LA FAVOLA È FINITA

«Si è sempre detto quando cadrà Roma cadrà il mondo. La stessa cosa vale per l’America, se cadesse o finisse nelle mani di qualche stupido dittatore, quali ripercussioni potrebbero esserci?» Francis Ford Coppola

Dopo avere seguito in diretta, lo spoglio dei voti delle elezioni presidenziali negli Usa, ho pensato che Coppola, con Megalopolis, ha proprio scelto il momento giusto per lasciarci il suo testamento spirituale, corredato da un sottotitolo – una favola di Francis Ford Coppola – niente affatto casuale. Un aspetto favolistico è sempre presente nel cinema di Coppola, che lo mutua da Frank Capra e ci mette del suo declinandolo nel senso di un omaggio all’American dream, sempre presente nei suoi film e ne cito un altro per tutti: Tucker. Coppola non ha mai nascosto di credere nel sogno americano democratico, con tutte le ingenuità del caso, eppure la mia impressione è che in quest’ultimo film il finale favolistico suoni solo come necessità di ribadire il cliché perché una favola deve avere un lieto fine, ma senza più crederci, tanto che certe colorazioni e l’ambientazione stessa di Megalopolis hanno persino delle assonanza con le colorazioni di Barbie.

In Megalopolis, un altro motivo originale e per niente scontato, se si pensa ai suoi film precedenti, è proprio la sovrapposizione fra la Roma di Catilina e la società statunitense contemporanea, una sovrapposizione sfrangiata e a tratti persino strampalata, ma che sta dentro l’immaginario di una buona parte dell’establishment statunitense. Noti consiglieri di stato come Edward Luttwak, per esempio hanno dedicato studi approfonditi sull’impero nel tentativo di capire se gli Usa finiranno nello stesso modo. Coppola affronta questa tematica da par suo, anche nel senso dell’esagerazione e di una qualche approssimazione. Non è chiaro perché scelga proprio la Roma repubblicana di Catilina, visto che gli Usa attuali sono a tutti gli effetti un impero. Quanto alla radicalità eventuale delle riforme che Catilina cercò di introdurre, va pure detto che il momento più aureo di tali riforme furono i Gracchi mentre quello che venne dopo era molto edulcorato. Rimangono però due punti a favore delle scelte compiute dal regista: il tentativo di Catilina di liberarsi del senato e dei veti incrociati, che certamente riguardano anche gli Usa attuali, e poi il debito. Queste due questioni corrispondono a mio giudizio anche a due momenti particolarmente comici del film. Il primo, quando Franklin Cicero pronuncia durante un comizio la famosa invettiva Fino a quando Catilina …: il corto circuito fra l’immagine dell’uomo di colore in divisa da sindaco statunitense e le parole celeberrime di Cicerone hanno un effetto dirompente. Il secondo momento, quasi alla fine del film quando Cesar Catilina, dalle fattezze di un Obama bianco, dopo avere fatto un accordo con Hamilton Crasso che gli permette di finanziare il suo progetto di Magalopolis, urla dal palco Abbattere il debito. Anche in questo caso l’effetto comico è dato a mio avviso da due particolari: il primo è che la battuta appare del tutto estemporanea, senza un prima e un dopo. Non c’è un nesso del tutto chiaro fra le parole che precedono lo slogan e quanto avviene dopo. L’effetto comico sta nella incongruenza dello slogan medesimo: siamo oltre la demagogia, ma è proprio questa oltranza a essere a mio avviso decisiva. L’aspetto comico sta in evidenza alla superficie, ma nominando il debito Cesar Catilina e Coppola con lui nel suo modo un po’ stralunato, nominano eccome la sostanza del problema! Il dollaro, moneta internazionale dalla fine degli accordi Bretton Woods – 15 agosto 1971 – garantito solo dalle armi imperiali, è una delle ragioni della crescita esponenziale del debito statunitense, che tutto il resto del mondo paga. Se dunque da un lato il grido di Cesar Catilina non ha alcun senso se si guarda alla sua fattibilità in quanto scelta imperiale, esso si pone nel solco di una strampalata visionarietà, che è poi la cifra dell’intero film. Perché in fin dei conti, a livello mondiale, i tentativi di porre fine alla sovranità del dollaro esistono eccome! Basta leggere i pochi interventi seri comparsi sulla stampa occidentale sul recente convengo dei Brics a Mosca per rendersene conto: suggerisco a questo proposito quanto scritto da Aletta su Milano Finanza.

Il finale del film chiude a mio avviso il cerchio. La sua cifra più favolistica sta in un particolare che lo percorre dall’inizio alla fine. La voce misteriosa che all’inizio salva Cesar Catilina dal suicidio intimandogli di fermarsi, diviene nel prosieguo il tempo stesso che può essere fermato da lui e da Julia, la protagonista femminile più importante del film. In ogni momento e nei passaggi più drammatici è la sola a mantenere la capacità di stare nel processo degli eventi senza subirli, molto più di Cesar Catilina stesso, che l’alcol e la propria instabilità emotiva mettono spesso fuori gioco. L’espediente di fermare il tempo, del tutto interno al cliché favolistico, assume allora un valore ben più profondo. Per ben tre volte il tempo si ferma e allora l’espediente risuona anche in un altro modo: è un avvertimento che può salvare la repubblica solo se lo si ascolta veramente. Julia e Cesar Catilina ci riescono ma intorno a loro c’è il vuoto, la campana continua a suonare ma nessuno la sente più. Alla fine però l’amore vince di nuovo, i due hanno una figlia dal nome impegnativo: Sunny Hope – Speranza radiosa. Se il grido Abbattere il debito risuona un po’ come quello del bambino della favola che smaschera la nudità del re, Sunny Hope, una bambina, è la flebile speranza di un futuro incerto perché lei, a differenza di Julia e Cesar Catilina non avrà più la facoltà di fermare il tempo: la favola è finita.

REGISTI DA RISCOPRIRE: FRITZ LANG

Folla che si raduna in Wall Street a New York dopo il crollo alla fine di ottobre del 1929. (Foto AP)

Premessa

Fritz Lang è uno degli autori più grandi e celebrati del cinema espressionista, ma il destino dei registi e delle loro opere è assai più precario di quello di romanzieri e poeti: la carta tutto sommato resiste al tempo molto di più delle pellicole, per cui dimenticare un regista è più facile che non dimenticare un romanziere, anche perché la possibilità di rivedere certi film a decenni di distanza è legata a operazioni di restauro che non sempre riescono. Quando vidi la prima volta Il mostro di Düsseldorf qualche anno fa, il film mi pose gli stessi interrogativi che mi ero posto dopo la lettura di un libro appena pubblicato di Adriano Voltolin dal titolo Il rilievo e lo sfondo, dove l’autore riporta una frase di Hanna Segal, la quale si chiedeva come mai comportamenti individuali che, se messi in atto vengono immediatamente riconosciuti come indici di gravissime patologie, non vengono riconosciuti come tali quando se ne fanno portatori istituzioni o rappresentanti pubblici. La malattia del protagonista del film, come dirò più avanti, può essere considerata come un sintomo di quelle che Freud chiama le nevrosi della comunità, che esploderanno in Germania come un fiume in piena che travolgerà tutto due anni dopo l’uscita del film. 1

1931

La vicenda rappresentata è semplice da riassumere e il farlo non impedisce a chi non ha ancora visto il film di apprezzarlo, dal momento che la vicenda in sé è davvero solo un innesco. Un serial killer adesca e uccide ragazzine preadolescenti. La polizia brancola nel buio, facendo crescere senza volerlo la tensione, anche perché il sistema delle comunicazioni di massa era già sufficientemente sviluppato, tanto da amplificare le gesta dell’uomo, fino alla pubblicazione di una sua lettera da parte di un quotidiano. I delitti continuano finché la grande criminalità cittadina, disturbata dalle continue e cieche retate della polizia, decide di darsi da fare per catturarlo. Arruola i mendicanti della città per un piccolo compenso, assegnando a ciascuno di loro in modo capillare porzioni precise di territorio, dove dovranno tenere d’occhio chiunque avvicini delle bambine. Anche la polizia cerca il serial killer e individua la casa in cui l’uomo vive e da dove ha scritto la lettera inviata ai giornali. L’intelligenza investigativa, però, è lenta, mentre la criminalità, padrona del territorio, arriva prima e lo cattura dopo avere sventato l’ennesimo delitto che l’uomo stava per compiere. Lo portano in una distilleria abbandonata dove lo sottopongono a un singolare processo. Il clima è di linciaggio, nonostante che l’avvocato difensore perori la causa del suo cliente in modo assai intelligente, tanto che molti assentono anche fra la platea di mendicanti che funge da giuria popolare. Il pubblico ministero, cioè il capo dei capi delle organizzazioni criminali, volge però l’assemblea a suo favore, ma, proprio nel momento in cui sta per essere pronunciata la sentenza di morte, la polizia irrompe nell’aula del processo popolare e salva il criminale.

I finali di Fritz Lang sono sempre sorprendenti e problematici: il pensiero è corso subito a un altro suo film, che forse molti ricorderanno nella versione restaurata di alcuni fa. In Metropolis veniva auspicato un compromesso trasparente, seppure incoerente rispetto all’andamento del film: infatti, dopo avere mostrato l’impossibilità della conciliazione fra le classi sociali, il film si concludeva con un embrassons nous fra padroni e operai, mediato dal partito socialdemocratico: sappiamo come è andata finire pochi anni dopo.

Nel Mostro di Düsseldorf il primo elemento che colpisce è il blocco sociale estemporaneo che si forma per catturarlo, costituito dalla grande criminalità e dai mendicanti. I primi sono, secondo una definizione contemporanea applicata alle mafie italiane, l’anti stato oppure uno stato nello stato; i secondi sono la massa di manovra della grande criminalità, ne costituiscono l’esercito di riserva, cui si ricorre per piccoli servizi e manovalanza criminale generica. Insieme, si rivelano garantisti in una misura che parrebbe imprevedibile, ma si tratta di una sorpresa soltanto apparente. Anche la grande criminalità, come qualsiasi aggregato sociale, ha bisogno di regole e  ritualità: il processo che celebrano, infatti, ha formalmente tutti i crismi di un processo regolare. Del resto sono noti i rituali delle mafie, le procedure d’iniziazione, la cura a volte maniacale di questi dettagli. Per non parlare dei codici d’onore nelle carceri, della sanzione che i detenuti stessi riservano a chi ha commesso reati particolarmente odiosi. Il meccanismo psicologico che sottostà a tale procedure è semplice da capire: anche il peggiore dei criminali ha bisogno di credere che esiste qualcuno peggiore di lui.

Il secondo protagonista è il serial killer, il terzo è la società civile tedesca, che sembra essere del tutto assente come entità organizzata. C’è una battuta, pronunciata da una delle madri delle bambine, in conclusione del film, quasi un’invocazione che suona tuttavia come un segno di impotenza:

… Avremmo dovuto vigilare …

Non è ben chiaro cosa voglia dire la donna, ma proprio l’inquietante sospensione nell’aria di questa invocazione senza risposta e interlocutori, evoca sinistramente ciò che sarebbe accaduto da lì a due anni. 

Pubblico e privato

Quando lo vidi la prima volta, anni fa, considerai questo film una metafora lucidissima della dissoluzione della Repubblica di Weimar, ma lo presi per un film storico; rivedendolo oggi, a parte il bianco e nero e una recitazione teatrale formidabile e scevra da effetti speciali, mi sembrava di assistere a un’opera cinematografica che ci parla drammaticamente dei problemi odierni, ma vorrei subito dire che non mi riferisco all’ondata montante della destra in tutta Europa, perché, pur pericolosa, ritengo si tratti di un problema tutto sommato minore.

Torniamo di nuovo a Metropolis e confrontiamo i due finali.

In entrambi c’è qualcosa che li accomuna e che ha a che fare con un compromesso. Una differenza sostanziale, però, ci fa comprendere molto bene cos’era accaduto nei quattro anni che separano un film dall’altro (Metropolis è del 1927). In quest’ultimo, viene proposto un patto sociale fra capitale e lavoro: le lotte operaie del ‘19 e successivamente del ’23, pur concludendosi con la sconfitta del progetto insurrezionale della Lega Spartachista, cui seguì l’assassinio di Rosa Luxemburg e Karl Liebnecht, avevano comunque conservato intatto il potere e la forza della classe operaia tedesca. Discutibile o meno nella sua ingenuità, il film rappresentava due entità sociali fortemente strutturate, con le loro istituzioni, la capacità di governare, dirigere la società civile e controllare il territorio; entrambe erano portatrici di una visione del mondo e di un progetto di società.

Nel Mostro di Düsseldorf tutto questo non esiste più, in scena vediamo un individuo malato, mentre le madri delle bambine uccise sembrano essere completamente abbandonate a se stesse, così come è solo e atomizzato il killer nella sua follia. Quando le madri si aggregano con altri per protestare e reclamare giustizia, sono solo persone sconosciute le une alle altre, la psicosi cresce anche perché quello che sta loro a fianco non sanno più chi sia. Non esiste più alcun patto, la società civile si richiude in casa e il territorio è ormai diventato il terreno su cui si ritrovano masse impaurite e isteriche che si buttano sul primo che capita e ne fanno il classico capro espiatorio (come accade in una scena iniziale del film quando un uomo viene subito scambiato per il mostro soltanto perché ha risposto a una ragazzina che gli chiedeva l’ora), oppure viene lasciata alle scorribande della polizia e della grande criminalità; il finale, in fondo, vede proprio loro protagonisti della cattura, in una sorta di discordia necessariamente concorde, su cui sarà tuttavia necessario mantenere il silenzio. Il confitto sociale ha ceduto il passo alla guerra di tutti contro tutti. Due anni dopo saranno le milizie delle SA e delle SS a percorrere le stesse strade con altri intenti.

1929

Proprio nel mezzo fra il 1927 e il 1931, si colloca un anno chiave: il 1929, che si era abbattuto sulla società tedesca come un secondo uragano, sconosciuto ad altre società europee che, pur colpite dalla crisi, non ne subirono gli effetti con la stessa devastante violenza. Inflazione dell’ordine di un bilione, licenziamenti di massa, impoverimento verticale delle condizioni di vita, legame sociale dissolto. La classe operaia, che pure aveva resistito all’inflazione degli anni precedenti, espulsa dalle fabbriche e atomizzata, vedeva franare le sue istituzioni di controllo del territorio e della società civile. La voragine che si era aperta fu colmata in pochi mesi dal partito nazista.

La massa che noi vediamo nel Mostro di Düsseldorf è il precipitato sociale della crisi del ‘29: una società atomizzata e impaurita, in preda al panico, in fuga da se stessa, pronta a identificarsi con un capo, che la porti fuori da quella situazione in qualsiasi modo. Hitler e il partito nazionalsocialista seppero coagulare intorno a sé, lo spirito gregario successivo a quel sentimento di totale annientamento della personalità, conseguente la crisi del ’29: sarà tale spirito di massa che permetterà loro di trascinare il popolo tedesco alla guerra e poi alla rovina.

2024

Chiamare in causa la nostra contemporaneità implica subito un chiarimento preliminare: qui finiscono le analogie con il 1929, che riguardano solo il film di Lang e la situazione tedesca degli anni ’30. Diamo per scontato che in tutte le crisi esistono somiglianze e differenze, ma la nostra di oggi è ben più grave di quella del 1929 e stabilire una relazione troppo stringente fra essa e il consenso che la destra neofascista e neonazista ottiene un po’ in tutta Europa può essere addirittura una cortina fumogena che impedisce di vedere le differenze sostanziali.

Questo argomento, tuttavia, esula dagli intenti di questa riflessione che vuole richiamare l’attenzione di chi legge su un film e su un autore. Certo, il film di Lang pone dei problemi attualissimi, specialmente per quanto riguarda l’imbarbarimento in atto di tutti rapporti sociali: come tale è una premessa per ulteriori interventi più direttamente politici.

Fritz Lang

1 Ho messo fra virgolette ‘nevrosi della comunità’ perché la traduzione italiana corrente del termine tedesco usato da Freud è un’altra: “nevrosi collettive.” Non sono il primo a notare come tale traduzione corrente si presti a troppi equivoci. Per nevrosi collettive in italiano si può anche intendere le nevrosi più frequenti, quelle che il maggior numero di pazienti manifesta nel setting analitico. Inoltre si potrebbe aggiungere che il termine collettivo, rimanda a qualcosa che appartiene a tutti indistintamente, almeno in un certo ambito. Così facendo ci si preclude però la possibilità di cercare di comprendere comportamenti particolarmente pericolosi e inquietanti che non sono affatto quantitativamente rilevanti, ma lo sono da un punto di vista qualitativo, perché tramite loro è possibile intravedere lo sfondo più ampio e profondo dentro il quale tali comportamenti hanno le loro radici. Se un gruppo di adolescenti terrorizza compagni di classe e di quartiere, chiedendo loro denaro per avere protezione (come accaduto recentemente a Padova, e prima in altre località), non posso dedurne che tale comportamento sia collettivo. Un’affermazione del genere incontrerebbe e incontra subito la stessa smentita, ovvia, ma al tempo stesso pericolosa: si tratta di casi isolati. Sul piano del dato empirico questo è certamente vero, anche confrontando le statistiche sui crimini sull’arco di decenni. Se invece si considerano questi atti come emblematici di malesseri più profondi di cui essi sono la spia, la questione cambia. Nelle modalità in cui si sono dati questi fatti di cronaca, indicano per esempio, che il modello mafioso dell’estorsione in cambio di protezione, esercita un’attrazione su strati giovanili della società italiana (ma si potrebbero indicare altri tipi di comportamenti) e questo è certamente il sintomo di una malattia di cui la comunità italiana soffre da tempo e che peraltro trova prima di tutto riscontro nei comportamenti pubblici di istituzioni e cariche dello stato. Fino a poco tempo fa i modelli negativi a livello istituzionale, spingevano alla denuncia, a una politica di opposizione: oggi essi diventano, per alcuni, modelli da imitare. Il venir meno della figura del padre (Luigi Zoia e altri hanno parlato di ‘società senza padre), capace di indicare un modello di legge positiva, porta quasi naturalmente alla identificazione con altre figure che svolgono il ruolo di surrogati ma che, comunque, incarnano una legge pur che sia. Nel caso dei giovani estorsori di Padova si tratta di una legge criminale; in modo non molto diverso da quello che vediamo nel film Il mostro di Düsseldorf. Ebbene la definizione estensiva di ‘nevrosi della comunità’ (che va oltre l’aspetto puramente analitico e individuale del concetto di nevrosi), è molto più utile a una comprensione di questi fenomeni sociali, che non l’aggettivo ‘collettivo’, che in ultima analisi, esprime un dato quantitativo, seppure in termini assoluti.

IL FESTIVAL FUORI ASSE A MILANO

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Ci vediamo all’Anfiteatro Martesana.

Il prossimo weekend a Milano c’è un appuntamento imperdibile (e gratuito, il che non guasta mai, signora mia): il festival di circo contemporaneo Fuori Assedel quale quest’anno siamo presentatrici ufficiali, dj, formatrici, spargitrici di lacca ecologica e majorettes!

Se desideri, puoi partecipare al secondo incontro del laboratorio intensivo Drag (Con)Fusion, sabato 21 settembre dalle 10 alle 14.

Qui sotto trovi tutte le informazioni.

Ti aspettiamo al festival!

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Dal 20 al 22 Settembre 2024 arriva la terza edizione di Fuori Asse Festival a cura di Quattrox4 in collaborazione con noi e Cascina Martesana.

Sono 3 giorni di festa all’aperto all’Anfiteatro Martesana, tra spettacoli di circo contemporaneo, musica e laboratori creativi.

Noi saremo le “fate madrine” delle serate, presentando gli spettacoli e accogliendo il pubblico in questo colorato mix di saperi scenici e incontri.

In particolare, sabato 21 condurremo un laboratorio (vedi qui sotto) e cureremo il dj set serale palleggiandoci la consolle con TURBOLENTA.

Trovi qui il programma completo delle attività del festival.
Sono tutte gratuite e (salvo che per i laboratori) non è necessaria prenotazione.

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Durante il laboratorio proveremo a lasciarci ispirare dalle sonorità e dalle diverse lingue già presenti nel Parco della Martesana, per tracciare collegamenti e visioni, tra cover inedite e una sapiente (si spera) invasione dello spazio!

Costruiremo un’azione collettiva drag, che verrà presentata all’Anfiteatro Martesana, per aprire la Serata Spaccatacchi, il nostro dj set!

Il laboratorio è aperto a persone di ogni età, etnia, genere e esperienza.

Quando: sabato 21 settembre 2024
Dove: Giardino Nascosto (Cascina Martesana)
Orari: workshop dalle 10 alle 14

+ ritrovo alle 20 per prepararsi per la performance alle 22 circa

Il laboratorio è gratuito previa prenotazione a: info@ninasdragqueens.org

REGINE DI PERIFERIA

ecologia drag nei quartieri

Ulisse Romanò in Botanica Queer

“Si sente il bisogno di una propria evoluzione
sganciata dalle regole comuni, da questa falsa personalità
Segnali di vita nei cortili e nelle case all’imbrunire,
le luci fanno ricordare le meccaniche celesti”

Franco Battiato

Che cos’hanno in comune un oleandro e una drag queen?
Che cosa significa queer – e perché mai dovrebbe interessarti scoprirlo?
È possibile trasformare la vita di una città piantando dei semi?

Attraverso quattro laboratori, uno spettacolo itinerante e una balera in piazza, il progetto intende stimolare una riflessione sul rapporto tra diversità di genere, ecologia e riqualificazione del territorio. Il progetto, realizzato in partenariato con Teatro Fontana, si sviluppa in tre quartieri di Milano – Baggio, Chiesa Rossa e Gallaratese – alla ricerca delle Regine di Periferia… siano esse piante o sgargianti drag queen!

Tutti i laboratori del progetto sono gratuiti, aperti a persone di ogni età, genere e esperienza.
In ogni quartiere, verranno modulati per incontrare le esigenze del territorio e si può seguire più di un laboratorio.
Per iscriversi, inviare una mail a teatroscuola@teatrofontana.it

Ecco il dettaglio dei quattro laboratori:

NATURA E TRASFORMAZIONE
laboratorio di pratiche ecologiche a cura di Associazione Argot

Un percorso sviluppato su due moduli che vuole sia osservare che sperimentare nella pratica il potere trasformativo della Natura e le sue interconnessioni con l’esperienza queer.
Il laboratorio metterà a confronto reti ecologiche e tessuti sociali, l’adattamento della natura in contesti apparentemente ostili e il fiorire in contesti di discriminazione. Proporrà pratiche di cura e riappropriazione dello spazio pubblico ma anche del corpo, dell’individuo e della comunità.

due moduli, 15 posti disponibili

CHE COS’E’ QUESTO QUEER?
laboratorio su corpo, genere e identità a cura delle Nina’s Drag Queens

Che cosa significa queer, e perché mi riguarda?
Che relazione c’è fra il queer e la vita nel mio quartiere?

Le persone della comunità LGBTQIA+ spesso non sono a loro agio nelle zone periferiche, apparentemente non preparate a ricevere un’espressione di genere non standardizzata. Ma è davvero così?
Il laboratorio mira a costruire una riflessione che tenga insieme tematiche di genere e qualità di vita nelle città, attraverso gli strumenti del teatro e della partecipazione attiva.

un modulo, 20 posti disponibili

SPAZIO PUBBLICO PLURALE
laboratorio di design partecipato a cura di Polimi Desis Lab

Quante vite diverse, anche non umane, convivono negli spazi di questo quartiere?
Come sarebbero gli spazi pubblici se fossero progettati in maniera collaborativa e tenendo in considerazione necessità e desideri di tutt3?

Il laboratorio intende agire in questa direzione, immaginando e progettando insieme degli elementi per modificare uno spazio del quartiere, abbracciando una varietà di prospettive. Si esplorerà lo scenario urbano camminando nelle scarpe (o zampette) di vari abitanti del quartiere, dando vita ad un viaggio di co-progettazione in cui le visioni uniche di chi partecipa sono fondamentali per il futuro degli spazi pubblici del quartiere.

due moduli, 15 posti disponibili

REGINE DELLA FESTA
laboratorio intensivo di teatro drag a cura delle Nina’s Drag Queens

Diventa Drag in un pomeriggio! Un flash lab per dare un assaggio della poetica Nina’s, creare un momento di divertimento e gioco, e realizzare una performance corale.
Attraverso improvvisazioni, playback e facili coreografie scopriremo la divina che c’è in noi e costruiremo anche un’azione collettiva drag, che verrà presentata la sera stessa del laboratorio per aprire le danze della Balera.

un modulo, 20 posti disponibili

BOTANICA QUEER

In ogni quartiere, si svolgeranno quattro repliche di Botanica Queer, con un percorso rimodulato sul territorio. Sono disponibili 35 posti per ciascuna replica.
Per iscriversi, inviare una mail a teatroscuola@teatrofontana.it

Botanica Queer è uno spettacolo-passeggiata alla scoperta delle aree verdi della città. Fra odi alla fisiologia vegetale, canti per stimolare l’apparato radicale degli alberi, affondi eco-femministi e coreografie collettive, Demetra condurrà le spettatrici di una realtà semplice e scottante: le piante sono queer!


BAGGIO

NATURA E TRASFORMAZIONE (2 moduli)
sabato 11 e sabato 18 maggio,
luogo e orario da definire

CHE COS’E’ QUESTO QUEER? (1 modulo)
domenica 26 maggio, ore 15-18,
luogo da definire

SPAZIO PUBBLICO PLURALE (2 moduli)
martedì 21 maggio e martedì 18 giugno, ore 18.30-20.30
Biblioteca di Baggio, via Pistoia 10, Milano

REGINE DELLA FESTA (1 modulo)
sabato 22 giugno, luogo e orario da definire

BOTANICA QUEER (4 repliche)
da giovedì 20 a domenica 23 giugno, pomeriggio
Il punto di ritrovo per Botanica Queer sarà segnalato al momento dell’iscrizione

BALERA
sabato 22 giugno, orario serale

Tutti i laboratori e gli eventi sono gratuiti, previa iscrizione a teatroscuola@teatrofontana.it
Vai al calendario generale

Nina’s Drag Queen
Aparte Soc. Coop.
Via A. Soffredini, 77
20126 Milano – ITALY
P. IVA IT06211350969
Inviaci una email

Fuori Asse

Ricevo dalle Nina’s Drag Queen il programma della nuova edizione di Fuori Asse, che si tiene, come quella scorso anno, in Triennale. Gli scambi fra teatro e arte circense  sono relativamente nuovi e promettono assai bene. L’edizione dello scorso anno fu un indubbio successo, che mi auguro sia ripetuto in questa nuova edizione di cui di seguito vedete il programma.

Fuori Asse Focus 2024 | AI CONFINI DEL CIRCO presenta una selezione di quattro spettacoli di circo contemporaneo a cura degli amici di Quattrox4 programmati all’interno di Triennale Milano Teatro.

Per Quattrox4 il circo è creazione, in transizione tra generi e stili, capace di superare il virtuosismo per aprire a nuovi scenari. Gli spettacoli in programma sono consigliati dagli 8 anni in su.

Giunto alla sua terza edizione, Fuori Asse Focus 2024 | AI CONFINI DEL CIRCO è un format di visione con accompagnamento critico curato da Quattrox4 all’interno di Triennale Milano Teatro: quattro spettacoli di circo contemporaneo, due incontri con gli artist*, una tavola rotonda per operatrici e operatori interessati alle nuove funzioni della critica nel circo contemporaneo. Gli spettacoli in programma esprimono una visione audace del circo contemporaneo come arte di creazione, in transizione tra generi e stili, capace di superare il virtuosismo per aprire a nuovi scenari della performance tra sperimentazione e forme ibride site-specific, muovendosi sul margine tra danza, teatro, installazione e performance art.

PROGRAMMA

Venerdì 19 Gennaio 2024
20:00 LONTANO + INSTANTE di Marica Marinoni e Juan Ignacio Tula (30’+ 30’)

Sabato 20 Gennaio 2024
17:00 ONLY BONES v1.6 di Marina Cherry (30’)
18:00 Incontro con Juan Ignacio Tula e Marica Marinoni (60’)
20:00 C’EST L’HIVER, LE CIEL EST BLEU di Amanda Homa e Idriss Roca (60’)

Domenica 21 Gennaio 2024
11:30 TAVOLA ROTONDA sulla critica nel circo contemporaneo (120′)
15:30 C’EST L’HIVER, LE CIEL EST BLEU di Amanda Homa e Idriss Roca (60’)
17:00 ONLY BONES v1.6 di Marina Cherry (30’)
18:00 Incontro con Amanda Homa, Idriss Roca e Marina Cherry (60’)
19:30 LONTANO + INSTANTE di Marica Marinoni e Juan Ignacio Tula (30’+ 30’)

LUOGO

Triennale Milano Teatro
viale Emilio Alemagna 6, 20121 Milano

REGISTI DA RISCOPRIRE: EDOARDO WINSPEARE GUICCIARDI

La pizzica salentina

Premessa

Questo articolo fu pubblicato sulla rivista Wall Street Journal nel 2014: lo ripropongo nel blog con alcune modifiche e integrazioni.

L’ospite discreto

Winspeare è una presenza costante nel panorama culturale italiano: eclettica nel modo di porsi, ma anche protetta da un cono di riservatezza. Molto attivo nel cinema, oltre alla cinepresa, che egli conosce sia nel ruolo di regista sia in quello di attore (interpretava Nisco nel film Noi credevamo di Mario Martone), sia in quello di documentarista, ha dato vita a complessi musicali, ma si può parlare di lui anche come antropologo delle tradizioni salentine. Il Salento, infatti, è il microcosmo da cui il regista, formatosi alla scuola di cinema di Monaco, guarda alla realtà attuale. Dal 2004 ha fondato Coppula tisa: associazione per la Bellezza dei luoghi, un’organizzazione no profit che ha come scopo di ripristinare i luoghi del Salento colpiti dall’abuso edilizio e da altri scempi.  

La mia riflessione sulla sua opera cinematografica inizia da In grazia di Dio, una sintesi riuscita di questo suo eclettismo, il suo film più maturo, seppure non esente da qualche pecca. La storia è molto semplice e può essere raccontata senza tema di tradire il pubblico che non lo ha ancora visto: è ambientata in un triangolo di paesi dell’immediato retroterra della costa salentina intorno a Tricase. Una famiglia di sarte composta da quattro donne e un uomo che esce subito di scena, cerca di fronteggiare la crisi del settore. Confezionano abiti per le case di moda del nord che chiedono continui ribassi del costo di produzione. L’ultima spiaggia è un cliente di Treviso con il quale hanno rapporti da tempo: sperano che egli capisca che oltre un certo limite non si può scendere, ma al rifiuto da parte dei trevigiani non rimane che chiudere la fabbrica. Dietro lo scenario, s’intravede la concorrenza dei laboratori clandestini, cinesi e non, descritti anche in Gomorra; fatto sta che non rimane altra scelta. Le quattro protagoniste sono: Salvatrice, da tempo vedova, le due figlie di lei Maria Concetta e Adele e la figlia di quest’ultima, Ina. Maria Concetta ha velleità d’attrice e spera in un provino che ci sarà a Lecce, mentre Ina, la ragazza, è una studentessa svogliata; Adele è, almeno in prima istanza, il perno della famiglia. Riescono finalmente a vendere e a sanare buona parte dei debiti; si trasferiscono in campagna nel fondo di famiglia e pian piano riusciranno a ricostruire la loro esistenza, aiutati anche da un contadino, Cosimo (che ritroverà un suo ruolo grazie a loro) e sostenute dalla solidarietà attiva di altri. Nella loro rinascita partono dall’anello più basso della catena economica e cioè barattano i prodotti della loro terra con altri generi necessari, finché non riescono a vendere nei mercati locali e a dare un assetto stabile alla loro nuova esistenza.

Quattro donne, tre generazioni

Con il trasferimento al fondo e l’emigrazione in Svizzera dell’unico maschio della famiglia (del marito separato di Adele dirò in seguito), prende avvio una saga famigliare al femminile, che è il vero motore del film. Le quattro donne rappresentano tre generazioni diverse, ma nel prosieguo della pellicola Winspeare confonde assai le carte e in modo il più delle volte felice, perché ognuna di loro, alla fine, si colloca fuori dagli stereotipi, con esiti sorprendenti, anche comici. La più anziana, Salvatrice, peraltro una nonna giovane visto che ha 65 anni, sarà di gran lunga il personaggio più equilibrato, capace di saggezza e di tenuta anche nei momenti più difficili; ma anche di sapersi godere la vita in una misura sconosciuta alle altre tre protagoniste. Il motore che spinge in avanti la narrazione è la dinamica delle relazioni che s’instaurano fra queste quattro donne molto diverse fra loro, ma sarebbe fuorviante a mio avviso il paragone con il film di Monicelli Speriamo che sia femmina, che qualche critico ha proposto: il romanzo famigliare al femminile di Winspeare non è solo psicologico, ma nel modo sommesso, tipico del suo cinema, attraverso l’intreccio dei loro diversi modi di affrontare la vita in tutti i suoi aspetti, emergono in superficie le dinamiche sociali di una comunità e non semplicemente una galleria di personaggi femminili peraltro assai delineati e memorabili nel senso letterale della parole e cioè degni di essere ricordati.

Adele (Celeste Casciaro) è una donna forte e autoritaria; si capisce che era lei la vera spina dorsale della fabbrica, molto più del fratello emigrato in Svizzera. È lei a guidare con polso sicuro l’intera famiglia. Si lamenta di dover fare tutto e non ha torto, ma è anche il suo carattere che non le permette di delegare ad altri certi ruoli: non stima Maria Concetta (Barbara De Matteis), nei momenti di rabbia le dice cose tremende e offensive. La sorella, peraltro, è comicamente desolante nelle sue velleità d’attrice. Adele è autoritaria anche con la figlia Ina (Laura Licchetta), di cui non capisce le inquietudini generazionali. La rimprovera di non fare nulla, ha nei suoi confronti improvvise esplosioni di rabbia che tuttavia non portano a niente. Adele, nevrotica, in perenne lotta con tutti e specialmente con se stessa, non sa godersi la vita. Il suo egoismo ne fa un personaggio estremo e riuscitissimo; vittima di se stessa, ma anche di una falsa idea di emancipazione che lascia intatto un sostrato arcaico. Quando vede la figlia Ina indossare un suo vestito assai seducente, la insegue e l’apostrofa, reagendo come la matrigna cattiva di Biancaneve; ma non riesce ad avere del tutto ragione (ne avrebbe molte) anche quando rifiuta il corteggiamento impacciato in un modo a dir poco desolante di Stefano, il suo vecchio compagno di scuola che vive ancora con la madre novantenne. Quanto a Maria Concetta sembra non contemplare l’universo maschile nel suo modo di porsi; forse anche perché la sorella Adele, molto più bella di lei, glielo fa continuamente pesare.

Ina, la più giovane del quartetto, è una ragazza sbandata: rischia di essere bocciata per l’ennesima volta, esce con ragazzi diversi cui si concede per noia, senza un vero trasporto con nessuno di loro, ricambiata peraltro nello stesso modo: emblematica e assai riuscita la rapida scena in cui, dentro un automobile, insieme a uno dei suoi occasionali compagni, quest’ultimo le palpa le tette (nella totale indifferenza di lei) con lo stesso trasporto emotivo con cui potrebbe giocare con due palle da tennis. Si riscatterà dalla sua deriva solo quando scoprirà di essere incinta. Decide di tenere il bambino nonostante le urla della madre Adele, che le rimprovera di essere una irresponsabile a mettere al mondo un figlio di cui non sa neppure chi sia veramente il padre. Il figlio in arrivo la spinge anche a studiare come si deve, aiutata da Stefano, un vecchio compagno di scuola della madre.

Una delle costanti della cinematografia del regista pugliese è il ruolo minore che rivestono i personaggi maschili: minore in tutti i sensi e prima di tutto rispetto alla forza di quelli femminili. Insomma, per il regista, il Salento e tutto il sud sono ancora il regno della Grande Madre Mediterranea. Credo che questo sia vero fino a un certo punto, a dispetto di quanto Winspeare stesso possa credere e così altri registi che si sono espressi su tematiche simili: penso per esempio al film di alcuni anni fa La Terra di Sergio Rubini. Tuttavia, da questa forte convinzione occorre partire, anche perché i personaggi che il regista mette in scena sono il più delle volte credibili, con qualche eccezione proprio per quest’ultimo, In grazia di Dio. In Galantuomini, per esempio, il film con maggiore presenza di personaggi maschili memorabili, essi – e non a caso – sono tutti dei malavitosi, esponenti della nascente Sacra Corona Unita; ma anche in quel film, il personaggio più forte è ancora una volta una donna, Lucia, la spietata e seducente capobanda che guida i suoi uomini nella sfida mortale con i concorrenti. In quest’ultimo film, In grazia di Dio, non mancano i personaggi maschili positivi, seppure sempre ancillari: Stefano (Gustavo Caputo), l’ex compagno di classe, ora funzionario di Equitalia che aiuta Adele a ridurre le multe che ancora deve pagare e che a modo suo la corteggia; ma specialmente Cosimo, il vecchio contadino silenzioso, concreto e solido, che è diventato il nuovo compagno di Salvatrice, la nonna. I personaggi maschili del tutto negativi o anonimi, invece, non sempre sono riusciti. Senz’altro ottimamente rappresentati sono i giovani compagni di strada di Ina, disperati e sbandati come lei, ma violenti e incapaci di riscatto, a differenza della ragazza. La scena in cui lei viene picchiata da uno di essi quando le rivela di essere incinta e di sospettare che sia lui il padre, Winspeare la rappresenta con tutta la delicatezza possibile, facendola intuire e vedere soltanto dopo attraverso gli effetti sul corpo di lei. Deboli e non del tutto credibili sono invece il fratello di Adele e di Maria Concetta, e il marito separato di Adele, un piccolo malavitoso fallito, ancora in carcere per aver cercato di mettere in piedi uno strampalato business e cioè il trasporto di migranti clandestini nel canale d’Otranto. Insieme al fratello di Adele, vengono scoperti, a causa della loro totale imperizia. Semmai non è tanto la scelta di tenere gli uomini in un ruolo ancillare il problema: è quando tale lateralità diventa troppo caricaturale fino a divenire bozzettistica che il film cade un po’.

Il mondo salvato dalle nonne … e dai bambini

Nel primo film che gli diede la notorietà, Il miracolo, i protagonisti principali sono una ragazza adolescente ribelle e border line, che rischia continuamente di perdersi. Ciò che la salva è la relazione di amicizia con un bambino nel quale s’identifica in parte vedendo tramite lui, la propria storia infantile. Alla fine del film sarà proprio lui a strapparla all’ultimo momento dal suicidio. In quest’ultimo film sono Salvatrice e Cosimo i soli in armonia con la natura, la cultura e la vita, ed è ancora una volta la generazione di mezzo, quella dei padri e delle madri a mancare totalmente, sebbene la giovane età della nonna la collochi temporalmente in una situazione di cerniera fra le generazioni; ma tant’è. Anche le altre tre donne, infatti, pur forti, determinate, e – ripeto memorabili – sono figure che non riescono a essere del tutto positive, sentono la mancanza di uomini autorevoli a fianco, ma a vederle si direbbe pure che sarebbe assai difficile avere una relazione con loro, tranne che – ancora una volta – con Salvatrice, il cui nome dice tutto. Il pregio di Winspeare è proprio questo: la seduzione e il fascino che il mondo femminile esercitano su di lui sono profondi e sinceri e questo gli permette di mettere in scena figure memorabili perché non sono mai agiografiche. Egli vede con grande acutezza e profondità anche nelle contraddizioni dei suoi personaggi femminili, che risultano per questo complessi e problematici. Del mondo femminile il regista pugliese sa cogliere sottigliezze con uno sguardo che riesce sempre ad avere in egual misura durezza quando serve (ma senza esagerare) e delicatezza. Nel rappresentare le quattro donne di In grazia di Dio, il pregio maggiore è forse quello di sapere cogliere alcune differenze fondamentali nel modo di gestire i conflitti e le situazioni estreme, fra uomini e donne.

Il fratello e il marito separato di Adele, di fronte alla situazione disperata della famiglia, cercano subito la soluzione, una qualsiasi, ed è per quello che s’imbarcano in quella strampalata idea di trasportare migranti clandestini. Le donne, invece, sanno aspettare, è la soluzione che le cerca nel senso che essa ha più a che fare con la capacità di ascoltare e cogliere i segni piuttosto che agire immediatamente. Questo nel film è rappresentato in alcuni momenti emblematici e in modo assai convincente. Nella prima parte, quando Adele decide di vendere anche sotto costo la fabbrica perché capisce che rinviare quella decisione porterebbe davvero al disastro; ma anni dopo, quando la proprietà è diventata qualcosa di più che non un mezzo di sopravvivenza, Adele e Salvatrice hanno il coraggio di rifiutare un’offerta di acquisto proveniente da un riccone del nord, il cui mediatore è lo stesso affarista locale in odore di criminalità che aveva gestito la vendita dell’azienda. Il ritorno alla terra, la solidità di una vita ricostruita spinge Adele al rifiuto, ma emblematica ancora una volta è la frase con cui Salvatrice suggella la bontà della scelta:

“Diciamolo fra qualche anno a Ina e a Concetta”

perché ha capito benissimo come sarebbe difficile far digerire alla ragazza un rifiuto del genere, visto che Ina è del tutto prigioniera dei peggiori stereotipi del consumismo, della moda e di altro.

Il secondo aspetto riguarda proprio i rapporti fra loro quattro. Se al loro posto ci fossero stati quattro uomini che si fossero scambiati le parole aspre e talvolta spietate che si sono scambiate le quattro protagoniste, si sarebbe arrivati ai coltelli dopo una settimana di convivenza. Invece, esse hanno una capacità di reggere il conflitto senza che esso si trasformi in guerra. Certamente, è fondamentale in questo il ruolo di Salvatrice, ma non si tratta di una matriarca autoritaria e cattiva, ma piuttosto buona e silenziosa. Non interviene sempre, anzi quasi mai, anche perché le piace farsi la propria vita; soltanto quando l’asprezza del conflitto è giunto davvero vicino al punto di degenerare, allora si fa sentire. Lo si vede bene quando le quattro donne si ritrovano unite intorno al letto, dove giace Ina ferita, ma salva insieme al suo bambino nonostante le botte. La macchina da presa le inquadra prima da vicino, poi in piano medio che sfuma nel lungo, mentre le cantano una ninna nanna: un quadro di Van Gogh con la luce di un Caravaggio.

Arcaico e moderno

A ogni uscita di un film di Winspeare è difficile evitare di discutere intorno al magico salentino, al suo mondo arcaico e anche al rapporto con il sacro. Vale anche per questo film, sebbene in misura minore che non per Il miracolo, che già nel titolo stesso si richiama a una dimensione sacrale e religiosa. Anzi, il regista si prende qualche ironica libertà in quest’ultimo, come quando Adele, vinta dalla fatica e dallo sconforto si rivolge con una preghiera alla statua della Madonna, invocando di farne andare bene almeno una. Suonano alla porta e si presenta l’agente delle tasse. Certo, il fascino della natura, certi silenzi, il mare appena intravisto in alcuni momenti, la terra che si trasforma sotto gli occhi dello spettatore, creano intorno al film un alone di magia, ma essa corre come sempre nelle pieghe, si affaccia in punta di piedi e nel caso di In grazia Dio, è prima di tutto legata all’uso sapiente del dialetto, la vera colonna sonora del film. Un momento di grande tenerezza e commozione avviene quando Cosimo e Salvatrice decidono di sposarsi: la semplice religiosità di entrambi si affaccia delicatamente, ma pur essendo rivolta ai simboli cristiani è impossibile non avvertire dietro la lunga scia un mondo pagano che nel Salento ha diverse e notissime sfaccettature a cominciare dalla pizzica.

Qualche critico ha rivolto un’accusa di passatismo, critica che Winspeare ha – a mio avviso con ragione – respinto. La pellicola semmai, mette in discussione i falsi miti di una certa modernizzazione, ne dissolve la patina facile e superficiale dietro la quale le costanti antropologiche, le strutture della lunga durata di cui ha scritto Braudel, ritornano in primo piano. Però va subito aggiunto che una nonna come Salvatrice non potrebbe esistere se non ci fossero stati il ’68 e il femminismo. Anche lei, pur con tutta la sua antica sapienza da matriarca, è stata toccata dai fermenti nuovi. Semmai ci sarebbe da chiedersi dove si siano perduti quei fermenti nei passaggi da una generazione all’altra se la nipote Ina può parlare di lei con tale disprezzo e incapacità di accettare che una donna di 65 anni possa innamorarsi e fare l’amore con un uomo peraltro suo coetaneo! Infatti, è proprio Ina la più fragile fra le quattro, nonostante il suo avviato riscatto. Su di lei come sui suoi coetanei si abbatte tutto il precipitato sociale di una crisi che è cominciata negli anni ’80 e che fa della sua generazione la prima, dopo cento e più anni di crescita del tenore di vita, quella che sta peggio sia dei suoi genitori che dei suoi nonni. Tuttavia, emerge anche tutta la disgregazione culturale e i falsi valori che tale generazione ha introiettato: cinici e impotenti, disimpegnati in tutto ma attenti al consumismo, a questi giovani non va lisciato il pelo, ma vanno richiamati alle loro responsabilità. I padri assenti, ma anche le madri come Adele, non riescono a farlo: saranno le nonne a salvare il mondo? Oppure ci salverà un mondo di Arianne e Telemachi che cominceranno a prendere fra le mani il loro destino?

IL GUARDIANO DELLA SOGLIA: ATTO QUARTO ED EPILOGO

Sigmund Freud Park in Wien

Ora sono di nuovo fermi sulla banchina insieme ad altri che attendono. Il vecchio e il cane avvicinano a un’altra figura maschile, che se ne sta sola e lontana dagli altri. Il vecchio è incuriosito dai suoi gesti: la figura, infatti, si muove come se stesse tirando verso l’alto la carrucola di un pozzo. Avvicinandosi vede che si tratta di un filo che si accumula ai suoi piedi. Quando si arrestano vicino a lui, la figura diventa reale poi una voce prorompe in un riso contenuto e malinconico.  

M: Ahh, ahh. ohhh

Il personaggio maschile smette di colpo di muoversi; anche il vecchio e il cane si guardano intorno stupiti perché non vedono nessuno.

F: Perché ridi?

M: Per il tuo volto e anche un po’ quello che stai facendo.

Silenzio lungo. Il tono di voce, la cadenza, il timbro rendono incerto il genere di appartenenza. Potrebbe essere sia maschile sia femminile. L’altro si guarda intorno irritato, poi ricomincia a tirare il filo che sembra quello di una carrucola.

F: Chi sei?

M: Una parte di te, la memoria senza volto dei tuoi momenti felici.

F: Una parte di me!

M: Sì, la più oscura e molto altro.

F: Non ho fatto altro che cercare la parte oscura. Non ti sembra di essere presuntuosa, o presuntuoso? Dimmi chi sei.

M: La lontana che affiora involontariamente nei tuoi sogni.

F: Non ti capisco.

M: Non mi stupisce.

F: Perché ti fa così ridere il mio volto?

M: Perché sei così attaccato alla lettera delle mie parole?

F: Che altro sai di me? Chi sei?

M: Il tuo tarlo dormiente, la buia smania che affiora quando meno te l’aspetti, la candela che si accende nei tuoi momenti più bui.

F: Parli per enigmi e paradossi.

M: Il paradosso è il mio travestimento d’occasione: vai oltre la maschera, cerca il volto scavato e lucente di chi ha aperto le porte al dolore, oppure alla gioia che fa vacillare.

F: Ne sei così sicura?

M: Il tuo volto mi dice che lo sai, ma che desideri allontanare da te quel peso: non difenderti dall’onda alta, lasciati portare, scoprirai che il piombo del mondo può diventare oro. Ti ricordi quella notte in treno?

La figura maschile si fa pensierosa e smette di nuovo di tirare la carrucola.

F: In treno?

M: Sì, in treno.

F: Ricordo molti viaggi in treno…

M: Ma io parlo di quel treno, di quella notte, di quella porta che si apre improvvisa, dello specchio che sbatte e rimbalza contro di te come un singhiozzo; parlo della tua sorpresa, del tuo sgomento, della tua tosse, della tua cravatta appena spostata dal suo asse. Per una volta avevi perso la testa e ti guardavi allo specchio con la stessa espressione con cui un boia guarda l’impiccato ed eri entrambi.

F: Chi sei?

M: Un grido di libertà.

F: Non ti capisco.

M: Non mi stupisce, ricordati delle sedie.

F: Perché le sedie?

M: Non ricordi?

La figura maschile è pensierosa e incerta.

F: No, non ricordo. Perché ti nascondi?

M: Non cambiare discorso.

F: Non mi hai risposto, ti ho chiesto perché ti nascondi.

M: Non mi nascondo, è la mia natura; sei tu che non mi vedi e poi ti avevo chiesto delle sedie.

F: Nessuno ha una sola natura, cosa sognavi?

M: Sognavo quello che sognano tutti ed ero anche sognata; ma solo chi mi vede può sognarmi davvero.

F: Non capisco. Chi sei?

M: Ho tanti nomi, nomi antichi. Vengo dal più profondo del mare, quel mare di Cipro dove sono nata la prima volta, uso la sciabola anche con chi amo, ogni tanto ritorno, mi mostro nella mia nudità, nello scandalo di essere vera e intero, enigmatico e invitante. Sono l’aperta nella quale nessuno riesce a penetrare.

F: Non ti capisco, oppure sei semplicemente volgare.

M: La volgarità è lo splendore debordante del mio doppio aspetto, il copione infranto di ogni recita. Essa mi dà la pienezza negata e la darebbe anche a loro e a te, se soltanto capiste! É il gesto delle mie tante sorelle e di un mio fratello divino, lacerato e diviso come lo sono stata io. Sarò sempre la voce che eccede o si ritira, che più si mostra e meno si fa vedere.

La figura maschile smette di tirare il filo e assume un atteggiamento pensieroso.

L’altro/a tace e allora la figura maschile riprende a tirare la carrucola.

La figura, fino a quel momento totalmente invisibile, si materializza. Si intuisce che è completamente nuda. La figura maschile la scruta aggrottando al fronte.

F: Ti vedo e non ti vedo, sembri un sogno.

M: Conosco la tua sottigliezza, guardami, lascia per un momento le sfumature dell’intelligenza nei loro angoli bui; serviti della penombra per capire, del miele del geroglifico, dell’abito ribaldo della vita così come esso si dà nei sogni a lungo incubati, nell’inciampo di ogni giorno, in quello che accade mentre stai facendo altri progetti.

F: È la tua lingua a disturbarmi, non ti capisco!

M: Ma non eri impareggiabile proprio in questo? Nel tradurre e decodificare? Non giocavi proprio tu con il linguaggio e i segni?

F: Non era un gioco, tu ora stai giocando con me, ma non ti temo.

M: Nel dirlo mi temi di più; potresti invece abbandonarti a me nell’assenza consapevole della tua ragione astratta e vanamente tagliente.

F: Perché vanamente tagliente?

M: Perché la tua lama tagliava l’idea, ma non il pane che nutre, spezzava l’immagine solenne prima ancora di avere forgiato l’anfora che la contiene.

F: Hai detto che ritorni ogni tanto; perché lo fai?

M: Perché fui costretta a migrare e lo sono ancora: per Afrodite non c’era posto neppure nell’Olimpo, tanto meno nel mondo di oggi.

La figura maschile, la guarda, sospira, poi lascia cadere a terra il filo che tiene ancora fra le mani; si capisce che non tirerà più la carrucola. Poi si sposta leggermente per guardare meglio la figura femminile.

F: Perché mi tormenti anche qui dove non serve più a nulla il tormento?

M: Perché potevi liberarmi.

F: Liberarti?

M: Sì, liberarmi dalla necessità di ripetermi. Fissavi la soglia, ma poi la tua testa si voltava e si piegava, la marea che avevi dentro si acquietava. Ti rimettevi le tue cravatte, il cappello elegante, la camicia senza macchie, poi tornavi ad avvicinarti. Forse, mi dissi, ecco che la sapienza antica ritorna grazie a quest’uomo buffo, che eri tu, con la tua tenera ossessione, con i tuoi tremiti, come quando quella sera hai sentito un brivido sfiorandola mentre scivolavi da una sedia all’altra del tuo salotto.

Dopo questa battuta, la figura maschile, come colpita da una rivelazione, comincia a parlare concitatamente.

F: Proprio a quello ti riferirvi allora, le sedie, sì le sedie.

M: Sì.

F: Noi esseri umani siamo degli iceberg. Tu dici che avrei dovuto attraversare la soglia per vederti, ma ero io l’invaso: non ero più nulla se non ciò che si appiccicava su di me dell’esperienza altrui. Non credo che avrei mai potuto liberarti se anche ti avessi incontrata.

Pronunciate queste parole la figura maschile si contorce e muta; i suoi tratti cambiano come se si stesse trasformando in un’altra figura. L’altra lo guarda e comincia a muoversi in una specie di danza, come se fosse lei a modellarne l’immagine mutante.

M: M’incontravi ogni giorno, eri così abitudinario! Mi presagivi quando cercavi di dare un nome ad ogni sfumatura dell’anima. Moltiplicavi i personaggi e a ognuno di loro davi un abito e un linguaggio, ma non a me.

F: Perché, perché non hai fatto tu il primo passo? Forse ci saremmo salvati entrambi.

M: No, non ci saremmo salvati! Sarei stata soltanto un passo in più fra i piedi dei tuoi visitatori. Io non ero la uno in più, ma la prima di un’altra scala numerica.

La figura maschile sembra non ascoltare più ma seguire il filo dei propri pensieri.

F: Ero abitudinario per tenere a bada l’oceano. Cercavo la regola ma ognuno di quelli e di quelle che si rivolgevano a me era diverso dagli altri. Le loro voci si sovrapponevano. La notte, un personaggio cominciava a parlarmi e io dovevo alzarmi e scrivere, seguirlo. Il suo volto diventava sempre più preciso; sognavo in modo duplicato, il sogno era diventato la mia vita a enne dimensioni, che produceva forme e linguaggi a mia insaputa. Se mai una vita l’avevo avuta essa si era volatilizzata in un fumo sottile. Fu quello a divorare dall’interno la bocca con cui pronunciavo le mie sentenze.

M: Ogni sapienza della parola ha per concime la carne e il sangue. Chi viene oggi dice che la mia ultima apparizione nel mondo durò trentatré anni, che della mia morte non vi è traccia, che il mio corpo scomparve nel nulla. Non mi vedono quando ci sono e quando non ci sono più la struggente nostalgia che hanno di me inventa la bugia della mia immortalità. Se imparassero a conoscermi potrei finalmente morire anch’io come tutti e diventerei più vera anche a me stessa.

F: Cosa significa tutto questo?

M: Che dovrò tornare, rinascere ma sempre esule da tutti i templi e da tutti gli olimpi. Tuttavia ti sono grata: hai aperto una porta attraverso la quale chi vuole può vedermi nell’interezza. Sei stato generoso ma ti sei perso nei meandri di un labirinto che tu stesso ti eri costruito intorno. Avresti dovuto raccontare soltanto la favola, non scrivere il teorema che da essa si poteva ricavare. Altri l’avrebbero fatto ma tu potevi seguire il senso del tuo primo gesto: avere tolto il velo alla gioia negata. Se tu avessi avuto il coraggio di tenere gli occhi aperti, in quel momento, mi avresti vista.

F: Torno a non capirti, anche se le tue parole si riversano in me come una cascata di verità; ma essa continua a sfuggirmi. Sei la metà che stava nel lato in ombra dei personaggi che si moltiplicavano all’infinito e di quell’altra metà, il femminile, mi resi conto alla fine di non avere compreso nulla.

M: Sono tornata poco tempo dopo la tua morte; mi hanno fatta nascere in Europa; ma ho trovato un mondo corrotto e disperato. Fui costretta a scindermi: vedevo la parte migliore di me prostituirsi all’altra ed entrambe, come le due mani congiunte in preghiera, venivamo offerte nude e indifese al teatro del mondo. Essi non vedevano in quella congiunzione se non il segno volgare, non l’omaggio alla vita. Per questo mi rosi, mi consumai e mi inflissi una morte fulminea che nessuno comprese e su quella incomprensione hanno replicato il teatro della presunta morte; ma anche quando scrivono sui muri “È viva” non sanno cosa dicono. Credono che mi sia nascosta per godere della ricchezza effimera di cui mi coprirono, credono che io sia fuggita sulla carrozza dorata dei loro sogni impotenti, trasformati in denaro. Il mio oro era altro da quello che spacciavano per vero. Dissipai la ricchezza apparente che avevo accumulato, senza rendermene conto, per semplice noncuranza. 

Odilon Redon, La nascita di Venere, 1912

EPILOGO.

Il vecchio e il cane si siedono e mentre loro si materializzano come personaggi in carne ed ossa, le altre figure diventano ombre e scompaiono. Il vecchio si alza e si rivolge al pubblico. Questo monologo finale va recitato in ogni lingua o dialetto del luogo in cui va in scena, con qualche eccezione nel saper distinguere lingue da dialetti.

Ûh vìst, ûh vìst, parlèmen no, uh sentì, parlèmen no! Anche voi avete visto e udito, siete i miei testimoni. Ho gettato i dadi, ma non potevo sapere che il tempo era finito, el luego cerrado. Io sentivo rumori veri, ma antichi, ora ho capito, sì! Antichi como la luz de las estrehlas che ci insegue dopo che la loro sostanza materiale si è estinta da migliaia di anni. E noi che dobbiamo fare se non seguirla comunque? Ci avete guadagnato qualcosa voi, che sapete che è così? Che quella luce è un inganno? Tell me, tell me! Have you got more than me?

Si contorce, si porta le mani ai capelli e si trascina per la scena, poi ricomincia a parlare.

Mi scuso con tutti di essere stato crudele a causa di un disegno che non avevo voluto e solo accettato perché it was my job: nonostante fossi soltanto il custode della soglia, il bivio, ahora lo entiendo, llegava siempre a la muerte. Entrambe le schiere lo testimoniavano. Ora capisco che erano spinte da una forza che le dominava in absentia. Si sa, the power doesn’t show itself, si nasconde dietro una tenda, fa sentire la sua presenza attraverso la voce dei servi; oppure mulinando l’ascia bipenne della giustizia, che taglia da ogni lato come se tutti avessero due teste. Avrei dovuto capire che la puerta de la ley estaba cerrada, che non c’era nessun giudice at the end of the tunnell, ma solo i rotoli infiniti di una norma senza re.

Ha un sussulto improvviso, si abbatte sulla panca della banchina, poi si alza di nuovo in piedi portandosi le mani alla testa.

E se questo mio ultimo gesto fosse soltanto temerario e blasfemo? Oppure avrei dovuto ribellarmi prima?

Tace per un tempo lungo e poi riprende…

Who knows, who knows? Ho violato le consegne. Non ero venuto davanti a voi con la certezza di quel che avrei trovato, scendendo, but now I know! L’ho fatto per un tardivo amore per voi e per cercare la mia via, per riscattarmi. In fondo dovevo capirlo; le urla che sentivo venivano sempre dal vostro lato, not beyond and elsewhere! Anche il riso, la stoltezza e la sontuosità, el miedo y la tristeza, gli atti eroici, così come la stupidità irritante. Tutto questo non chiedeva alcun giudizio, ma solo l’accoglienza amorosa e casta del sorriso benedicente, l’accettazione di una strampalata armonia molteplice fatta di contrasti e oscillazioni. Non ne possono più delle loro vite, ma poi quando arrivano qui viven nel recuerdo inùtil! But it wasn’t up to me to solve the problem; anzi ne ero vittima! A me avevano detto che importava ciò che avveniva dopo! In realtà non siete fatti né per l’inferno vuoto inventato dai furbi, né per un’eternità beata e impotente. Siete fatti per bruciare una sola volta o tante, ma sempre per bruciare di vita e solo in mezzo alla vita andava cercato il senso. Sono sceso come tutti, come i vivi, alive! la cui ambizione era solo quella di raccontare cosa si erano immaginati di vedere scendendo fin qui. In realtà nessuno di loro aveva visto, han dumà guardà per gratà tücc quel che truvaven, per scrivere i loro poemi brillanti e disperati, si sono verniciati le unghie con questa eternità da palcoscenico per aumentare la loro potenza mondana, ma sempre di là volevano vivere! E io ho tenuto bordone a tutto questo, sono stato la pedina di un gioco di cui non conoscevo tutte le regole. Per millenni ho svolto diligentemente il mio lavoro; pensavo di traghettare le anime da un mondo imperfetto alla perfezione: it was a maze. Qui dove voi siete scesi insieme a me vedete soltanto degli sconfitti o dei manichini che gan semper i öcc vultà de là, che ripetono stancamente e recriminano, piangono o ridono ma sempre dentro i binari delle loro vite invece de menà i toll e fala finida una volta per tücc.

Non appena pronunciate queste parole si sente il rumore di una carrozza in arrivo. Sembra completamente vuota, poi quando le porte si aprono, due enormi figure in ombra appaiono sul predellino. Il vecchio si volta e la guarda, poi si rivolge di nuovo al pubblico.

Di tutti questi morti che non vogliono morire, sarò l’unico a morire davvero. Perdonatemi anche questo e accettate il mio gesto per quello che è: la resa di un vecchio alla legge che gli ha dato da vivere; una legge inventata, forse da nessuno, ma alla quale mi sono consegnato. Si hay una verdad, essa si trova in mezzo a voi: cercatela come l’ho cercata io, cercatela anche per me!

Il vecchio e il cane s’avvicinano alla carrozza e vi salgono. Si siedono in mezzo alle due figure. Si sente il rumore della carrozza che si allontana mentre in sala si fa buio. 

Gustave Doré, Caronte, 1861

I TESTI PUBBLICATI IN QUESTO BLOG SONO DI MIA PROPRIETA’: CONSENTO LA LORO STAMPA IN FORMA CARTACEA PER SOLA LETTURA E LA CITAZIONE DEL MIO NOME IN CASO DI UTILIZZO IN VOSTRI SCRITTI.

IL GUARDIANO DELLA SOGLIA: ATTO TERZO

Picasso: autoritratto

L’uomo con le gambe distese si porta le mani intrecciate dietro la nuca e comincia a parlare.

BACH:

Vivevo in quel labirinto fin da bambino. Persi i genitori e il vuoto lasciato da loro fu riempito dalla musica e da un’angoscia che mai mi abbandonò, la paura di dovermi sostenere con le mie forze generò in me un’attitudine guardinga. Dicono che fui poco generoso; ma può esserlo chi non è mai stato accudito? La generosità è un bene che si può spendere soltanto se si è ricchi di famiglia. Quali e quante varianti si possono creare da un motivo, questomi assillava! Si dice che l’abbia risolto come non avrebbe saputo fare meglio il più geniale dei matematici e dei geometri. Io non so cosa dire; mi accorsi di trovarmi al centro di un vortice, dal quale era impossibile uscire. Ero nella mia creazione come un signore nel suo castello, ma ero solo; intorno avevo un labirinto di note.

Il secondo uomo, prima di cominciare a parlare torce il capo in direzione dell’altro e comincia a sfregarsi ossessivamente le mani. La voce di questa seconda figura è roca, cupa e profonda.

PICASSO:

E dal labirinto non si esce. Io ho scomposto tutte le forme per trovare la forma e ho trovato, invece, l’infinità delle forme. Fuori c’era soltanto il brutto, che mi assillava da ogni lato e poi l’informe, il vuoto, lo stampo, il calco su cui ci facevano passare ore e ore in accademia: la sezione aurea, le proporzioni, la materia.

Smette di parlare e si morde nervosamente le unghie. Da questo momento i suoi gesti si ripetono con monotonia: quando tace si morde le unghie, mentre quando parla si torce le mani.

B: La materia potevo soltanto immaginarla: era geometria, proiezione che da una nota sola si apriva a rose di suoni, mi sembrava di diventare l’eco di me stesso.

P: Volli riempire quel vuoto, riempire l’infinito di forme: prima le esplorai, poi le scomposi, le rimontai secondo la mia voglia, come un dio demente che si diverte a ricostruire il mondo a proprio piacimento e lo fa ogni volta diverso. Ricavai dall’informe quanti più oggetti possibili, non mi stancavo mai: mi svuotavo in essi per continuare a esistere come artista, così come mi svuotavo dentro i corpi femminili per ritornare a esistere come uomo.

B: Per me era come perdermi in un deserto. Non vi erano limiti e io respingevo le regole. Fuggii a Lubecca per quattro mesi e dovevo restarci soltanto qualche settimana. Me ne andai in quel modo solo per dire a chi mi voleva incatenato a una sedia ad imparare da maestri che ne sapevano meno di me, che io me ne sarei infischiato delle loro norme.

P: Ah ah ah! Come per me l’accademia; non ero il solo allora ad annoiarmi!

B: Alla musica che suonavano nelle chiese bastava l’ammirazione dei fedeli, la consuetudine, io non feci altro che introdurre qualche piccola modifica. La lasciai scritta e me ne andai; ma quell’esecutore da strapazzo non sapeva suonarla e rimproverarono me per i torti di quei maldestri cantori. Alla musica non s’addicono limiti, mi dicevo, è il deserto, la vastità assoluta, l’infinito: questa era la sola legge che riconoscevo. Eppure qualche segno che m’invitava a fermarmi e a riflettere io l’ebbi, ma saper seguire i segni di prudenza è pane per chi ha masticato almeno una volta la morte.  

P: Io la incontrai subito la morte, prima ancora di nascere e Conchita, mia sorella, replicò in peggio la mia stessa nascita. Pregai per lei quello che un artista non dovrebbe mai pregare: fammi, o dio, rinunciare alla mia arte pur di salvarla, ma non bastò. Morì di quella maledetta febbre che chiamano spagnola e allora la odiai perché mi sentii tradito, odiai chi l’aveva generata, odiai quei ventri da cui esce soltanto una sanguinante illusione di vita; odiai dio e scelsi il demone che era in me. Da quel momento non ebbi che uno scopo: riempire la morte di oggetti per impedirle di muoversi. Io quel pane l’ho masticato fin troppo a lungo, ma non mi servì a nulla. M’infilai nel labirinto e andai fino al suo fondo, trovai uno specchio e in esso vidi riflesso il Minotauro, la bestia assoluta, la bestia, la bestia senz’altri aggettivi! Ma dimmi di te; ora almeno posso ascoltare, non devo più temerla, quando ero di là non ci riuscivo.

B: Trovavo rifugio in una caravella di note che oscillavano immobili dentro una culla di bellezza; poi riprendevano a concatenarsi, dovevo seguirle. Tutti hanno detto di me che fui impareggiabile proprio in questo, nel seguirle; ma io ero nella pienezza della gioia quando trovavo le anse, gli anfratti. La maestosità si trova fra la corte e il cielo, non nell’empireo e neppure nell’infinito.

P: Io invece mi muovevo dentro una prigione che aveva due porte: da una entrava la morte, dall’altra il vuoto. Mi sovrastavano entrambe e piegavano le mie mani inchiodandole al foglio e allora inventai le forme che sfuggono dai quadri, ma loro erano sempre lì a torcere la mia mano, i miei polsi, da cui uscivano forme in continuazione, come il fuoco dalla bocca di un drago.

B: La casa che abitiamo meglio noi umani è quella che ci propone le stesse sensazioni che ritornano a ogni stagione: come un giardino che fiorisce e sempre ci sorprende perché non ti aspetteresti che sotto la durezza di una terra ritratta in sé come un lottatore in difesa, si dischiuda la grazia di uno sboccio precoce. Non è un miracolo già questo? E non appartiene forse all’eternità? Noi non abbiamo nulla a che fare con l’infinito; esso non è che l’illusione ottica di quella parentesi che è il vivere fisicamente! Avessi potuto avere una prigione entro la quale tenermi saldamente. Tutto passava attraverso i pori, la nostra materia è come l’acqua di una piena inarrestabile, puoi forse dividere l’acqua, o la sabbia di una duna? Ogni acqua contiene molte acque, ogni deserto li contiene tutti, ogni forma si piega e diventa altro da sé.

P: Come me con le mie forme.

B: Quando ero dentro la musica sentivo di essere la sfera che vive nella sfera. Ecco, nel percepire l’identico noi viviamo quella sensazione misteriosa e così banale che è il tornare a casa, accendere un camino, consumare il cibo con i nostri figli, distenderci nel letto con la donna che amiamo. Il resto è pane per filosofi e scienziati, non per noi. Sorrido quando mi parlano di quel pianista così bravo e geniale; diventato, dicono, il mio esecutore più perfetto! Io credo, invece, che lui sia caduto nel mio stesso fraintendimento. Mi domandavo sempre dove stesse la finitura, il taglio, quel segno che traccia i confini e li fa rispettare. Inseguii invece l’impossibilità della conclusione e m’infilai diritto nel labirinto di tutti i labirinti.

P: Ho profanato, non riuscivo a fermarmi, inghiottivo le forme una dopo l’altra, ma non mi accontentavo di loro soltanto; dalle forme mi precipitavo sui colori.

B: Ogni duna di note ne nascondeva un’altra e quello che sembrava un punto d’arrivo era un miraggio e l’altro in me, quello che non voleva quel mondo fatto di rette e cerchi soltanto, veniva brutalmente tacitato. Il pentagramma è l’Olimpo dei suoni, non l’unico dio e forse questo pianista mi esegue come se io fossi soltanto la perfetta geometria delle mie fughe. Era il mondo che voleva vedermi così, il mondo che mi ha saccheggiato fin da quando ero in vita.

P: Anch’io ho saccheggiato. Se la mia anima voleva nuove immagini da scomporre, la mia carne voleva corpi da modellare come fossero di creta. Per questo scolpivo e consumavo i corpi femminili, ma cercavo l’anima soltanto nelle forme. Non amai nessuna, nessuna! Provai soltanto una pace momentanea nel divorare Fernande, giorno dopo giorno, tenendola prigioniera nel mio studio; e vidi soltanto un breve balenio d’assoluto quando incontrai Francoise.

B: Mi commissionavano opere non necessarie, ma io mi buttavo lo stesso a capofitto nella loro trama perché vedevo in esse una nuova possibilità per andare ancor più dentro quell’infinito. E poi, e poi il denaro! Sì, fui schiavo anche di quello, la paura m’impediva di rifiutare una committenza; non lo facevo per avidità, niente più di questo giudizio mi amareggiava perché sapevo quanto fosse ingiusto. E tuttavia non ero capace di sottrarmi alla paura: la mancanza di sicurezza che mi aveva tormentato fin da bambino. Chi conosceva la mia debolezza poteva costruire con essa quel fuoco lento e inesorabile che ti brucia pian piano ogni giorno e ti lascia scarnificato nelle mani del mondo. Io non sapevo dire di no al denaro e saper dire di no è il solo tirocinio utile di un artista.

P: La femmina senza volto era la mia ossessione di carne, la forma assoluta la mia ossessione d’anima. Si fossero parlate almeno una volta quelle due demonie! E invece litigavano come una coppia di amanti folli e gelosi.

B: A me non rimproverarono nulla di tutto questo che tu dici perché la musica scompare da ogni senso, è come il cibo consumato che si ripropone ogni giorno ma è sempre diverso, la musica non può essere decifrata; né è così utile decifrare la vita di un compositore così come lo è per le vostre. Anch’io conobbi corpi femminili, onorai la vita e anche il detto evangelico. Ebbi un numero svariato di figli, non ricordo neppure quanti: perché le opere si possono compiere in molti modi e io cercai di non trascurarne alcuno. Come tutti gli uomini celebri ebbi anche chi si dedicò alla mia biografia, ma non sono interessanti; le biografie dei musicisti, non possono esserlo. Esse scompaiono nella musica, diventano irrilevanti anche per chi si gingilla con le interpretazioni più fantasiose: non siamo esposti come siete voi.

P: Hai detto bene, noi siamo esposti, nudi, sempre nudi. Chi dipinge è sempre lì, non può ritirarsi, paga il suo narcisismo nel modo più totale, non abbiamo più un eremo in cui rifugiarci. Anch’io ho portato la mia fame di forme all’altare di questo demone divoratore. Lasciavo aperta la porta del mio studio, non avevo alcun ritegno nel mostrami nudo al mondo. Non volevo stupire, ma fare dell’immagine tutto. Anche il mio corpo doveva entrare, come fosse un quadro, nella percezione di tutti. E invece ora capisco che l’immagine non può che diventare pornografia, se continuamente riproposta. La cornice ha vinto sul quadro, il contenitore di cornici ha vinto sulla cornice, l’arbitrio della moda ha sconfitto i collezionisti. Volevamo uscire dai musei perché erano vetusti e ammuffiti e siamo finiti nella cloaca del mondo, come zimbelli che tutti si disputano; in realtà ci odiano.

B: Io cercavo la perfezione nel comporre, nel dare ordine, nel porre confini allo smisurato; ma trovavo la gioia quando mi visitava una melodia che era come un ponte gettato fra due eterni. Sì, la vita è ciò che sta in mezzo, la musica migliore che composi, ora lo so, è proprio quella che nasce nel mezzo come il cuore di una rosa. Noi non abbiamo il diritto dell’inizio e neppure quello della fine; possiamo soltanto espandere la parentesi, tentare di farla coincidere con l’ampiezza del respiro. Se la vita è pneuma noi ne siamo la melodia, tutto il resto è presunzione. Quando compresi che ero io stesso il limite insuperabile della mia musica era ormai troppo tardi; avevo disseminato il mondo di tanti piccoli infiniti che ognuno poteva replicare a proprio piacimento.

P: Non ho fatto altro che smontare ogni oggetto, come fa un bambino con i suoi giocattolo. Il nostro mondo era diventato troppo complesso, ci spaventava trovarci in quel caos, volevamo cose semplici come quelle maschere africane che mi hanno tormentato per tutta la vita, così essenziali, scarne, dalle forme elementari. La sovrabbondanza è diventata eccesso, tutto diventa eccesso, in me c’era la gioia di smontare e lo feci con tutto ciò che incontravo: con gli oggetti, con le donne che tormentai e spinsi al suicidio. Smontavo per togliere, ma toglievo così tanto che quel togliere diventava un moltiplicare. Dividendo aggiungevo, da ogni forma ne ricavavo altre, facendo leva su una piccola causa ne moltiplicavo gli effetti. Facevo tutto a pezzi e alla fine cosa rimase di me? Un teschio di scimmia, una bestiale icona di morte.

Alla fine della battuta viene proiettato su un telo bianco in forma di cartellone pubblicitario la gigantografia dell’ultimo autoritratto dipinto da Picasso, tre giorni prima della morte. Tutte le figure guardano il manifesto, poi le porte si aprono e scendono tutti.

I TESTI PUBBLICATI IN QUESTO BLOG SONO DI MIA PROPRIETA’: CONSENTO LA LORO STAMPA IN FORMA CARTACEA PER SOLA LETTURA E LA CITAZIONE DEL MIO NOME IN CASO DI UTILIZZO IN VOSTRI SCRITTI.

IL GUARDIANO DELLA SOGLIA: ATTO SECONDO

Via Panisperna

Il vecchio e il cane sono seduti nello stesso posto e vicino a loro si portano due figure entrambe maschili: una si siede a apre un giornale, l’altra è in piedi, di fronte a quella seduta. Si parlano senza guardarsi; ogni volta che pronunciano una battuta chi parla si gira per vedere in faccia l’altro e l’altro si gira a sua volta, così che non si vedono mai.

C.: Eh su dai, dimmelo! Non perdóno il tuo gesto, perché non riesco a spiegarmelo, ma lo potrei capire se tu avessi l’umiltà di parlarmene con sincerità una volta per tutte!

E. M.: Ma che vuoi sapere e poi parli in un modo; perdóno, ma che parola è, cosa vuole dire perdóno?

C: Lo sai cosa voglio sapere, te l’ho detto: perché l’hai fatto? La conoscenza, il sapere sono sempre positivi. Con il tuo gesto hai bestemmiato contro ciò che è più nobile in un essere umano: il desiderio di conoscenza.

E.M: Ma chi ti capisce a te. Lo sai che cos’è un carrubo?

C: Un che?

E.M: Un carrubo: è un albero che cresce nella mia terra, in Sicilia, un carrubo ne sa più di me e di te messi insieme.

C: Vuoi dirmi che la natura è saggia, che le sue leggi sono chiare e comprensibili e meravigliose: sono d’accordo, è quello che penso anch’io e quanto più le conosciamo e quanti di più sono coloro che le conoscono, queste leggi, tanto meglio vivremo tutti.

E. M. La natura non ha leggi, e noi niente sappiamo. Siamo soltanto asini che scalano la montagna; se alziamo la testa cadiamo in un fosso, se la teniamo bassa vediamo i nostri piedi.

C: Tu neghi l’evidenza, non è vero che non sappiamo nulla, pensa a quella meraviglia che è il moto dei gravi.

E. M: Stanno in cielo i gravi e noi siamo qui, li guardiamo i gravi, niente facciamo ai gravi e quando facciamo noi qualcosa è nel piccolo. E sai che cosa? Distruggiamo. Sì, noi distruggiamo, distruggiamo e basta!

C: A cosa stai pensando?

L’altro si volta e lo guarda un attimo, sorpreso, come se si accorgesse di lui per la prima volta … Sorride mestamente e distoglie di nuovo lo sguardo dall’interlocutore

E. M.: Tu sei buono, lo so, tu vuoi il bene.

C: Sì, ora ti capisco. Il bene! Sì, io voglio il bene e il bene è la ragione, la capacità di dare un ordine razionale alle cose.

E. M: l’ordine è come la palla di mercurio che schizza via con traiettorie perfette, disegna mappe d’incredibile bellezza, si divide e si riunisce, affascina, diventi pazzo a seguirla; ma se cerchi di capire il senso di tutto quel suo muoversi non ne ricavi nulla, ogni riga è diritta e precisa ma tutte le righe insieme fanno un gomitolo di niente.

C: Ma di quel gomitolo ne capiremo sempre di più e se insegniamo a molti ciò che abbiamo capito aumenteremo le conoscenze globali che un popolo possiede e se da questo popolo il sapere si diffonde agli altri ecco che l’umanità intera ne avrà gran beneficio. L’ignoranza è relativa, ma la conoscenza è assoluta!

E. M: D’assoluto c’è soltanto la morte.

C: E dai, è facile rispondermi così, non sono sciocco e incolto come credi, anch’io li conosco i filosofi. Hai usato un sofisma. Perché vuoi dare di te questa immagine? Anche ora, anche qui?

E. M: Ma che sofisma, non siamo forse morti qui? E tu continui come se ancora fossi di là, la ragione, la ragione, ma quale ragione! Ma che t’importa di quello che ho fatto. Niente ho fatto, niente facciamo che lasci tracce durature e se qualche segno lasciamo, sarebbe stato meglio non farlo: guarda i fisici che hanno voluto andare avanti con quelle ricerche. Che cosa hanno trovato? Li vedi gli effetti della loro scienza, della loro ragione? Cumuli di morti: non si muore più uno per uno e nemmeno a migliaia, si muore per grandi numeri, tutto qui.

C: Perché si è smarrita la ragione, non perché la si applica. I tuoi argomenti vengono in mio soccorso, tu sei dominato dall’orgoglio, dal piacere di seguire la tua intelligenza corrosiva, dissolvi tutto come un agente chimico, ma lo dissolvi nel pensiero e tutto si ferma lì: sei un sofista, che si diverte a giocare con le parole e i concetti. L’intelligenza verbale è un belletto, un travestimento che s’indossa a carnevale; e allora diverte, è piacevole a vedersi, può addirittura insegnare qualcosa. Se lo s’indossa tutti i giorni, allora mio caro diventa una maschera mortale. Ritirarti non ha impedito alla scienza di andare avanti, il tuo gesto non ha frenato il progresso perché nulla può farlo. Ti darei ragione se tu fossi riuscito a impedire il male, ma esso è andato avanti per la sua strada senza di te e tu sei rimasto indietro.

E. M: Indietro, avanti, concetti relativi. Noi guardiamo avanti ma gli effetti di ciò che fa la nostra mano stanno dietro di noi perché l’intelligenza arriva prima di tutti gli effetti, che sono lenti, più lenti del pensiero. E così ciò che il nostro occhio d’aquila vede davanti a sé, la mano lo taglia dietro di noi subito dopo che i nostri progetti si realizzano e noi precipitiamo come quel contadino delle mie parti che segava i rami degli alberi standoci a cavallo e finiva per terra senza capire il perché. Ecco chi siamo, con tutta la tua ragione questo siamo e continuiamo ad essere, nei secoli dei secoli.

C.: E amen, adesso non ti accontenti più della tua fede e ti metti anche a fare il prete. Guarda che quando si va un po’ troppo lontano da una parte si finisce per trovarsi dall’altra. Il pensiero è rotondo come la terra che abitiamo e se non stai attento ti trovi alle spalle quello che avevi pensato di allontanare da te per sempre. Tu non credi negli assoluti e va bene, neppure io. La Rivoluzione combatté contro gli assolutismi di ogni genere, ma tu alla fine di assoluto riconosci soltanto il tuo. Tutto è relativo, tranne le tue convinzioni. Ti sei messo al posto di dio.

E.M: Ahhh, addirittura, al posto di dio! Io mi sentivo un sasso chiamato verso il fondo di una materia oscura che diventava sempre più chiara, troppo chiara. In fondo a quella catena di atomi che si scioglievano davanti al mio sguardo, davanti alle mie formule, che come un libro aperto mi mostravano quella potenza abissale e smisurata, in fondo a tutto quello io vedevo il demonio, non dio! Per questo mi fermai, distrussi tutto, ma non bastava. Volevo sottrarmi alla tentazione, non ero così ingenuo come tu credi. Sapevo benissimo che avrebbero continuato, vuoi che non ne trovassero almeno uno? Ce n’erano migliaia pronti a farlo, che bussavano alle porte, pur di inebriarsi a quella fonte così potente! Loro volevano essere dei, non io! Mi arresi quando capii che per fare il male ne basta uno solo; per il bene bisogna che lo vogliano molti, se non proprio tutti.

C: E per arrivare a tutti occorre la pazienza del pedagogo, il tempo lungo della storia, la forza calma del piccolo passo, del piccolo gesto, tutte virtù che tu non avevi.

E.M: Chi va troppo in là in una direzione non può andare nell’altra. Quelli come te camminano in pianura, portano il peso sulle spalle come i viandanti, distribuiscono i doni del sapere, come tu li chiami, a tutti. Chi come me va troppo a fondo non crede  più di poterlo fare. Siamo su due assi cartesiani asimmetrici.

C.: Ma c’è sempre un punto in cui i valori dei due assi s’incontrano! Non sarai proprio tu a negarlo.

E.M.: No, non lo nego di certo, ho usato un paradosso; ma questo punto che tu dici è sempre più vicino al grado zero. Non te ne accorgi? Non li senti quelli che arrivano ora? Sanno tutto, conoscono la media aritmetica di ogni verità, sono dei collezionisti. Tutti sanno qualcosa in più, ma quello che sanno non serve più a nulla. La verità quando si consolida è più ingannevole del peggiore degli errori, che almeno in teoria può essere corretto; ma chi può correggere una verità divenuta inservibile per l’abuso che se n’è fatto? Il sapere esteso a tutti non è altro che il museo delle verità passate di moda.

C.: Ma ci sarà sempre qualcuno che ne porterà di nuove, che sarà andato in fondo come dici tu, nel cuore della miniera; questo non è contrario alla ragione. Abbiamo compiti diversi: quelli come te devono potere scendere in pace perché siete gli esploratori. Noi abbiamo un compito più modesto: divulgare, estendere, dare a tutti i mezzi per potere imparare. Per questo la Rivoluzione mi affidò l’incarico più delicato: insegnare a tutti la ragione. Fui io a inventare la pubblica istruzione e grazie a me milioni e milioni di esseri umani sono stati strappati all’oscurità dell’ignoranza. Ora che tutto è precipitato nella mancanza di senso, o sembra che così sia, io mantengo alto il mio pensiero.

L’uomo smette di colpo di parlare, sospira e allarga le braccia, poi riprende.

É il sapere che si è corrotto, non l’idea rivoluzionaria di dare a tutti il sapere; ma non so perché ciò stia accadendo.

E.M.: Perché chi scende nella miniera, se ritorna, lo fa troppo tardi e chi è rimasto non può capire la primizia che l’altro gli porta, tanto meno utilizzarla perché si trova invischiato in verità più modeste che lo avviluppano e lo rendono cieco. È questa la disparità che vidi. Quando compresi, grazie ad Albert, che il tempo era il più grande inganno, allora ebbi la certezza dell’ineluttabilità del male. A questo volli sottrarmi, perché non potevo più combattere. Accettai il mio limite, ma non riuscivo a restare fra i molti che attendono passivamente il disperdersi della verità in una nuvola di polvere! Scelsi di essere l’uno irriducibile. Non dio, ma l’uno. Fui il primo a capire che la nuova fisica avrebbe portato alla costruzione di armi orribili. Non mi ritirai clandestinamente in convento, come fu detto; quella è letteratura. Ridicolo! Attendere una vita intera con la paura di essere scoperto! Gli uomini non sono mai così forti come s’immaginano di essere, ma solo in certi momenti ed è in quelli e solo in quelli che diventano veramente uomini; perché sanno andare fino in fondo. Io, forte, lo fui soltanto la notte in cui decisi di scomparire per sempre; quello fu il mio gesto, se ti accontenti della mia spiegazione. Se non puoi accoglierlo cerca da solo un’altra soluzione; io qui ti lascio.

Si aprono le porte e una delle due figure esce, insieme a molti altri. Il convoglio è quasi vuoto, poi cominciano a salire altre figure. Due di esse si siedono accanto al vecchio e al cane. Una delle due si accomoda sul sedile e distende comodamente le gambe. L’altro, invece, se ne sta rannicchiato in una posizione goffa, con il capo piegato di lato in una posa contorta. Subito dopo entrambi si materializzano come reali.

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IL GUARDIANO DELLA SOGLIA: ATTO PRIMO

Leone Trotzkj

Il vecchio cammina lentamente su una strada buia; tiene il cane al guinzaglio. La scena si schiarisce leggermente ma tutto il paesaggio è avvolto in una nebbiolina sottile. Lentamente appare l’immagine di un convoglio, potrebbe essere la carrozza di un treno di cui non si vede la fine, o della metropolitana. Accanto a loro vi sono altre figure che attendono e che appaiono come ombre. Le porte della carrozza si aprono e salgono tutti. Buio in sala e nuovo cambio di scena. Siamo sulla carrozza ora, piena di figure sedute o in piedi, sempre come se fossero ombre. Il vecchio le guarda finché non si arresta vicino a due di esse che improvvisamente diventano reali: una dalle sembianze maschili e con uno strano berretto a visiera, l’altra femminile, seduti l’una di fronte all’altra. In realtà, insieme, costituiscono un solo personaggio dall’identità cangiante. 

TROTZKJ: Perché continui a guardarmi?

MALINCHE: Ti dà così fastidio?

T: (si tocca il berretto): Non è facile sostenere uno sguardo come il tuo e poi non so chi sei.

M (ride): Temi qualche spia anche qui? Proprio non mi riconosci?

L’ombra maschile si porta la mano al cappello, come se stesse facendo un saluto militare.

T: No.

M: Non potresti peraltro, di me esistono pochi ritratti, tutti diversi e lontani dalla realtà e poi ho tanti nomi, tranne il mio.

T: Tanti nomi? Cosa vuoi dire.

M: Che ne ho uno per ogni vicissitudine, ogni terra che ho abitato mi ha dato il suo, appiccicandomelo addosso come un marchio. I vincitori mi diedero un nome di fantasia: donna Marina. Io non appartenevo a me stessa, per questo ho tanti nomi. 

L’uomo alza la testa di scatto la guarda socchiudendo gli occhi…affiora un ricordo…

T: Sì, certo, parlavano di te con vergogna a Città del Messico!

M: E tu naturalmente ci hai creduto!

T. annuisce con un cenno del capo.

M: Dovresti essere più cauto, con tutto quello che è successo a te!

T: Ma nel mio caso si trattava di menzogne, mentre nel tuo …

M: Con tutto quello che sai sulle infamie del potere hai ancora queste certezze?

T: Fu imponente la campagna di calunnie orchestrata contro di me da quel satrapo maledetto! E poi perché avrebbero dovuto mentire nel tuo caso! Nel mio si comprende bene, ma nel tuo?

M: Sei ingenuo e arrogante, ascoltarti però mi fa sorridere, parli in un modo così buffo. A cosa serve la tua sicurezza? Qui in mezzo a noi, dove neppure credevi di esserci, tu l’ateo che scherzava sulla propria data di nascita e prendeva in giro i pitagorici. Arrenditi all’idea che la verità è sempre altrove, non è mai nella lettera del mondo, nella sua cronaca, nel potere che l’avvolge nel suo abbraccio fino a soffocarla! 

T: Ti sbagli! Siamo stati travolti dalla cronaca, non dalla storia. Sì, dalla cronaca, anche questo si può dire, se ho ben capito il tuo pensiero confuso e oscuro. Noi cercavamo qualcosa di grande, d’immenso, qualcosa che non era mai apparso all’orizzonte della storia. (guarda verso l’alto, perdendosi nel suo pensiero, poi torna ad osservarla). Vedo che sai molte cose su di me e non solo.

M: Quanto basta per prenderti un po’ in giro.

T: C’era ben poco da ridere, sai, ai tempi in cui vissi!

M: E ai miei? Pensi che siano mai esistiti i tempi in cui si poteva ridere? Se avessimo dovuto aspettarli, il riso non sarebbe neppure nato sulle bocche degli umani. Il mondo è sempre uguale, identico a se stesso.

T: Hai una concezione della storia che non posso condividere, la definirei statica e reazionaria.
M: Smettila di fare comizi!

T: Cosa vuoi da me dopo tutto?

M: Parlare; ti propongo un gioco. Il mondo che è nato da quello che tu hai chiamato il mio tradimento, si sta disintegrando; quanto al tuo sogno, è anch’esso finito miseramente. Siamo entrambi esuli, ma abbiamo la parola che solo gli esuli hanno.

T: La mia parola sta scritta in libri che si possono trovare facilmente.
M: Ma li hai scritti quando ancora la tua utopia sembrava avere le ali, altri furono scritti dai tuoi adulatori, altri ancora da piccoli epigoni senza gloria, che sanno soltanto tesaurizzare le idee altrui, così come gli spagnoli tesaurizzavano l’oro, l’oro che per noi era solo luce, luz, Entiendes hombre?

T: Non capisco cosa sia quest’altra parola a cui alludi e quanto alle idee è bene che le nostre rimangano separate. Alle tue, non alle mie è toccata la fine!

Le voci si sovrappongono e si alzano

M: Ti sto esortando a cercare un’altra parola, quella non scritta, quella che si poteva leggere fra una riga e l’altra de tuoi proclami.

T: La storia è fatta di leggi esatte per chi le vuole interpretare e comprendere, leggi che riguardano prima di tutto l’economia …

D: Chi lo ha detto?

U. Lui, lui, chi vuoi che sia!

D: Ahh, il tedesco col barbone. Vi ha forse aiutato la sua previsione? A che cosa serve la verità se non può guarire l’imperfezione? Che senso ha una previsione che non ammette alternative? Tu sei ancora innamorato del calcolo esatto, ti piacevano le statistiche, gl’indici di produzione, ma non hai saputo decifrare il tradimento, quello ti è sfuggito. Usavi il compasso dell’intelligenza per squadrare il mondo e invece il mondo ha squadrato te!

U: Le mie idee non moriranno mai!

D: Sai quanti che sono qui hanno pronunciato questa frase? Almeno una decina. Anzi, scommetto che qualcuno di quelli che secondo te ti hanno tradito pronuncerà la stessa frase! Che vuole dire? E se l’altro che pronuncia la stessa frase ha idee opposte alle tue? Come faranno a vivere entrambe in eterno se cozzano non appena s’incontrano. (piega il capo e parla fra sé) …Ustedes non tenìan ideas, matàvan, matàvan y matàvan…

Le voci si placano e tornano più normali e assorte.

T: Va bene, accetto il tuo gioco, anche se non posso dire di avere capito bene in che cosa consista.

M: Un gioco non ha un vero scopo. Siamo esuli entrambi, tu dalla tua utopia io dalla mia; raccontiamo, senza più speranze d’inutili rivincite, la nostra verità.

T: Qual era la tua utopia?

M: Che nonostante tutto valesse la pena di accoglierle quelle bestie con la croce, pensare che fra noi e loro potesse nascere qualcosa …

T: oh. Oh figurati!

M: Almeno hai riso in un modo diverso dal solito, anche se non capisco cosa ci sia da ridere.

T: E tu la chiami utopia questa?

M: Sì. Che altro potevano fare del resto? Pensi che avrebbero potuto resistere? Tentarono di farlo se è per questo, ma la forza de los conquistadores era immensa, soverchiante.

T: Non la loro forza, non le loro armi! Quelle furono soltanto strumenti! Fu la loro concezione del mondo che li fece vincere! Rappresentavate una fase finita nella storia dell’umanità e come un limone spremuto siete stati messi da parte.

M: Era sangue quello che ci spremevano, sangue! Oppure il seme della vostra razza bastarda che finiva come una fucilata nel ventre di noi donne. Altro che limoni, che ne sapevamo noi dei limoni, da noi non ci sono limoni!

T: Ho usato una metafora.

M: Lasciale stare le metafore, ti metti a fare il poeta adesso, che ne sai tu delle metafore! Tu parli lo stesso loro linguaggio e volevi cambiare il mondo tu? Vergognati! Parli la loro stessa lingua, trasudi della stessa sicumera. Sei una canaglia come loro!   

T: Fermati tu adesso, donna! Non insultare noi! Parla così di quelli che hanno buttato le nostre idee ai porci, che hanno usato il potere per distruggere quanto di più bello il pensiero umano avesse mai concepito in tutta la sua storia: una società di eguali, in cui tutti hanno gli stessi diritti, uomini e donne e sanno governarsi da soli, senza che nessun potere esterno li sovrasti. In questo abbiamo creduto, in questo io ho creduto.

M: E in questo sei stato sconfitto.

Si guardano in silenzio.

T: Sì, è vero e ne porto il peso, così come lo porta l’umanità che volevo salvare e che senza di noi è precipitata più indietro da dove, nonostante tutto, l’avevamo portata; almeno con il sogno e in parte anche con la realtà. Sei ingiusta, ma siamo stati sconfitti, almeno nella contingenza storica; su questo non posso che darti ragione.

M: Anch’io sono stata sconfitta, volevo che lo dicessi anche tu, con l’umiltà che ti è mancata in vita.

T: Non puoi essere umile quando pensi di rivoltare il mondo, non te lo puoi permettere! E a te l’umiltà non è servita se dici tu stessa di trovarti nella mia stessa condizione. L’umiltà è il cibo dei perdenti, ma non tutti coloro che hanno perso erano dei perdenti. Va bene, te lo concedo, anche tu sei stata soverchiata dalla storia e forse è vero che non hai tradito. Su di te, in effetti se ne dicono tante, ma la verità? La tua almeno! Ecco, dimmi la tua!

M: Sono nata nella gloriosa terra degli Aztechi, esiliata, prigioniera dei miei nuovi custodi, fuggiasca, poi ingannata da quel prete maledetto, Aguilar. M’insegnò a parlare la lingua dei conquistatori e quando parli una lingua che non è la tua, anche le parole diventano estranee, mai amiche. Dicevano tutti che ero brava nel tradurre. Cosa capivano veramente gli altri? Cosa volevano capire di quello che io traducevo? Certe sequenze di parole che per me avevano un senso, una volta nelle loro mani producevano effetti strani, sempre più sinistri. Lo vedevo dagli sguardi cattivi e dalle azioni che subito dopo si manifestavano.

T: Nelle mani di chi? Degli spagnoli?

M: No, non solo delle loro; fosse stato così! Le parole, anche quelle che stavano nelle mani dei fratelli, si ritorcevano sempre contro di me e contro il mio popolo e quindi anche contro di loro. C’era una terza lingua fra la nostra e quella dei conquistatori, implacabile, che correva come un serpente e avvolgeva le nostre teste e oscurava i nostri cervelli e anche quelli degli spagnoli. Fu quella a vincere; a me e a coloro che hanno sopportato il peso maggiore di quella tragedia è rimasto un dialetto bastardo, un idioma storpio come era storpia quella bestia che m’imprigionò nel suo letto. Ancora oggi, quando arrivano qui io li riconosco subito: storpi e soltanto storpi. Oppure facce slavate che portano i nomi dei nostri guerrieri, donne nere dagli occhi profondi e persi nella loro tristezza senza fine; volti distorti come le cattedrali che tu hai visto nella mia città. Anche il loro dio ha dovuto contorcersi nell’orrore e infatti non ne vedi una sola diritta delle loro chiese. Sono tutte deformi, con quell’oro che deborda e le incrosta come una bava di merda. Quanto a me chi sono veramente si saprà soltanto quando le donne impareranno a parlare la loro lingua.

T: Ti capisco, ma è solo un giro della ruota, e la ruota non si ferma. Ciò che oggi si trova nel punto più basso e preme il selciato con tutto il suo carico di oppressione sarà di nuovo in alto, leggero, pronto per un nuovo assalto al cielo. Le grandi personalità nascono in ogni epoca ma solo in alcune la loro forza può mostrarsi in tutta la sua estensione perché necessita di un tempo in cui potersi dispiegare. Sarà la storia, dunque, a redimere entrambi, noi siamo stati un anello della catena; chi verrà dopo farà tesoro anche della nostra esperienza, anzi è già nel mondo, sento di nuovo risuonare lo strepito delle folle! Le nostre idee non moriranno mai!

Le due figure oscillano l’una nell’altra come due fiamme che si confondono, poi si alzano ed escono; salgono altre figure.

La Malinche

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