La scelta di Chailly e Kasper Holten di non cambiare il programma della Prima della Scala è stata felicissima, anche perché compiuta senza troppo rumore e inutili forzature, puntando tutto sulla potenza del dramma di Musorgskij e Puškin, modernissimo se si va oltre l’apparenza. Storiaccia ultra maschile di potere, trono e altare, apparentemente da ancien regime ma in realtà, come sottolineato anche dalla regia che ha modernizzato i costumi in corso d’opera, esempio di una storia che non passa e si ripete. Il tratto modernissimo, che distanzia a mio giudizio l’opera di Musorgskij dal Macbeth di Verdi, è il dramma psicologico di Boris, il suo contorcimento emotivo che testimonia come la ripetizione infinita del cliché va comunque incontro a una modernità che non si può più evitare: Dostoevskij non è poi così lontano. Gli interpreti poi sono stati superbi, in particolare Ildar Abdrazakov nel ruolo di Boris; ma tutti, a cominciare dai cori; per concludere con un finale emozionante.
Ottime anche le proteste, quelle vere di piazza, non quello di chi voleva fermare tutto.