambito politico durante la campagna elettorale del 1953 (quella della cosiddetta Legge truffa), che fu combattuta anche a colpi di fotoromanzo, con grande panico da parte democristiana che dovette correre ai ripari, vista l’efficacia del genere. Fra le chicche che si scoprono ripercorrendo questa vicenda ci sono anche Andreotti e Scalfaro impegnati nella proposta di fotoromanzi di carattere religioso e, dulcis in fundo, Cesare Zavattini a cui si deve l’idea della rivista Bolero, Oreste Del Buono che per primo si cimenta con una letteratura popolare i cui protagonisti fossero operai e contadini e Damiano Damiani che scrive queste storie.

Tornando a Zavattini, il programma su cui nacque Bolero era molto chiaro: una rivista per le cameriere,  rivolta a un pubblico femminile di lavoratrici e casalinghe. Il genere avrà una sua evidente vitalità fino agli anni Settanta e dei primi Ottanta, con storie che affronteranno temi come contraccezione e aborto. 

La terza fase riguarda il cinema su cui si sofferma il saggio di Voltolin; ma a questo va aggiunto anche un altro aspetto della cultura popolare di quegli anni e cioè i cambiamenti che avvengono nell’ambito della canzone, della musica cosiddetta leggera ed è proprio su quest’ultima che mi sembra importante soffermarsi.

Prima e dopo la guerra

Seguendo una trasmissione di Rai storia dedicata al ‘900, a partire dagli anni ’20, mi ha particolarmente attirato la colonna sonora, fatta di canzoni dell’epoca, di canti fascisti, di altri brani musicali provenienti dagli Stati Uniti, perlopiù swing. Tale sottofondo musicale mi era noto ma mi ha spinto, il giorno dopo, a una maggiore curiosità e quindi ho trascorso la mattinata ascoltando compilation di canzoni degli anni coincidenti con il ventennio fascista; non i canti del regime ma solo le canzoni. Le conoscevo tutte, direi al 90%, molte avrei persino potuto cantarle, tanto le ricordavo bene e la circostanza può apparire strana, visto che sono nato nel 1947. In realtà non c’è nessun mistero, la ragione la conosco benissimo, anche se mi ha colpito la persistenza così forte del ricordo. Mio padre, un artigiano intagliatore del legno, lavorava in casa e aveva sempre la radio accesa come un sottofondo che accompagna ancora oggi la mia vita. Da alunno delle elementari, fui costretto a una lunghissima assenza da scuola per malattia e posso dire che, insieme ai fumetti e alla dedizione di mia madre quando tornava dal lavoro, fu proprio la radio di mio padre e le sue poche parole ad aiutarmi a venirne fuori. Non avevamo il grammofono e il primo giradischi lo ebbi quando frequentavo già le superiori; dal ’56 – se non ricordo male – arrivò la televisione in casa mia, ma io la potevo vedere poco. Quelle canzoni, in sostanza, potevo averle ascoltate solo alla radio e si sono impresse nella mia memoria, tanto da rimanerci fino a oggi. Il risvolto sociale, che mi appare evidente, è che esse erano il marchio di una continuità nazionalpopolare fra l’Italia fascista e quella repubblicana, fino alla fine degli anni ‘50. Quando iniziò la rottura di questo equilibrio? La domanda mi riporta anche al cinema perché fu proprio in alcuni anni chiave fra la fine dei ’50 e gli inizi del ’60, che tutto cominciò a cambiare e fu proprio il cinema da cui prese inizio una cesura e anche una polemica molto aspra fra gli intellettuali vicini al Pci. In  quegli anni, infatti, mentre venivano esaltati Zavattini, Damiani e Del Buono, i registi della seconda generazione neorealista citati da Adriano Voltolin venivano bollati da Aristarco, anch’egli intellettuale di punta del partito, come pornografi dei sentimenti. Come mai?

A mio giudizio le ragioni sono tre, relativamente autonome fra di loro. La prima sta nella diffidenza che la cultura comunista italiana ebbe nei confronti delle avanguardie artistiche e della settima arte, specialmente in quegli anni. Non bisogna dimenticare che la cultura di fondo della dirigenza comunista era profondamente umanistica, molti sarebbero stati dei buoni professori di lettere e di latino. Il nume tutelare di quella cultura era Francesco De Sanctis, reinterpretato da Gramsci.

La seconda ragione sta nella nozione complessa e spesso ambivalente anche in Gramsci, di nazionalpopolare. Il dibattito che precedette la svolta del 1953, con il fotoromanzo, verteva su questo e sul modo di recepire quel concetto. Anche Pasolini, con la sua esperienza di direttore per un anno della rivista Vie Nuove, si pose questo problema e fu in sintonia con Zavattini e gli altri.

Per quanto riguarda il cinema, tutto era diverso perché la sua ricezione da parte della cultura comunista era molto più ambivalente di quanto sembri, come tutte le novità tecnologiche di quegli anni, televisione compresa. Il neorealismo duro dei primi anni del dopoguerra era del tutto conforme alla poetica del realismo socialista reinterpretato in chiave italiana e per questo fu accettato senza problemi; ma già con De Santis regista le cose non sono così semplici come sembrano. Riso amaro suscitò un notevole scandalo nelle sezioni del Pci e Togliatti dovette impegnarsi personalmente in un giro d’Italia nelle sezioni per difendere la pellicola come grande opera sul lavoro. Qual era il motivo dello scandalo? Le cosce delle mondine, che per non bagnarsi gli abiti arrotolavano le gonne per poter svolgere il loro lavoro. Che differenza c’è fra quelle immagini e quelle dei fumetti o fotoromanzi che raccontavano storie spesso anacronistiche rispetto alla vita che facevano i loro lettori e le loro lettrici? La risposta sta nella differenza fra parola e immagine. Le storie popolari di Damiani o le vite di Bolero e Grand Hotel, erano pur sempre letteratura popolare e ubbidivano a un’esigenza di alfabetizzazione di un popolo ancora in larga parte analfabeta che poteva trovare anche in quelle storie uno strumento efficace di acculturazione. Con il cinema del dopoguerra, libero dalle censure e dalla retorica propagandistica fascista, comincia un’altra storia che la cultura comunista cavalcò entusiasticamente con il neorealismo, cominciò a non capire più dalla metà degli anni sessanta in poi finendo per sottovalutarla e poi per subirla. Oppure reagì con una scissione schizofrenica. Da un lato ammiccare agli intellettuali e al pubblico colto osannando Antonioni e fingendo di capirlo, oppure difendendo la tradizione umanistica e popolare fatta di biblioteche delle sezioni tutt’altro che banali per gli anni in cui si formarono e di una letteratura di massa di cui faceva parte anche il fotoromanzo; il tutto però, separato dalla cultura alta che andava per un’altra strada.

Nel mezzo si faceva strada, grazie al cinema, una cultura di massa che preparò molte cose fra cui i movimenti della fine degli anni sessanta, che infatti sorpresero del tutto la cultura comunista: dal quel momento inizia anche il declino politico del partito, nonostante i successi elettorali. Il declino culturale, infatti, viene prima, con buona pace del nesso struttura sovrastruttura, e riguarda proprio l’incomprensione delle dinamiche che andava prendendo la cultura di massa. Ed è qui che entra di nuovo scena una protagonista che sembra minore ma non lo è: la canzone. Pasolini fu un testimone particolarmente importante di questo passaggio. Quando Calvino e Fortini diedero inizio alla polemica sul festival di Sanremo, egli aderì e negli stessi anni, sia Cantacronache, sia altri gruppi si posero il problema di una canzone colta. Un titolo per tutte: Dove vola l’avvoltoio. La polemica però finì nel nulla e il primo a prenderne atto fu proprio Pasolini quando riconobbe che (cito a memoria) niente poteva rappresentare meglio l’estate del 1964 di Sapore di sale di Gino Paoli.

La rottura, però, era iniziata prima: nel 1957 con Come prima di Tony Dallara e reiterata con Nel blu dipinto di blu (1958) cui è associato un ricordo personale, ma che ritengo importante per ragione di costume. Il padre di Dorelli, che aveva cantato con Modugno, era Nino D’Aurelio, tenore il cui nome è oggi sconosciuto ma che allora era un personaggio per Meda, il comune dove ero nato e dove abitavo. Nino morì pochi giorni dopo la fine del festival e il suo funerale fu un evento che portò a Meda insieme a Dorelli, cantanti e relativi codazzi. Il paese si fermò al passaggio del feretro in un silenzio totale. L’immagine di un paese intero bloccato dal funerale di un tenore, seguito da molti altri cantanti e con aspetti di evidente curiosità mondana da parte del pubblico, che nulla aveva a che fare con il lutto, suscitò una predica furente del parroco la domenica. La cosa sorprendente però fu un’altra e cioè che persino a persone discretamente bigotte, fra cui mia madre, quella predica non piacque per nulla: il festival di Sanremo aveva sconfitto il parroco. La cultura di massa si presenta sempre a due o più facce e a volte sono proprio dei cambiamenti in apparenza minori a dare il via a movimenti imprevedibili. Quello che la canzone colta di Calvino e Fortini non riuscì a fare lo fecero personaggi come  Fred Buscaglione – Eri piccola così è del 1958. Tua, interpretata da Jula de Palma è del ’59 e suscitò un mare di polemiche a causa dell’interpretazione particolarmente sensuale, tanto che la Rai non la mandò più in onda. Anche Tintarella di luna è del ’59, mentre Il tuo bacio è come un rock è del ’60. Il meglio, però, doveva ancora arrivare. Gaber e Jannacci, Tenco, Bindi, Lauzi, De Andrè e poi Fossati e tanti altri. Da quel momento cominciò davvero un’altra storia, mentre continuava quella del cinema con Il sorpasso; cominciava invece a ridursi l’influenza del fotoromanzo e finiva davvero il dopoguerra.

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  1. Anna Bravo, Il fotoromanzo, Bologna, 2003 ↩︎

FURIO JESI: PARTE SECONDA

Introduzione

L’oggetto di questa seconda parte verte essenzialmente intorno alla questione del tempo che è sempre centrale nelle opere di Furio Jesi, come si è già visto nella prima parte a proposito delle differenze fra rivolta e rivoluzione. L’accento sarà ora posto sulla festa perché anch’essa, come sostiene Jesi, sospende il tempo storico e ne instaura un altro.   

Il tempo della festa

Furio Jesi non ha mai scritto un libro con questo titolo; tuttavia, l’assemblaggio di alcuni suoi saggi, curata da Andrea Cavalletti per Nottetempo, ha una giustificazione, perché in essi vengono esplicitati alcuni passaggi cruciali nel suo percorso e specialmente si gettano le fondamenta per una critica che supera quanto scritto in Spartakus, pur senza rinnegarne l’esperienza. I due saggi più importanti di tale assemblaggio, oltre alla Lettura del Battello ebbro di cui ho già scritto, sono il primo, Conoscibilità della festa, e Cesare Pavese e il mito. Gli altri saggi sulle Elegie di Rilke e l’interpretazione del racconto biblico di Susanna e i vecchioni e quello su uno scritto giovanile di Lukacs, pur interessanti e come sempre pieni di intuizioni, sono di minore importanza per il discorso che si fa qui1. Perché la festa? La risposta è complessa nel senso che si tratta di ipotesi a volte esplicite altre volte che si possono dedurre: vi sono poi dei richiami impliciti al saggio di Benjamin sul Surrealismo e specialmente al concetto di ebbrezza, illuminazione laica, antropologica e materialista.2 Dietro la riflessione di Jesi, ma anche fra le righe del saggio di Benjamin, c’è una domanda nascosta, più evidente in Jesi: cosa unisce la festa alla rivolta e alla rivoluzione? Tutte e tre con le loro diverse modalità spezzano la serialità del quotidiano e hanno a che fare con la sospensione del tempo; tutte e tre sfuggono alla tirannia del tempo storico. Rivolgersi alla festa significa dunque per Jesi tornare a interrogarsi sulle diverse modalità di sospensione del tempo; ma anche di rivolgersi al folklore, alle radici antropologiche di una civiltà e naturalmente alla macchina mitologica, espressione che Jesi userà sempre invece della parola mito. Nel primo saggio, intitolato come ho detto Conoscibilità della festa Jesi inizia ricordando uno scritto polemico di Benedetto Croce, nei confronti di un cronista – tale Conti – che aveva definito l’eruzione del Vesuvio del 1906 con accenti di vera e propria meraviglia. La polemica di Croce viene criticata da Jesi in modo assai sottile, nel senso che, dedicando alla reprimenda del povero Conti una pagina che sembra scritta dal filosofo solo per schiacciare il proprio interlocutore, Croce finisce per dare all’evento luttuoso – l’eruzione vulcanica – il contorno letterario di una pagina talmente ben scritta da suscitare a sua volta meraviglia. Peraltro, lo sgomento di fronte a fenomeni naturali o epidemici particolarmente estremi non è nuova e ha sempre prodotto pagine memorabili. Gli esempi che Jesi fa sono classici che spaziano da Erodoto alla descrizione della peste in Manzoni; ma anche in occasione della recente pandemia di Covid 19 si sono letti brani di grande suggestione, a prescindere dal loro contenuto. Va pure ricordato che il concetto di sublime, elaborato da Edmond Burke, è assai ambivalente come peraltro quello di numinoso, entrambi riferiti a eventi che possono essere sia di festa vera e propria della natura, sia a eventi catastrofici ma dotati di uno strano fascino, proprio per la loro potenza in atto. Feste crudeli le definisce Jesi e possiamo estendere tale concetto alle guerre: Thomas Mann alla fine de La montagna incantata parla del primo conflitto mondiale come una festa di morte. Occuparsi della festa significa dunque immergersi in quel patrimonio antropologico che Benjamin, nel saggio sul Surrealismo, aveva indicato con i termini di illuminazione profana. Se infatti è possibile dichiararsi non cristiani (a dispetto di ciò che pensa Croce), da un punto di vista religioso, filosofico e del pensiero in senso lato, è a livello antropologico che le religioni operano più in profondo. L’illuminazione laica e antropologica materialista che Benjamin attribuisce al Surrealismo, va molto più fondata sulla critica del costume e anche le riflessioni di Jesi vanno in quel senso. Quanto alla festa, essa occupa una parte preminente nell’antropologia profonda dei popoli: il Carnevale, le Feste dei Folli medioevali, le diverse forme di rovesciamento delle gerarchie, il paese di Cuccagna, i Fuochi di sant’Antonio, il culto dei morti. Cosa avviene però con la modernità? Jesi distingue fra dimensione epifanica della festa e conoscenza della festa come processo gnoseologico, grazie all’etnologia e alla ricerca sul campo. Egli polemizza con Adorno, che nella Dialettica dell’illuminismo si riferisce alle feste orgiastiche dei primitivi, facendo notare come questa espressione dia per scontato di sapere cosa fosse un festa primitiva e ironizza su certe descrizioni moderne come quelle citate, che sembrano piuttosto travestire i selvaggi di Rousseau per farli passeggiare nella Vienna di Freud.3 Sono affermazioni che per Jesi si muovono ambiguamente fra scienza etnologica e fantasticherie. In realtà, nella modernità si può solo constatare che il concetto di festa collettiva come si suppone sia stato anticamente il Carnevale è perduto, oppure si trasforma in consumismo spettacolare di massa: pensiamo cosa è diventato l’antico rito celtico del culto dei morti nella riproposizione di Halloween. Gli esempi di feste che costellano la letteratura europea degli ultimi due secoli, dalla Montagna incantata alla Recherche, sono feste crudeli o feste interiori: entrambe le cose in alcuni casi. Oppure, nel caso Musil, la festa diventa una impossibile e grottesca messa in scena che infatti alla fine non ha luogo.4

Jesi non prende in considerazione le feste canoniche dettate dalle scadenze religiose (il Natale cristiano per esempio), ma sottolinea come la posizione dell’etnografo sia quella di studiare la festa dei diversi – siano essi i popoli cosiddetti primitivi, oppure ciò che emerge dagli studi sul folklore – non potendo più partecipare alla festa in senso epifanico, cosa che nella modernità non sembra essere più possibile. In realtà nelle conclusioni Jesi dirà qualcosa di diverso come si vedrà: lo stesso si può dire della conclusione del saggio di Benjamin sul Surrealismo, ma prima di arrivare a quel punto occorre capire meglio la dialettica fra macchina antropologica, festa come evento epifanico e ricerca sul campo. Il folklore, in tutto questo svolge una decisiva funzione di cerniera perché è un ponte, instabile ma pur sempre un tramite, che permette di avere un’idea meno fantasiosa delle feste epifaniche del passato. A questo  proposito va detto che la ricerca antropologica ha fatto passi da gigante negli ultimi venti anni. Mi riferisco per esempio a opere recenti come quelle di Graeber e altri.5 Abbandoniamo momentaneamente il primo saggio e rivolgiamoci al secondo.

Festa e sacrificio

Nel saggio su Pavese, Jesi torna alla letteratura e ingaggia con l’opera dello scrittore delle Langhe un corpo a corpo che ha come sempre aspetti di critica letteraria e connessioni remote con la macchina mitologica. Il discorso è assai complesso e parte dal modo che Pavese ha di concepire la natura:

[…] Pavese credeva nel valore dei miti come sistema di rapporti esistenti in natura […] Pavese ha operato come se esistesse in natura un sistema oggettivo di rapporti fra immagini mitologiche che – e si vuole come diceva Hesse “interpretare la natura!” – bisogna rispettare.

Jesi rifiuta tale concetto e rimprovera a Pavese di leggere nella natura la presenza: di un linguaggio mitologico immanente e oggettivo.6 Tale linguaggio, che Jesi attribuisce a Pavese, equivale a ritenere che al centro della macchina mitologica si troverebbe il mito in senso ontologico. Jesi nega entrambe le cose: la natura è una sfinge leopardiana e al centro della macchina mitologica c’è un vuoto. Subito dopo, Jesi entra nel vivo del dibattito su Pavese che aveva in quegli anni molti protagonisti. Egli nega l’appartenenza dello scrittore piemontese al decadentismo e si premura di chiarire la questione rispetto a un proprio saggio che poteva generare equivoci al proposito. Jesi cita Venturi con il quale si era aperta la polemica, ma ricorda pure gli interventi di Pasolini e Moravia. Quella polemica è in parte datata, ma è comunque la spia ancora attuale di una difficoltà reale: la collocazione di Pavese nel contesto letterario italiano a cavallo fra primo e secondo ’900 è difficile da districare, perché la sua presenza è fortemente anomala. Pavese ha di certo nel mito una fonte d’ispirazione, ma si tratta di un modo d’intendere la mitologia che non ha nulla a che vedere con il fascismo e la sua mitologia. In secondo luogo Pavese non ha nulla a che vedere con l’ermetismo. Infine c’è un contrasto evidente fra il suo americanismo e il sentirsi radicato in una cultura contadina e provinciale come quella delle Langhe. Pavese sta dentro una contraddizione, anche nel dopoguerra. Faccio un solo esempio. Si batté nella casa editrice Eianudi per avere fra i collaboratori Angelo Brelich, uno studioso del mito fra i più importanti di quegli anni, ma è pure vero che la concezione del mito di Brelich è assai diversa rispetto a quella di Pavese ma lo scrittore sembra non comprenderlo. Credo che un parziale errore di Jesi  sia quello di attribuire a Pavese una consapevolezza etnografica e antropologica che lo scrittore in definitiva non aveva. Il suo modo di sentirsi legato ai riti contadini della sua terra è in realtà assai semplice e anche ingenuo: è un attaccamento viscerale che ha più a che fare con il folklore e che convive però con un culto dell’americanismo altrettanto ingenuo. Pavese, a mio avviso, riuscirà a superare tali aspetti contraddittori solo in poche opere, grandi, ma poche: I mari del sud, I dialoghi con Leucò e La Luna e i falò. 7 In altre parti di Lavorare stanca possiamo trovare dei testi sicuramente forti e apprezzabili e che proprio per questa ragione incorsero nella censura fascista; ma nessuno ha la forza a mio avviso dei tre ricordati in precedenza. Jesi solleva però un problema reale quando attribuisce a Pavese il tentativo di conciliare la modernità con il mito: le modalità scelte porteranno lo scrittore sempre più lontano dal mito inteso come rito epifanico collettivo, per approdare all’interiorizzazione del mito da parte del poeta, che diventa così il solo depositario – nella modernità – di quello che un tempo era un sapere collettivo diffuso. Jesi, al contrario, rifiuta l’interiorizzazione, ma si domanda anche quale sia il mito che la rende possibile e la risposta che si dà è molto netta: si tratta un mito di sacrificio e di morte, il solo che non produce intorno a sé altro se non l’aspetto sacrificale. Per Jesi, dunque, Pavese, pur non essendo un decadente, accetta l’impossibilità del mito come esperienza comunitaria della modernità e la trasforma nella ricerca interiore del proprio rapporto con il mito e con la natura, ma separato da tutto e da tutti. Anche Jesi, come il suo maestro Kerényi, prende atto che nella modernità l’epifania come si è conosciuta in passato non è più proponibile, ma per lui si tratta di quelle forme storiche e antropologiche, che tuttavia non possono essere considerate come eterne e statiche, perché la macchina mitologica non ha smesso di funzionare e di produrre narrazioni mitologiche anche in piena modernità.

La festa nel tempo della modernità

Per Jesi non si tratta di ritornare a una individualità separata, piuttosto di porsi il problema di comprendere in che modo possono esistere ritualità comunitarie anche nella modernità e nella post modernità, le quali, in qualche caso, possono persino recuperare frammenti da salvaguardare delle forme passate. In sostanza si tratta di esplorare il campo vastissimo del folklore ma anche interrogarsi sui tentativi moderni di ritualità collettive. Nel finale del suo saggio Jesi si riferisce prima di tutto al movimento operaio, anche se si limita a poche pagine. Tuttavia, se si considera l’insieme della sua produzione, possiamo ricostruire tutta una serie di esempi che hanno tratti interessanti comuni con quanto Benjamin aveva scritto negli anni ’30. Jesi, in alcuni altri scritti dedicati alle rivolte popolari, sottolinea come uno dei limiti dello Spartachismo, per esempio, fu quello di lasciare ai margini il concetto di festività come modalità di sospensione del tempo, che non può essere disgiunta dall’altra modalità di sospensione e cioè la rivolta. Ebbene, quando Benjamin nel saggio sul Surrealismo scrive che occorre portare alla rivoluzione le forze dell’ebbrezza, cosa afferma se non questo? Jesi, che ben conosceva Benjamin anche se le citazioni sono quasi sempre indirette e sotto traccia, riprende uno dei leitmotiv di quel saggio cui si può aggiungere il concetto altrettanto importante di illuminazione profana e materialista, precedentemente citato.8 Sempre Benjamin, a proposito della ritualità festiva delle manifestazioni operaie, aveva posto l’accento su un famoso episodio, accaduto durante la Rivoluzione di Luglio a Parigi, quando i rivoltosi distrussero tutti gli orologi, simbolo della cadenza industriale del tempo governata dal lavoro salariato. Sempre in Benjamin si trovano alcuni spunti interessanti nel saggio sulla riproduzione tecnica dell’opera d’arte, sui modi di festeggiare il Primo Maggio.

[…] i film di Ejzenštejn, il teatro didattico di Brecht, le feste del primo maggio con gli slogan di Majakovskij, le messe in scena di Malevič  e di Mejerchol’d.

Questa citazione si trova nell’introduzione al saggio dal titolo L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, sulla riproducibilità tecnica, traduzione e cura di Enrico Filippini, Einaudi Torino 1966, alla pagina 11. Non è la sola in cui Benjamin si occupa delle modalità di una ritualità collettiva nel tempo della modernità. Questa frase è particolarmente significativa perché àncora i riferimenti di Benjamin  alle esperienze più radicali dell’avanguardia russa di quegli anni e al teatro di Brecht, ma si tiene a distanza dal realismo socialista.

In conclusione, l’intento di Jesi, come di Benjamin decenni prima, è quello di tornare a significare in modo diverso sia la festa sia la rivolta, sia la rivoluzione, come rito collettivo anche nella piena modernità; ma questo è un capitolo tutto da pensare.

Adrien Moreau, Processione di carnevale, 1887


1 Furio Jesi, Il tempo della festa, a cura di Andrea cavalletti, Nottetempo, Milano 2023.

2 L’espressione è usata da Benjamin più volte nel saggio sul Surrealismo e nelle carte preparatorie.

3 Furio Jesi, op. cit., pag.69.

4 Mi riferisco al romanzo L’Uomo senza qualità.

5 Mi riferisco in particolare al libro L’alba di tutto, scritto da David Graeber e David Wengrow , edito da Rzzoli nel 2021.

6 Furio Jesi, op. cit., pp. 122-23.

7 Nel blog diepicanuova, curato da Paolo Rabissi e da me, che presto diventerà un libro pubblicato, I Mari del sud sono uno dei testi manifesto cui è dedicata un’ampia riflessione critica.

8 Il saggio sul Surrealismo è un testo fondamentale di cui consiglio la lettura completa insieme alle carte preparatorie.

FURIO JESI

Introduzione

Furio Jesi ha attraversato la cultura e la politica italiane come una cometa e come tutte le comete è passato fugacemente per poi riapparire dopo un tempo più o meno lungo. La riscoperta più recente si è consolidata intorno a un aspetto della sua ricerca fra i meno noti. In Sinistra in rete, nel 2023, sono stati pubblicati saggi importanti, uno in particolare dal titolo: Come interrompere una dialettica. Benjamin, Jesi e la rivolta contro il tempo di James Martel – Emanuele E. Pelilli.1 Al centro di questa prima riflessione ci sono però due libri precedenti che costituiscono una sorta di background da cui partire per affrontare poi i temi sollevati dal saggio pubblicato in sinistra in rete e che implica fra l’altro un confronto con alcune opere di Walter Benjamin.

Il primo dei libri è Spartakus. Simbologia della rivolta, a cura di Andrea Cavalletti, pubblicato da Bollati Boringhieri nel 2000. Il secondo è Lettura del Bateau ivre di Rimbaud, con introduzione di Giorgio Agamben e una nota di Andrea Cavalletti, pubblicato da Quodlibet nel 1996. A questi aggiungo anche la recente intervista ad Andrea Cavalletti, che si può ascoltare in rete dal sito Scaldasole Books.

Jesi partecipò attivamente alla rivolta del Maggio francese e ritornò in Italia solo alla fine, quando – per usare le sue parole – “il tempo era ritornato normale”. A Torino partecipò a tutte le lotte in corso e nel dicembre del 1969 finì una parte della sua riflessione – Spartakus – e la scrisse in flagranza. Ritornare alla rivolta spartachista, nella quale di certo Jesi colse alcuni elementi presenti anche nel Maggio francese, gli permise di tornare alla Comune di Parigi – ma in modo traslato come spesso ha fatto. La Lettura del Battello ebbro passa attraverso la critica letteraria per approdare alla messa a punto di un apparato teorico già probabilmente maturo, ma non ancora suscettibile di essere mostrato. In fondo il ‘68, e in particolare quello italiano, fu una lunga rivolta e proprio leggendo Jesi si può cogliere ancora di più il tragico errore di chi pensò che fosse invece il tempo giusto della rivoluzione. Jesi cominciò proprio allora a interrogarsi sulle dinamiche interne della rivolta, dandole uno statuto specifico come nessuno aveva più fatto dopo Sorel. Guardando alle rivolte ci si può sottrarre da una dialettica del tutto confinata nella storia e che assomiglia da un lato al destino, oppure a una macchinetta asettica alla quale si può far dire di tutto e il suo contrario, come Benjamin rappresentò in modo puntuale nella prima delle sue Tesi sulla storia. Tuttavia, ciò non è possibile farlo senza decidere di accettare e fare propria la scommessa che la storia pone davanti a chiunque in certi momenti: la prassi è proprio quell‘insieme di gesti-parole,- altra espressione tipica di Jesi – che bisogna decidere di compiere e di accettare anche nelle loro conseguenze. Qui stanno le ragioni dell‘inattualità di Jesi per un lungo tempo. Superficialmente, esse avevano prima di tutto a che fare con il sospetto che nell’Italia di quegli anni si nutriva nei confronti di chi si occupava di mitologia. Più in profondità, perché nel pieno dell‘autunno caldo e specialmente dopo il 12 dicembre 1969, Jesi indicava – già allora – che invece di occuparsi solo del presente, che egli tuttavia non ha mai esorcizzato e tanto meno rimosso dal suo stesso agire in campo culturale e politico, sarebbe tuttavia stato meglio occuparsi del dopodomani. La storia editoriale e forse le sue scelte hanno nascosto per lunghissimo tempo Spartakus fino al 2000, un anno prima dei fatti di Genova e dell’attentato alle Torri gemelle. Cosa ci può essere di più attuale nell’Italia e nell‘Europa del 2023, di libri che invitano a guardare alle rivolte dell’altro ieri per poter pensare realisticamente l’oggi e il dopodomani?  

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PARTE PRIMA

Spartakus

Jesi, nell‘introduzione, spiega a grandi linee le ragioni dell‘opera, poi entra nel vivo e nel capitolo eponimo stabilisce una complessa analogia fra una citazione tratta dal Docktor Faustus di Thomas Mann e il saggio di Sorel sulla violenza, scritto subito dopo la prima guerra mondiale e che era stato lo spunto da cui anche Benjamin aveva cominciato il suo saggio del ’21. La frase di Mann è questa:

Chi voglia essere partecipe della comunità deve tenersi pronto a sostanziose detrazioni dalla verità o dalla scienza, al sacrificium intellectus… 2

Docktor Faustus  fu scritto nel 1943 e pubblicato nel ’47, ma la comunità di cui parla è la società tedesca di trent’anni prima e l’accenno al venir meno di scienza e verità è una riflessione col senno di poi e una polemica in differita contro gli pseudo miti nazisti che iniziarono a diffondersi proprio negli anni successivi il primo conflitto mondiale, rispetto al quale va pure detto che Mann manifestò una certa ambiguità – se si pensa al capitolo finale di La montagna incantata – dove Castorp, pur malato, si precipita nel conflitto come in una sorta di lavacro. Mann usa nel capitolo un tono epico e nella conclusione la guerra diviene sia festa di morte sia malo delirio.3 Jesi, tuttavia, si richiama all’opera di Mann in modo sibillino e traslato, cioè per sottolineare come nella Germania del 1919 i miti che circolavano non erano solo quelli criticati da Mann: Sorel, pur con tutte le ambiguità di quegli anni, è pur sempre un teorico dell’anarcosindacalismo e l’accenno di Jesi al suo libro è un tramite che ci porta nel cuore della sua riflessione. La Spartakusbund nasce nel 1919 e anche Spartaco è un mito e non soltanto un personaggio storico. Con lui arriviamo al secondo punto focale del libro, anche se il suo autore precisa che esso non vuole essere una ricostruzione storica del movimento spartachista e dell’insurrezione di gennaio. In realtà il libro è anche questo e lo è in modo assai calzante e sintetico, ma il suo intento è duplice: da un lato affermare che ogni tentativo di espellere la macchina mitologica dalla storia secondo la tradizione illuminista, è destinato a cadere nel vuoto o a ritorcersi contro coloro che lo affermano. Tuttavia, la dialettica fra mito e storia è secondo Jesi una manipolazione borghese del tempo4 e dunque i due termini, mito e storia, vanno letti prima di tutto nella loro reciproca autonomia. Jesi prosegue proiettando la vicenda dello spartachismo nel passato recente della Germania  e cioè:

[…] a un filone della cultura tedesca che può essere colto più agevolmente – almeno per ora –nei suoi momenti cristallizzati: […] l’illuminatenorden che Adam Weishaupt fondò a Ingolstadt nel 1776, assumendo il nome Spartakus e più tardi nel movimento organizzatosi in Assia intorno al rettore Widig e a Georg Büchner  nel 1830-40.5

L’intento, costante in tutta la sua opera, è quello di sottolineare sempre come la mitologia nera tedesca, oggetto del suo libro Germania segreta, Cultura di destra e altri, non sia la sola esistente.6 Nel capitolo intitolato La sospensione del tempo storico, Jesi ricostruisce in una paginetta le ragioni della rivoluzione. Lo fa ripercorrendo il pensiero di Marx e sottolineando in particolare la necessità che un progetto rivoluzionario sia basato su un’analisi dei rapporti di forza e delle dinamiche sociali. Esaurito il tema in breve, egli cambia registro:

[…] Questo orientamento politico e la filosofia della storia che vi corrisponde incontrano un grave ostacolo nel fenomeno della rivolta. Usiamo la parola “rivolta“ per designare un movimento insurrezionale diverso dalla rivoluzione. La differenza fra rivolta e rivoluzione non va cercata negli scopi dell’una e dell’altra […] Ciò che maggiormente distingue la rivolta dalla rivoluzione è invece una diversa esperienza del tempo. Se, in base al significato corrente delle due parole, la rivolta è un improvviso scoppio insurrezionale che può venire inserito dentro un disegno strategico, ma che di per sé non implica una strategia a lunga distanza, e la rivoluzione è invece un complesso strategico di movimenti insurrezionali coordinati e orientati a scadenza relativamente lunga verso gli obiettivi finali, si potrebbe dire che la rivolta sospenda il tempo storico e instauri repentinamente un tempo in cui tutto ciò che si compie vale per se stesso, indipendentemente dalle sue conseguenze e dai suoi rapporti con il complesso di transitorietà e di perennità di cui consiste la storia. La rivoluzione sarebbe invece interamente e deliberatamente calata nel tempo storico.7

A questa prima affermazione segue un’analisi puntuale, incalzante e appassionata dei dieci giorni della rivolta spartachista del 1919 che fra l’altro dimostra quanto poco sia stata analizzata nelle sue dinamiche interne e in modo così profondo.8 Jesi riconosce il fallimento della rivolta e ne indica le ragioni in modo puntuale e dopo un’altra lunga digressione, ritorna ad essa tramite Brecht: Trommels in der Nacht – Tamburi nella notte è infatti il lavoro teatrale con cui Brecht la rievoca. La prima versione del testo fu scritta in presa diretta sugli eventi, proprio nello stesso 1919, inaugurando un’idea di teatro che ritroveremo puntualmente nell’Agit Prop.

Jesi paragona il testo di Brecht al Docktor Faustus di Mann, sottolineando l‘ambiguità del secondo, ma riconoscendo pure che anni dopo, entrambi decideranno di mettere fra parentesi la rivolta spartachista, pur rimanendo distanti le loro posizioni. Brecht deciderà di non rappresentare il dramma, mentre Jesi – ripercorrendone tutti gli atti – gli assegna l’importanza che ha. Il personaggio chiave dell‘opera è Kragler, un figura assai complessa dal momento che è al tempo stesso un anonimo piccolo borghese, sia una figura della mitologia tedesca, cioè il reduce dato per morto e che al ritorno non viene riconosciuto neppure dalla madre, che pensa di trovarsi davanti a un fantasma. Jesi ricostruisce puntualmente tutti gli atti del dramma e al libro rimando per questo. Ridotto all’osso, lo svolgimento è il seguente. Kragler torna dalla prigionia proprio durante la notte in cui la rivolta spartachista ha inizio e scopre che la sua fidanzata sta per fidanzarsi con Murk, un borghese ben più ricco di lui. Indignato per il torto subito si unisce alla rivolta spartachista. Anna, che aveva accettato di sposare Murk per ragioni d’interesse, quando rivede il suo vecchio amore lo segue di nuovo e i due vagano per la città nel mezzo dell’insurrezione, finché Kragler si convince che essa non ha alcuna speranza di successo e torna a casa con la fidanzata, voltando le spalle agli spartachisti. Brecht, lo si evince dal testo di Jesi, ma anche dalla storia assai travagliata dell‘opera e delle sue rappresentazioni, ebbe sempre un atteggiamento di ambivalenza verso di essa e arrivò poi a non pubblicarla nell’opera omnia. Jesi salva il testo e lo valorizza, ma rimane sulla soglia di una vera riabilitazione e penso sia utile domandarsene la ragione. La lettura di classe del dramma – la piccola borghesia si lascia coinvolgere dal proletariato, ma nel momento dello scontro vero si tira indietro – è altrettanto riduttiva di quella che riconduce tutto al mito del reduce che non viene riconosciuto, anche perché nel dramma di Brecht c’è uno scostamento rispetto alla rigidità del mito e il riconoscimento in qualche modo avviene. L’ambivalenza di Brecht è giustificata nel senso che egli stesso si trova su un crinale pericoloso, che può colludere anche con quella mitologia germanica negativa che produce fantasmi che possono diventare mostri. Sotto traccia, però, c’è una polemica molto contemporanea. Kragler è anche il personaggio che rifiuta quella parte dell’Espressionismo tedesco che era più incline a lasciarsi trascinare dentro la mitologia germanica o a ripiegare in una sorta di soggettivismo intimista a tinte fosche. L’espediente teatrale usato da Brecht è di rappresentarlo come un personaggio comico, ubriaco e un po‘ sconclusionato. Anche questo, però, non risolve il problema. Jesi avverte opportunamente che quando Brecht scrisse I tamburi nella notte, il concetto di straniamento  – che diventerà centrale e fondamentale in tutte le sue opere e che sarà l’oggetto di un importante saggio scritto da Benjamin sul teatro di Brecht 9 – non era stato ancora elaborato dal drammaturgo, per cui la figura di Kragler risulta inquinata da una certa dose di simpatia del suo autore nei suoi confronti. Tuttavia a me pare che la questione sia ancora più complessa e che Jesi la conosca benissimo. Brecht si stava interrogando sul senso del comportamento eroico, altro tema nevralgico per la cultura tedesca e non solo. Su questo Brecht fu sempre molto netto: fu lui a dire guai a quel popolo che ha bisogno di eroi e allora I tamburi nella notte ci riportano alla domanda delle domande, la stessa che, sotto traccia, si pone Jesi dall’inizio di Spartakus: il sacrificio di Luxemburg e Liebknecht fu un gesto romantico-espressionista che in qualche modo collude anche con quella zona oscura del mito germanico, oppure fu altro? Brecht non sciolse mai del tutto il dilemma e questo spiega la sua costante ambivalenza nei confronti della sua opera, mentre invece Jesi ha dato una risposta netta, non in polemica diretta con Brecht e neppure con Thomas Mann, ma basata sul rifiuto di stare per forza dentro le maglie strette della dialettica fra mito e storia. Jesi contesta che la fine dei due leader della rivolta sia rapportabile a un atteggiamento romantico-espressionista, ma si pone a lato di entrambi i poli della questione – il mito da uno la storia dall’altro – considerandoli non dentro una cogente e inestricabile relazione che ricorda più il destino che non la dialettica, ma cerca di leggere nella loro autonomia cosa sta dentro l’uno e dentro l’altra per giungere alla sua conclusione:

[…] Siamo perfettamente disposti a considerare la morte di Liebknecht e della Luxemburg, dal punto di vista della più razionale strategia politica, un errore; ma vogliamo distinguere le ragioni della loro scelta di morte da un “malinteso senso dell‘onore“ che fu individuato da alcuni storici subito dopo la seconda guerra mondiale […] si trattò di usare la propaganda  – oggi così simile a menzogna – nel suo significato più genuino: nello stesso significato –  ci si consenta una digressione di tempo e di luogo – in cui nel Vietnam si è scelto il suicidio col fuoco come simbolo di reazione contro l’aggressione americana. Giocare la propria persona sul limite della morte mentre le vie del quartiere dei giornali di Berlino erano campi di battaglia, significò allora compiere la sutura fra mito genuino, affiorato spontaneamente e disinteressatamente dalla profondità della psiche, e autentica propaganda politica. In questo modo la propaganda fu una manifestazione della verità, o almeno di quella verità in cui credevano le vittime della sua epifania.. 10

Nel capitolo quarto dal titolo Inattualità della rivolta, Jesi tira le fila della riflessione. All’inizio ricorda una frase di Nietsche che, pensando ai tedeschi e alla loro storia, afferma in sostanza che essi appartengono all’altro ieri e al dopodomani ma che non hanno un oggi. Jesi riprende la frase e la colloca in un contesto completamente diverso da quello pensato dal filosofo e cioè:

[…] all’intersezione dell’“una volta per sempre“ e dell’“eterno ritorno“: non tanto del tempo storico  e del tempo mitico ma dell’altro ieri e del dopodomani.11

Dopo aver notato che sulla rivolta premevano e si manifestavano forze del passato tedesco, per cui essa non scaturiva solo dalle contraddizioni del suo tempo, Jesi ne deduce la mancanza di una realistica valutazione di contraddizioni e rapporti di forza. In sostanza, ripete che mentre la rivoluzione è un rovesciamento dialettico dell’esistente che corrisponde all’oggi ed è compiutamente nella storia (immagino che la Rivoluzione d’Ottobre fosse sullo sfondo di tale ragionamento), la rivolta:

[…] conserva del passato eredità così pesanti da escludere un vera e propria dialettica […] La rivolta, proprio perché esclude la dialettica delle contraddizioni  interne al capitalismo nascente  è l’epifania violenta delle componenti reazionarie nelle mani dei rivoltosi, suscita il “dopodomani“ […] ne evoca l’epifania. Quali rapporti possiede quell’epifania con la realtà storica? In quale misura l’epifania del dopodomani è un contributo al rovesciamento del capitalismo?12

Per poter rispondere a tali domande occorre abbandonare il punto di vista storicista, del tutto interno alle contraddizioni dialettiche date ed è proprio questo uno dei temi centrali delle tesi sulla storia di Benjamin. La possibilità di valutare l’utilità dell’epifania del dopodomani:

 […] è insita in una indagine fenomenologica che agisce dall’interno garantendo dall’interno obiettività alla rivolta e alle sue esperienze del tempo […] riconoscere nella rivolta quell’esasperazione della reazione che prepara il dopodomani ben più della rivoluzione. Se ciò che importa è unicamente l’oggi o il domani niente è più riprovevole della rivolta. Ma se il dopodomani conta e conta più dell’oggi e del domani la rivolta è un fatto altamente positivo.13

Questo brano può forse aiutare meglio a comprendere perché il saggio introduttivo a Spartakus s’intitoli Sovversione e memoria. L’operazione che Jesi compie con questo libro si apre a ventaglio su molte questioni, ma prima di tutto ha a che fare proprio con quell’esigenza di compiere un’indagine fenomenologica dall’interno della rivolta. Il libro è prima di tutto questo e non mi sembra di avere letto altrove analisi altrettanto puntuali. Quelle più canoniche e scontate si limitano a prendere atto del fallimento, oppure si trincerano dietro l’omaggio a Luxemburg e a Liebknecht; oppure ancora sottolineano alcune cose ovvie, cui accenna anche Jesi e cioè che furono all’opera anche agenti provocatori. La sensazione è che la rivolta, come più volte accenna anche Jesi, sia stata messa fra parentesi anche da Brecht molti anni dopo, ma senza mai risolvere veramente il problema. Per tale ragione I tamburi nella notte escono ed entrano dalla sua produzione come qualcosa di semiclandestino. Qualcosa di più però era nell‘intento di Jesi e si preciserà risalendo al saggio sul Battello ebbro del 1996.

Il Battello ebbro e Spartakus

Il saggio su Rimbaud fu pubblicato una prima volta nel 1972 su Comunità e poi nel 1996 da Quodlibet. Esso è successivo alla stesura di Spartakus; solo che nessuno poteva saperlo con certezza, dal momento che quest’ultimo fu ritrovato fra le carte del suo autore soltanto nel 2000, vent’anni dopo la sua morte; tuttavia, erano in molti a sapere della sua esistenza e fra le testimonianze c’è anche una lettera di particolare importanza. Le due opere, in ogni caso, si rimandano l’una all’altra in un intreccio che pone molti problemi, anche di decifrazione dei due testi: entrambe infine, rimandano ad altre due opere di Jesi e cioè a Germania segreta e Il tempo della festa. Il saggio sul Battello ebbro è una vetta particolarmente elevata del suo lavoro critico e in particolare un’esemplificazione fra le più originali del metodo di lavoro, sempre indirizzato a trovare connessioni remote fra testo letterario e storia, storia e mito, ma rifiutando al tempo stesso la connessione dialettica fra i due termini che Jesi considera come già si è visto una manipolazione borghese del tempo: tale concetto è ripetuto più volte in forme diverse. Nel caso specifico di questo saggio c’è però un elemento in più, ingombrante e affascinante e cioè che il lavoro critico è su un testo intorno al quale, come Jesi stesso ricorda nei paragrafi introduttivi, è stato costruito, da chi è venuto dopo, un monumento imponente. Avvicinarsi al Battello ebbro vuol dire cimentarsi anche con la critica propriamente letteraria e con tale monumento.

Le date hanno un’enorme importanza nella ricostruzione del percorso intellettuale di Jesi. Nella sua introduzione a Spartakus, Cavalletti ricorda un particolare: fu proprio nella notte fra l’11 e il 12 dicembre del 1969 che Furio Jesi scrisse una lettera a un amico nel quale annunciava che la stesura di Spartakus. Simbologia della rivolta era finalmente concluso. Il giorno dopo a Milano successe qualcosa che cambiò radicalmente la storia italiana recente: la bomba di piazza Fontana. Cavalletti non lo nota, ma tale circostanza casuale ha a mio avviso profondamente a che fare con Jesi e con la sua ricerca, e forse permette anche di capire meglio per quale ragione un libro come Spartakus non fu pubblicato fino al 2000. Le vicende editoriali che Cavalletti riassume puntualmente nella sua introduzione, non sono a mio avviso sufficienti a determinare con certezza le ragioni per cui il libro venne alla luce così tardi. Jesi era già così noto e – anzi – considerato un enfant prodige della critica italiana, che non gli sarebbe stato difficile trovare un editore, dopo la rottura intervenuta con Silva; oppure poteva pubblicarlo egli stesso, come avveniva in quegli anni. Certe edizioni Feltrinelli – i piccoli libri rossi – che erano assai simili ai samizdat clandestini che venivano pubblicati in Unione Sovietica ma anche a Berlino nel 1968, lo avrebbero ospitato sicuramente. Forse Jesi scelse di non pubblicarlo, riflettendo su quanto stava avvenendo in Italia e lasciò fluttuare quel libro, ben sapendo che prima o poi sarebbe stato ritrovato. Quanto al Battello ebbro tutto sembra più chiaro, ma a ben vedere la cosa non è affatto scontata. Non ci sono dubbi sull’autenticità della lettera di Jesi del ‘69, ma non possiamo essere del tutto certi che Spartakus non sia stato modificato successivamente. Poiché in entrambi i testi ci sono parti riportate quasi letteralmente e integralmente in qualche caso, parrebbe scontato che si tratterebbe di una trasposizione dal primo al secondo, ma ci sono buone ragioni per pensare che potrebbe essere anche il contrario.

Il Battello di Rimbaud e il Battello di Jesi

Prima di entrare nel merito dell‘opera, Jesi sgombra subito il campo da un possibile equivoco: la partecipazione di Rimbaud alla Comune di Parigi è probabilmente leggenda, legata a qualche sua frase in cui il poeta esprime un generico entusiasmo per l’insurrezione e l’intenzione di partire per la capitale francese. Se anche non fosse leggenda, tuttavia, l’analisi di Jesi rovescia i termini della questione fino al paradosso: è se mai il testo ad avere partecipato all’insurrezione, ma non il suo autore. Rimbaud fu un profeta della rivolta, ma lo fu per una coincidenza di date e involontariamente, mentre di suo perseguiva altro fin dall’inizio: affrancarsi dall’angusta provincia francese per farsi notare da quelli di Parigi. Jesi s’interroga sulla natura delle visioni che vi compaiono e parla della presenza in esso di due miraggi. Il primo è una sospensione del tempo storico, espressione che Jesi ritiene essenziale per comprendere cosa sia una rivolta, come aveva scritto in Spartakus:

Ciò che maggiormente distingue la rivolta dalla rivoluzione è invece una diversa esperienza del tempo […] Se, in base al significato corrente delle due parole, la rivolta è un improvviso scoppio insurrezionale che può venire inserito dentro un disegno strategico, ma che di per sé non implica una strategia a lunga distanza, e la rivoluzione è invece un complesso strategico di movimenti insurrezionali coordinati e orientati a scadenza relativamente lunga verso gli obiettivi finali, si potrebbe dire che la rivolta sospenda il tempo storico 14

L’equipaggio del battello, ucciso dai pellirosse, proietta il mezzo verso un viaggio immaginario, che per Jesi è collegato al mondo dell’infanzia. Se pensiamo a un bambino che gioca e che trasforma qualsiasi oggetto tenga in mano in qualcosa d’altro, ritroviamo alcune delle modalità del viaggio immaginario che Rimbaud fa compiere al suo battello. Il secondo, alla fine del testo, è il miraggio di un mondo rimpicciolito, dove il battello – ridotto alle dimensioni di una barchetta di carta che un bambino libera in una pozzanghera – riporta tutto a una dimensione prosaica e infantile: la visione lascia il posto a un mondo che torna a misura di bambino, ma che riflette anche la delusione di una sconfitta. Il regno della libertà senza limiti è perduto e l’immagine finale non è solo il ritorno a una dimensione rimpicciolita – un mondo di bambini come lo definisce Jesi – ma è paradossalmente anche il suo opposto: il bambino è diventato adulto, ha compreso che il regno della libertà senza alcun limite semplicemente non esiste. L’aspetto bambinesco e infantile, tuttavia, è presente in entrambi i miraggi e le due parole, peraltro, non sono la fotocopia l’una dell’altra: infantile vuol dire qualcosa di diverso dal semplice essere bambino e può benissimo descrivere anche la condizione di un diciassettenne come era Rimbaud quando scrisse il Battello ebbro che, ricorda Jesi una seconda volta, fu un testo d’occasione, scritto per farsi vedere e accreditarsi come poeta presso il mondo degli adulti che contano. Jesi arriva a definirlo una sorte di merce che il bambino-adolescente Rimbaud offre ai parigini e ai posteri che gli costruiranno sopra un duplice monumento: sul testo medesimo e sul poeta come personaggio. Arrivato a questo punto, Jesi s’interroga però sulle visioni che accompagnano il testo e le descrive come luoghi comuni. Il termine è usato in due accezioni diverse: l’una è quella che associa il concetto a qualcosa di prosaico, per esempio le immagini tratte da Magasin Pittoresque, una rivista molto amata da Rimbaud nella quale si ritrovano spunti paesaggistici che poi il poeta riusa nel testo (di cui parla peraltro Rimbaud stesso in Une saison en enfer). La seconda accezione del termine, più complessa, viene trattata da Jesi nel paragrafo 11 e ha a che fare con le immagini che provengono all’autore da non si sa da che cosa o dove. Jesi sta parlando del processo creativo e si chiede se sia lecito affermare che tali visioni giungono al poeta o che addirittura s’impadroniscono dello scrivente: è quello che intendevano i romantici per ispirazione, qualcosa che giunge al poeta da un altrove – Jesi lo definisce proprio un altro mondo – in cui si mescolano luoghi comuni o cose nuovissime, risonanze arcane e immagini che si sono impresse nella memoria e poi sono state dimenticate. Questo è per Jesi proprio il modo di funzionare della macchina mitologica. Dopo avere posto tale analogia, egli s’interroga sulla medesima e scrive:

Credere a ciò equivale a credere che il mito esista autonomamente entro la macchina mitologica […] Non credere a ciò equivale a non credere nell’esistenza autonoma del mito entro la macchina mitologica, equivale a essere persuasi che la macchina mitologica è vuota e che il mito così  come l’essenza dei luoghi comuni usufruibili nell’“Alchimie du verbe“, sia un vuoto cui la macchina mitologica rimanda. 15

Nel paragrafo 12, che cito per intero, Jesi tira le fila della sua riflessione:

Pare a questo punto che ci sia un’alternativa: fede e non-fede. E tuttavia, almeno entro i limiti del nostro linguaggio, (dunque entro i limiti in cui la parola “alternativa“ è significante), tale alternativa di fatto non c’è. Credere che il mito sia autonomamente dentro la macchina mitologica  – che l’essenza del luogo comune sia autonomamente dentro l’“Alchimie du verbe“ –  non può voler dire altro che il mito non c’è – che l’essenza del luogo comune non è: se ci sono, sono in un “altro mondo“: ci non-sono. Anche il più convinto sostenitore della non fede è costretto a consentire a un involontario atto di fede: non vi è fede più esatta in un“altro mondo“ che Ci non-è della dichiarazione che tale“altro mondo“ non è. La particella “ci“ aderisce strettamente al J’aimais di Rimbaud e indica soltanto l’adesione deliberata di contro all’adesione involontaria. Vi è d’altronde una differenza importante fra il negare per affermare e il negare per negare fra il dire che quel mondo“altro“ ci-non è e il dire che esso non è […] Assolutamente inadatta ad essere in qualche modo istruttiva circa quel mondo, poiché il nostro linguaggio resta inerte dinanzi al miraggio del divenire, “la freccia che supera la corda per essere raccolta nel balzo, più di se stessa“ codesta differenza è invece molto istruttiva circa il comportamento degli uomini che essa discrimina. Gli uni, gli uomini del ci-non è possono essere gli uomini della rivolta  e certamente sono predisposti a divenirne i profeti ed essere usati come i profeti di essa, e suoi fiancheggiatori che ne promettono la sua ripetibilità; gli altri, gli uomini del non è, hanno dinnanzi solo la rivoluzione o la conservazione se decidono di rinunciare a se stessi e di accettare i rapporti di forza in cui si trovano. Il fascino della rivolta consiste innanzitutto nella sua immediata inevitabilità:  essa deve ineluttabilmente accadere. Il tempo è sospeso: ciò che è una volta è per tutto. Così come nell’alchimia, se l’esperimento fallisce ciò significa che non si era sufficientemente consapevoli e puri. Il profeta annuncia la sospensione del tempo, ed anche la ripetibilità della sospensione del tempo. La rivoluzione può esercitare fascino assai minore proprio perché è estremamente arduo ed incerto stabilire quale sia il suo giusto tempo, ed anche perché, non essendo inevitabile, nel giusto tempo, se non ha luogo nel momento giusto non accadrà forse più per un lunghissimo intervallo di tempo.16

Ebbene, questo passaggio così decisivo per mettere a punto il nucleo teorico di cui Jesi si serve nella sua analisi della rivolta spartachista in Spartakus, si trova solo nel saggio sul Battello ebbro, mentre molti passaggi sono riportati alla lettera in entrambi i libri, per esempio quello qui di seguito, assai noto e celebrato:

[…] Si può amare una città, si possono riconoscere le sue case e le sue strade nelle proprie memorie più remote e segrete; ma solo nell’ora della rivolta la città è sentita veramente come l’haut-lieu e al tempo stesso come la propria città: propria poiché dell’io e al tempo stesso degli altri; propria, poiché campo di una battaglia che si è scelta e che la  collettività ha scelto; propria, poiché spazio circoscritto in cui il tempo storico è sospeso e in cui ogni atto vale di per se stesso, nelle sue conseguenze immediate. Ci si appropria di una città fuggendo o avanzando nell’alternarsi delle cariche, molto più che giocando da bambini per le sue strade o passeggiandovi più tardi con una ragazza. Nell’ora della rivolta non si è più soli nella città […]17

Torniamo al testo di Rimbaud. Nella sequenza di visioni che costellano il primo dei due miraggi compaiono  i fiumi impassibili, le incredibili Floride, le Penisole libere da ormeggi i sogni di notti verdi dalle nevi abbagliate e cioè tutto un campionario in cui si mescolano luoghi comuni banali e suggestioni, per approdare al luogo comune più frequentato dalla cultura europea a partire dalla seconda metà del ‘700: la fuga dall’Europa, verso il suo sud e l‘oriente. Il Grand Tour del battello ebbro, però, va verso le Americhe e questo è per quanto mi riguarda un passaggio decisivo che mi sembra Jesi sottovaluti. Il regno della libertà senza alcun limite, che il battello sperimenta, si trasforma presto nel suo opposto e improvvisamente il testo cambia tono:

[…] Filando eternamente sull’acque azzurre e immobili/, Io rimpiango l’Europa dai parapetti antichi!// Ho visto gli arcipelaghi siderei e isole/Dai cieli deliranti aperti al vogatore:/È in queste notti immense che dormi e t’esili/Stuoli d’uccelli d’oro o futuro vigore? –  Ma è vero ho pianto troppo! Le Albe sono strazianti./Ogni luna mi è atroce ed ogni sole amaro […] Se desidero un’acqua d’Europa è una pozzanghera/Nera e gelida quando nell’ora del crepuscolo/Un bimbo malinconico libera in ginocchio/ Un battello leggero come farfalla a  maggio […]

Rimbaud fra i miraggi e la storia

Jesi, oltre ai due miraggi, indica l’esistenza di un terzo livello – lui lo definisce con l’espressione significati terzi  – ed è proprio su tale terzo livello che si gioca la possibilità di una sintesi ed è anche, per quanto mi riguarda, il punto su cui la mia riflessione diverge da quella di Jesi. Tale terzo livello si gioca sempre dentro la dinamica fra l’aspetto bambino e infantile che percorre il testo di Rimbaud e il suo aspetto adulto. Jesi nota come il viaggio avventuroso del Battello sia dovuto al caso – Sentii che i trainanti non mi guidavan più – e con ironia sottolinea come esso non sia la La corazzata Potëmkin conquistata dal suo equipaggio per dare inizio a una rivoluzione. Jesi inserisce questa rapida notazione per ribadire che mentre la rivoluzione è una sequenza di atti pensati e programmati, la rivolta non lo è: si tratta di un chiaro riferimento di quanto affermato in Spartakus. Se l‘avventura del battello serve a Jesi per introdurre il dispositivo teorico del ci-non è, tuttavia egli ha per me il torto di fermarsi a quello da un punto di vista critico letterario e di saltare subito alle conclusioni:

[…] Nel Bateau ivre il fallimento dell’esperienza del regno della libertà in termini di materia poetica apre per Rimbaud la via di una critica al privilegio della materia poetica, che condurrà all’abbandono dell’attività creativa e all’esperienza abissina: dal luogo comune in sede di poesia al luogo comune in sede di comportamento. Se l’attività poetica di Rimbaud costituisce un momento di rivolta, la sua attività di commerciante e viaggiatore in Africa costituisce un  momento di rivoluzione. Si tratta però di una rivoluzione solitaria e pessimistica …18

Tale sintesi non mi convince perché è basata su una totale separazione del testo dall’adulto Rimbaud, che nascerebbe solo a opera compiuta. Jesi stesso ci ha però ricordato come per il poeta quello fu un testo d’occasione scritto perché lo vedessero quelli di Parigi e dunque nel diciassettenne era già attivo – seppure in modo ancora ingenuo – anche l’affarista: non ci sono mai stati due Rimbaud! Ci sono invece a mio avviso tre frammenti nell’opera, che si scostano dal meccanismo delle visioni e dei luoghi comuni e dunque dai significati primo e secondo. Sono tre frammenti che fra l’altro spiegano a mio giudizio la stranezza di questo Grand Tour che invece di dirigersi a sud e a oriente, va invece verso le Americhe. Il primo frammento è proprio all’inizio del testo:

[…] Col mio cotone inglese con il mio grano fiammingo/Non mi curavo più di avere un equipaggio/

Il secondo frammento si colloca idealmente nel mezzo, seppure un po’ spostato verso il finale:

[…] Spinto dall’uragano nell’aria senza uccelli/ – Nè i velieri anseatici, né i Monitori avrebbero/ Ripescato il mio scafo ubriaco d’acqua.

Infine proprio i versi finali:

/Non posso più, bagnato da quei languori e onde/Filare nella scia di chi porta cotone,/Né fendere l’orgoglio dei pavesi e dei labari,/né vogar sotto gli occhi orrendi dei pontoni.19

Nel profluvio di visioni e luoghi comuni compare improvviso in questi frammenti l’orrore della storia: il battello trasporta le merci coloniali per eccellenza e va sulle rotte delle Americhe, perché è là che avvengono i traffici più sordidi, compreso lo schiavismo. Però nel testo, a dispetto di Rimbaud, è la rivolta che vince perché il battello alla fine dice che non può più filare nella scia di chi porta il cotone: certo, è tornato a essere una barchetta di carta liberata in una pozzanghera, ma il testo contraddice le scelte dell’uomo e non le conferma. Rimbaud non era un rivoltoso, tanto meno un rivoluzionario, ma un ribelle senza causa che, avendo in odio i piccoli borghesi di Charleville, scrive un testo d’occasione per farsi notare da quelli di Parigi.

Conclusioni provvisorie e in progress

Spartakus e il saggio sul Battello ebbro si rimandano l’uno all’altro e in fondo ha poca importanza sapere quale dei due venga prima e se il primo sia stato modificato. In entrambi c’è tuttavia un passaggio assai simile che mi porta verso le conclusioni: perché se l’aspetto puramente letterario dell’analisi Jesi si conclude nei modi già detti, il nucleo teorico messo a punto con il Ci-non è, rimane ancora inconcluso e incompleto. Riporto allora due citazioni che si trovano in entrambi i testi, pur con qualche minimo scostamento:

Da Spartakus: La differenza fra rivolta e rivoluzione non va cercata negli scopi dell’una e dell’altra […] Ciò che maggiormente distingue la rivolta dalla rivoluzione è invece una diversa esperienza del tempo. Se, in base al significato corrente delle due parole, la rivolta è un improvviso scoppio insurrezionale che può venire inserito dentro un disegno strategico, ma che di per sè non implica una strategia a lunga distanza, e la rivoluzione è invece un complesso strategico di movimenti insurrezionali coordinati e orientati a scadenza relativamente lunga verso gli obiettivi finali, si potrebbe dire che la rivolta sospenda il tempo storico e instauri repentinamente un tempo in cui tutto ciò che si compie vale per se stesso, indipendentemente dalle sue conseguenze e dai suoi rapporti con il complesso di transitorietà e di perennità di cui consiste la storia. La rivoluzione sarebbe invece interamente e deliberatamente calata nel tempo storico

Dal Saggio sul Battello ebbro: La parola rivoluzione designa correttamente tutto il complesso di azioni a breve e a lunga distanza che sono compiute da chi è cosciente di voler mutare nel tempo storico una situazione politica, […] ed elabora i suoi piani tattici e strategici considerando costantemente nel tempo storico i rapporti di causa ed effetto. Ogni rivolta si può invece descrivere come una sospensione del tempo storico. Nello scontro della rivolta si decantano le componenti simboliche dell’ideologia che ha esso in moto la strategia e solo quelle sono davvero percepite dai combattenti. 20

Nel finale del saggio sul Battello ebbro Jesi si rende conto che continuare a ripetere semplicemente che storia e mito, rivoluzione e rivolta sono pur sempre manipolazioni borghesi del tempo, non è sufficiente perché se si rimane fermi a questo si rischia di far ritornare dalla finestra una condizione destinale che si era scacciata dalla porta. Il problema è così affrontato nell’ultimo paragrafo, il tredicesimo. Ne cito solo le parti che si riferiscono al tema del rapporto fra storia e macchina mitologica, perché altre parti in cui Jesi ritorna alla critica letteraria del testo di Rimbaud non aggiungono nulla a quanto detto in precedenza.

L’una e l’altra, […] la rivolta e la rivoluzione, non contraddicono a livello concettuale il modello proposto dalla macchina mitologica. Anzi: nella prospettiva operata si adatta sia all’una sia all’altra e codesto modello finisce per identificarsi con l’a priori che resta quale fondamento solido e oscuro del processo gnoseologico. Di fronte all’essenza del luogo comune – o all’essenza del mito – non vi è autentica alternativa concettuale, bensì soltanto alternativa gestuale, di comportamento, […] che resta comunque circoscritto entro la scatola delimitata dalle pareti della macchina mitologica. Rivolta e rivoluzione a livello concettuale, restano null’altro che diverse articolazioni (sospensione del tempo; tempo giusto), del tempo che vige all’interno di quella scatola .[..] Spezzare codesta radice significherebbe disporre di un linguaggio o di un complesso di gesti tali da affrontare la macchina mitologica su un piano che consentisse di dichiarare al tempo stesso l’esistenza e la non-esistenza di ciò che la macchina dice di contenere […]21

Tale conclusione non ribadisce semplicemente il valore del nucleo teorico del ci-non è, che è pur sempre solo un concetto. La parte finale della citazione chiude una parte del discorso e si apre al tempo stesso su un orizzonte di senso che rimanda alla necessità di un linguaggio-gesto e a un altro libro di Jesi e cioè Il tempo della festa. È un passaggio che per analogia, si parva licet,  mi ricorda un altro passaggio e cioè quello che avviene fra i Manoscritti economico filosofici del ’43  che rimangono pur sempre nell’ambito della critica del pensiero e del concetti hegeliani e le Tesi su Feuerbach, purché le si legga sempre per intero e non si usi l’undicesima tesi come una clava da dare in testa a qualcuno. Jesi compie il medesimo passo con una coerenza ardua da seguire, eppure esposta con chiarezza, perché le elaborazioni dei suoi testi maggiori, non nascono solo da una rara capacità di scovare connessioni remote fra storia, mito e letteratura. In questo fu certamente un maestro, ma nel caso specifico dei testi ricordati essi non sarebbero nati se non fossero stati sostenuti anche da una felice combinazione di gesti-parole o viceversa perché la formula può essere usata a partire da entrambi i lati, come viene affermato nel paragrafo 13 del saggio su Battello ebbro. In questo senso ha ragione Cavalletti nell’affermare che quest’ultimo è anche un passo avanti rispetto a Spartakus, ma non nel senso del superamento dialettico hegeliano. Il giudizio di Cavalletti che il saggio in questione sarebbe anche una critica degli spartachisti come si evince nella conferenza di Scaldasole Books non mi convince, se non in parte. Jesi non rivede il suo giudizio, contenuto in Spartakus e per questa ragione lo riporto una seconda volta qui:

[…] Siamo perfettamente disposti a considerare la morte di Liebknecht e della Luxemburg, dal punto di vista della più razionale strategia politica, un errore; ma vogliamo distinguere le ragioni della loro scelta di morte da un “malinteso senso dell‘onore“ che fu individuato da alcuni storici subito dopo la seconda guerra mondiale … si trattò di usare la propaganda  – oggi così simile a menzogna – nel suo significato più genuino: nello stesso significato –  ci si consenta una digressione di tempo e di luogo – in cui nel Vietnam si è scelto il suicidio col fuoco come simbolo di reazione contro l’aggressione americana. Giocare la propria persona sul limite della morte mentre le vie del quartiere dei giornali di Berlino erano campi di battaglia, significò allora compiere la sutura fra mito genuino, affiorato spontaneamente e disinteressatamente dalla profondità della psiche e autentica propaganda politica. In questo modo la propaganda fu una manifestazione della, verità, o almeno di quella verità in cui credevano le vittime della sua epifania.. 22

Il suo concetto di superamento si smarca sempre dalle ferree leggi della dialettica, perché un superamento reale o avviene grazie a una praxis diversa, cioè a una parola-gesto diversa, oppure è un superamento idealistico che avviene solo nel concetto. Nei testi che sono confluiti in Il tempo della festa, almeno secondo quanto scrivono Cavalletti e Il saggio di Kieran Aarons, Cruel Festivals: Furio Jesi and the Critique of Political Autonomy Jesi criticherà anche la rivolta, ma senza condanne del passato spartachista o dei comunardi, e la ragione la vedo nell’essere lui stesso dentro quella necessità di possedere una parola-gesto che sia esposta e quindi riconoscibile. Questione quanto mai importante per noi che viviamo nel tempo della chiacchiera includente e della sinistra afasica.


1 Il saggio in questione ha il pregio di saltare sopra tutta una serie di problemi, per andare al nocciolo di una questione di grande importanza e cioè il modo di trattare da parte di entrambi la dialettica e il tempo. Anche Benjamin si pose una prima volta questo problema nel più importante dei suoi saggi giovanili, intitolato Della violenza e del diritto, scritto nel 1921. Il saggio può essere considerato come la sua riflessione sulla Rivoluzione d’Ottobre. In esso, oltre a sostenere con forza la piena legittimità della rivoluzione, si poneva tuttavia il problema di non dare per scontata l’esistenza di coppie dialettiche che invece vanno viste nelle loro diverse componenti interne e non nelle immagini sintetiche che se ne danno. La riflessione di Jesi sugli stessi argomenti ha delle analogie con l’opera di Benjamin, che Jesi conosceva molto bene.

2 Spartakus. Simbologia della rivolta, a cura di Andrea Cavalletti, Bollati Boringhieri, Torino 2000, pag. 14.

3 Thomas Mann La montagna incantata. La mia edizione è quella antica di Dall’Oglio pubblicata nel 1930 , pag. 803.

4 L’espressione è usata diverse volte nel libro e anche in altri saggi

5 Furio Jesi, Spartakus,Simbologia  della rivolta, Bollati Boringheiri, Torino 2000, pag. 15.

6 Nel prosieguo del testo Jesi abbonda di digressioni storiche ma anche di riferimenti al teatro proletario di Piscator con accenti che ricordano le esperienze compiute da Benjamin e Lācis a Riga e a Mosca. Questa parte del libro sarà un po’ trascurata per arrivare invece a uno snodo che ci riporta al tema centrale di questa riflessione. Il libro di Jesi, non facilmente reperibile se non in biblioteca, merita di certo una lettura nella sua totalità.

7 Op.cit.pag. 19.

8 Op. cit. pp.18-33.

9 Il saggio in questione s’intitola Che cos’è il teatro epico in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966.

10 Op.cit.pp.15-16.

11 Op,cit. pag. 82. Credo sia utile aggiungere una breve spiegazione di alcune parti di questa citazione, che anche il libro fa. Luxemburg e Liebknecht avrebbero potuto lasciare Berlino in tutta sicurezza e rifugiarsi altrove, ma decisero di rimanere e di correre il rischio della loro cattura e morte, quasi certa viste le circostanze.

12 Op.cit. pag.83.

13 Ivi.

14 Spartakus, simbologia della rivolta, pag. 11 Alla vigilia della sua partenza per Parigi Rimbaud legge il Bateau ivre all’amico Ernest Delahye. Consegnandogli il testo aggiunge: “L’ho fatto perché lo vedano quelli di Parigi“. Op.cit. Pag.13.

15 Furio Jesi, Lettura del Bateau Ivre di Rimbaud, con prefazione di Giorgio Agamben un saggio di Andrea Cavalletti, Quodlibet, pag.28.

16 Op.cit. pp-20-30.

17 Nel saggio su Rimbaud alla pagina 23-4.

18 Furio Jesi, lettura del Bateau ivre, pag. 28.

19 Op.cit. pp. 39-43.

20 Op. cit. Pag. 22.

21 Op.cit.31.

22 Op.cit.pp.15-16.

IL DISCORSO DI PAOLA CORTELLESI ALLA LUISS

Le polemiche indecenti seguite al discorso di Paola Cortellesi alla Luiss, non stupiscono più di tanto. L’università, peraltro, ha compiuto una scelta quanto mai opportuna: mettere in rete il discorso tenuto da Cortellesi. Lo si può ascoltare ma questo servirà a poco e di certo non a coloro che hanno innescato una polemica sul nulla. Mi sono limitato a raccogliere alcuni degli interventi più sensati e ad assemblarli. In fondo alla pagina il link per permette di ascoltare o di leggere il discorso.

Da Donnapop

Prima che lo diciate voi, lo facciamo noi: sì, ci sono argomenti più importanti delle fiabe Disney. No, non abbiamo intenzione di fare la guerra a Biancaneve o Cenerentola. Quello che vogliamo fare, piuttosto, è una riflessione sul modo in cui siamo cresciute e cresciuti.

Paola Cortellesi, ospite dell’università Luiss, in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico, ha parlato degli stereotipi sessisti nelle fiabe e di come intere generazioni siano cresciute con esempi di donne principalmente belle, ingenue e non in grado di salvarsi da sole. Donne, insomma, che non sono nemmeno la metà della mela, ma forse solo un quarto. Il resto, ovviamente lo fa l’uomo: è l’uomo che le vuole, le cerca, le trova, le sceglie e le sposa. Ma, soprattutto, le salva.

Ecco alcuni passaggi del monologo di Cortellesi: «Siamo sicuri che se Biancaneve fosse stata una cozza il cacciatore l’avrebbe salvata lo stesso?. Perché il principe ha bisogno di una scarpetta per riconoscere Cenerentola, non poteva guardarla in faccia?». E ancora: «Biancaneve faceva la colf ai sette nani». L’attrice e regista, in altre parole, ha parlato della necessità di riconoscere i luoghi comuni e gli stereotipi che hanno costruito la cultura maschilista e patriarcale in Italia.

Il fatto che Cortellesi abbia pienamente ragione e abbia colto nel segno, lo dimostra la reazione di alcuni uomini piccoli, evidentemente spaventati e minacciati dalle parole dell’attrice. Cruciani, ad esempio, ha definito il discorso di Cortellesi una «puttanata colossale». Non solo: come spesso fanno certi uomini, ha tentato anche di depotenziarla e delegittimarla, presentandola come «Paola Cortellesi, famosa attrice, regista, forse produttrice… ormai tutti fanno tutto».

Sì, caro Cruciani, Cortellesi fa tutto e lo fa anche molto bene. Ed è una donna, anche se questo fatto ti infastidisce tanto. Una donna libera, per la precisione.

#donnapop #paolacortellesi #ceancoradomani #cruciani #sessismo #biancaneve

Lea Melandri

Paola Cortellesi alla Luiss

Ma come si fa a impiantare una polemica sul “genere” delle favole a partire da un discorso che ha l’intelligenza critica, ma anche l’ironia e la leggerezza di Paola Cortellesi, le qualità che hanno fatto tanto apprezzare il suo film? Se abbiamo riconosciuto a Carla Lonzi il coraggio di dire “Sputiamo su Hegel”, perché dovremmo toglierci il piacere di farci una risata su Cenerentola, Biancaneve, le loro malvagie matrigne, i loro principi evanescenti? Purtroppo non stiamo solo perdendo il pensiero critico, ma anche il senso liberatorio della comicità. Al grande successo di pubblico del film della Cortellesi non ha contribuito solo il tema purtroppo sempre attuale della violenza domestica ma il fatto di averlo affrontato con la distanza necessaria per mostrarne l’aspetto grottesco, avvilente e risibile al medesimo tempo.

Grazie Paola Cortellesi.

Ecco finalmente il discorso integrale di Paola Cortellesi alla Luiss.

Grazie a Paola Casella per la segnalazione.

Due giorni di polemiche inutili.

https://tg24.sky.it/spettacolo/2024/01/15/paola-cortellesi-monologo-luiss

SUL DIBATTITO INTORNO AL PATRIARCATO

8 marzo

Le recenti riflessioni di Massimo Cacciari sul patriarcato stanno facendo discutere. Le argomentazioni del filosofo sono bizzarre e cervellotiche, ma comunque contengono spunti con i quali la discussione è possibile, a differenza di molti altri interventi maschili, perlopiù giornalistici, che oscillano fra ignoranza, dileggio e, passando per il sarcasmo, sfiorano nei casi più efferati un linguaggio che è istigazione a delinquere.

A Cacciari ha risposto Nicola Fanizza nel brano qui di seguito che getta uno sguardo su diversi altri problemi:

Quando Cacciari dice che il Patriarcato è finito con l’avvento del Rinascimento si sbaglia. Di fatto, nel XV secolo, cominciò ad affermarsi la famiglia mononucleare – composta dai soli genitori e figli – in luogo del Patriarcato o famiglia allargata. Lo sviluppo dello spazio sociale divenne il fuoco da cui si originò il Rinascimento, che va inteso come rinascita del soggetto, di un soggetto che dice il vero.

Così, a partire da quel periodo, il soggetto che dice il vero, però, non sarà più, a differenza di quando avveniva nel mondo ellenico, solo l’uomo bensì anche la donna. Non è un caso che quest’ultima, come Sibilla, venga rappresentata dai pittori del tempo non più come un viatico, come ciò che agevola il transito dell’uomo verso la verità, bensì come una donna che pensa, come una donna che dubita, come una donna che dice il vero. Insomma come un soggetto autonomo.

Fu, tuttavia, solo l’inizio. Il Rinascimento – e questo Cacciari non l’ ha capito, è stato e si configura ancora oggi come un’onda lunga, un onda che non si è ancora esaurita. Il Patriarcato, infatti, esiste tutt’ora, è onnipervasivo, pervade e avvelena ancora lo spazio sociale, impedendo alle donne di pervenire alla loro autonomia, alla loro libertà.

A questo intervento sono seguiti altri commenti che si trovano sulla mia pagina facebook: tutti contengono riflessioni importanti e a quelli rimando.

Adele Cambria, in un’intervista di alcuni anni fa e riproposta di recente a Radio Popolare sosteneva che se si parla solo di patriarcato senza aggiungere che esso è in crisi in tutto il mondo, si rischia di cogliere solo un aspetto della realtà attuale e neppure il più importante. Dall’Iran agli Stati uniti, dalle manifestazioni in Europa e anche in America latina, dove le associazioni femminili delle comunità indigene svolgono un ruolo di primo piano anche nel mettere in discussione la natura patriarcale di governi apparentemente progressisti come era quello di Evo Morales.

Il dominio maschile assume in tale contesto caratteristiche nuove: in Italia, una minoranza di uomini, di cui molti giovani, che si muovono come un’avanguardia acefala dentro un mare di complicità indirette, pretende di esercitare un dominio basato solo sulla violenza fisica e la forza; ma non si tratta del ritorno all’orda primitiva come sostiene una parte della cultura di destra, ma di una reazione violenta alla perdita di autorevolezza, potere e privilegi.

Si aprono qui due problemi a mio avviso: uno riguarda la cultura più reazionaria e di destra che sostiene che il patriarcato non esiste più e che trova svariati echi anche in atri settori dell’opinione pubblica. Il contrasto a questa deriva che è mondiale anch’essa nelle diverse forme che assume, rimane fondamentale, ma a patto che si ragioni sui limiti della cultura democratica e di sinistra. Il femminicidio di Giulia Cecchettin segna a mio avviso in Italia una svolta importante anche nella consapevolezza maschile e questo è testimoniato da livore con cui la parte più reazionaria sta reagendo; ma il problema principale rimane l’altro e cioè i limiti della risposta democratica e di sinistra.  

Alisa Del Re sul Manifesto del 2 dicembre scorso ha pubblicato un articolo che – a mio avviso – ha un inizio davvero singolare, Cari compagni. La prima cosa che ho pensato è stata: ma a chi si rivolge? Perché se si tratta di un modo di ritornare al conflitto degli anni ’70 che vide a un certo punto la sinistra extraparlamentare di allora entrare in rotta di collisione con i nascenti femminismi, il titolo ha un senso perché quelli compagni lo erano, nel senso che ragionavano almeno in termini anticapitalistici. Compagni oggi che cosa vuole dire? C’è qualcuno che ragiona in termini anticapitalistici? Ho pensato allora che fosse un modo di tendere la mano: finalmente avete capito gli errori di allora e si può tornare a ragionare insieme su qualcosa. La strada è certamente questa, ma il problema sta nel fatto che se si parla a quella generazione, che è anche la mia, si rischia di rimanere confinati nella nostra memoria, legittima, ma poco capace di intercettare le giovani generazioni. L’anticapitalismo, per le ragioni più diverse, sembra fuori dalle agende di tutti i movimenti che tutt’al più si limitano a criticarne gli aspetti più feroci. E laddove sembra esistere ancora, per esempio fra i gruppi iper leninisti, ma senza Lenin, esso si traduce in pratiche oscillanti fra il grottesco e il drammatico. Il problema però rimane: come coniugare nei termini oggi attuali un percorso che sia anticapitalistico ma con l’agenda femminista? Come coniugare diritti sociali e diritti civili? Alcune indicazione nel finale dell’intervento di Alisa Del Re ci sono e per quanto riguarda il ruolo che gli uomini possono avere è a mio avviso il solito, fatto di poche cose: rifiuto delle complicità indiretta, rifiuto del linguaggio sessista anche a costo di rompere relazioni, evitare le cene maschili basate sul pecoreccio, un po’ di fantasia e di immaginazione nell’inventare momenti collettivi di riflessione e testimonianza.

NIENTE SILENZIO, FARE RUMORE

Black Monday in Polonia

Premessa

Il femminicidio di Giulia Cecchettin sta suscitando un dibattito che è il sintomo di una società profondamente malata. Lo sapevamo già, ma ci sono momenti in cui avvengono dei salti di qualità e credo che in questo abbia influito anche la recente diffusione e ancor più il successo di massa del film di Paola Cortellesi C’è ancora domani.

Il dibattito.  

Il profluvio di analisi psicologiche e di autoflagellazioni maschili da cui siamo invasi trascura quasi sempre le ragioni strutturali e patriarcali della violenza maschile sulle donne, la cui estensione per età a maschi sempre più giovani chiama in causa tutto il processo educativo.

Mi sembra siano tre le mistificazioni più importanti, di cui una nuova particolarmente pericolosa, perché fatta propria anche da intellettuali non reazionari. La riassumo in poche parole così:

Il patriarcato ha delle regole, mentre quello cui stiamo assistendo è un ritorno all’orda primitiva maschile pre patriarcale. La sintesi: meglio il patriarcato che è pur sempre – specialmente in Europa aggiunge qualcuno – un mondo di regole in cui vi è spazio anche per i diritti delle donne.

Questa sintesi contiene un falso e molte mistificazioni. Scambiare per realtà la fiction antropologica di Freud sull’orda primitiva trasporta in un passato arcaico e originario un processo contemporaneo che ha tutt’altre motivazioni. Quanto alla fiction in sé, le acquisizioni recenti della paleo antropologia dovrebbero consigliare almeno la prudenza quando si fanno certe ipotesi. Mi sembra importante, a questo proposito, la lettura di un libro come L’alba di tutto di David Graeber e David Wengrow. I processi di imbestiamento (anche linguistico, come si evince leggendo certi articoli della destra più feroce) di una parte del mondo maschile sono un fenomeno modernissimo e rappresentano l’aspetto più appariscente di una reazione ben più vasta, che ha declinazioni diverse in contesti diversi ma una causa comune: reagire con violenza ai processi di liberazione delle donne. Faccio alcuni esempi che sembrano in apparenza lontani da noi. A vedere certe fotografie afgane degli anni ’50 e ’60 c’è da rimanere allibiti: donne che frequentavano l’università, abiti per nulla velati ecc. Com’è possibile? Sono sempre esistite delle minoranze emancipate anche in contesti di regole patriarcali severe, ma a un  patto e cioè che si trattava di privilegi concessi a minoranze. Le cose sono cominciate a cambiare quando la massa delle donne ha rivendicato i propri diritti. Le repressioni di parte islamica più forti sono avvenute laddove le donne erano state protagoniste: le algerine, per esempio, che avevano partecipato in massa alla lotta di liberazione contro la Francia. In sostanza, se non ci si ribella, c’è sempre una minoranza emancipata che può farcela. Mutatis mutandis è quanto avviene oggi in Italia seppure in forme meno efferate ma altrettanto violente. Chi afferma che il patriarcato è un mondo di regole, dice in realtà un’altra cosa: state al vostro posto e qualcosa vi verrà concesso. Oppure ancor meglio – come accade nel film di Paola Cortellesi: devi stare zitta, ripete ossessivamente il personaggio più odioso del film, il nonno.    

La seconda mistificazione mescola insieme elementi psicologici arrivando in qualche caso a definire Filippo Turetta – alternativamente – un malato o un bravo ragazzo. La sintesi è la condanna del delitto ma la negazione del femminicidio. Si punisce al massimo il crimine individuale, ma si negano le ragioni strutturali. Come ha scritto Elena Cecchettin, la sorella di Giulia, Turetta non è un malato ma un figlio sano del patriarcato. La fragilità maschile esiste eccome, ma invocarla in circostanze come queste non significa voler fare i conti con essa, ma cercare delle giustificazioni. In ogni caso, a chi volesse davvero uscire dal modello virilista e confrontarsi seriamente con la propria fragilità, consiglio per l’ennesima volta di leggere il libro di Edoardo Albinati: La scuola cattolica.

La terza mistificazione, di cui sono responsabili prima di tutto le forze di destra, sono i discorsi generici sull’educazione al rispetto, il piano presentato oggi dal Ministro, un guazzabuglio di false buone intenzioni. La versione leghista delle medesime false buone intenzioni consiste nell’affidare tutto alla famiglia. Sappiamo da tempo dalle statistiche che è nelle famiglie che si consumano le violenze di genere più diffuse. La famiglia non è mai stata un luogo idillico, ma non lo è neppure nella versione hollyvoodiana che viene veicolata da fiction statunitensi come Modern family, riverniciate di modernità e di ammiccamenti al mondo LGBTQ. Il familismo italiano, inoltre, ha un bagaglio assai pesante sulle proprie spalle, che non è patrimonio soltanto della cultura di destra, ma deriva anche dalla cesura che negli anni ’70 si produsse fra la sinistra vecchia e nuova e il femminismo. Andare avanti su una strada minimamente consapevole è togliere queste problematiche dall’ambito privato e familista e riportarle nello spazio pubblico, con lotte mirate e determinate per aumentare e sostenere i centri antiviolenza autogestiti, promuovere e consultori presidi territoriali, far funzionare reti di supporto che favoriscano le denunce.

Il film.

La pellicola di Paola Cortellesi merita un discorso critico importante perché si tratta di un film molto significativo e non solo di un’opera che ha saputo parlare a una platea molto vasta e mi piace pensare che l’ondata di sdegno seguita al femminicidio di Giulia Cecchettin ma anche certi discorsi che si smarcano dai dibattiti più penosi, siano anche il segno che questo film ha seminato una consapevolezza importante in un pubblico vasto, trasversale e non soltanto femminile. Tre mi sembrano i motivi forti della sua narrazione e del montaggio: la capacità di giocare con tutti i cliché che il tema poteva suggerire riuscendo, con alcune mosse spiazzanti, a evitarli tutti ma sempre all’ultimo momento. Dall’uso del bianco e nero, al neorealismo, dalla finzione di far credere a chi vede il film che forse la fuga di Delia sarà con il vecchio carrozziere verso il nord mentre invece quando corre per recarsi al voto e passa davanti alla sua autofficina non si volta neppure verso di essa perché ha da fare qualcosa di molto più importante. Il secondo aspetto è il modo in cui le scene di violenza, solo accennate, si coniugano a un linguaggio musicale che scimmiotta quanto di più ipocrita si nasconde dietro il sogno d’amore. Infine, ma senza rivelare cosa accade per non togliere il gusto di vederlo a chi il film non lo ancora visto, il modo geniale in cui Delia manda all’aria il matrimonio della figlia sfruttando la violenza che il mondo maschile esercita su di loro e rivolgendogliela contro. Quanto all’ambientazione del ’46 e dunque nell’Italia della scelta fra monarchia e repubblica, non condivido quelle critiche che ne fanno una scelta poco comprensibile. Non le condivido perché Cortellesi non parla affatto del 1946 e ancora una volta gioca con il cliché per poi smarcarsi dal medesimo. Il film metabolizza il femminismo ma lo fa in modo traslato: una scena come quella in cui Delia affossa il matrimonio della figlia sarebbe impensabile senza gli anni ’70. Il 1946 è il dito che mostra la luna, il suo film non è il sogno di una cosa del passato (il voto alle donne), ma evoca un domani che ancora non c’è.

Qualche proposta.

La prima

Niente minuti di silenzio ma molto rumore, continuo e possibilmente sempre più forte. Questa mi sembra la prima cosa da dire e fare anche per essere vicini a Elena Cecchettin, che si è esposta con dichiarazioni molto forti.

La seconda

La mobilitazione degli uomini e le sue forme. In passato ho espresso perplessità su manifestazioni di massa di uomini che si sono tradotte in poche iniziative con molte contraddizioni. Tuttavia, l’intervista di Ciccone a Radiopopolare di qualche giorno fa mi sembra importante e quindi se arrivano proposte ben vengano: meglio se sono diffuse sul territorio. Continuo però a pensare che la rottura di complicità indirette con il gruppo maschile sia il modo per far venir meno la solidarietà fra maschi: le cene di soli uomini dove il pecoreccio è dietro l’angolo sono da evitare sempre.

La terza

Utilizzare il libro di Albinati La scuola cattolica per letture pubbliche non stop che continuino per ore, alternandosi al microfono con commenti e altro. Si può fare in teatri, in situazioni di massa o anche più modeste quantitativamente ma diffuse nel territorio.

La quarta

Boicottare in modo sistematico quei prodotti che veicolano messaggi sessisti – sia in forma diretta sia indiretta – nella loro pubblicità. Rispondo all’obiezione sulla impossibilità di farlo, vista il largo uso di pubblicità sessiste, che alcune esperienze fatte altrove invece smentiscono tale impossibilità. Non si tratta di boicottare tutto, ma di scegliere di volta in volta uno o due prodotti e bandirli per un periodo sufficientemente lungo per fare danni. Non bisogna dimenticare che quello da cui siamo oppressi è pur sempre una combinazione di patriarcato e capitalismo e che ciò che spaventa i maschi al governo di tutte le colorazioni politiche è la possibilità di interrompere il flusso delle merci. Altrimenti, anche la denuncia del sessismo nella pubblicità rimane confinato nell’ambito delle opzioni morali senza alcuna conseguenza politica.

GRAND TOUR: IL CASENTINO E LA VALLE TIBERINA

Castello di Poppi

Nell’attraversare la Toscana in questo nuovo viaggio mi ritrovo a pensare che in Italia esistono luoghi che nel tempo hanno conosciuto maggiore o minore fama, senza che ciò implichi una minorità dal punto di vista architettonico, paesaggistico e artistico. Insomma, la provincia italiana non tradisce mai e il Casentino non fa eccezione. Per descriverlo da un punto di vista geografico parto da Arezzo, che costituisce una sorta di baluardo e confine a sud. Dalla città si snoda una lunga strada diritta che percorre una vallata che fiancheggia l’Arno, dove s’incontrano i paesi bassi o appena collinari: Subbiano, Bibbiena, Pratovecchio e Stia dove il Casentino finisce e la strada si protende in due diverse direzione: il Mugello, oppure il salto verso la Romagna in due diverse direzioni, Cesena e Forlì. In questo giro ci sono stati due sconfinamenti, sempre in provincia di Arezzo: Anghiari nella valle tiberina toscana e Monterchi. I paesi alti sono poco abitati e questa caratteristica regionale dell’intera Toscana, si ripropone qui in termini ancora più vistosi. Il silenzio è sovrano, a parte la strada a valle, dove il traffico è più intenso ma senza alcuna frenesia.

Nella zona imperversano molte sagre fra cui numerose quelle della polenta. Certo, siamo in settembre … ma ci sono più di 30 gradi; i cambiamenti climatici non sembrano entrare nell’orizzonte tematico degli organizzatori e anche questo è un segno dei tempi. Queste sagre ci riportano indietro negli anni, la Toscana fu uno dei primi luoghi che visitammo insieme Laura ed io. È passato molto tempo da allora e tanto altro. Questo viaggio è segnato dai ricordi e anche dalla tristezza: ci sono presenze e assenze fra di noi. Alla fine optiamo per la sagra di Subbiano, che ricorda le vecchie feste dell’Unità e delle case del popolo, dove andavano sempre in estate durante i nostri soggiorni a Massa Marittima: anche per Nicola e Ulisse erano appuntamenti assai gradevoli. Il clima però è solo apparentemente lo stesso. I volti sono i medesimi, ma più smarriti e anonimi. Il dato più vistoso però è l’assenza di ogni richiamo politico. È rimasta la festa, senza più neppure la consapevolezza che un tempo era la politica a unire come un collante di valori e a darle quel profumo che oggi non si avverte più. Né arcaica, né moderna, né proletaria, né borghese.

L’escursione a Monterchi aveva uno scopo preciso: vedere La madonna del Parto di Piero della Francesca. L’installazione si trova in un museo molto bene allestito e non troppo frequentato. Si paga un ingresso del tutto congruo per le notevoli risorse tecnologiche del museo, che permettono una visione del quadro in ogni dettaglio possibile. Piero è il trionfo della compostezza, della razionalità delle linee, della sezione aurea, dell’equilibrio che porterà in pieno Rinascimento alle opere pittoriche e architettoniche più celebrate di Raffaello e di Bernini. Che dire però di tale compostezza? L’ammirazione, per quanto mi riguarda, non riesce del tutto a superare il disagio della perfezione. La memoria va allora ai versi di Pound, più precisamente al Canto dell’Usura dove abbondano le metafore pittoriche e linguistiche. Queste ultime rimandano al medioevo e infatti l’inglese che il poeta usa è quello arcaico e anche per quanto riguarda la pittura predominano figure apparentemente minori come Pietro Lombardo, oppure appartenenti al primo Umanesimo, mentre il poeta sembra tenersi lontano dal pieno Rinascimento. Tuttavia, Piero è citato nel testo e sembra una nota stonata: cosa ci fa tutta quella perfezione in un testo cupo e governato da un senso di sventura? Il poeta lo cita come esempio di una pittura che stride con la pratica dell’usura, ma storicamente è proprio il contrario. È il paradosso di Pound, che insegue un Cristianesimo delle origini senza rendersi conto che dall’invenzione del Purgatorio in poi quel mondo era finito ed era il mecenatismo dei Papi, nutrito dal traffico delle indulgenze, a rivestire le cattedrali di opere come quelle di Piero e altri.

Ritroviamo una eco di quel Cristianesimo arcaico a Chiusi della Verna e specialmente all’eremo di Camaldoli. Ci eravamo stati molti anni fa e quella volta Laura ed io riuscimmo persino a parlare affabilmente con uno dei monaci. Erano tempi di apertura e i monasteri offrivano celle a chi voleva trascorrere un periodo di vacanza e meditazione anche per non credenti. Da una rapida ricerca vedo che tutto questo è ancora possibile, seppure con regole più stringenti, ma anche con l’offerta di corsi di yoga e vari tipi di meditazione. Nell’elenco dei monasteri aperti, però, ritrovo la Verna, ma non Camaldoli. La dimensione eremitica è più accentuata in quest’ultimo, mentre nel primo prevale di gran lunga uno degli aspetti del francescanesimo: la convivialità comunitaria, sobria, a tratti severa, ma pur sempre comunità. Qualcosa della severità di entrambi luoghi mi ha ricordato pure Viterbo, anch’essa una città dove i fasti di un Cristianesimo alto medioevale sembrano ancora relativamente intatti.

L’Italia è piena di castelli e anche in questo il Casentino non fa eccezione. Lo stato di conservazione del borgo medioevale e relativo castello di Poppi è invidiabile, un vero gioiello. Il castello è di proprietà dei Conti Guidi, una delle tante famiglie nobiliari italiane, meno paludata di altre, ma il cui lascito è davvero prezioso. La loro storia affonda le radici nelle mille contese altomedioevali, sempre difficili da ricostruire; ma per questo trovo assai esauriente l’opuscolo davvero pregevole messo a punto dal ministero dei beni culturali: un’altra meritoria impresa è la fondazione dell’ecomuseo del casentino con il coinvolgimento delle amministrazioni locali e la pubblicazione dell’opuscolo illustrativo, altrettanto prezioso.

Vale la pena di notare come i Guidi fossero dalla parte ghibellina e una particolare menzione merita allora il busto di Dante conservato nel castello e che depone a favore dei famosi versi di Foscolo indirizzati al poeta, ghibellin fuggiasco. Lo stato di conservazione del castello è il frutto di un’attenzione che si è tramandata per generazioni e che è arrivata fino a noi grazie anche alla politica del Granducato e poi del Ministero. Basti pensare che nella torre del castello si svolsero i primi esperimenti di parafulmini in Italia.

Anghiari ha un fascino un po’ diverso rispetto alle altre località. Il luogo ha una bellezza del tutto particolare, con una via centrale scoscesa, a cui lati ci sono locali e negozi. Da lì si può ammirare la vallata. Anghiari è tante cose, ma lascio per ultima la famosa battaglia perché in fondo la sua notorietà recente ci riporta a tempi assai prossimi e a un’idea ambiziosa e originale proposta da Duccio Demetrio e ripresa da altri studiosi e associazioni fra cui il gruppo Abele: Il progetto autobiografia, che proprio in Anghiari ha il suo centro più importante di iniziative e documentazione. Tale idea s’inseriva in un discorso più ampio che riguarda la microstoria, cioè una memorialistica che farebbe la gioia di Walter Benjamin nel senso che ricalca un modo di fare storiografia da parte dei cronisti medioevali che nel limite del possibile non distinguevano fra gradi e piccoli eventi ma registravano quanto più possibile nei loro scritti. Il progetto autobiografia non è dunque semplicemente la ricostruzione memorialistica di vite comuni da parte degli stessi protagonisti che la scrivono e non è neppure un prendersi cura di se stessi, ma diventa un momento della storia antropologica e del costume di un epoca o di una comunità. Negli stessi anni e cioè nel passaggio di millennio, ricordo alcune delle riviste – di impronta più marcatamente storica – che svolgevano la stessa funzione di memorialistica locale: per esempio Altro che Mestre. Nel tempo forse questi progetti si sono un po’ arenati, forse per un eccesso di dispersione, ma la possibilità di una memorialistica storica che filtra i grandi eventi facendoli passare per le vicende di singoli e comunità, mi sembra iscriversi in quel grande progetto degli Annales, che conferma nel tempo la sua grande vitalità.

Infine, il Museo della battaglia: molto dettagliato, con riproduzioni dei vari schieramenti e tutto quello che ne consegue. La sensazione che provo di fronte a queste ricostruzione è che, pur ben fatte e con dispendio di strumentazioni tecnologiche sempre più raffinate, alla fine sono tutte uguali e molto spesso indicano che chi intraprende una guerra di solito la perde. Perché allora?  

Il viaggio volge al termine e il pensiero ritorna alla provincia italiana che non tradisce mai ma è pure il luogo in cui meglio di qualsiasi altro la nostra vita italica precipita in caduta libera nell’oblio. Se nell’Odissea la terra dei Lotofagi era circoscritta in un’isola, le micro regioni italiane svolgono la medesima funzione su larga scala. Si smarrisce il tempo in questi luoghi, tutto appare attutito e lontano. È la stessa atmosfera che mi parve di cogliere a Venezia nella parte lagunare più estrema e lontana dall’eccesso turistico: il Lido degli Alberoni e la frazione di Malamocco. Del resto lo abbiamo sperimentato in questi giorni. L’intuizione quanto mai preziosa di Ulisse che ha pensato di portare con sé le carte da gioco, ha permesso di fare tardi la sera fra buona cucina, conversazione rilassata, niente televisione, poca radio e silenzio. La sensazione è di essere stati per una settimana nella vita postuma di luoghi che avendo avuto troppo nel loro passato, sono rimasti alla fine immobili in quello che ne era rimasto. Forse la medesima esperienza la provarono gli abitanti di Troia e di Cartagine che sopravvissero ai fasti precedenti e alle successive distruzioni. Rimasero lì dove erano, rifiutando di andarsene chissà dove a inseguire nuove idee di grandezza … poi, si dimenticarono di tutto.

Camaldoli

 LE TESI SULLA STORIA: SECONDA PARTE

Viktor Vasnetsov, I quattro cavalieri dell’Apocalisse, 1887

Introduzione

Questa seconda e ultima parte dedicata alle Tesi sulla storia mette a dura prova, perché in essa Benjamin tenta la strada impervia di mantenere viva la debole luce della speranza nel momento più buio della storia europea del secolo scorso. La convinzione che queste fossero le sue intenzioni deve passare tuttavia da ben due forche caudine: la prima è che si tratta pur sempre di un’interpretazione a posteriori su un testo che probabilmente Benjamin avrebbe ulteriormente modificato, la seconda – ancor più sibillina – è che se una debole speranza vuole essere salvata nell’oggi necessita di essere attualizzata. Il farlo, però, non può essere affidato semplicemente a un pensiero ma a una prassi che va reinventata, lontana da pratiche politiche precedenti, dalle quali non possiamo aspettarci più nulla.

L’UTOPIA CONCRETA COME SPERANZA

Friederich Schelegel: Der Historiker is ein rückwärtsgekehter Prophet  (Lo storico è un profeta rivolto all’indietro).

Possiamo ripartire dalla paradossale citazione di Fourier e attualizzandola, porci una domanda: esistono nella nostra contemporaneità equivalenti delle sane fantasticherie  di cui parla Benjamin?

Nella parte finale della dodicesima tesi e in quella della seconda Benjamin pone il problema in questo modo:

“[…] esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra. Allora noi siamo stati attesi sulla terra. Allora a noi, come a ogni altra generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una debole forza messianica, a cui il passato ha diritto. Questo diritto non si può eludere a poco prezzo. Il materialista storico ne sa qualcosa.

Ci sono tre nodi importanti in questo passaggio. Il primo lo abbiamo già incontrato: sono le generazioni passate e non quelle future che richiedono di essere riscattate e che affidano a noi e si aspettano da noi che ci adoperiamo in quel senso. La forza che ci hanno affidato con il loro esempio è debole e messianica e su questi due termini sarà necessario ragionare a lungo perché l’ossimoro è assai intrigante. Il terzo nodo riguarda il materialismo storico, rispetto al quale occorre cercare di risolvere una volta per tutte la contraddizione vistosa presente nell’uso di tale espressione; cioè che in alcuni casi essa è usata in senso negativo in altre positivo.

Nel parlare di una forza debole Benjamin prende di nuovo le distanze dal modello eroico: è un tema che compare anche nel saggio del ’39 sul teatro epico. Non vi è alcuna forma di titanismo nell’idea di lotta di cui Benjamin si fa portatore, né nella sua versione romantica e neppure in quella positivista di cui si è già detto. Perché messianica allora? Perché la possibilità di agire ha un limite temporale per qualunque generazione, ma l’orizzonte di tale azione si colloca oltre perché non può che essere orientato a riscattare tutta la storia, come afferma la terza Tesi, in parte già citata:

Il cronista che racconta gli avvenimenti, senza distinguere fra grandi e piccoli, tiene conto della verità che per la storia nulla di ciò che è avvenuto deve essere mai dato per perso. Certo, solo a un’umanità redenta, tocca in eredità piena il suo passato. Il che vuol dire: solo a una umanità redenta il passato è divenuto citabile in ciascuno dei suoi momenti. Ognuno dei suoi attimi vissuti diventa una citacion a l’ordre du jour – giorno che è appunto il giorno del giudizio.

Dunque l’orizzonte appartiene al messianico perché eccede la storicità, mentre la forza è debole perché può essere adoperata in un tempo che è segnato dal limite. Tuttavia, non si può rinunciare all’orizzonte più lontano, altrimenti ci si accontenta di riscatti parziali. Avrebbe potuto scrivere utopico invece che messianico? In teoria sì, ma se ricostruiamo passo dopo passo il pensiero di Benjamin, l’uso del termine appare alla fine necessario. Lo si comprende meglio considerando altre due tesi che ci traghetteranno verso una delle due finali, aggiunte all’ultimo momento.

Tesi quinta, nella traduzione di Einaudi. Nel ‘Manuskript Arendt’ è la tesi n. 4.

La vera immagine del passato passa di sfuggita. Solo nell’immagine, che balena una volta per tutte  proprio nell’attimo della sua conoscibilità, si lascia fissare il passato. […] Poiché è un’immagine non revocabile del passato quella che rischia di svanire con ogni presente che non si riconosca significato, indicato in esso. (La lieta novella che lo storico del passato porta senza respiro, viene da una bocca che forse, già nel momento in cui si apre, parla nel vuoto).

Per vera immagine (wahre Bild) egli intende quella che ci rivela qualcosa che rompe il continuum storicista: è l’immagine che colpisce gli occhi (Augenblick) e come tale guizza via (huscht vorbei). Vero, non va dunque assunto qui nel suo significato letterale, ma in quello di esemplare ed emblematico. Tale immagine rischia di scomparire se non trova significato nel presente, cioè se non trova qualcuno che la salvi dall’oblio e ne riconosca il senso nell’oggi. La chiusa fra parentesi ribadisce in altro modo che si tratta di un’immagine appena vista e che scompare, come i sogni al mattino; oppure una voce che parla nel vuoto o nel deserto.

La sesta Tesi ribadisce la quinta aggiungendovi qualcosa in più:

Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo proprio come è stato davvero. Vuole dire impossessarsi di un ricordo così come balena in un attimo di pericolo. Per il materialista storico l’importante è trattenere un’immagine del passato nel modo in cui s’impone imprevisto nell’attimo del pericolo, che minaccia tanto l’esistenza stessa della tradizione quanto i suoi destinatari […]. In ogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di soggiogarla […].

Arriviamo così alla Diciassette A, una tesi molto complessa: essa è riportata solo nell’edizione tratta dal quaderno 3 de L’ospite ingrato pubblicata da Quodlibet, che ne ricostruisce anche la genesi.  

Nell’idea della società senza classi Marx ha secolarizzato l’idea del tempo messianico; ed era giusto così.”10

Tale incipit ci permette di capire il senso dell’espressione materialismo storico quando Benjamin ne scrive positivamente11 ; ma ancor più permette di comprendere la necessità di usare il termine messianico e non utopico. All’incipit perentorio di cui sopra segue una reiterata critica alla socialdemocrazia che abbiamo già visto più volte e che riprendo solo per una notazione ironica e tuttavia assai significativa, perché si estende a ogni idea di progressismo basata sulla freccia del tempo, nonché al suo corollario e cioè l’attesa di un secondo tempo che non arriva mai

 “[…] Una volta definita la società senza classi come un compito infinito, il tempo omogeneo e vuoto […] si trasformò in un’anticamera nella quale si poteva attendere […]”.

Così prosegue:

In realtà non vi è un solo attimo che non rechi con sé la propria chance rivoluzionaria.  Essa richiede soltanto di essere intesa come una chance specifica, ossia come chance di una soluzione del tutto nuova, prescritta da un compito del tutto nuovo. Per il pensatore rivoluzionario la peculiare chance rivoluzionaria trae conferma da una data situazione politica. Ma per lui non trae minor conferma dal potere delle chiavi che un attimo possiede su una […] stanza del passato, fino ad allora chiusa. L’ingresso in questa stanza coincide del tutto con l’azione politica: ed è ciò per cui essa, per quanto distruttiva possa essere, si dà come azione messianica.

La novità di questo passaggio, pur nei suoi tratti faticosamente risolti, sta nel raccogliere un’ipotesi che altri avevano già formulato su Marx, ma dandole un senso completamente diverso.12 Il Marx di Benjamin ha effettivamente secolarizzato il tempo messianico e per questa ragione non avrebbe potuto usare un termine come utopico. Non solo, ma per il filosofo era giusto così . Mi servirò allora di un’analogia con il cristianesimo. Pensando al tempo messianico, Gesù per i cristiani è colui che afferma: sono io quello che attendevate. Dunque l’incarnazione della divinità e tutto ciò che ne consegue, compresi i rimandi alle scritture che avrebbero profetizzato il suo arrivo. Il Marx di Benjamin risponde in modo categorico a una diversa domanda che si potrebbe formulare così: Quando sarà il tempo dei profeti? Adesso, qui e ora. La tesi B ci permette di capire in tutte le sue sfaccettature il retroterra ebraico di questa soluzione.

Tesi B traduzione da L’ospite ingrato. Nella traduzione di Einaudi è nominata come tesi 18 A e B.

Il tempo che gli indovini interrogavano  […] da loro non era certo sperimentato né come omogeneo né come vuoto. Chi tiene presente questo forse giunge a farsi un’idea di come il tempo passato è stato sperimentato nella rammemorazione e cioè proprio così. È noto che agli ebrei era vietato investigare il futuro. La Torah e la preghiera li istruiscono invece alla rammemorazione. Cioè liberava per loro dall’incantesimo il futuro, quel futuro di cui sono succubi quando cercano il responso o di presso gli indovini. Ma non perciò il tempo diventò per gli ebrei un tempo omogeneo e vuoto, perché in esso ogni secondo era la piccola porta attraverso la quale poteva entrare il Messia.

Alcuni spunti conclusivi e qualche fantasticheria

Di fronte a questi esiti della riflessione la critica ha storto il naso rimproverandogli in sostanza di non saper scegliere fra una visione laica della storia e una messianico-religiosa: è la stessa critica rivolta a Ernst Bloch, che Benjamin cita spesso. Il saggio di Renato Solmi dell’Angelus Novus einaudiano insiste su questo  punto; più neutri e non  così netti nel giudizio i saggi di Bonola per L’Ospite ingrato e quello di Fabrizio Desideri sul testo di Einaudi. Tale critica, che poteva essere rivolta con qualche ragione al Frammento teologico-politico del 1920, non mi sembra invece riferibile alle Tesi. La seconda critica mossa a Benjamin è di avere introdotto una dimensione catastrofica nella sua visione della storia, che è rappresentata in modo così potente nell’immagine dell’Angelo di Klee della Nona tesi. La prima considerazione, a proposito dell’ultima osservazione, è che tale critica, ancora comprensibile quando fu avanzata, è altrettanto improponibile oggi. Non vedere che il catastrofico è effettivamente entrato nelle nostre vite quotidiane diventa una forma di cecità che si manifesta in modi assai perniciosi: il complottismo prima di tutto, la ricerca di spiegazioni strane, magico-esoteriche e antiscientifiche.13

La doppia tenaglia patriarcato-capitalismo è più che sufficiente per comprendere le manifestazioni più estreme del clima, la distruzione dei sistemi sanitari e sociali, la ricorrente esplosione di epidemie su tempi brevi (Ebola, Aviaria, Sars, Covid-19), l’insostenibilità di sistemi sociali che hanno generato povertà e rivolte in tutto il mondo, infine nel ritorno delle guerre che si susseguono dalla 1991 a oggi con intensità sempre crescenti. A gettare allarmi sull’aggravarsi dei diversi scenari non sono state Cassandre improvvisate, né millenaristi d’occasione, ma scienziati e  commentatori politici che non avevano ancora spento il barlume del pensiero critico dalle teste, oppure sono venute dal pensiero femminista nelle sue diverse declinazioni. Queste voci non appartengono al mondo degli indovini – per citare Benjamin – ma a un bagaglio culturale e politico moderni di cui l’occidente è molto orgoglioso quando si tratta di gettarlo faccia alle altre culture, con atteggiamenti di superiorità neo coloniale sostenuta soltanto dagli apparati militari e niente altro.

Quanto alla dimensione messianica del discorso di Benjamin credo lo si possa accogliere in questo modo. La sua affermazione “Nell’idea della società senza classi Marx ha secolarizzato l’idea del tempo messianico” va presa alla lettera. Marx secolarizza effettivamente il tempo messianico e dunque lo riporta nella storia: ma è il tempo ebraico, non quello cristiano, che è sempre un rimando a un secondo tempo, a un dopo. Affermare che ogni istante può essere la porta in cui entra il Messia, non significa attenderlo, ma soltanto che il giorno del giudizio universale è sempre adesso e quindi sta nella storia e non alla fine dei tempi. Importante dunque è individuare quale sia la chance specifica del momento storico che si sta vivendo e siamo dunque del tutto nella storia. La parte più oscura di questa citazione lo diventa di meno se gli accostiamo quest’altra, potente e salvifica al tempo stesso:

Il dono di riattizzare nel passato la scintilla della speranza è presente solo in quello storico che è compenetrato dall’idea che neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di vincere.”        

Se sostituiamo alla parola storico, inteso come specialista, espressioni quali soggetti sociali che resistono e si pongono il problema di un nuovo orizzonte di senso, che il nemico sia il fascismo o un altro dei vincitori non ha alcuna importanza: è l’idea che neppure i morti sono salvi se non continuiamo a salvarli noi nel nostro presente, a nutrire l’indignazione e la resistenza.

Se questo è lo scenario quale fantasticherie possiamo coltivare per andare oltre la denuncia senza peraltro rinunciarvi? Le denunce continuano a essere necessarie e preziose, ma quello che sembra mancare del tutto è la volontà di lotta, oppure essa è dispersa in rivoli che non assomigliano a un’onda di piena ma uno spreco di acqua e di energia. Su tutto sembra sovrastare la rassegnazione che emerge sempre nelle chiacchiere che si fanno. Vado controcorrente e penso che tale rassegnazione non abbia soltanto un lato negativo ma che ne abbia due, di cui uno altamente positivo. Delusione e rassegnazione, quando vengono da sinistra, non sono solo quello che sembrano ma anche un voltare le spalle con indignato silenzio a pratiche politiche precedenti e a nauseabondi leader politici che si spacciano per quello che non sono e che hanno completamente abbandonato ogni idea di lotta e resistenza all’intreccio capitalistico patriarcale che sta portando ad esiti catastrofici. Permangono le loro dannose nomenclature che sono un fattore inquinante di ogni discorso politico. Voltare le spalle a tutto questo, togliere il più possibile consenso e spazio di manovra a queste nomenclature morenti è compiere quel gesto di distanziamento dalle consuetudini precedenti che Benjamin suggeriva di compiere dopo la firma del Patto scellerato Ribbentropp-Molotov.

Il passo successivo implica il darsi la possibilità di uscire dalla cecità guardando altrove: prima di tutto a pratiche già esistenti che in qualche caso fanno risuonare nella contemporaneità immagini antiche da salvare. Mi riferisco a tutta la riscoperta che anche in Italia si sta facendo – ma è un discorso mondiale – di società di muto soccorso, cooperative per il riciclo e il riuso: la parola cura può essere usata come sintesi di tutto questo. In secondo luogo, l’agenda femminista – uso un’espressione che è stata usata qualche anno fa e che mi sembra attuale più che mai – il sorgere di un movimento imponente contro le guerre in corso nonostante l’oscuramento mediatico di cui gode, le pratiche differenziate di chi si batte per una politica che contrasti i cambiamenti climatici di natura entropica, le nuove frontiere dei diritti LGBT plus. Certo, tutto questo agglomerato di sane fantasticherie attuali necessita di dialogo e di trovare un proprio linguaggio-gesto che non sia pretesa di sintesi ma piuttosto di costruzione di ponti e atolli di senso. L’ultima espressione in corsivo che ho usato non è neutra. Il primo a proporla diversi anni fa fu un pensatore fra i più anomali e oggi dimenticati della sinistra – quella sì radicale – di quegli anni: Furio Jesi.

Konstantin Gorbatov, La città invisibile di Kitezh, 1913


10 Benjamin introdusse questa tesi all’ultimo momento e infatti essa non si trova in tutte le traduzioni e non è presente nel manoscritto tedesco in possesso di Hanna Arendt. Tuttavia non vi è dubbio che l’intenzione fosse chiara: inserirla subito dopo la diciassettesima. La traduzione di cui mi sono avvalso con la nota che ne ricorda la genesi si trova in Walter Benjamin Testi e commenti, Quaderno N. 3 de ‘L’ospite ingrato’, Periodico del centro studi Franco Fortini, a cura e commento di Gianfranco Bonola, Quodlibet 2013, pp.97-9.

11 La mia ipotesi è che quando ne parla positivamente Benjamin intende per materialismo storico né più né meno che il pensiero di Marx e di Engels anche se il secondo non lo nomina qui, ma lo aveva nominato più volte nei saggi del ’36-37. Il filosofo non si spinge a introdurre una differenziazione linguistica, ma mi piace pensare che se fosse vissuto fino agli anni ’80 avrebbe accolto con favore la distinzione introdotta dal filosofo francese Maxmilien Hrubel che invitava a distinguere il marxismo, facendolo coincidere con l’esperienza del socialismo reale, dal pensiero di Marx. Fu lui a introdurre la categoria di marxiano per indicare chi si rifaceva a un Marx libero dai marxismi novecenteschi. Benjamin, ancora a ridosso degli eventi, rimase fedele a quel pensiero e alla Lega di Spartaco, ma era consapevole che per la sua generazione quel lume si era spento. Purtroppo ci sono vite, come la sua,  che sembrano rappresentare anche nella loro fine, la consapevolezza estrema con cui hanno vissuto.     

12 L’idea di Marx come profeta materialista, ma profeta e dunque profondamente nel solco della cultura ebraica non è nuova ma era stata sempre formulata per irridere o squalificare. Per i credenti, poi, l’ipotesi di un Marx profeta materialista poteva risultare addirittura blasfema. La famiglia Marx era di origine ebraica, il nonno era un rabbino, ma il padre, non credente come poi il figlio, aveva aderito al protestanesimo luterano per poter esercitare la sua professione e cioè l’avvocatura. In sostanza il milieu ebraico di Marx veniva rispolverato per ragioni negative e addirittura per imputargli anche una punta di antisemitismo, per alcune analisi contenute nel suo scritto giovanile sulla Questione ebraica.

13 La negazione del Covid, i deliri dei Quanon negli Stati Uniti, sono alcuni degli esempi più estremi di tale deriva.

LE TESI SULLA STORIA DI WALTER BENJAMIN

Una parte di questa riflessione è stata già pubblicata sulla rivista online Overleft (www.overleft.it), con il titolo La speranza possibile. Alla fine ho deciso di riproporlo qui nella sua forma più estesa e con alcune modifiche al fine di accorciare quelle parti che mi sono sembrate più datate rispetto al nostro presente e invece sviluppandone altre. Data la lunghezza del testo, lo pubblico in due puntate: la prima è la pars destruens della riflessione di Benjamin e si conclude con la celeberrima nona Tesi, quella in cui compare l’Angelo della storia e ha come riferimento un quadro di Klee.

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Premessa

I tragici tempi di guerra che stiamo vivendo, dopo due anni di pandemia che stanno già cadendo in un eccessivo oblio, sono assai simili a quelli che spinsero Benjamin a scrivere quest’opera, che si può considerare il suo testamento spirituale. Quello che mi ha sempre colpito di tale testo, nelle diverse riletture che ne ho fatto, è la capacità del suo autore di mantenere acceso un lume di pensiero critico, di sapienza del cuore e di speranza, nel momento più buio della storia del ‘900. Rileggere oggi quelle parole e meditarle può forse aiutarci a non cadere del tutto in un senso di impotenza che sembra sovrastarci senza alcuna via d’uscita.

Introduzione

Le tesi sulla storia sono un testo estremo, scritto di getto, eppure in sintonia con una riflessione che viene da lontano, lungamente elaborata e carsica, contraddittoria e oscura in alcune parti, di una densità magmatica, i cui prodromi risalgono molto indietro nel tempo e cioè alle discussioni con Ernst Bloch da cui nacque il Frammento teologico politico del 1920.

Gli eventi tragici del biennio 1939-40 offrirono a Benjamin il contesto per giungere a una sintesi di quel percorso che va ben oltre lo scritto del ‘20. Bisogna tuttavia considerare che egli si trovava in una condizione di disperazione personale e di isolamento in quel momento. Penso che se avesse avuto il tempo di rivederle, alcune oscurità avrebbe cercato di chiarirle e del resto che si tratti di un lavoro composto in uno stato febbrile lo dimostra il continuo cambiamento nell’ordine delle tesi e le due non numerate ma indicate come Tesi A e Tesi B, aggiunte per ultime. Per di più, le versioni diverse del testo e delle traduzioni rendono ancor più complesso avvicinarsi a quest’opera. Per tale ragione seguirò un mio ordine nel commentarle e non quello delle due traduzioni italiane cui faccio riferimento, peraltro diverse anch’esse nella numerazione. Per alcuni passaggi chiave farò ricorso anche all’originale in lingua tedesca. Per non appesantire la lettura con continui rimandi alle note, indicherò nel testo a quale traduzione mi riferisco, caso per caso.1   

Al grado zero della speranza

Dalla decima tesi. (traduzione einaudiana ndr).

Gli oggetti che la regola dei conventi dava in meditazione ai fratelli, avevano il compito di distoglierli dal mondo e dalle sue faccende. Il pensiero che svolgiamo qui nasce da una determinazione analoga. Esso si propone, nel momento in cui i politici in cui avevano sperato gli avversari del fascismo, giacciono a terra e ribadiscono la disfatta col tradimento della loro causa, […] di dare l’idea di quanto deve costare, al nostro pensiero abituale, una concezione della storia che eviti ogni complicità con quella a cui quei politici continuano ad attenersi.   

Dopo aver introdotto in alcune tesi precedenti, alcuni dei temi intorno ai quali si muove la riflessione, improvvisamente Benjamin compie qui una mossa laterale. Veniamo trasportati in una nicchia conventuale e invitati a disfarci del mondo e delle sue faccende; ma dopo aver ribadita tale necessità facendone addirittura il motivo che lo ha spinto a scrivere l’opera, ecco che, nella frase successiva, la storia rientra in scena con tutta la sua brutalità. Le tesi sono state scritte nel 1940, pochi mesi dopo la firma del patto scellerato Ribbentrop-Molotov, mentre tutta l’Europa e in particolare la Francia, dove Benjamin si trova, è sconfitta e umiliata dalla nascita del governo di Vichy. Il teatro mondano è dunque sempre presente e incombente quanto mai. Egli lo ricorderà quasi in ognuna delle Tesi che il contesto è quello. Nazismo e Fascismo trionfano ovunque, il 10 giugno del 1940 anche l’Italia era entrata in guerra; dall’altro c’è lo smarrimento del fronte antifascista. Portandoci in una nicchia conventuale, Benjamin non ci sta dunque invitando a una fuga dalla realtà, ma a tentare la strada di una sua comprensione più profonda. Niente però è più salvo della prassi precedente quel momento, compresi certi sodalizi che sono stati anche i suoi. In quei politici e in quei partiti nulla può essere riconosciuto come speranza e occorre avere il coraggio di voltare loro le spalle: è uno scenario che conosciamo benissimo anche noi oggi.

La regola della meditazione conventuale è un togliersi dalla lettera della storia e il farlo implica accettare il prezzo che comporta il rifiuto di colludere con il modus operandi di poco prima; tale prezzo, tuttavia, non è tanto la brutalità degli eventi in sé e neppure la propria solitudine soltanto, ma prima di tutto un affrancarsi dal proprio pensiero abituale precedente. Come sopportare tutto ciò? La regola conventuale suggeriva di farlo con oggetti che hanno il compito di distogliere e distrarre: cose qualunque, che ognuno di noi può trovare anche oggi dove meglio crede. Ciò che distrae aiuta a pagare quel prezzo perché lo rende sopportabile nel tempo e questo crea una nuova abitudine che distoglie dai trucchi del pensiero precedente, la cesura, un tempo nel quale anche Benjamin aveva collocato una speranza che si è trasformata in un’illusione. Qual è tuttavia la concezione della storia cui allude la parte finale della tesi e con cui non bisogna colludere? Lo storicismo; ma si tratta  di un termine convenzionale e tecnico che può essere frainteso e che di per sé non risponde alla necessità impellente di gettare l’allarme in un momento tragico della storia europea. Nella tesi ottava troviamo una sua maggiore concretizzazione:

La tradizione degli oppressi c’insegna che lo “stato d’emergenza” in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponde a questo. Allora ci starà davanti, come nostro compito, di suscitare il vero stato d’eccezione […]. Lo stupore per le cose che noi viviamo e sono “ancora” possibili nel ventesimo secolo è tutt’altro che filosofico. Non è all’inizio di alcuna conoscenza, se non di quella che l’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi. (traduzione einaudiana ndr)

Lo storicismo assume qui un volto, non ancora del tutto definito, ma alcuni lineamenti iniziano a palesarsi. Il soggetto della frase iniziale – la tradizione degli oppressi – ci permette di capire che lo stato d’emergenza (der ”Ausnahmezustand“) di cui scrive Benjamin non è lo stato d’eccezione (der Ausnahmetatbestand) di Karl Schmitt, di cui si parla molto in quegli anni. Per i dannati e le dannate della terra lo stato d’emergenza è regola sociale costante e non ingegneria istituzionale di un momento. La vera eccezione sarebbe, seguendo il ragionamento di Benjamin, il rovesciamento della normalità oppressiva ed è questo l’obiettivo cui dovrebbe tendere chi vuole modificare lo stato di cose presenti. Per poterlo fare, tuttavia, occorre prima di tutto liberarsi di un’idea di storia, quella che possiamo riassumere in una frase tipica che avremo sentito centinaia di volte in momenti diversi delle nostre vite: “Ma come, succedono ancora queste cose nel 2023?”. Tale sgomento, come afferma Benjamin, non apre ad alcuna conoscenza, ma la impedisce. La storia lineare o a spirale che sia, ma sempre orientata secondo la freccia del tempo e sempre in senso progressista è il bersaglio di questa tesi e lo sarà in altre, una in particolare, la settima.

Tesi settima.  Traduzione da L’ospite ingrato.

Foustel de Coulange raccomanda, allo storico che vuole rivivere un’epoca, di togliersi dalla testa tutto ciò che sa del corso successivo della storia. Meglio non si potrebbe  designare il procedimento con il quale il materialismo storico ha rotto. È un procedimento di immedesimazione emotiva. La sua origine è l’ignavia del cuore, l’acedia, che dispera d’impadronirsi dell’immagine storica autentica, che balena fugacemente. Per i teologi del Medio Evo essa era il fondamento originario della tristezza. Flaubert, che ne aveva conoscenza, scrive: “Poche persone indovinerebbero fino a che punto bisogna essere tristi per resuscitare Cartagine”. La natura di questa tristezza diventa più chiara se ci si chiede con chi poi propriamente s’immedesimi lo storiografo dello storicismo. La risposta suona inevitabilmente: con il vincitore. […] L’immedesimazione con il vincitore torna perciò sempre a vantaggio dei dominatori di turno. Con ciò, per il materialista storico si è detto abbastanza. Chiunque abbia riportato fino ad ora vittoria partecipa al corteo trionfale in cui i dominatori di oggi passano sopra quelli che oggi giacciono a terra. Anche il bottino, come si è sempre usato, viene trasportato nel corteo trionfale. Lo si designa come il patrimonio culturale. Esso dovrà tener conto di avere nel materialista storico un osservatore distaccato. Infatti, tutto quanto egli coglie, con uno sguardo d’insieme, del patrimonio culturale, gli rivela una provenienza che non può considerare senza orrore. Tutto ciò deve la sua esistenza non solo alla fatica dei grandi geni che l’hanno fatta, ma anche al servaggio senza nome dei loro contemporanei. Non è mai un documento della cultura senza essere insieme un documento alla barbarie. E come non è esente da barbarie esso stesso, così non lo è neppure il processo di trasmissione per cui è passato dall’uno all’altro. Il materialista storico quindi, ne prende le distanze da esso nella misura del possibile. Egli considera suo compito spazzolare la storia contropelo.

Il pregio di questa tesi è di essere chiara, oltre ogni dubbio ragionevole; ma tale chiarezza ne aumenta la complessità. Prima di commentarla tuttavia, è necessario una messa in guardia sull’uso del termine materialismo storico che appare in essa e in quella precedente, come antidoto allo storicismo e il cui compito – assai impegnativo – sarebbe quello di spazzolare la storia contropelo. Opportuno è leggere subito la prima tesi che si trova in nota, per comprendere che forse Benjamin non sta dicendo ciò che superficialmente appare2.

Stalin e Molotov

Al centro della tesi, c’è quell’autentico cammeo incastonato nel mezzo, la citazione di Flaubert: resuscitare Cartagine! Perché questa citazione così sorprendente? Cosa significa? La scelta di Flaubert e di Benjamin cade su una città simbolo di una sconfitta ingiusta, atroce e persino gratuita.3 Tuttavia, rimane un dubbio: in che cosa possiamo trovare utilità o consolazione nel resuscitare Cartagine nel ventunesimo secolo? Per farlo bisogna arrivare in fondo a una tristezza abissale, cioè una tristezza senza scopo e altrettanto gratuita quanto l’amore disinteressato e non orientato al possesso: perché anche nell’ingiustizia della storia esistono gradazioni diverse. Si può essere tristi a metà di fronte a certe situazioni del passato, ma solo se si riesce a provare una tristezza che le comprende tutte le ingiustizie, allora si può voler resuscitare Cartagine; o forse anche Troia, cioè due entità per le quali è difficile provare un’empatia che serva a uno scopo. E invece è proprio questo che il filosofo suggerisce di fare, in un modo che può apparire paradossale, ma che lo diventa di meno se leggiamo la dodicesima tesi, liberandola da alcuni aspetti datati.

   Il soggetto della conoscenza storica è […] la classe oppressa che lotta […]. Questa coscienza che si è fatta ancora valere per breve tempo nella Lega di Spartaco, fu da sempre scandalosa per la socialdemocrazia, che nel corso di tre decenni è riuscita a cancellare del tutto il nome di un Blanqui […]. Essa si compiacque di assegnare alla classe operaia il ruolo di redentrice delle generazioni future […]. La classe disapprese, a questa scuola, tanto l’odio quanto la volontà di sacrifico. Entrambi, infatti, si alimentano dell’immagine degli antenati asserviti, non all’ideale dei discendenti liberati.    

La Lega di Spartaco è la speranza precedente che Benjamin non rinnega ma che appartiene al passato, come peraltro la socialdemocrazia cui egli non ha mai riservato alcun credito. L’importanza della tesi sta nel rovesciamento di un luogo comune consolidato: è l’immagine degli antenati oppressi e non quella delle generazioni future e di un futuro di cui nulla sappiamo e possiamo sapere, che può spingere all’indignazione e alla lotta. La tesi è certamente sconcertante, ma Benjamin la riempie di concretezza e di esemplificazioni, disseminate in modo non sempre consequenziale, ma che alla fine permettono una ricostruzione del suo pensiero. Si può ritornare ora alla tesi precedente con ben altra cognizione di causa e possibilità di comprendere quanto sia radicale la critica di Benjamin allo storicismo e come egli intende tale parola, che perde nelle sue riflessioni quelle connotazioni tecniche che pure ha del tutto legittimamente per uno storico di professione, per assumerne altre. Lo storicismo per Benjamin significa in prima istanza identificarsi con tutti i vincitori, facendo propria la finzione di scorporare il cosiddetto patrimonio culturale dalle condizioni materiali e di oppressione che lo hanno reso possibile. Tale finzione si avvale dell’immedesimazione emotiva con il vincitore e dell’acedia, cioè l’ignavia del cuore.4 La sua non è soltanto una critica del modello eroico, cioè della storia rappresentata come una sfilata di eroi, quasi sempre e solo uomini peraltro. Affermare che ogni documento di civiltà è anche un documento di barbarie, rompe qualsiasi sudditanza basata sulla continuità storica e, pur sapendo egli stesso che non è possibile raggiungere questo obiettivo in senso assoluto (Il materialista storico quindi, ne prende le distanze da esso nella misura del possibile), questa è l’unica strada che permette di creare uno spazio mentale vuoto o quasi vuoto, nel quale collocare l’ipotesi di una speranza possibile. Le radici recenti di questo capovolgimento si trovano negli scritti appena precedenti cioè “le tesi”.5 Ripensando al discorso intorno allo stato di emergenza, ecco come in un passaggio della terza Tesi troviamo una prima e importante implicazione.

Il cronista che racconta gli avvenimenti, senza distinguere fra grandi e piccoli, tiene conto della verità che per la storia nulla di ciò che è avvenuto deve essere mai dato per perso.

In sostanza, nella storia non vi può essere niente che sia minore rispetto ad altro: è solo la selezione fatta dal vincitore che crea tale illusione ottica ed è solo distanziandosi dall’appiattimento storicista che ne deriva, che si colgono invece i rilievi, le increspature, le cesure, le figure considerate minori. Sempre nella terza tesi Benjamin fa un elogio dei cronisti medioevali, proprio perché non distinguevano fra grandi e piccoli eventi, ma registravano – per quanto potevano – tutto.6 Comunque, occorre chiarire subito che tali affermazioni non preludono a una riscrittura consolatoria della storia dalla parte degli sconfitti o dei perdenti: non è questo che Benjamin intende dire. Decidere di non far parte del coro e di non salire sul carro che accompagna il vincitore, non significa un generico ed empatico stare dalla parte delle vittime. Lo aveva già chiarito in una tesi già citata dove è la classe che lotta – noi potremmo dire il soggetto o i soggetti che lottano e resistono – ad avere titoli per rileggere la storia contropelo: non basta essere dei generici oppressi che se ne stanno tranquilli nella loro oppressione. Benjamin non è un cripto cristiano, tanto meno un cattolico e se la teologia ha uno spazio nella sua riflessione, essa è tutt’altra. Il suo affondo nei confronti della morale protestante e la sua radicale critica a Max Weber li troviamo in un passaggio dell’undicesima tesi:

 […] La vecchia morale protestante del lavoro festeggiava, in forma secolarizzata, la sua resurrezione fra gli operai tedeschi […].

Ciò cui allude Benjamin non è solo una filosofia della storia, ma è lavoro salariato scambiato per lavoro tout-court e considerato come appendice allo sviluppo tecnico positivo in sé: la negazione che questo abbia anche un valore politico, cioè di essere una strada verso l’emancipazione, è decisiva per comprendere quanto Benjamin afferma subito dopo. 

Nel miglioramento del lavoro sta la ricchezza. Questo concetto volgar marxistico non si sofferma a lungo sulla questione di come il prodotto del lavoro agisca sui lavoratori stessi finché essi non ne possono disporre: vuol dire tener conto solo dei progressi nel dominio della natura, non dei regressi della società. […] Confrontate con questa concezione positivistica, le fantasticherie che tanto hanno contribuito alla irrisione di Fourier mostrano di avere un loro senso profondamente sano. Secondo Fourier il lavoro sociale ben organizzato, avrebbe avuto come conseguenza che quattro lune illuminassero la notte terrestre, il ghiaccio si ritirasse ai poli, il mare avrebbe perso la salinità e gli animali feroci si ponessero al servizio degli uomini. Tutto ciò illustra un lavoro ben lontano dallo sfruttare la natura, ma di sgravarla delle creazioni che, in quanto possibili, sono sopite nel suo grembo. Al concetto corrotto di lavoro appartiene come suo complemento quella natura che, come ha detto Dietzgen: “è là gratuitamente”.   

L’occhio di Benjamin vede qui davvero lontano: non neutralità della scienza e saccheggio della natura, falso progressismo che si traduce in regresso della società sono i nostri scenari quotidiani, ottant’anni dopo queste parole. La conclusione ci dice però qualcosa di più e cioè che la natura non è gratis, un concetto con il quale ci troviamo decenni dopo a fare i conti in modo drammatico.7 Che dire però del paradossale elogio di Fourier? Prima di tutto che non si tratta di un paradosso, ma se mai di un uso del medesimo per arrivare a indicare altro. Ciò che importa ed è decisivo nella citazione di Fourier, aldilà delle bizzarrie che lo hanno reso famoso, è l’affermazione finale di Benjamin e cioè che le sue ipotesi, per quanto strampalate, esprimono una filosofia di fondo che è sana e cioè che rispetto alla natura il lavoro utile è quello che fa prevalentemente da levatrice a ciò che si trova già nel suo grembo. La sintesi che possiamo trarre da questo accostamento analogico è che la più strampalata ma sana fantasticheria è di gran lunga preferibile a qualsiasi progressismo impregnato di positivismo e di spregiudicatezza tattica senza etica alcuna. Alla luce di tutto ciò e proprio perché questa critica covava da tempo, si può ora commentare la prima Tesi, la sola che in tutte le versioni si trova sempre al primo posto.

Si dice che esistesse un automa costruito in modo tale da reagire ad ogni mossa del giocatore di scacchi con una contromossa che gli assicurava la vittoria. Un manichino vestito da turco, […] sedeva davanti alla scacchiera […] In verità, c’era seduto dentro un nano gobbo, maestro nel gioco degli scacchi, che guidava per mezzo di fili la mano del manichino. Un corrispettivo di questo congegno si può immaginare per la filosofia. Vincere deve sempre il manichino detto “Materialismo storico”. Esso può competere senz’altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi […] è piccola e brutta e tra l’altro non deve lasciarsi vedere.

È per tutti i commentari la tesi più oscura ed enigmatica. Il racconto ce la rende più ostica, ma comincia a esserla meno se ci sintonizziamo sullo stile della sua scrittura. Benjamin usa l’apologo e persino la parabola e l’accostamento analogico, lo ha fatto in tutte le tesi; ma lascia sempre un vuoto nel mezzo, in questa tesi particolarmente vistoso. Non mi soffermerò in questo momento sul retroterra ebraico di questo tipo di scrittura. Fra la fine del racconto-aneddoto e la conclusione della tesi c’è uno iato, sebbene introdotto da una frase – Un corrispettivo di questo congegno si può immaginare per la filosofia – dalla quale non possiamo tuttavia immaginare ciò che seguirà e che a una prima lettura è sorprendente. Cosa c’entra il manichino vestito da turco con il “materialismo storico”? Nominandolo espressamente Benjamin ci avverte che non sta usando una metafora – nella sua scrittura non vi è quasi mai posto per la metafora – bensì una complessa catena di similitudini. Come il nano gobbo seduto nel manichino costituisce il trucco meccanico per ingannare il pubblico, così la teologia, rimpicciolita rispetto ai secoli precedenti, si è insinuata nel materialismo storico, che Benjamin mette fra virgolette, facendone una macchinetta per avere sempre ragione, qualunque siano le scelte compiute, dal momento che sarebbe in linea con il solco deterministico della storia. Questa tesi, nei commentari, viene considerata come la sua radicale critica allo stalinismo e allo scellerato patto Ribbentrop-Molotov. Non vi è dubbio su questo, tuttavia cercherò di leggere le sue parole, oltre quel contesto perché la parte veramente interessante della tesi, è il nesso che egli stabilisce fra il trucco del manichino e la teologia che secondo Benjamin ha inquinato l’illuminazione materialista e profana di cui aveva scritto nel saggio sul Surrealismo del 1929.8 Anche in questa critica c’è da considerare un doppio aspetto: nell’immediato è una critica al Diamat staliniano come forma perniciosa di mistica materialista e spregiudicatezza senza alcuna etica, ma tale giudizio si estende come vedremo fino a comprendervi il falso progressismo nei suoi diversi aspetti.

La tesi nona, commentata e celeberrima quanto mai, suggella e chiude quella che considero la pars destruens del ragionamento di Benjamin e ci permette di andare oltre.   

Tesi nona.

C’è un quadro di Klee che si chiama Angelus novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove, davanti a noi, appare una catena di avvenimento, egli vede un’unica catastrofe che ammassa incessantemente macerie su macerie  e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo di macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo progresso è questa bufera.

Hugo Simberg, L’angelo ferito, 1903


1 Le traduzioni italiane di cui mi sono servito sono: Angelus novus, tascabili Einaudi a cura di Renato Solmi e un saggio di Fabrizio Desideri: la mia edizione è quella del 1995. La seconda è Walter Benjamin Testi e commenti, Quaderno N.3 de L’ospite ingrato, Periodico del centro studi Franco Fortini, a cura e commento di Gianfranco Bonola, Quodlibet 2013: questa edizione riporta anche le tesi finali che mancano nel testo einaudiano. Il testo in originale tedesco è quello dei Manuskript Hanna Arendt, che si trova anche in rete ed è corredato dalle fotocopie del manoscritto di Benjamin con le sue correzioni. Il titolo completo è: Walter Benjamin über den Begrieff der Geschichte. In questa stesura, mancano alcune tesi che verranno aggiunte più tardi e che si trovano invece nelle due traduzioni in italiano. Soltanto la prima tesi è numerata sempre così anche negli originali.

2 Questa dell’uso continuo dell’espressione materialismo storico nelle tesi è una contraddizione o almeno un’aporia non chiarita dal filosofo. Riservandomi di tornare successivamente su questo problema niente affatto minore, mi limito a porre in evidenza come l’espressione abbia almeno due significati diversi, ma si riferisca anche a due oggetti filosofici in diversi. Ecco di seguito la prima tesi nella traduzione da “L’ospite ingrato”: È noto che sarebbe esistito un automa costruito in modo tale da reagire ad ogni mossa del giocatore di scacchi con una contromossa che gli assicurava la vittoria. Un manichino vestito da turco, […] sedeva davanti alla scacchiera […]. In verità, c’era seduto dentro un nano gobbo, maestro nel gioco degli scacchi, che guidava per mezzo di fili la mano del manichino. Un corrispettivo di questo congegno si può immaginare per la filosofia. Vincere deve sempre il manichino detto “materialismo storico”. Esso può competere senz’altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi […] è piccola e brutta e tra l’altro non deve lasciarsi vedere. Questa tesi verrà meglio commentata successivamente nel testo.

3 Naturalmente il mio giudizio, così estremo, non è un giudizio da storico. Tuttavia, proprio per rimanere in sintonia con Benjamin e per non sottoscrivere il romanissimo Carthago delenda est, ricordare le alternative che pure furono prese in considerazione, non significa fare la storia con i se, ma rifiutare appunto l’immedesimazione deterministica con il vincitore. Il determinismo assoluto non riguarda il futuro come non riguarda il passato che era pur sempre il futuro di una volta.

4 Il concetto di immedesimazione emotiva è assai importante nell’economia del pensiero benjaminiano e le sue premesse si trovano nel saggio Che cosa è il teatro epico, scritto nel 1939. Prendendo come esempio virtuoso il teatro di Brecht, il filosofo mette in evidenza la differenza sostanziale che esiste fra immedesimazione emotiva con l’eroe, che porta alla catarsi aristotelica, e l’immedesimazione con la situazione in cui l’eroe è coinvolto. Quanto all’acedia del cuore, penso che il bersaglio sia l’etica protestante e la sua mancanza di empatia, essendo collocata del tutto nella coscienza individuale e in un rapporto diretto e personale con Dio e la Grazia.  

5 Questi saggi sono stati raccolti nell’edizione italiana einaudiana dal titolo L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.  Anche il sottotitolo è importante: Arte e società di massa.  La scelta editoriale può essere giudicata arbitraria sotto molti aspetti, prima di tutto per una questione di datazione, ma permette di osservare da vicino una parte del lavorio che porterà alle Tesi. Il tema di quei saggi assemblati dalla casa editrice e tradotti da Filippini è la cultura di massa. Piccola storia della fotografia è del 1931, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e il saggio su Fuchs sono del ’36-’37 e sono quelli che affrontano più direttamente il tema principale e cioè la nascita della cultura di massa. Che cosa è il teatro epico è del 1939. Fra le pieghe dei cinque saggi assemblati, e specialmente in alcune note al testo, è possibile trovare le radici prossime di una critica allo storicismo, che investe prima di tutto i prodotti della cultura e che approderà, nelle Tesi, alla storia.  

6 Forse non è del tutto un caso che siano stati proprio degli storici medioevalisti a fondare in pieno ‘900 una scuola come Les Annales che assegna un ruolo prioritario alla storia materiale e alla vita quotidiana. Del resto, anche la ricerca di Gramsci, più o meno negli stessi anni, è orientata alla ricostruzione della cultura popolare, delle strutture materiali dell’esistenza e del folklore.

7 Citerò due passaggi da Dialettica della natura di Engels per la loro assonanza con le affermazioni di Benjamin e anche perché il concetto di lavoro in esse non ha nulla a che vedere con l’espressione lavoro salariato: […]  noi non la dominiamo (la natura ndr) […]  come chi è estraneo ad essa, ma le apparteniamo come carne sangue e cervello e viviamo nel suo grembo: tutto il nostro dominio sulla natura, consiste nella capacità, che si eleva al di sopra delle altre creature, di conoscere le sue leggi e di impiegarle in modo appropriato […]. Ma quanto più ciò accade, tanto più gli uomini sentiranno, anche sapranno, di formare un’unità con la natura, e tanto più insostenibile sarà il concetto assurdo e innaturale, di una contrapposizione fra spirito e materia, tra uomo e natura, tra anima e corpo, che è penetrato in Europa dopo il collasso del mondo dell’antichità classica e che ha raggiunto il suo massimo sviluppo nel cristianesimo. Ma se è stato necessario il lavoro di millenni sol perché noi imparassimo a calcolare gli effetti naturali più remoti della nostra attività  rivolta alla produzione, la cosa si presentava come ancor più difficile per quanto riguarda gli effetti sociali di quelle attività. […] Che cos’è la scrofola di fronte agli effetti che provocò sulle condizioni di vita delle masse popolari di interi paesi il fatto che i lavoratori fossero ridotti a cibarsi di sole patate? […]

L’interrogativo di Engels è retorico. La scrofola è simmetricamente il risultato di quel progresso nell’uso intensivo della coltivazione di patate che genera il regresso della società, come ha scritto Benjamin nel passaggio citato. Il secondo passaggio di Engels è tratto dal nono capitolo:

[…] Perché la mano non è solo l’organo del lavoro, è anche il prodotto del lavoro […] e con l’adattamento alle nuove operazioni, grazie all’eredità rappresentata dallo speciale sviluppo dei muscoli, dei legamenti e, sul lungo periodo, anche delle ossa. Grazie, inoltre, all’impiego ogni volta rinnovato di questi strumenti ereditati, ma soggetti a nuovi miglioramenti con operazioni sempre più complicate, la mano umana ha raggiunto quell’alto grado di perfezione che ha reso possibili la pittura di Raffaello, le statue di Thorwaldsen, la musica di Paganini.

8 La citazione occupa una parte importante nella strategia discorsiva di Benjamin, in tutte le sue opere, ma va pure chiarito in modo preliminare che il suo atteggiamento è lontano dal citazionismo postmoderno. Il filosofo anticipa molti temi tipici del postmodernismo, ma non cede alla lettera del medesimo. Le citazioni di Benjamin sono sempre degli exempla emblematici che permettono all’interlocutore di aderire o dissentire, ma prima di tutto di comprendere e non in astratto, quanto egli afferma, ma di collocarlo in una dimensione di concretezza e verificabilità. Siamo lontani anni luce dal procedimento post moderno la cui filosofia – non sempre espressa – è che la cultura sia solo citazione, cioè auto contemplazione narcisistica del passato e sfoggio di erudizione basato sul wit, parola che si può interpretare in molti diversi modi ma sempre gravitanti intorno alla brillantezza salottiera e discorsiva. Benjamin non ha mai compiuto questo passo, anche se sa vedere molto lontano: egli è un anticipatore del postmoderno, nel senso che ha visto prima di altri molte sue caratteristiche. La forza degli exempla di Benjamin sta nell’essere la concretizzazione di quella immagine che balena per un solo attimo nella storia e che deve essere afferrata e salvata, perché rompe il continuum dello storicismo. La citazione è dunque emblematica se evoca un balenìo del passato da riscattare nell’adesso: Resuscitare Cartagine per esempio, o cogliere nella vicenda storica dello schiavo Spartaco ciò che chiede oggi il proprio riscatto.

DI CHI È L’ERA?

Ezra Pound

A conclusione del lavoro critico su alcuni poeti e poete dell’universo letterario anglo statunitense, in quest’ultima parte viene affrontata una questione che è stata e continua a essere dibattuta da parte dei critici dei paesi di lingua inglse, ma che è  decisiva che chiunque si occupi della loro poesia.

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Nel numero speciale 26 del Wallace Stevens Journal del 2002, viene posta la seguente domanda: Pound/Stevens:Whose era? La domanda è anche il titolo del saggio introduttivo di Marjorie Perloff. Nel numero monografico della rivista ci si domanda, dunque, se il giudizio critico sulla poesia statunitense del ’900 possa essere sintetizzata come l’era di Stevens oppure quella di Pound.1 A proporre per primo il quesito fu Harold Bloom nel libro The poems of our climate, pubblicato a Londra nel 1977 in polemica con un altro libro di Hugh Kenner e intitolato The Pound Era. Nadia Fusini, nel suo saggio introduttivo alle Note verso la finzione suprema cita anche Frank Kermode, che sembra tenere una posizione intermedia nel senso che elogia molto le Note ma non si pronuncia sull’insieme dell’opera stevensiana; infine, il giudizio sintetico espresso da Northorp Fry, un altro decano della critica nordamericana, secondo il quale Stevens è: uno dei nostri poeti essenziali.2

In primo luogo e proprio leggendo il numero monografico, appare subito come la domanda sia un po’ troppo stretta anche per chi l’ha posta, dal momento che il nome di Eliot compare assai presto ed era inevitabile che ciò accadesse. Forse nell’interrogativo e sotto traccia (che emerge tuttavia qui e là anche in altri saggi), c’è anche il dover fare i conti con il senso di colpa nei confronti di Pound, per l’ostracismo che dovette subire e anche qualcosa di peggio: in certe università statunitensi il nome di Pound fu un tabù impronunciabile per lungo tempo.

Peraltro, se il punto di vista fosse quello europeo e si prendesse la Waste Land come emblema della crisi di un secolo o addirittura adottando il titolo di un libro assai famoso in quegli anni – Il tramonto dell’Occidente di Spengler –3 non vi è dubbio che per un europeo,  il ‘900 potrebbe essere definito come il secolo di Eliot.  

Tradizione e modernismo in Pound, Eliot, Stevens e Moore

Per Pound, le tradizioni sono una fonte continua di scoperta e ispirazione, per Eliot la tradizione era una scelta da compiere. Entrambi si rivolsero all’Europa ma le differenze sono notevoli. Pound sembra più che altro fuggire dagli Usa, trovando nel vecchio continente e in alcune sue regioni bellissime e periferiche – il Trentino e Rapallo –  l’alveo geografico protetto da cui poter spaziare verso ogni tradizione possibile. Il suo percorso mi ricorda, per analogia, la bottega del rigattiere. Pound ha seguito in modo estremo la prima parte della sentenza pronunciata da Borges  – un convitato di pietra sempre presente in questo studio –4 e cioè che per un argentino, come per uno statunitense, ovvero per due artisti appartenenti a nazioni giovani e senza tradizione, quest’ultima può essere trovata ovunque. Borges ha selezionato, reinventato, oppure inventato per selezionare, mentre Pound è stato un amorevole raccoglitore di tutto quanto incontrava nel suo peregrinare letterario. Il suo, tuttavia, non fu mai un atteggiamento di appropriazione, ma di salvaguardia, di custodia, di scoperta e anche di generosità nel mettere a disposizione di altri quanto andava raccogliendo un po’ dappertutto e, in fondo, senza una vera direzione. Del resto, lo sappiamo che nella bottega del rigattiere il kitsch e l’oggetto prezioso vivono l’uno accanto all’altro. La poesia di Pound è fatta di bagliori improvvisi, di intuizioni, di aforismi fulminanti all’interno di partiture complesse che s’avvicinano alla poesia visiva, come accade per certe incursioni – incomprensibili ai più – ma visivamente suggestive, dei caratteri cinesi e giapponesi nei suoi Cantos. Pasolini, durante un’intervista che gli fece e durante la quale Pound parlò peraltro assai poco, esprimendosi per brevissimi accenni distanti e lontani da tutto, sottolineava il dettato arcaico e barbarico della sua poesia, sia per la potenza che ne emanava, sia per una sorta di innocenza originaria, non mediata.5

Sarebbe perciò errato intendere come citazionismo il viaggio di Pound dentro i simboli e i tropi della poesia mondiale. L’amore per tutto quello che lo incuriosiva è un dato che va oltre la necessità di citare e Pound è stato anche per questo il miglior fabbro, espressione quanto mai felice, perché tutti sono passati in un modo o nell’altro dalla sua bottega di rigattiere e tutti se ne sono usciti con qualcosa. Si può dire che egli abbia nutrito, con la sua generosità, la poesia anglo americana di un secolo e basterebbe ricordare gli interventi fondamentali che suggerì a Eliot dopo avere letto la prima versione di Waste land. Si può obiettare a questa ricostruzione che anche in Pound si può rintracciare una tradizione prevalente, visto il richiamo a Dante – il primo miglior fabbro –  ma, ciò è vero con alcune precisazioni. Nel celebre Canto XLV, dell’Usura, egli si rifà a un cristianesimo talmente arcaico, da sfuggire a qualsiasi nuova codificazione.6

With Usura

With usura hath no man a house of good stone/each block cut smooth and well fitting/that design might cover their face,/

with usura/hath no man a painted paradise on his church wall/harpes et luz/or where virgin receiveth message/and halo projects from incision,/ with usura /seeth no man Gonzaga his heirs and his concubines/no picture is made to endure not to live with/but it is made to sell and sell quickly/with usura, sin against nature,/is thy bread ever more of stale rags/is thy bread dry as paper/ with no mountain wheat, /no strong flour/ with usura the line grows thick/wit usura is no clear demarcation/and no man can find site for his dwelling./Stone cutter is kept form his stone/weaver is kept from his loom/

WITH USURA/

wool comes not to market/sheep bringeth no gain with usura/Usura is a murrain, /usura/blunteth the needle in the maid’s hand/and stoppeth the spinner’s cunning. Pietro Lombardo/came not by usura, Duccio came not by usura/nor Pier della Francesca; Zuan Bellin’ not by usura/nor was ‘La Calunnia’ painted./Came not by usura Angelico; came not Ambrogio Praedis,/Came no church of cut stone signed: Adamo me fecit./Not by usura St. Trophime/Not by usura Saint Hilaire,/Usura rusteth the chisel/It rusteth the craft and the craftsman/It gnaweth the thread in the loom/None learneth to weave gold in her pattern;/Azure hath a canker by usura; cramoisi is unbroidered/Emerald findeth no Memling/Usura slayeth the child in the womb/It stayeth the young man’s courting/It hath brought palsey to bed, lyeth/between the young bride and her bridegroom/

                               CONTRA NATURAM

They have brought whores for Eleusis/Corpses are set to banquet/at behest of usura.

Con l’Usura

Con l’usura nessuno ha una casa di buona pietra/ciascun blocco finemente squadrato e adatto/a dipingerne la facciata,/con l’usura/nessuno avrà un paradiso affrescato sul portale di una chiesa/né harpes  et luz/o luogo dove la vergine ricevi il messaggio/e sia incisa l’aureola/con l’usura non ci sono Gonzaga, eredi e concubine/nessun dipinto è fatto per durare e vivere/ma per essere venduto e venduto in fretta/con l’usura, peccato contro natura,/il pane è avanzo irrancidito/secco come carta/niente segala, /niente farina buona/con l’usura il segno diviene greve/con l’usura non vi è confine certo/e nessuno può trovare la dimora in cui vivere/il tagliatore di pietra è allontanato dalla pietra/il tessitore dal suo telaio/

CON L’USURA/la lana non arriva al mercato/le pecore allevate non portano guadagno/l’usura pestilenza/Con l’usura/si ottunde l’ago nelle mani della ragazza/si arresta il telaio. Pietro Lombardo/non venne dall’usura, e Duccio non venne dall’usura/e neppure Pier della Francesca; Zuan Bellin non venne dall’usura/né fu dipinta La Calunnia./Non venne dall’usura Angelico; né Ambrogio Praedis/nessuna chiesa di pietra col marchio: Adamo me fecit./Né venne St. Trophime dall’usura/neppure st.HIlaire,/l’usura arrugginisce il cesello/arrugginisce l’arte e l’artigiano/corrode il filo del telaio/nessuno imparò a filare l’oro nel suo modello;/l’Azzurro ha un cancro con l’usura; il cremisi …./lo Smeraldo non trova il suo Memling/L’usura uccide il bambino nel grembo/trattiene il giovane nel corteggiamento/porta la paralisi nel letto, si sdraia/fra il giovane sposo e la sposa/

                                     CONTRA NATURAM

/Hanno portato le puttane  da Eleusi/cadaveri preparati per banchetto/agli ordini dell’usura.

Ciò che colpisce anche visivamente nel testo è la ripetizione ossessiva del termine usura, poi la ricchezza delle immagini. La parte più interessante sono il lessico e la grafia usate perché la lingua di questo testo non è l’inglese moderno, ma  quello arcaico – rusteth, findeth, per esempio – che si può far risalire a un’epoca in cui il Cristianesimo secondo Pound conservava una propria purezza originaria, non ancora inquinata dalla modernità, che per il poeta inizia proprio con i prestito di denaro a interesse. L’iconografia presente nel testo è più complessa perché spazia fino a Piero della Francesca e cioè in pieno Umanesimo, mentre sembra tenersi a una certa distanza dalle immagini che ricordano il pieno Rinascimento. Pound sogna un Cristianesimo che a rigore di logica dovrebbe essere precedente l’invenzione stessa del Purgatorio, dovuta alla necessità di salvare dalla dannazione assoluta un’intera categoria di professioni che si andavano imponendo: barattieri, banchieri, ecc. Il sogno rimane quello che è ma la potenza dei sui versi che rimane come monito nel tempo della necrofilia capitalistica che ci sovrasta.

Moore. Nei saggi dedicati all’opera d’arte, Karl Gustav Jung afferma fra l’altro che il grande artista è colui che fa sentire alla propria epoca ciò che più manca ad essa.8 È una definizione che calza a pennello per Moore e molto anche per Stevens. La prima natura riscoperta nel cuore di una civiltà che pensava di averla del tutto domata, è proprio la denuncia di un’illusione ottica assai pericolosa. Bisogna considerare, poi, che Marianne Moore morì nel 1972, ma che scrisse il corpus maggiore delle sue poesie in anni che vanno dal 1935 alla metà degli anni ’50, in un momento storico in cui – nonostante le distruzioni di due guerre mondiali – l’attenzione sui disastri ambientali non era ancora all’ordine del giorno. La sua natura e i suoi animali, però, sono tali perché colti nel loro habitat e con le loro caratteristiche di specie. Cani e gatti, uccelli in gabbia e altre specie troppo addomesticate non sono presenti nella sua poesia. Il suo modo di sentire il mondo animale e naturale è altrettanto lontano da certe pieghe ecologiste contemporanee, che cominciarono a imporsi successivamente alla sua morte. Pensando all’oggi, credo che sarebbe addirittura inorridita nell’osservare il processo sempre più irragionevole che attribuisce agli animali tratti antropomorfi che rasentano il grottesco e che sembrano voler trasportare le invenzioni di Walt Disney dal cartone animato alla realtà. Moore invita il lettore all’ammirazione e alla contemplazione del mondo animale, ma la natura per lei non è un giardino fiorito, ma piuttosto un’arena dove il conflitto e il confronto sono all’ordine del giorno; ma non la guerra, che appartiene solo agli umani. La sua profonda ammirazione del mondo animale può certo educare a un’etica del rispetto, ma prima di tutto a quella tipologia di rispetto che assegna a ciascuna specie il diritto di vivere secondo le proprie prerogative di speciazione.

La natura peraltro, è assai presente anche nella poesia di Stevens e in definitiva è proprio tale presenza in entrambi è fra le tematiche  che pongono fra i due ed Eliot una distanza irriducibile. Quanto al suo rapporto con la tradizione, Moore è forse la più eclettica, ma in un senso profondamente diverso dell’eclettismo di Pound. I suoi interessi per la divulgazione scientifica, per esempio, sono pari agli interessi letterari e questo le permette di usare un linguaggio poetico che ha un vasto retroterra nella scienza: l’esattezza di certe immagini viene da questo e Moore è fra i pochi poeti e poete del secolo scorso cimentarsi con linguaggi estranei alla letteratura in senso stretto.      

Eliot infine è il continuatore della tradizione che da Baudelaire passa per Laforgue, ma vi rimane intrappolato perché quella tradizione ha molti decenni alle sue spalle e non è già più la novità densa di futuro che era a metà del secolo precedente e lo stesso vale per l’ipocrita lettore, che Eliot riprende alla lettera come citazione. La dimensione urbana era stata esplorata in tutte le sue pieghe ed Eliot è l’ultimo a farlo e con lui essa diventa una totalità, dalla quale cerca di sottrarsi nei Quartetti dove, specialmente nell’ultimo e cioè in Little Gidding , è la provincia campestre e virtuosa a tornare al centro. Tuttavia, gli squarci di natura esistenti in Eliot si traducono quasi immediatamente in simboli religiosi: la rosa, il roveto ardente, o l’estate di San Martino. Oppure, ripensando ai versi iniziali di Waste land – Aprile è il mese più crudele – la natura è usata per farne immediatamente una metafora che sta per altro.

Quanto ai rapporti fra Eliot e Stevens, essi sono difficili da mettere a fuoco, prima di tutto per la voluta distanza che il secondo ha sempre posto fra sé e il mondo letterario del suo tempo. Eliot, in un’intervista riportata nell’edizione italiana dei Quartetti, a cura di Angelo Tonelli, l’intervistatore d’eccezione, il poeta polacco Milosz, lo sollecita a parlare di lui, ma egli finge di non accorgersene e passa oltre.9 Se si guardano i due percorsi, non vi è dubbio che la loro distanza sia assai grande e il fatto che qui e là si possano scorgere tematiche analoghe, appartiene di più al sentire comune di un’epoca che ad altro. Alcuni punti di partenza possono sembrare comuni – mi riferisco in particolare a Sunday Morning  se messo a confronto con alcune parti della Waste Land – A game of chess per esempio – ma sono somiglianze destinate a venir meno nel prosieguo dei loro percorsi. Stevens, al culmine della crisi di una civiltà, che anche lui sente ma con la quale non collude, si affida alla poesia e a dove essa lo porta, non a opzioni che le sono estranee. Gli esiti più alti del suo percorso si trovano alla fine della sua vita, sono cioè i frutti maturi di un’esistenza poetica che non è scesa a patti con il peso del mondo, ma è rimasta fedele a un’inspirazione originaria, che risponde solo a se stessa. Stevens, l’assicuratore anonimo, l’uomo della provincia americana, è forse l’unico poeta del ‘900, in Occidente, ad avere scommesso su una nuova sacralità della parola poetica, ma una sacralità tutta terrestre. Diverso il suo atteggiamento anche per quanto riguarda il rapporto fra poesia e interpretazione, poesia e critica. Anche Stevens si è cimentato con entrambe le discipline, ma se Eliot ha voluto sempre indicare ai critici cosa voleva dicessero di lui, Stevens fa esattamente il contrario e cioè li depista in continuazione. Memorabile, a mio avviso, è il modo in cui tiene tutti sulla corda, lasciando i critici discutere su un finto enigma: quella della famosa quarta sezione del poema Note verso la finzione suprema.

Harold Bloom


1 Il numero in questione è un’edizione speciale e monografica. I saggi esplorano diversi aspetti della questione e si aprono a valutazioni extra letterarie, come avviene per esempio nel saggio di Alan Filreis sull’atteggiamento di Stevens e Pound nei confronti della Guerra Fredda.

2 Wallace Stevens Note verso la finzione suprema a cura di Nadia Fusini, Arsenale editrice, Venezia 1987, pag. 9. La citazione viene ripresa anche alla pag. 49 nelle note al testo.

3 Il libro fu pubblicato nell’estate del 1918 e suscitò un’enorme impressione, dato anche il momento particolare della storia europea,  alla fine di una guerra disastrosa e di una pace che lo sarebbe stata ancora di più. 

4 In n questo stesso blog si trova un saggio su Borges dedicato però a uno solo dei suoi racconto:  Deutsche requiem.

5 Il link dell’intervista di Pasolini è facilmente reperibile su Youtube

6 Il canto dell’usura fu pubblicato nei Pisan Cantos.

8 Karl Gustav Jung, Scritti sulla letteratura e l’arte. Il testo è facilmente reperibile anche in rete.

9 T.S. Eliot. La terra desolata e Quattro quartetti.’ Traduzione e cura di Angelo Tonelli, Universale economica Feltrinelli, aprile 2000, introduzione e intervista.

QUALCOSA SI MUOVE IN ISRAELE E A WASHINGTON

Introduzione

Le due lettere del maggiore israeliano – quella di luglio e quella più recente inviata al New York Times:  

Ora è il tempo della guerra, ma i palestinesi non sono il nemico

stanno facendo il giro del mondo. Nessuna illusione che le sue parole possano influire sull’oggi ma l’esempio di Nir Avishai Cohen come quello delle decine di migliaia di disertori ucraini e russi, fanno comunque ben sperare per il futuro. Le considerazioni dell’ufficiale israeliano della riserva, che ha scritto anche un libro dal titolo Love Israel, support Palestine, si prestano però a una riflessione più ampia, anche perché fra la presa diposizione di luglio e l’ultima lettera ci sono differenze e un’ambiguità di fondo che non viene sciolta ma che dimostra comunque un fatto incontrovertibile: il fronte interno di Israele può incrinarsi molto più di quanto appaia in superficie. Riporto per intero la dichiarazione del luglio scorso come è comparsa in rete, poi alcuni stralci della lettera al quotidiano newyorchese.

Mi rifiuto. Io, Nir Avishai Cohen, maggiore in Mill, numero personale 701874, ufficiale AGM della Brigata di fanteria, annuncio a malincuore il rifiuto. Mi rifiuto di continuare a servire nell’IDF, un esercito di un paese non democratico.

È importante per me sottolineare, non sono un volontario, servo in una riserva rispettosa della legge. Sono consapevole delle conseguenze che la mia dichiarazione può avere e sono pronto ad accettare con tutto il cuore, anche sedervi in galera. Un ordine di coscienza mi proibisce di far parte dell’esercito.

Più di chiunque altro oggi penso a mia nonna, Leah RIP, quella sopravvissuta ad Auschwitz ma tutta la sua famiglia è stata uccisa lì.

In questo giorno in cui annuncio il mio rifiuto di servire nell’esercito di un paese non democratico, penso a lei. La sua storia privata, che fa parte della storia nazionale del popolo ebraico, ci ha insegnato l’obbligo di rifiutare.

Non c’è una sola persona nel paese d’Israele che non sarebbe disposta a tornare nella macchina del tempo in Germania del 1933, un attimo dopo che aveva cessato di essere democratica, e urlare nelle mie orecchie tutti i soldati, che non gli è permesso servire l’esercito di un paese non democratico. Questo è un dovere rifiutare. Possiamo solo immaginare cosa sarebbe successo se nel 1933 decine di migliaia di ufficiali e soldati si fossero rifiutati di continuare a servire nell’esercito tedesco.

Così, molto prima che qualcuno pensasse che gli orrori di Auschwitz potessero accadere, i soldati hanno dovuto rifiutare.

Ho prestato servizio nell’IDF per 24 anni. Regolarmente come ufficiale di combattimento nella Golani, e successivamente in servizio di riserva come comandante di compagnia, Stato Maggiore Generale e ora come ufficiale di Divisione AGM. Ho rischiato la vita, ho perso i miei buoni amici. Vengo sempre quando mi chiamavano, per tutta la fede di non avere altro paese, che è mio dovere.

Sono stato chiamato ogni anno per decine di giorni di riserva, solo nell’ultimo anno ho scontato 41 giorni del genere. Giorni in cui ho lasciato la mia casa e tutte le mie occupazioni e ho dato il mio contributo alla difesa del paese.

Non è un segreto che da qualche anno ho avuto una critica acuta alle gesta di FDI nei territori occupati, ci ho anche scritto un libro. Ma nonostante questo ho deciso di continuare a servire. Vero, non nei territori occupati ma in difesa del confine meridionale e legittimo d’Israele. Anche se con molta contemplazione alla luce di quanto sta accadendo nei territori, ho continuato a servire. Di tutte le innumerevoli volte che ho indossato una divisa mi sono ricordato di nonna Lea. Mi sono sempre ricordato che è tornata e ha detto che la nostra famiglia deve contribuire alla sicurezza di questo paese, che l’Olocausto non sarebbe avvenuto in quale paese e i suoi militari sarebbero esistiti. Ho deciso che da una parte continuerò a servire nelle riserve e dall’altra farò del mio meglio come cittadino per influenzare e cambiare le politiche governative. Finché il paese è democratico ci ho trovato senso, anche se sono stato criticato per la mia decisione da entrambe le direzioni, destra e sinistra.

Un dato di fatto è che un regime antidemocratico usa l’esercito, la polizia e le altre forze di sicurezza, per i bisogni personali e i desideri dei governanti, non per i veri bisogni della difesa del paese. È giunto il momento di guardare onestamente alla realtà, Israele non è riuscito ad essere un paese democratico, anche quello all’interno delle aree della linea verde. Le leggi vigenti sono solo l’inizio, molte leggi orribili, antidemocratiche, in procinto di essere promulgate. Molti gruppi di popolazione stanno affrontando un vero pericolo. Arabi, donne, persone LGBT saranno le prime a essere ferite all’interno della linea verde. Nei territori occupati aumenteranno le sofferenze della popolazione palestinese e continuerà a versare sangue palestinese in quantità.

La storia dimostra che un regime antidemocratico può richiedere all’esercito di commettere atrocità, certamente un regime dove i governanti sono Smotrich, Ben Gvir e la loro banda razzista e messia. Non molto tempo fa Bezalel Smutrich, che è anche ministro del Ministero della Difesa, chiamato “Erase Havara”, chiamata che potrebbe sicuramente diventare un ordine. Pertanto l’obbligo di rifiutare oggi può prevenire gli orrori del domani.

La storia insegna che quando gli orrori che l’esercito richiederà di fare saranno accompagnati da propaganda velenosa, sarà troppo tardi, i soldati “semplicemente adempiranno agli ordini”. Quindi non c’è scelta, ora è il momento.

In questo momento difficile penso a mia nonna. Penso quale sarebbe il destino della sua famiglia, se nel 1933 una massa critica di ufficiali e soldati si rifiutasse di servire.

Oggi faccio la mia modesta donazione, tutto sommato una maggiore semplice e poco importante. Una donazione sotto forma di rifiuto pubblico di servire nell’IDF.

Guardo il cielo ora e dico a mia nonna orgogliosa, piena di lacrime di tristezza, che non sono pronta ad essere una di quelle che “seguono solo gli ordini”, che ho imparato questa lezione anche dalla sua storia privata, che è la storia di tutti noi. Da oggi non faccio più parte dell’esercito del paese d’Israele, un paese non democratico.

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Poiché la sua lettera al New York Times è facilmente reperibile in rete ed è riportata in molti siti facilmente consultabili, non continuerò a ripetere le fonti delle citazioni che riporto.

Prigionieri di minoranze religiose

La prima considerazione importante mi sembra questa:

Milioni di palestinesi che vivono qui con noi tra il mare e la Giordania non sono nostri nemici. Proprio come la maggior parte degli israeliani, anche la maggior parte dei palestinesi vuole semplicemente vivere la propria vita in pace e dignità. Il popolo ebraico e il popolo palestinese sono prigionieri da decenni di una minoranza religiosa violenta  

La conclusione del ragionamento è che “La guerra si poteva evitare, ma ora è troppo tardi. Poi prosegue così:

Come tutte le innumerevoli volte in cui ho prestato servizio nella riserva, anche questa volta, finché sarò in divisa, non scriverò qui le mie opinioni personali – continua – Ma prima di tacere vorrei scrivere qui alcuni miei pensieri”. E li elenca: “Non c’è nulla al mondo che possa giustificare il massacro di centinaia di persone innocenti”. E poi ; “Adesso è tempo di guerra, la prima cosa in questo momento è proteggere la casa, il Paese. Non confondiamoci, questa non è una “guerra senza scelta”, si poteva evitare, ma ora è troppo tardi. Ora non c’è altra scelta che imbracciare le armi e difendere i cittadini di Israele. Difenderò il mio paese dai nostri nemici. I nostri nemici sono organizzazioni terroristiche assassine controllate da estremisti islamici. Al massacro di israeliani innocenti non deve corrispondere il massacro di palestinesi innocenti. È importante ricordare che il popolo palestinese non è nostro nemico”. Questa guerra prima o poi finirà. Alla fine entrambe le nazioni dovranno fare i conti con i leader.

Sulla ricostruzione storica del confitto ci sarebbe molto da dire, ma è tuttavia a importante  questa presa di posizione anche per quello che dice alla fine e cioè che sono i leader di entrambi gli schieramenti a tenere prigionieri i due popoli.

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Qui di seguito riporto dal sito Terra Madre l’iniziativa delle donne israeliane ed arabe che il giorno 6 ottobre, prima dell’inizio del conflitto, hanno manifestato insieme. Il documento invece è di ieri.

IL GIARDINO DI LIMONI

Il grido delle madri: «Fermatevi e trattiamo per gli ostaggi»

Terra Madre

Manuela Borraccino

18 ottobre 2023

Le attiviste ebree e arabe di Women Wage Peace: «Chiediamo al governo israeliano di iniziare trattative immediate per il rilascio degli ostaggi e di includere le donne nei negoziati con i palestinesi. Non è possibile che ci siano solo uomini a guidare il Paese fuori da questa crisi».


«Scioccate, ferite, in ansia, eppure continuiamo a chiedere un accordo di pace». Comincia così la dichiarazione del movimento di Women Wage Pace (che raduna 44mila attiviste israeliane, ebree ed arabe) redatta nei giorni scorsi, dopo il massacro di 1.300 israeliani da parte di Hamas nei kibbutz di frontiera con la Striscia di Gaza, avvenuto solo tre giorni dopo l’ultima marcia pacifista a Gerusalemme e sul Mar Morto. Una strage, quella del 7 ottobre, durante la quale sono state catturate, tra i 199 ostaggi, anche una delle fondatrici del movimento, la 74enne Vivian Silver, che da decenni è membro attivo di organizzazioni femministe miste israelo-palestinesi (nel kibbutz Be’eri) e Ditza Heiman, madre dell’attivista Neta Heisman (nel kibbutz Nir Oz).

Nel dolore per la mattanza perpetrata da Hamas e per le migliaia di vittime altrettanto innocenti provocate dalla rappresaglia israeliana nella Striscia di Gaza, «come madri ebree ed arabe con diverse opinioni e posizioni, piombate dentro questo film spaventoso e folle», si legge nel comunicato, «chiediamo al governo israeliano di iniziare immediatamente delle trattative per il rilascio degli ostaggi. Facciamo appello alla Croce Rossa e alla comunità internazionale di garantire la loro sicurezza e agire per la liberazione immediata. Chiediamo che Israele impedisca che prenda fuoco anche la Cisgiordania e non permetta agli estremisti di entrambe le fazioni di istigare la regione, come già avvenuto la scorsa settimana». «Questa guerra dimostra oggi più che mai che il concetto di gestire il conflitto è fallito. L’idea di posticipare all’infinito la risoluzione del conflitto si è dimostrata fondamentalmente sbagliata».

Le attiviste fanno riferimento anche alla Risoluzione Onu 1325 del 2000 Donne, pace e sicurezza sull’obbligo (finora disatteso nella maggior parte dei conflitti mondiali) di inserire negoziatrici donne nelle trattive di riconciliazione e in generale tra i decisori. «Siamo nel 2023 eppure non ci sono quasi donne nei circuiti dove si prendono le decisioni in Israele. Questa è una situazione intollerabile che deve cambiare. Chiediamo che il team negoziale per la liberazione degli ostaggi includa delle donne. Non è possibile che ci siano soltanto uomini a guidare il Paese durante questa crisi».

La dichiarazione passa in rassegna l’angoscia, lo sgomento, la preoccupazione, il senso di impotenza che le madri di entrambi i popoli stanno provando da 11 giorni di fronte al nuovo conflitto. «Dobbiamo unirci a tutte le donne del mondo per fermare questa follia. Le nostre parole possono suonare ingenue e irrealistiche, ma questa è la verità: ogni madre, ebrea e araba, mette al mondo i propri figli per vederli crescere e fiorire, non per seppellirli». Per questo le attiviste chiedono al governo israeliano «di considerare i propri passi e le proprie azioni in modo responsabile e morale e prevenire morti inutili di civili e di soldati e, allo stesso tempo, laddove possibile, di impedire danni agli innocenti a Gaza».

Chiedono altresì risposte a queste domande: «Un’invasione di terra, la distruzione di Gaza, costringere un milione di palestinesi a lasciare le proprie case… tutto questo porterà forse a un futuro di sicurezza? E che cosa accadrà il giorno dopo? Non è forse essenziale dare la priorità alla liberazione degli ostaggi? I nostri leader cosa rispondono?». Dopo tutti gli sforzi fatti per stimolare l’adesione al movimento anche di cittadine arabe israeliane, le firmatarie della dichiarazione chiosano: «Dobbiamo rafforzare la solidarietà e unità fra il pubblico ebraico e arabo in Israele e continuare ad agire contro il razzismo e l’odio. Il pubblico arabo, che ha convissuto per anni con il dissidio interno di essere cittadini di Israele e parte del popolo palestinese, ha marciato insieme a noi in questi difficili tempi di crisi per la salvezza dell’intera società in Israele».


Infine la diretta mandata in onda dal Corriere del Ticino sulla manifestazione che negli Usa. In Italia questa notizia è stata data dalla Sette, e da Radio popolare. Di seguito tutti i link per chi volesse approfondire le questioni

10 ore fa — Migliaia di manifestanti di associazioni ebraiche hanno marciato mercoledì a Washington per chiedere il cessate il fuoco immediato fra Israele e …

https://tg.la7.it/esteri/washington-la-manifestazione-gli-ebrei-pacifisti-pro-palestina-500-arresti-19-10-2023-196476

11 ore fa — Decine di ebrei americani manifestano al Congresso per chiedere il cessate a fuoco a Gaza. Le immagini mostrate da media americani mostrano …

https://www.cdt.ch/news/mondo/manifestanti-al-congresso-usa-chiedono-il-cessate-il-fuoco-330757

ELIOT E L’ITALIA: OVVERO PRAZ, ELIOT, MONTALE

Questa parte del saggio fu pubblicata sull’annuario di Poesia Crocetti del 2002.

Eliot si è imposto lentamente in Italia. Non vi è alcuna sua influenza sull’avanguardia dei primi decenni del secolo, giudicata con sufficienza dai poeti più autorevoli del mondo anglo statunitense. Pound definiva il futurismo italiano un:

impressionismo accelerato, una schiuma vomitata da un vortice senza propulsione

e considerava ingenuo il ripudio della tradizione. 22

Quanto a Eliot, egli fu affascinato dalle affermazioni pirotecniche contenute nel Manifesto Futurista pubblicato da Le figaro nel 1909, ma non le prese mai alla lettera, anche se le userà con ironia e disincanto. La sua reazione anti romantica è più rivolta al tardo romanticismo inglese di poeti come Swimburne e Pater e ostile al sentimentalismo e all’autobiografismo nel linguaggio poetico; ma niente affatto demolitore della tradizione. Inoltre Eliot parte da Laforgue e dietro quest’ultimo ci sta Baudelaire; ma la sua visione della poesia attinge a un vasto patrimonio che si rifà all’antropologia e alle scienze e non soltanto alla tradizione letteraria. Infine il richiamo a Dante è quanto di più lontano si possa immaginare dai futuristi italiani.

Il nome del poeta comincia a circolare dopo il 1920, ma la fonte non è diretta: sono alcune riviste francesi a veicolarlo in Italia. La testimonianza di Montale è preziosa al riguardo. In un articolo del 1947 per la rivista L’immagine dal titolo Eliot e noi il poeta afferma:

Prima di allora [è il 1928 come dirà più avanti nello stesso articolo] non avevo letto di Eliot che una o due delle sue liriche giovanili, del periodo che fu chiamato laforguiano: Portrait of a lady e Prufrock.23

La rivista La Ronda lo ignora. È un nuovo periodico milanese nato nel 1925 (La Fiera letteraria) a occuparsi di lui. Si tratta di un foglio più eclettico e curioso, ma anche per i suoi redattori Eliot rimane un poeta difficile da digerire: Linati lo definisce:

poeta oscuro e critico perfetto.24

La svolta va ascritta all’opera di Mario Praz, il primo che dimostra di possedere gli strumenti culturali per cogliere l’importanza della poesia del poeta di Saint Luis. È il sostrato della poesia eliotiana ad affascinare lo studioso, uomo dai vasti orizzonti. È lui a tradurre Eliot per gli italiani; ma fa anche di più perché, da critico acuto qual è e da stratega delle lettere italiane di quegli anni in rapporto alla cultura europea, Praz diventerà il fabbro di una costruzione che avrà vita lunga e occuperà la scena nazionale, attraversando il primo novecento per approdare al secondo, quando Eliot s’imporrà definitivamente nel nostro paese.

È Mario Praz a proporre al poeta anglo statunitense la pubblicazione in Inghilterra di Arsenio. La poesia uscirà sulla rivista Criterion nel 1928. Il traduttore è lo stesso Praz e non si può non notare la stranezza, perché la prassi più consueta vuole che chi traduce un testo poetico sia un parlante la lingua di ricezione. Se fosse solo una stravaganza la cosa potrebbe non avere alcuna importanza; se non che, la versione inglese sembra fatta per forzare il testo montaliano fino a renderlo il più possibile affine, per atmosfera e stilemi, a una poesia di Eliot. Sebbene non sia il solo ad avere notato la cosa, cercherò di portare qualche prova per suffragare affermato, esaminando alcuni passaggi del testo e della traduzione a cominciare dall’inizio. 25

/I turbini sollevano la polvere/sui tetti, a mulinelli, e sugli spiazzi/deserti, ove i cavalli incappucciati/annusano la terra, fermi innanzi/ai vetri luccicanti degli alberghi./Sul corso, in faccia al mare, tu discendi/in questo giorno/or piovorno ora acceso, in cui par scatti/a sconvolgerne l’ore/uguali, strette in trama, un ritornello/di castagnette./

Praz traduce in questo modo:

/Dust, dust is blown about the roof, in eddies/It eddies on the roofs and on the places/Deserted, where are seen the hooded horses/Sniffing the ground, motionless/In front of the glistening lattices of the hotels./Along the promenade, facing the sea you slide,/Upon this afternoon of sun and rain,/Whose even close knit hours/Are shattered, so it seems, now and again/by a snappy refrain/of castanets./

Le peculiarità saltano subito all’occhio. L’attacco dà un’impronta molto decisa al testo grazie alle parole dust, eddies e roof, la cui iterazione è invece inesistente in Montale. È vero che il mulinello implica la polvere e anche il vorticare degli oggetti, ma la scelta operata da Praz di ripetere la stessa parola conferisce alla poesia quella particolare solennità che è tipica di molti attacchi eliotiani.

In The love song of J. Alfred Prufrock, ecco un esempio:

… /The yellow fog that rubs its back upon the window-panes,/The yellow smoke that rubs its muzzle on the window-panes,/

(La nebbia gialla che si gratta la schiena alle finestre,/il fumo giallo che si gratta il muso ai vetri delle finestre,/…) 26

Le citazioni potrebbero continuare a lungo perché l’iterazione è una caratteristica costante dello stile eliotiano.

Il procedimento di Montale va in senso addirittura opposto. Giocando sulla differenziazione dei significanti il poeta italiano sfrutta tutte le possibilità musicali della nostra lingua: mulinelli è parola che gli serve per un’allitterazione con cavalli nel verso successivo e non semplicemente per caricare di ulteriore senso l’uso precedente di turbini. Il testo di Montale è evocativo, mentre la traduzione di Praz è orientata nel senso della precisione e dell’esattezza. A parte l’arbitrarietà di ripetere ben tre vocaboli, anche l’uso del singolare roof, la prima volta, va nel senso della precisione; Montale usa il plurale tetti perché il suo paesaggio, per usare una metafora cinematografica, è visto in piano medio, non in primo piano come avviene in Eliot. Per il poeta anglo statunitense l’immagine o l’oggetto sono individuati e messi a fuoco. Ancora due versi di questa prima strofa:

/in questo giorno/ or piovorno ora acceso …/.

Praz traduce con:

 /Upon this afternoon of sun and rain/.27

A parte la bizzarria di questo giorno che diventa del tutto arbitrariamente un pomeriggio, la versione inglese elimina gli elementi aulici (piovorno), che Montale, un po’ artificiosamente, si porta appresso per poter costruire la rima con giorno, spezzando però il verso, così da renderne più martellante e ritmica la dizione. Anche ammettendo che un equivalente inglese di piovorno si possa trovare solo in un dizionario storico, Praz prende un po’ troppo la palla al balzo, eliminando anche la melodia dei versi. L’or ora montaliano, infatti, serve a dare un ritmo plastico all’alternanza dei diversi tempi atmosferici; insomma, mentre Montale gioca su ritmo, melodia e contrappunto, seguendo il suo istinto musicale che deriva anche dai suoi studi da baritono e dunque nutrito dal gusto melodrammatico così tipicamente italiano. Praz, invece, prosciuga il testo dai suoi tratti retro, rendendolo così più moderno. Nel prosieguo il traduttore ricorre più volte ancora alle iterazioni indebite, come quando usa per due volte le parole waves e moments nella seconda strofa. In questa parte tuttavia, un altro particolare balza all’occhio ed è la traduzione di nembo, che Praz traduce con wirlwind. La parola inglese indica il mulinello, il vortice, uno stato di turbolenza. È vero che tutta la poesia è percorsa dal movimento turbinoso degli elementi naturali che fanno da contrappunto all’immobilità di Arsenio, ma la parola ha pur sempre, in poesia, il suo primato e in questo caso Montale usa nembo.

Il poeta italiano ricorre spesso a parole auliche: abbiamo visto piovorno, ora nembo, figge nell’ultima parte. Anche il ricorso a parole tronche (fremer invece di fremere), si richiama a una tradizione classica, che fa da contrappunto all’introduzione di parole moderne e dal suono stridente: le castagnette della prima strofa e l’acetilene nella penultima. Già nei primi poemetti, i procedimenti iterativi conferiscono drammaticità e caricano di senso il dettato eliotiano e vorrei citare a questo proposito i versi che nel Prufrock si richiamano all’Ecclesiaste:

/And indeed there will be time/For the yellow smoke that slides along the street/Rubbing its back uopon the window-panes;/There will be time, there will be time,//To prepare the face to meet the faces that you meet;/There will be time to murder and create,/…

(E in effetti ci sarà tempo/per il fumo giallo che scivola lungo la strada/grattandosi il dorso ai vetri delle finestre;/ci sarà tempo, ci sarà tempo per preparare/una faccia per incontrare le facce da incontrare;/ci sarà tempo per uccidere e creare/…)28

In Montale, invece, il contrappunto fra parole della tradizione poetica e altre consapevolmente moderne risponde essenzialmente a esigenze linguistico musicali, con rimandi a luoghi ed episodi biografici. Viste da vicino le differenze sono più evidenti delle somiglianze, a meno di non ridurre tutto al comune uso, in entrambi, delle dramatis personae; sebbene, anche in questo caso, le diversità nel modo di farlo siano profonde perché diversi, sono i personaggi e perché l’uso che Eliot fa delle maschere non rimane lo stesso. Confrontiamo, per esempio, l’Arsenio di Montale con Prufrock e con  la Lady del Portrait.

Il personaggio montaliano discende un viale che porta sul lungomare, mentre il cielo è percorso dalla turbolenza tipica delle cittadine mediterranee in primavera. Il paesaggio è luminoso nonostante il vento e l’atmosfera tempestosa. Arsenio è un osservatore solitario, spiritualmente immobile, ma anche i suoi movimenti fisici sono impacciati. La vita gli scorre a fianco, rappresentata da elementi talvolta improbabili e curiosi (l’orchestrina di violini zigani); oppure dall’immagine tipicamente marina dei gozzi in rada. Arsenio continua la sua passeggiata fino a che la pioggia non scroscia improvvisa; anch’essa simbolo di una vitalità che non sembra scuoterlo. Il poeta, infatti, si rivolge a lui, nel finale con questi versi:

…/e se un gesto ti sfiora, una parola/ti cade accanto, quello è forse, Arsenio,/nell’ora che si scioglie, il cenno d’una/vita strozzata per te sorta, e il vento/la porta con la cenere degli astri./29

Consideriamo ora l’inizio di Prufrock e l’attacco della seconda parte di Portrait of a lady.

/Let us go then, you and I,/ When the evening is spread out against the sky/ Like a patient etherised upon a table;/ Let us go, through half deserted streets,/ The muttering retreats/ Of restless nights in one-night cheap hotels/ And sawdust restaurants with oyster-shells:/ Streets that follow like a tedious argument/ Of insidious intent/ To lead you to an overwhelming question…/ Oh, do not ask, “What is it?”/ Let us go and make our visit.// In the room the women come and go/Talking of Michelangelo.

( Andiamo dunque, tu ed io,/quando la sera è stesa contro il cielo/come un paziente anestetizzato sul tavolo;/andiamo, per certe strade semi deserte, /rifugi borbottanti/di notti inquiete in locande da una notte/e ristoranti con segatura e gusci d’ostrica:/ strade che seguono come una discussione noiosa/ dall’intenzione insidiosa/ per condurti a una domanda ineluttabile …/No, non chiedermi qual è./ Andiamo piuttosto, facciamo la nostra visita.// Le donne vanno e vengono nei salotti/parlando di Michelangelo Buonarroti./) 30

Sebbene il tedio, la proustiana paresse, ma anche lo spleen baudleriano, accomuni queste figure ad Arsenio, molto altro le differenzia. Il monologo di Prufrock ha un interlocutore diretto, il tu che si accompagna al protagonista. La drammatizzazione muove entrambi i personaggi e il poeta diviene un regista di scena, mentre nell’Arsenio di Montale è un io diretto a rivolgersi a lui nel finale. Diverso è poi lo scenario. I personaggi di Eliot si muovono nella città che Baudelaire ha intuito per primo come impasto di sordido e di sublime, di esperienza routinière e di possibilità d’incontri fuori dal comune. Eliot assume questa lezione e ridisegna la materia del poeta francese trasformandola in un inferno trasportato nell’al di qua. Lo vediamo dagli hotels che, nonostante le apparenti affinità sono invece affatto diversi. Alberghi a ore per incontri fugaci quelli del poeta inglese; più consueti quelli di Montale, dove i cavalli incappucciati danno alla scena tratti ottocenteschi, ma di un ottocento diverso da quello industriale e fuligginoso dei bassifondi parigini o londinesi.

Le due maschere eliotiane devono compiere una visita in un salotto borghese, dove impera il vaniloquio. È già presente in Eliot quel sentore di una società di massa intrisa di consumismo culturale e narcisismo salottiero, dove il protagonista è un demi monde che orecchia e ripete; del tutto assente in Montale.

In Portrait of a lady la protagonista è un equivalente femminile di Prufrock; cambia invece il modo della rappresentazione:

/ Now that lilacs are in bloom/She has a bowl of lilacs in the room/And twists one in her fingers while she talks./ “Ah my friend, you do noto know, you do not know/What life is, you who holds it in your hands;”/(Slowly twisting the lilacs stalks)/ “You let it flow from you, you let it flow,/And youth is cruel, and has no more remorse/And smiles at situations which it cannot see.”/ I smile, of course,/ and go on drinking tea.

(/Ora che i lillà sono in fiore/essa ha un vaso di lillà nella stanza/e ne attorciglia uno fra le dita mentre parla./”Ah, amico mio voi non sapete, non sapete/ cos’è la vita, dovreste tenerla in mano;”/ (Attorcigliando lentamente gli steli dei lillà.)/ “Voi lasciate che scorra, la lasciate scorrere,/ e la gioventù è crudele, non ha rimorsi/ e sorride delle situazioni che non vede.”/Io sorrido, naturalmente,/ e continuo a bere./) 31

Introducendo il virgolettato, Eliot non compie semplicemente un’operazione di tipo stilistico. Il monologo di Browning diventa dialogo drammatizzato, in un’alternanza di versificazione, dove gli intercalari fra i dialoghi sembrano quasi delle note di regia. Nel finale il poeta ride dei suoi personaggi e della pantomima messa in scena da questa lady, depositaria di pseudo verità; ma la presa di distanza è già avvenuta. Con Gerontion, Eliot, in un certo senso, uccide il personaggio di Prufrock per poterlo resuscitare spogliato dai tratti di compiaciuta identificazione che restano evidenti nelle prime produzioni. Quest’ultimo poemetto, infatti, annuncia il poema maggiore. La sintesi di questo percorso sarà proprio La terra desolata, dove gli elementi precedenti vengono fusi di nuovo e tenuti insieme da un sentimento tragico della crisi che si è, nel tempo, approfondito. L’ironia e lo scherzo sono presenti nel poema eliotiano, ma non sono più l’elemento dominante. Rimane il mondo infernale, ma si può convenire con Luigi Berti quando, riprendendo un’osservazione di Stephen Spender sulle affinità e differenze fra i due poeti, afferma a proposito della città che:

nella luce di questa poesia è evidente che come Baudelaire vi scorgeva tutto ciò che poteva essere condannato, Eliot, forse più modestamente, vi cerca tutto ciò che può essere salvato.32

Nel 1950, riflettendo proprio su questo percorso, in un saggio dal significativo titolo What Dante means to me (Ciò che Dante significa per me) e ristampato nel 65 nella raccolta di saggi To criticize the critic and other writings Eliot scriverà:

Credo che da Baudelaire imparai per la prima volta un precedente per le possibilità poetiche, mai sviluppate da un poeta nella mia lingua … della possibilità di fondere ciò che è realisticamente sordido e il fantasmagorico, la possibilità di giustapporre i fatti e il fantastico. Da lui come da Laforgue […] capii che il tipo di esperienza che aveva avuto un adolescente in una città industriale americana poteva essere materiale di poesia, e che la fonte di nuova poesia poteva trovarsi in ciò che era stato fin qui considerato intrattabile, sterile, impoetico33

Diverso il procedimento di Montale. Arsenio, pur avendo dei tratti che ricordano le dramatis personae eliotiane, rimane un episodio isolato, quasi estraneo alle atmosfere di Ossi di seppia. Tuttavia, si potrà obiettare che sono Le occasioni, e non l’opera d’esordio, quella che dalla critica è stata più avvicinata alla poesia di Eliot; anche se, come abbiamo visto, la pubblicazione di Arsenio in Gran Bretagna è un passaggio rilevantissimo nel rapporto fra Montale ed Eliot, sempre mediato da Mario Praz.

Vi accenna Mengaldo, ma anche altri hanno sottolineato tale contiguità. Barberi Squarotti si mantiene invece in una posizione più guardinga, limitandosi a osservare il superamento del soggetto. Secondo altri fra cui Eugenio Scarpati, il debito di Montale nei confronti di Eliot:

è culturale prima che poetico. 34

Il poeta stesso, dirà, riferendosi alle Occasioni, di una maggiore oggettività e pulizia, rispetto agli elementi spuri e soggettivi ancora presenti nell’opera precedente. Anche in questo caso, tuttavia, i dubbi rimangono forti. Una prima considerazione che s’impone è di carattere strutturale. Manca in Montale l’intento poematico, presente in Eliot, seppure nella forma aperta e cinematografica della costruzione a sketches. Visto nella sua prospettiva storica il poema eliotiano appare oltretutto più unitario di quanto non vedessero i suoi primi critici, colpiti dalla novità della partitura. Non solo la figura di Tiresia, ma anche la sequenza delle scene e il fitto intreccio di rimandi interni, costituiscono un insieme semantico molto strutturato. Infine, l’uso quasi esclusivo del tempo verbale al presente indicativo e il ricorso frequente alla drammatizzazione servono a cogliere tutto in presa diretta. La stratificazione dei significati non è data dalla memoria soggettiva dell’autore ma dalla compresenza oggettiva di elementi diversi e talvolta disparati; come quando, nel visitare una città gravida di storia, possiamo vedere nella stessa piazza una rovina arcaica, una chiesa del ‘500 e un palazzo in vetro e acciaio.    

Vediamo Le occasioni. Così inizia il primo testo, intitolato Vecchi versi.

/Ricordo la farfalla ch’era entrata/dai vetri schiusi nella sera fumida/su la costa raccolta, dilavata/dal trascorrere iroso delle spume./

La parola chiave di questo attacco è ricordo. Il tempo presente del verbo non è qui in presa diretta, ma introduce il punto di vista della memoria soggettiva; la scena successiva è evocativa, l’oggetto farfalla diventa subito simbolico. Nel prosieguo la memoria affolla la scena di altri personaggi: la madre del poeta, il tavolo ingombro dalle carte da gioco, i bambini che dormono. Siamo dunque in un interno, cui fanno da contrappunto: il faro pulsante dell’isola del Tino, il rombo sordo del mare delle Cinque Terre. La farfalla diviene l’elemento che porta la natura dentro questo tranquillo interno di una casa borghese. La sua presenza si fa minacciosa:

/Era un insetto orribile dal becco/aguzzo, gli occhi avvolti come d’una/ rossastra fotosfera, al dosso il teschio/umano; e attorno dava se una mano/tentava di ghermirlo un acre sibilo/ che agghiacciava./

Questo segno perturbante, che ricorda assai l’Acherontia Atropos di Gozzano,  sconvolge appena lievemente la scena, creando un forte momento epifanico; ma lo fa nel senso soggettivo proustiano non in quello oggettivo eliotiano. La farfalla di Montale assomiglia più alla madeleine. Il finale celebra un tema che appartiene alla poesia di tutti i tempi. La farfalla muore al contatto della luce e precipita su tavolo:

…/e fu per sempre/con le cose che chiudono in un giro/sicuro come il giorno,…/. 35

Il tema è quello della inesorabilità del destino che accomuna cose, animali, esseri umani. La caducità, colta nell’essere minaccioso e fragile di questa farfalla, viene estesa in questo bellissimo aprirsi finale del testo a ogni cosa, vivente o inanimata che sia; ma chi compie questo prodigio è ancora una volta, la memoria, parola chiave di questa parte. È la memoria a ingigantire il volo effimero di questa farfalla che viene associata al ricordo di una giovane morta precocemente – Annetta – che sarà anche la protagonista de La casa dei doganieri:

 /la memoria/in sé le cresce, sole vive d’una/vita che disparì sotterra: insieme/coi volti famigliari che oggi sperde/non più il sonno ma un’altra noia; accanto/ai muri antichi, ai lidi, alla tartana/ che imbarcava/ tronchi di pino a riva ad ogni mese,/al segno del torrente che discende/ancora al mare e la sua via si scava./ 36

L’elemento nuovo che Montale introduce è quello della noia che spegne queste vite, si direbbe, prima che abbiano compiuto il loro corso; questa novità si può collegare al tedio e all’immobilità di Arsenio e delle maschere eliotiane, ma è troppo poco per spingere le somiglianze oltre un certo limite. Non è qui in gioco, naturalmente, il valore di questa poesia e le suggestioni che essa sa riproporre su un tema così alto, ma l’affinità o meno con i procedimenti eliotiani. Piuttosto, è il Gozzano di Farfalle che viene alla mente.

Infine, due poesie intitolate Dora Markus e a un celebre Mottetto.

/Fu dove il ponte di legno/mette a Porto Corsini sul mare alto/e rari uomini, quasi immoti, affondano/o salpano le reti. Con un segno/della mano additavi all’altra sponda/invisibile la tua patria vera./Poi seguimmo il canale fino alla darsena/della città, lucida di fuliggine,/nella bassura dove s’affondava/una primavera inerte, senza memoria./ 38

Non mancano temi eliotiani in questo inizio: la primavera inerte, la lucida fuliggine, i rari uomini quasi immoti. Tuttavia è ancora una volta la memoria a tenere insieme tutto questo, il ricordo di un incontro con questa donna, di cui vi è una labile traccia in una lettera di Roberto Bazlen.

Dora, dal canto suo, ricorda il personaggio della signora nel boudoir di The game of chess (Una partita a scacchi), ne La terra desolata, ma ancora una volta le differenze sono più vistose. Così il testo di Montale:

…/Non so come stremata tu resisti/in questo lago/d’indifferenza ch’è il tuo cuore; forse/ti salva un amuleto che tu tieni/vicino alla matita delle labbra,/al piumino, alla lima: un topo bianco,/d’avorio; e così esisti!/.

Così quello di Eliot:

…/The glitter of her jewels rose to meet it,/From satin cases poured in rich profusion./ In vials of ivory and coloured glass/ Unstoppered, lurked her strange synthetic perfumes,/Unguent, powdered, or liquid – troubled, confused/…

(/lo scintillio le si levava incontro/ da astucci di raso versato a profusione;/ in fiale d’avorio e vetro colorato/dischiuse i suoi profumi stavano in agguato/ sintetici e strani/ unguenti ciprie e liquidi – turbavano e confondevano/…). 39

Sono gli oggetti a essere molto simili, ma è diverso il loro senso. Dora esiste attraverso di essi, come dice il poeta, mentre la signora del boudoir ne è pesantemente gravata. Nel prosieguo il sovraccarico di oggetti preziosi fra i quali la signora si muove descrivono in realtà una prigione dorata. Ed è allora che scatta una delle più commoventi e tragiche correlazioni dell’intero poema. Fra gli oggetti del boudoir vi è un quadro, il cui tema è il mito di Filomela, violentata da un re barbaro e trasformata in usignolo, condannato a cantare in gabbia. La relazione fra la rappresentazione nel quadro e la condizione di prigioniera introduce una drammatica messa in scena in forma di dialogo della nevrosi di cui soffre la donna.

Torniamo alla Dora Markus di Montale:

…/La tua irrequietudine mi fa pensare/agli uccelli di passo che urtano ai fari/ nelle sere tempestose:/ è una tempesta anche la tua dolcezza,/ turbina e non appare,/ e i suoi riposi sono anche più rari./ 40

Anche l’irrequietudine di Dora ha tratti nevrotici, ma essa rimane quello che è: una donna probabilmente mai incontrata, vista attraverso lo sguardo di un poeta che è anche un uomo. Nella seconda poesia a lei dedicata viene evocata la sua terra, la Carinzia, un luogo quasi esotico e lontano, irraggiungibile come forse la stessa Dora Markus. In definitiva il tema di Montale è l’incontro mancato con quella donna, ma non la condizione epocale di incomunicabilità fra uomini e donne in una relazione d’amore.

E veniamo al Mottetto

/La canna che dispiuma/ mollemente il suo rosso/ flabello a primavera;/ la rèdola nel fosso, su la nera/ correntìa sorvolata di libellule;/e il cane trafelato che rincasa/ col suo fardello in bocca,// oggi qui non mi tocca riconoscere;/ ma là dove il riverbero più cuoce/ e il nuvolo s’abbassa, oltre le sue/ pupille ormai remote, solo due/ fasci di luce in croce./ E il tempo passa./ 41

Il mottetto è nettamente diviso in due parti, sottolineate anche dalla più ampia spaziatura esistente fra la prima e la seconda. La prima scena ci presenta una serie di elementi vitali e primaverili: il susseguirsi delle stagioni e il ridestarsi della natura dopo l’inverno da un lato, l’attività dell’animale domestico ma ancora libero dall’altro. In questo contesto non privo di un sentore di arcadia campestre, s’insinua improvviso un elemento di morte suscitato dal nuvolo che si abbassa. Ancora una volta è il ricordo di due pupille ormai remote a sospendere sia il movimento, sia la primavera. La trasfigurazione finale che muta gli occhi di questa donna in due fasci di luce in croce non allude, nonostante le apparenze, ad alcuna redenzione perché non vi è rientro nella natura secondo il ciclo vita morte rinascita, ma neppure una scelta decisa verso la soluzione cristiana del resto guardata da Montale con scettico agnosticismo se non proprio con rifiuto. La chiusa, un dantesco colpo di maglio, allude alla condizione di transito di ogni cosa, ma s’impone per la sua forte connotazione ritmica e musicale, senza ulteriori apporti di senso. In realtà, considerando il Mottetto nel suo insieme, il poeta gioca sul contrasto piuttosto che sulla correlazione. La morte che si insinua, mediata dalla memoria, non è in dialettica con la vitale descrizione della prima parte, ma semplicemente vi si giustappone. Ciò che rende suggestiva questa poesia è la concentrazione di epifanie in uno spazio testuale così breve; sono momenti che hanno un forte valore intrinseco, secondo i canoni migliori della poesia simbolista, dalla quale non si distaccano. I singoli fotogrammi di questa scena, il lampo finale che dissolve tutto in una luce accecante e il richiamo al tempo lineare che trascorre ci portano in due direzioni precise: da un punto di vista filosofico verso l’esaltazione del tempo come istante epifanico piuttosto che come lunga durata alla Bergson e poeticamente verso il Mallarmè più rarefatto. Senza dimenticare mai, tuttavia, che il verso oggi qui non mi tocca riconoscere, con cui si apre la seconda parte del Mottetto, introduce un punto di vista squisitamente soggettivo.

Nei saggi raccolti sotto il titolo Il bosco sacro composti dal 1917 al 1920 riferendosi al processo che porta alla poesia, Eliot lo definisce in questo modo:

Si tratta di un processo di concentrazione, di una cosa nuova che ne risulta da moltissime esperienze che alla persona pratica e attiva non sembrerebbero tali … Le esperienze non sono rievocate … Il cattivo poeta è di solito incosciente laddove dovrebbe essere cosciente e cosciente dove dovrebbe essere incosciente. Tutti e due gli errori tendono a farlo personale.

È veramente curioso, a questo punto, rilevare come un poeta così legato alla biografia e ad alcuni luoghi privilegiati, venga associato a Eliot che critica apertamente l’irruzione di elementi biografici nel linguaggio poetico!

Negli studi di un italianista come Frederik Jones, forse perché più distaccato e capace di vedere le cose da una prospettiva più decentrata, ho trovato una ricostruzione convincente del percorso montaliano. Per lo studioso inglese il punto di partenza del poeta ligure è proprio Gozzano, da cui lo differenzia però

la fede continua e sostenuta nella validità dell’atto decisivo, capace di rievocare associativamente attraverso la memoria, le esperienze passate.

Continua ancora Jones: “… I suoi ricordi esteticamente sono spesso simili a certe evocazioni delle vecchie stampe gozzaniane, ma Montale ha su Gozzano il vantaggio di credere che la rappresentazione del patrimonio esistenziale del poeta possa avvenire in due modi: mediante immagini sia statiche sia dinamiche.

Nel merito più diretto della sua poesia essa:

Deve essere vista come una dialettica della memoria fondata su una religione nettamente immanente di sopravvivenza oltre la morte … Per lui una persona morta può essere immaginata solo come un insieme di atti incapsulati nel ricordo dei vivi … Tale conclusione è molto vicina alla teoria mallarmeana dell’essere ideale, ma in sostanza la sua forte carica emotiva l’avvicina piuttosto alle teorie proustiane della rievocazione memoriale ….

In tutto questo in nome di Eliot non compare mai. 42

Dal 1928 comincia una relazione intensa fra Montale ed Eliot, che culminerà anche in un paio di incontri e di cui Praz sarà l’assiduo tessitore. L’ambiente fiorentino è condizionato da questo sodalizio: l’esordio di poeti come Luzi, Bigongiari e Betocchi avviene in quest’atmosfera. Fino al ‘37 Praz e Montale saranno i soli traduttori di Eliot in Italia e i testi eliotiani suggestionano fortemente il poeta italiano. Negli interventi critici del poeta ligure sul suo interlocutore, Montale insiste sulla musicalità dei versi di Eliot, ma lascia in secondo piano i riferimenti culturali. Senza nulla togliere alla qualità musicale del poeta di oltre Manica, non è tuttavia per questo che si ricordano i suoi versi e comunque il suo rapporto con la musica è differente; le variazioni di Eliot sono jazzistiche, la sua cultura musicale, se vogliamo mantenere questo paragone, è eclettica e risente anche delle sue origini statunitensi. La musica di Montale è quella melodica e talvolta patetica del melodramma italiano e persino dell’operetta e in certe sonorità si possono riscontrare anche echi di poeti come Metastasio. Montale sembra assumere il calco eliotiano, ma non entra nel merito di problemi di poetica e quando lo fa le differenze sono evidenti. Due passaggi mi sembrano alquanto rivelatori. Dice Eliot:

L’unico modo di esprimere un’emozione in forma d’arte, consiste nel  trovare un correlativo oggettivo; in altre parole una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi che costituiscono la formula di quella particolare emozione …

Dice Montale:

Non si dà poesia senza artificio; il poeta non deve soltanto effondere il proprio sentimento, ma altresì lavorare la sua materia verbale fino a un certo momento e dare alla propria intuizione quello che Eliot chiama un correlativo oggettivo.”43

Eliot parla d’emozione in senso universale e non biografico, si riferisce a un vasto universo di riferimenti, non parla di effusione del sentimento, ma specialmente non usa la parola artificio. Per lui il correlativo oggettivo è necessario per dare il massimo di universalità possibile e d’impersonalità all’esito artistico, dove la parola va intesa nel senso del rigore della rappresentazione e non come è stato detto troppe volte nel senso della freddezza emotiva. Quando Eliot pensa al duro lavoro sul verso, ha in mente il fabbro e cioè il modo di operare dell’artigiano che se mai è un virtuoso, ma non un artificioso. In questo contesto, l’omaggio che Montale rivolge alla formula eliotiana, appare strumentale e infatti troverà modo di liberarsene anni dopo. Nella Intervista immaginaria. Sulla poesia del 1946 il poeta dirà fra l’altro, a proposito de Le occasioni, che esse erano l’espressione di:

… Un modo nuovo, non parnassiano, di immergere il lettore in medias res, un totale assorbimento delle intenzioni nei risultati oggettivi. Anche qui fui mosso dall’istinto non da una teoria (quella eliotiana del correlativo oggettivo non credo esistesse ancora nel ’28, quando il mio Arsenio fu pubblicato sul Criterion)…

Questa dichiarazione contiene una mistificazione e una palese inesattezza. Il poeta dice di essere stato mosso dall’istinto nell’andare in una certa direzione: si può credergli, visto che aveva parlato in altro contesto della poesia come artificio? Istinto e artificio mal si conciliano. Quanto all’inesattezza non è vero che nel ’28 la teoria del correlativo oggettivo non esistesse, in quanto essa fu formulata in un saggio del 1919; ma non è neppure vero che Montale la ignorasse! È lui stesso a lasciarlo intendere nella recensione scritta per un libro di Corrado Pavolini del 1929, quando riferendosi proprio al correlativo oggettivo lo presenta come quella:

famosa definizione che tende a fare di ogni lirica moderna un oggetto di poesia (il correlativo oggettivo) secondo la nota teoria di Eliot. 44

A parte l’interpretazione discutibile del dettato eliotiano, se la formula gli era così ampiamente nota nel ’29, è difficile pensare che la ignorasse completamente nel ’28! E comunque Montale se ne scorda nel ’46, mentre se ne ricordava benissimo nel ’31: perché? Forse perché per tutti gli anni ’30 le ali del grande anglo statunitense potevano essere un ottimo usbergo per il giovane (e poco noto in Europa) poeta italiano, mentre nel ’46 le stesse ali, divenute ancora più estese, potevano risultare ingombranti. In questo contesto l’intervista immaginaria che il poeta rivolge a se stesso va vista come un tentativo di dare organicità al proprio percorso, costruendo una propria originalità anche di poetica.

Concluderei questa parte ricordando un intervento di Oreste Macrì, letto in occasione del convegno internazionale sulla poesia di Montale tenutosi nel 1982. Soffermandosi proprio sui rapporti con Eliot lo studioso afferma:

È un momento cruciale questo dell’incontro con la poesia più che con la poetica di Eliot, sul quale Montale proietterà tutte le sue complesse e contraddittorie istanze, alla ricerca di una nuova sintesi superiore abbracciante i dati del lirismo e della prosa, del generico e del particolare del continuo e del salto,… della storia e dell’universale. I primi termini sono considerati dei dati …. L’universale ha gli stessi diritti del particolare; un mito, un simbolo, un rito antichissimi si possono sincronizzare e amalgamare in un contesto contemporaneo … Fu questa la riforma eliotiana, rielaborata da Montale alla buona, a punti di spillo, casualmente, con l’empiria e il buon senso dell’uomo della strada.” 45

La vera fortuna di Eliot in Italia inizia nel secondo dopoguerra, quando aumentano, fino a diventare numerosissimi, gli studi su di lui; specialmente dopo l’attribuzione del Nobel, avvenuta nel 1948. Da un semplice esame della bibliografia si evince subito come sia la sua opera di drammaturgo a tenere ancora banco. Il poeta è in seconda linea e della sua produzione poetica molti studi sono dedicati alle opere giovanili e alla Waste Land mentre quelli dedicati ai Quartetti sono in netta minoranza. Saranno le traduzioni successive di Sanesi, Tonelli e altri a renderli più noti, ma siamo negli anni’80 e ’90.

Un altro filone della critica si occupa di Eliot in quanto esponente di prestigio della cultura cristiana: si pensi ai lavori di Margherita Guidacci, Angelo Romanò e specialmente a quelli di Luigi Berti che insistono su opere meno considerate da altri, quali, per esempio Ash-Wednesday o pièce teatrali molto rappresentate in quegli anni come Assassinio nella cattedrale o Cocktail party.

Le ragioni per cui continua a piacere sono dovute a uno strano melange che riguarda certamente la sua poesia e la sua poetica, ma anche il personaggio che egli sembra incarnare: quello dimesso e scettico, tipicamente moderno, del poeta agli antipodi del vate romantico o d’annunziano.

Filtrata dalla vicenda montaliana, il modo in cui il poeta viene accolto risente ancora di più di quella predisposizione simbolista, tardo ermetica, oppure crepuscolare che continuava e per certi aspetti continua a gravare sulla poesia italiana. La sua diventa da un lato una poetica dell’aridità che fa tutt’uno con la figura dimessa del poeta uomo comune, prototipo di quell’uomo senza qualità che è una figura tipica dell’anti eroe novecentesco. Dall’altro lato una poetica dell’oggetto, che è cosa diversa dal correlativo oggettivo.

La citazione di un brano del saggio di Silvio Ramat sulla poesia di Bartolo Cattafi mi sembra a questo proposito emblematica, non tanto per quanto egli dice sul poeta siciliano ma per il modo di intendere Eliot:

Il mutamento operatosi nel rapporto soggetto-oggetto va posto in relazione a un processo tipico della letteratura novecentesca. È un processo che aveva conosciuto in Eliot e, contemporaneamente in Montale, la sua stagione decisiva, dando luogo in termini di riepilogo critico alla formula eliotiana del correlativo oggettivo.46

Oltre che a dare per scontato il parallelismo fra i due autori Ramat mette l’accento sullo spostamento fra soggetto e oggetto