Gozzano non è il più grande poeta italiano del ‘900 per quel troppo di legame sabaudo che permane in gran parte della sua opera. Tuttavia, dell’italianità seppe cogliere alcuni elementi che oggi sono ancora attuali. I suoi animali impagliati, gli oggetti incartapecoriti, che tuttavia sembrano più vitali degli abitanti della casa in cui vengono collocati, erano l’immagine di una decadenza e di un crepuscolo, ma limitata a un ambiente sabaudo; era la vecchia borghesia piemontese e torinese (grande e piccola) che aveva fatto l’unità d’Italia a modo suo. Di questa società Gozzano è stato il figlio un po’ ribelle, un po’ dandy e un po’ flaneur. [1]
Tuttavia, la sua opera può essere letta oggi amplificandone la portata per almeno due ragioni: perché ora sappiamo meglio come la storia culturale e letteraria italiana del ‘900 sia stata piena d’imbarazzanti provincialismi ma anche di altrettanto imbarazzanti tentativi di porsi al passo con la cultura europea. Antonio Gramsci, specialmente in alcune rubriche dei Quaderni, come le Noterelle di cultura, I nipotini del Padre Bresciani, Miscellanea e La letteratura nazional popolare, ha compiuto la ricostruzione più meticolosa dei vizi e delle virtù della cultura nazionale. Gozzano si colloca in una sorta di via di mezzo: il suo alto provincialismo, che si distingue da tutti gli altri, rimane di un livello poetico superiore a molti tentativi di smarcarsi dal provincialismo basso per entrare in una dimensione formalmente più europea. La seconda ragione è di carattere stilistico: ci sono aspetti innovativi della poesia di Gozzano che si legano al meglio della cultura poetica del tempo, per esempio il verso lungo in alcuni dei testi più celebrati: La signorina Felicita, Cocotte, Totò Merùmeni.[2]
Nel ‘900 italiano hanno pesato due diverse forme di provincialismo: la prima e più ovvia è quella legata alla cosiddetta Heimat, cioè alle piccole patrie locali, mentre la seconda consisté nel seguire le tendenze maturate altrove, spesso quando erano già state superate, oppure senza metabolizzarle veramente. Un terzo caso assai interessante riguarda Montale, oggetto di un’intelligente costruzione politico-culturale da parte di Mario Praz, che in qualche misura si sovrappose al Montale poeta. Le ragioni dell’illustre critico erano nobili: contrapporre alla dilagante cultura fascista una figura che incarnava una prospettiva diversa, che il critico cercò di riconnettere alla grande poesia della crisi novecentesca e prima di tutto a Eliot. Montale si prestò con intelligenza e furbizia al progetto, ma questo lo portò a un relativo trionfo solo dopo la guerra, anche perché la cultura letteraria fascista qualche buona freccia al suo arco l’aveva eccome! Per esempio, il regime era riuscito nel capolavoro di tenere sotto la propria ala protettiva sia il Futurismo sia D’Annunzio, dimostrando così una capacità egemonica notevole. Questo non toglie che Montale sia un grande poeta del ‘900 italiano, ma non tanto per le ragioni volute così fortemente da Praz (il paragone con Eliot non regge ed è pure basato su qualche traduzione un po’ troppo libera e un po’ troppo astuta), ma perché in lui confluiscono la musicalità del grande verso italiano, che si sposa al bel canto (Montale era un buon baritono): è la tradizione di Metastasio ma anche del Caproni più melodico, niente affatto minore rispetto ad altre, ma che nulla c’entra con la grande poesia europea della crisi novecentesca.
Un secondo esempio di cattiva integrazione europea fu la coltivazione del mito della classicità; perché, dopo Holderlin, essa non poteva più essere riproposta in chiave poetica, ma solo in chiave critica. La classicità occidentale, in poesia, significava Dante, non più Omero e Virgilio e infatti Eliot e Pound scelsero quella strada, riscoprendo in chiave modernista la Commedia e il sommo poeta. Al tempo stesso, tedeschi, inglesi e statunitensi furono i maggiori dantisti del ‘900, così come erano stati tedeschi e inglesi i maggiori classicisti e mitografi durante l’800 e anche dopo: si pensi all’opera straordinaria di un Graves, per esempio, di Schelegel e di altri ancora prima.
Gli altri maggiori poeti italiani del ‘900 hanno coltivato un provincialismo alto (Caproni), declinandolo nell’epica di una saga famigliare che seppe tenere conto anche della psicoanalisi (Bertolucci); oppure, come Saba, hanno goduto del particolare privilegio di vivere a cavallo di due mondi e di essere stato il primo in Italia – insieme a Svevo seppure con modalità assai diverse – a fare della psicoanalisi medesima uno dei motori della propria opera. Infine Pavese, che seppe connettere in modo originale mito ed epica, tanto da risultare una voce anomala non solo in Italia. Quanto all’ermetismo e cioè la poetica dominante nella prima parte del secolo, esso fu un fenomeno molto italiano, legato alla necessità di smarcarsi della retorica fascista e dal Futurismo marinettiano.
Tornare a Gozzano dopo questo giro al largo implica domandarsi se oltre all’alto provincialismo e al verso lungo ci sia dell’altro che riguarda sia la sua poesia sia la consapevolezza critica e la sua capacità di leggere la propria collocazione in quel contesto.
La Torino di Gozzano sta in una via di mezzo come lui: il Risorgimento e i suoi miti sono tutti alle spalle, la Torino operaia e moderna di Gramsci e di Ordine nuovo non è ancora apparsa. Il poeta muore nel 1916, un altro anno di mezzo: la guerra è appena cominciata per l’Italia, ma gli sconvolgimenti cui essa porterà a livello europeo, cominceranno ad apparire l’anno dopo. Inoltre, il viaggio in India con l’amico Garrone, nel vano tentativo di curare per vie naturali la tubercolosi, l’avevano portato altrove in ogni senso. Se I Colloqui e le altre liriche più celebrate si muovono nel contesto già indicato e cioè fra decadentismo e crepuscolarismo, c’è un’opera modernissima, che va a mio avviso rivalutata: Le farfalle epistole entomologiche, un poemetto originalissimo, incompiuto e considerato minore se non per la poesia intitolata Acherontis atropos. Invece si tratta di un’opera unica nel contesto italiano e in anticipo sui tempi, prima di tutto per quanto riguarda la sua costruzione. La probabile data d’inizio dell’opera è il 1908 e questo dimostra che si tratta di un progetto parallelo ma considerato assai importante dal poeta, che ne parla in una lettera indirizzata ad Amalia Guglieminetti e reperibile in rete:
… Le mie crisalidi sono tutte farfalle! L’ho scoperto oggi, attraverso il reticolato del coperchio: ho chiuso le finestre e aperta la scatola ed è stato, nella mia grande camera chiara, un frusciare turbinoso di prigioniere sbigottite …
Gozzano sarà a sua volta un appassionato collezionista di farfalle e anche questo dimostra un interesse niente affatto estemporaneo per la materia: fra l’altro la sua collezione sarà impreziosita da ulteriori esemplari che riportò in Italia da Ceylon. Quanto si testi, egli sa combinare la capacità d’osservazione tipica dello scienziato entomologo con la sensibilità poetica e la delicatezza che gli sono proprie. Certo, l’oggetto scelto sembra fatto appositamente per vedere in queste poesie l’ennesimo elogio della fragilità effimera, il gusto per ciò che dura lo spazio di un mattino. A questo contribuisce senza dubbio anche il testo, a cominciare dall’incipit del primo dal titolo Come dal germe:
Come dal germe ai suoi perfetti giorni/giunga una schiera di Vanesse; quali/speranze buone e quali fantasie/la creatura per volar su nata/susciti in cuore di colui che sogna/col suo lento mutare e trasmutare,/la maraviglia delle opposte maschere,/la varia grazia delle varie specie,/in versi canterò… Non vi par egli d’essere in Arcadia?
La parodia dell’invocazione alla Musa e il richiamo alla settecentesca Arcadia è il sottofondo ironico che accompagna tutta l’opera del poeta ma fermarsi a questo sarebbe assai poco, perché fin da questo primo testo si dispiega un progetto poematico di grande robustezza, anche se purtroppo rimasto incompiuto: dal germe al bruco, alla collezione di vanesse è lo sguardo sul mondo animale che cattura. Gozzano lo esplora alternando esprit de finesse a esprit de geometrie, competenza nel merito dell’oggetto trattato. Quanto alle ragioni della scelta tematica, esse sono espresse in questi versi, nella parte finale di Come dal germe
Forse lo stanco spirito moderno/altro bene non ha che rifugiarsi/in poche forme prime, interrogando,/meditando, adorando; altra salute/non ha che nella cerchia disegnata/intorno dall’assenza volontaria,/come la cerchia disegnata in terra/dal ramoscello dell’incantatore:/magico segno che respinge tutte/e le lusinghe e le insensate cure;/solo rifugio dove il cuore spento/vibri fraterno e riconosca l’Uomo,/ché più non vede l’esemplare astratto,/ma la specie universa eletta al regno/del mondo. E come il Dio d’antichi tempi/appariva all’asceta d’altri tempi,/così l’asceta d’oggi senza Dio/sente nel cuor pacificato un bene/sommo, una grazia nova illuminante,/lo Spirito immanente, l’acqua viva,/e si disseta più che alle sorgenti/che mai non troverete, o sitibonda.
Il verso finale si rivolge a un tu femminile che possiamo pensare sia Amalia Guglielminetti, almeno in prima istanza, ma più generalmente rivolto a chi si ostina a cercare nella natura ciò che mai troverete piuttosto che quello che invece c’è e interrogarlo con umiltà.
Dei Bruchi è il secondo testo, che segna il passaggio naturale dalla potenzialità del seme alle prime trasformazioni. Anch’esso ha un inizio ironico dove si canta non il celebratissimo alloro ma l’ortica pungente. Tuttavia la parte davvero interessante è quella in cui il poeta introduce una metafora assai suggestiva:
Volsero i giorni, crebbero gli alunni;/per ben tre volte usciti di se stessi/tre volte tanto apparvero voraci./Or fatti pesi, flettono le cime/della mia selva, ammantano le foglie/con loro mole fosca, irta di punte./
I bruchi diventano una classe di alunni che crescono insieme: questa strana scolaresca diventa vorace e va verso il suo destino: Delle crisalidi ci porta nel cuore della metamorfosi, di cui Gozzano ci offre una rappresentazione potente e drammatica. Il poeta riprende la metafora degli alunni in questo modo:
Ma il sesto dì la mia famiglia trovo/dispersa tutta lungo le pareti./Come le sacre vittime d’un tempo/s’apprestavano degne col digiuno,/i bruchi alunni mondano i precordi,/ricusano la fronda. È giunta l’ora./Consapevoli quasi del mistero/imminente, s’ammusano l’un l’altro,/lenti volgendo ad ora ad or la testa,/esplorano gli arredi gli scaffali/le cimase gli spigoli, un rifugio/cercando eccelso come gli stiliti./Cercano in vero il luogo ove celarsi/dai nemici del cielo e della terra;/quale vigilia torpida li attenda/ben sanno e sotto quale spoglia inerte/pendula ignuda, senza la custodia/del bombice di sua seta fasciato;/ché le Diurne mutansi in crisalidi/non difese che dalla forma subdola,/dalla tinta sfuggente, non armate/che di silenzio immobile e d’attesa.
Quando la metamorfosi è in parte compiuta la presenza umana che fino a questo momento era ritirata nell’ombra oppure aveva adottato mascherature ironiche, entra qui in scena nella figura del “negromante”:
Oggi tutto è silenzio di clausura,/digiuno, attesa immobile, sgomento/di necropoli tetra. Alle pareti/ogni defunto è un pendulo monile,/ogni monile un’anima che attende/l’ora certa del volo. Ed io mi sono/quel negromante che nel suo palagio/senza fine, in clessidre senza fine,/custodisce gli spiriti captivi/dei trapassati, degli apparituri./Veramente la mia stanza modesta/è la reggia del non essere più,/del non essere ancora. E qui la vita/sorride alla sorella inconciliabile/e i loro volti fanno un volto solo.
Un volto solo. Mai la Morte s’ebbe/più delicato simbolo di Psiche:/psiche ad un tempo anima e farfalla/scolpita sulle stele funerarie/da gli antichi pensosi del prodigio.
Un volto solo…
Con questo testo si chiude la prima parte del poemetto e inizia la seconda. Intitolata Monografie di varie specie. Le farfalle sono nate, il poeta ne sceglie alcune alle quali dedica i suoi testi: i titoli si riferiscono a questo e portano sempre anche il termine originale latino. La prima è Del Parnasso (Parnassum Apollo). Come nei testi precedenti, c’è sempre una metafora al centro, che nel caso specifico è un interrogativo: come sia possibile che nel disegno delle ali e nei colori la natura si sia servita di un essere fatto d’aria per riprodurre in esso il disegno della montagna. La chiusa del testo recita:
Il volo stanco, ritmico, diverso/dall’aliar plebeo delle pieridi,/ha un che di malinconico e s’accorda/mirabilmente con la gamma chiara/dell’alte solitudini montane./E il poeta disteso sull’abisso,/col mento chiuso tra le palme, oblia/la pagina crudele di sofismi,/segue con occhi estatici il Parnasso/e bene intende il sorgere dei miti/nei primi giorni dell’umanità;/pensa una principessa delle nevi/volta in farfalla per un malefizio…
Della cavolaia Pieris brassicae. Con questo testo Gozzano apre un nuovo campo tematico: la farfalla diventa un tramite per un discorso che si estende alla Natura ma anche al pensiero umano:
Come in questa vicenda e in altre molte,/la Natura, che i retori vantarono/perfetta ed infallibile, si svela/stretta parente col pensiero umano!/Non divina e perfetta, ma potenza/maldestra, spesso incerta, esita, inventa,/tenta ritenta elimina corregge./Popola il campo semplice del Tutto/d’opposte leggi e d’infiniti errori./Madre cieca e veggente, avara e prodiga,/grande meschina, tenera e crudele,/per non perder pietà si fa spietata.//E quando vede rotta l’armonia/riconosce l’errore, vi rimedia/con nascite novelle ed ecatombi. /Essa accenna alla Vita ed alla Morte;/e le custodi appaiono, cancellano,/ritracciano la strada ed i confini.
Questo passaggio è uno dei più complessi dell’intero poemetto. Apparentemente ci sono echi leopardiani, ma il testo non si risolve del tutto in essi. Al centro sta l’isomorfismo che Gozzano vede fra pensiero umano e natura, anch’essa maldestra come il pensiero e il volo irregolare delle farfalla può di certo avere ispirato questo passaggio. Dell’aurora Anthocarius cardamine è il simbolo della primavera. Dell’ornitottera Ornithoptera Pronomus ci porta invece altrove. Il viaggio verso oriente nel vano tentativo di vincere la tubercolosi, lo porta a contatto con una natura diversa dalla nostra e sarà proprio da quel viaggio che Gozzano tornerà con una collezione preziosa di farfalle. L’ornitottera evoca i paesaggi esotici del suo e di altri viaggi che pittori e poeti europei intrapresero a cavallo dei due secoli precedenti.
Sopra l’astuccio nitido di lacca/una fascia di seta giavanese/evoca un mare calmo che scintilla/tra i palmizi dai vertici svettanti.
E la farfalla, che non so pensare/sui nostri fiori, sotto il nostro cielo,/ben s’accorda coi mostri floreali:/gnomi panciuti dalle barbe pendule,/ampolle inusitate, coni lividi/evocanti la peste e il malefizio;/s’accorda coi paesi della favola /sopravissuti al tempo delle origini:/vulcani ardenti, moli di basalto,/foreste dal profilo mïocenico/dall’aria dolce senza mutamento,/dove la luce tremola e scintilla/tra il fasto delle felci arborescenti./
Della testa di morto (Acherontia Atropos
È il testo più celebrato: farfalla notturna e simbolo di morte. L’Acherontia, rispetto a tutte le altre farfalle, emette un suono che assomiglia a un lamento piuttosto che al frusciare delle ali. Il testo, di certo il più compatto e drammatico, simile in questo a Delle crisalidi riprende il tema del ciclo vita-morte. La drammatizzazione è scandita in tre parti. La prima, apparentemente solo descrittiva, evoca invece un elemento sinistro:
D’estate, in un sentiero di campagna,/v’occorse certo d’incontrare un bruco/enorme e glabro, verde e giallo, ornato/di sette zone oblique turchiniccie./Il bruco errava in cerca della terra/dove affondare e trasmutarsi in ninfa;/e dalla gaia larva, a smalti chiari,/nasceva nell’autunno la più tetra/delle farfalle: l’Acherontia Atropos.
Certo vi è nota questa cupa sfinge/favoleggiata, dal massiccio addome,/dal corsaletto folto, con impresso/in giallo d’ocra il segno spaventoso
Natura volle l’Acherontia Atropos/simbolo della Notte e della Morte,/ messaggera del Buio e del Mistero,/e la segnò con la divisa fosca/e d’un sinistro canto. L’entomologo/tuttora indaga come l’Acherontia/si lagni. Disse alcuno, col vibrare/dei tarsi. Ma non è. Mozzato ho i tarsi/all’Acherontia e s’è lagnata ancora./Parve ad altri col fremito dei palpi./Io cementai di mastice la bocca/all’Acherontia e s’è librata ancora/per la mia stanza, ha proseguito ancora/più furibondo il grido d’oltretomba;/grido che pare giungere da un’anima/penante che preceda la farfalla,/misterioso lagno che riempie/uomini e bestie d’un ignoto orrore:
Anch’essa crudele come l’entomologo che l’esplora, l’Acherontia spaventa le api operaie perché il suo lamento imita quello dell’ape regina. Esse si vendicano con lei all’alba:
All’alba solo, quando l’Acherontia/intorpidita e sazia tace e dorme,/l’operaie decretano la morte./Depone ognuna sopra l’assopita/un granello di propoli, il cemento/resinoso che tolgono alle gemme./E la nemica è rivestita in breve/d’una guaina e non ha più risveglio./L’apicultore trova ad ogni autunno,/tra i favi, questi grandi mausolei.
La natura può essere crudele come l’umano che l’esplora e che con i suoi strumenti può interferire su di essa specialmente quando si ha a che fare con organismi fragili o con le micro dimensioni. La chiusa riporta all’inizio del testo: la scena notturna e famigliare è turbata dalla presenza dell’Acherontia:
La villa è immersa nella notte. Solo/spiccano le finestre della sala/da pranzo dove la famiglia cena./L’Acherontia s’appressa esita spia/numera i commensali ad uno ad uno,/sibila un nome, cozza contro i vetri/tre quattro volte come nocca ossuta./La giovinetta più pallida s’alza/con un sussulto, come ad un richiamo./«Chi c’è?» Socchiude la finestra, esplora/il giardino invisibile, protende/il capo d’oro nella notte illune./«Chi c’è? Chi c’è?» «Non c’è nessuno. Mamma!»/Richiude i vetri, con un primo brivido,/risiede a mensa, tra le sue sorelle./Ma già s’ode il garrito dei fanciulli/giubilante/per l’ospite improvvisa,/per l’ospite guizzata non veduta./Intorno al lume turbina ronzando/la cupa messaggera funeraria.
La poesia non può essere tuttavia separata dall’ultima che Gozzano scrisse – Della passera dei santi (Macroglossa Stellantarum) – che celebra invece la vita. Ci sono delle somiglianze fra le due farfalle, ma sono le piccole differenze a proiettarci in un mondo in cui l’amore e l’eros trionfano.
Amica, sotto il nostro sguardo ignaro/si celebra tra il fiore e la farfalla/il rito più mirabile, il mistero/più tenero: le nozze floreali.// «Mariti uxores unoeodemque thalamo/gaudent…», Linneo/meditabondo scrive./Degli sposi gran parte nasce vive/ama nel tabernacolo smagliante/della stessa corolla; sul pistillo/giunge dall’alto degli stami il bacio/desiderato, il polline fecondo.
Questo inno all’amore diventa un inno alla natura e a quella che oggi chiamiamo biodiversità:
Ma dopo esperienze millenarie/molti fiori s’avvidero che il bacio/nella stessa corolla, che lo stimma/fecondato dal polline fraterno,/conduceva la stirpe in decadenza,/e vollero l’amplesso dell’amante/lontano e meditarono le nozze/non possibili. Alcuni, gli anemofili/affidarono i baci d’oro al vento;/gli entomofili vollero gli insetti/paraninfi discreti e vigilanti./Ma il fiore – che sa tutto – non ignora/che vano è al mondo attendere conforto/se non da noi, che la farfalla esiste/pel suo bene soltanto e la sua specie;/ed ecco le scaltrezze del richiamo:/i colori magnifici, i profumi/ineffabili, il nettare che il fiore/distilla in fondo al calice, a compenso/del messaggio d’amore, per attingere/la coppa ambrosia con la sua proboscide,/la macroglossa deve tutti compiere/ i riti delle nozze floreali.
Infine il monito all’elemento umano:
A tante meraviglie il nostro vano/orgoglio mal s’oppone col sofisma/che l’intesa tra il fiore e la farfalla/è fissa, che il mirabile congegno/non muta. Ma il convolvolo domestico abolisce/ il nettario, più non chiama/la macroglossa da che sente l’uomo/paraninfo sicuro e vigilante;/altri fiori depongono gli aculei,/il latice, i viticci, da che l’uomo/li difende li guida li sorregge.
La chiusa, di nuovo rivolto a un tu femminile, è un invito a ritrovarsi nella natura:
Amica, forse troppo a lungo e troppo/superbamente noi c’immaginammo/creature divine incomparabili/senza parenti sulla Terra. Meglio/ritrovarsi tra i fiori e le farfalle,/essere peregrin come son quelli,/verso la meta sconosciuta e certa./Certa è la meta. Com’è dato leggere/tutto il destino della Macroglossa/in ogni parte del suo corpo aereo/foggiato ad eternare la bellezza/d’una fragile stirpe floreale,/chiaro si legge il compito dell’uomo/nel suo cervello e nei suoi nervi acuti./Nessuno s’ebbe più palese il dono/d’elaborare la materia sorda/in un’essenza non mortale: anelito/di tutto ciò che vive sulla Terra/fluido strano ch’ebbe nome Spirito,/Pensiero, Intelligenza, Anima, fluido/dai mille nomi e dall’essenza unica./Tutto di noi gli è dato in sacrificio:/la ricchezza del sangue, l’equilibrio/degli organi, la forza delle membra,/l’agilità dei muscoli, la bella/bestialità, l’istinto della vita
Per concludere
Le opere maggiori di Gozzano sono coeve al sorgere del Futurismo: il contrasto è stridente, ma poco considerato perché, anche a causa delle scelte compiute da Gozzano stesso, era la sua vicinanza a D’Annunzio nella primissima parte della sua produzione poetica a ossessionare prima di tutti lui stesso, ma anche i critici. Il poeta torinese espunse dalle prime produzioni tutte le liriche che potevano apparire vicine al Vate e rifiutò persino di pubblicare con l’editore Treves perché troppo esposto con D’Annunzio. A un secolo di distanza mi sembra invece più interessante sottolineare le vistose differenze che separano Gozzano dal Futurismo; non solo per una sensibilità poetica lontana anni luce dal frastuono futurista, ma piuttosto per due diversi modi d’interpretare la modernità. Con Le farfalle lettere entomologiche Gozzano amplia i confini del poetico estendendolo alle scienze e sebbene esistano dei precedenti storici nella poesia settecentesca (Sopra una conchiglia fossile di Zanella per esempio), si tratta di una novità per la poesia italiana che avrà poco seguito nel ‘900, se si esclude qualche sensibilità espressionista e Pagliarani nella seconda parte del secolo. Tale novità può essere ancor più apprezzata se posta in relazione con i Futuristi che si propongono a loro volta di ampliare i confini del poetico, ma non è per loro la scienza in quanto strumento di conoscenza del mondo e della natura ad attirarli, bensì la macchina, il rumore e specialmente la guerra, vero centro propulsore della loro poetica. Oppure, come dimostra la campagna pubblicitaria di De Pero per la Campari, è il rapporto fra merce, capitale ed arte ad attirare le loro attenzioni. Il Futurismo russo cercherà una strada diversa e quanto mai creativa fino a che Stalin non porrà fine a tutte le sperimentazioni più ardite, ma trattare tale argomento esula dagli intenti di questo studio. Quanto a quello italiano, trascurato o irriso dall’avanguardia europea più agguerrita, finirà nella deriva fascista e da parte di un Marinetti terminale addirittura nell’Inno alla Decima Mas.
Eliot lesse per curiosità il Manifesto di Marinetti e lo irrise, quanto a Pound il suo giudizio questo: … impressionismo accelerato, una schiuma vomitata da un vortice senza propulsione. Questa presa di posizione di Pound è contenuta in una serie di articoli di polemica che la ‘Review of the great English verse’ conduceva riguardo alle interpretazioni del movimento imagista, cui il poeta apparteneva. Essa è riportata nel libro T. S. Eliot in Italia, 1925-1963 saggi e bibliografia’ di Laura Caretti. Bari, Adriatica Editrice, Biblioteca di studi inglesi, 1968. Pag. 13.
[1] Va tuttavia detto che intorno alla vita di Gozzano è stato costruito un alone posticcio e la sua morte precoce a causa di una malattia come la tubercolosi, sono diventate metafora di fragilità, di effimero e malinconico. I dati biografici smentiscono in buona parte tutto questo. Gozzano, come tutti quelli della sua cerchia – maschi e femmine – era anche un gaudente un po’ guascone; di Guido, per esempio, viene detto che i suoi insuccessi scolastici (fu bocciato due volte), erano in larga parte dovuti all’insofferenza verso uno studio troppo guidato, ma specialmente per la propensione allo scherzo e all’irriverenza goliardica. Un capitolo a parte è poi costituito dalla relazione con Amalia Guglielminetti che si presta a diverse interpretazioni, alla luce di riflessioni recenti che mettono in evidenza l’omosessualità del poeta, di cui esistono testimonianze in lettere assai esplicite. Fu una vera storia d’amore quella con Amalia, oppure entrambi e non solo Gozzano, sapevano che mai lui avrebbe potuto accedere a una relazione eterosessuale? Un importante saggio scritto da Franco Buffoni nel 2016, in occasione del centenario della morte del poeta e facilmente accessibile in rete, offre a mio giudizio una esauriente, sobria e documentata ricostruzione della biografia di Gozzano che mi sembra definitiva nel correggere interpretazioni fantasiose. Emerge ovviamente da tutto questo anche un velo di ipocrisia che in quegli anni, pur così laici e spregiudicati, impediva comunque di nominare l’omosessualità per quello che era. Gozzano dissimulò la circostanza e lo si può capire visto che a oltre cent’anni di distanza, la strada dei diritti civili è ancora in salita.
[2] I Colloqui furono pubblicati nel 1911.