ARTE AI CONFINI

Il festival Fuori asse – ai confini del circo, che si è tenuto dal 27 a 29 gennaio alla Triennale di Milano, è stato un evento artistico importante e originale. Il titolo stesso evoca una difficoltà di collocazione, che si complica ulteriormente perché la seconda parte – ai confini del circo – si potrebbe trasformare anche in ai confini del teatro. È proprio la parola confine a essere centrale, nel doppio senso del termine: limite, ma anche possibilità di attraversarlo e trasgredirlo. Per orientare chi non c’era, il festival, ideato e curato da Clara Storti, Filippo Malerba e Gaia Vimercati, è consistito di quattro spettacoli che si sono alternati nei diversi giorni: ho assistito a tre di essi mentre del quarto – ideato da Piergiorgio Milano e dal titolo White out – riporto una parte della presentazione. Il titolo, in particolare, si riferisce al:

… termine con cui in alpinismo si definisce la perdita totale di visibilità. Si crea quando il biancore uniforme delle nuvole incontra un terreno innevato e rende impossibile l’avanzare o il retrocedere … White out fonde danza contemporanea, circo di creazione e alpinismo.  

Seconde nascite e post umani

La scena in cui si svolge Mavara, ideata da Chiara Marchese – Porte 27, è molto semplice: un filo sospeso fra due instabili supporti. La protagonista è una, ma i corpi che si muovono sembrano due e solo da un certo momento in poi si comprenderà bene cosa accade in scena. I movimenti convulsi dell’attrice alludono sia alla nascita – alcuni gesti richiamano il parto – sia alla liberazione del corpo della donna da tutto ciò che lo tiene prigioniero. Fra acrobazie sul filo e contorsioni che rappresentano la fatica e la sofferenza della protagonista, alla fine lo scioglimento va nel senso della liberazione, o di una seconda nascita, sottolineata dall’altalena e dalla colonna sonora: onde marine che si muovono in armonia con le evoluzioni dell’attrice sul filo. Nella breve presentazione dello spettacolo si accenna al fatto che, nell’antica tradizione siciliana, Mavara è la donna che possiede poteri magici e curativi.   

Il protagonista del secondo spettacolo, ideato da Alessandro Maida – Magda/Clan, è un uomo che sopravvive in modo assai precario in un deserto roccioso sferzato dai venti. Egli è solo; anzi, tutto fa credere che sia il solo umano rimasto nella porzione di mondo che abita; ma non si tratta di un’attualizzazione di Robinson Crusoe. Il titolo è una citazione letteraria, ma va in tutt’altra direzione: 2984. Siamo alla fine del millennio che abitiamo tutti noi e mille anni dopo 1984 di Orwell. L’evoluzione ha preso una direzione estrema e foriera di momenti di comicità: l’uomo vive in simbiosi con le pietre e si nutre persino di esse. L’arte può fare tali magie, anche se rimango più affezionato all’ipotesi che, in caso di sparizione del genere umano, l’evoluzione ricomincerà da scarafaggi e salmerini. Il sopravvissuto umano ha a disposizione le pietre, una carriola, un vecchio computer che manda segnali strani, una misteriosa bevanda e la sua abilità fisica nel destreggiarsi in quell’ambiente. Fra le pietre spicca la presenza di una sorta di monumento, una specie di moloch o di totem. La natura organica non esiste più, soltanto il sole e la luna continuano a scorrazzare per i cieli sempre più scuri. La colonna sonora è fatta di rumori stridenti e tuoni che nel finale diventano particolarmente sinistri. La scena ricorda per molti aspetti l’ambientazione del romanzo La strada di Cormac McCarthy. Anche in questo spettacolo il protagonista compie dei gesti la cui finalità rimane sospesa fra diverse ipotesi. Le sue azioni attraversano differenti stadi, compreso un delirio di onnipotenza indotto dalla bevanda, i cui effetti però durano poco. Alla fine di questa parte i movimenti diventano più coerenti e determinati nel dar vita a nuove forme, il cui significato vedremo nelle conclusioni.

La leggerezza del gioco

Il terzo spettacolo, Croȗte, di Guillaume Martinet/Defracto, è un ulteriore salto che ci porta nel mondo della giocoleria, anche se il termine è riduttivo. Martinet porta in scena soltanto sei palline di stoffa con le quali si esibisce in alcuni numeri tipici del giocoliere: ma questa parte della performance è in fondo quella più superficiale. Sono il corpo e lo spazio i veri protagonisti della performance. La scelta compiuta dalla regia è stata particolarmente felice, perché lo spettacolo si svolgeva in una parte del salone centrale, a ridosso della scalinata che porta a una delle mostre attualmente in corso di svolgimento. Il pubblico poteva accedere alla mostra e questo creava momenti d’imprevedibile interazione fra spettatori, pubblico ignaro di quanto stava accadendo e performer. In una alternanza fra momenti di comicità ad altri di puro virtuosismo, le azioni consistevano di poche semplici mosse. Più lo spettacolo continuava, più ci si rendeva conto che erano le interazioni fra il corpo e lo spazio più ancora delle abilità del giocoliere il vero motivo di fascino della performance; perché la diversità e anche la scelta, praticamente senza alcun limite, dei luoghi in cui quei gesti possono trovare dimora, fanno di Croȗte, uno spettacolo metamorfico, sempre diverso dal precedente.

Senza parole

Quanto visto m’induce a riflettere prima di tutto sull’assenza di parola. Non è una sorpresa in senso assoluto. John Cage in anni lontani, ma anche alcune esperienze del Living Theatre o di Lindsay Kemp non avevano al centro la parola o essa era addirittura del tutto assente; per non parlare dei Mimi e dell’indimenticabile Marcel Marceau. Tuttavia, la differenza rispetto a quelle esperienze è la possibilità di unificare in uno spettacolo elementi disparati ed eterogenei – un esempio per tutti, saper coniugare un aspetto estremo dell’alpinismo all’arte circense e al teatro –  per dar vita ogni volta a performance difficilmente prevedibili. Proprio l’eterogeneità e l’interazione fra elementi così diversi, ma non arbitrariamente fusi insieme, suggeriscono che siamo forse in presenza di una nuova linea nel solco dell’arte totale, da un lato. Dall’altro che l’analogia, piuttosto che la metafora è la figura retorica prevalente.

Un altro tratto distintivo e vistoso è la capacità di usare il corpo e l’interazione fra di esso e alcuni oggetti. Tale elemento, specifico dello spettacolo circense, ma anche prerogativa della danza contemporanea, è posto al servizio di una trama più complessa come avviene – per esempio – in un passaggio particolarmente emozionante di 2984, per quello che il protagonista riesce a fare con la carriola. Oscillando fra aspetti squisitamente comici e grotteschi, ad altri più drammatici, si arriva allo struggente ballo notturno che evoca l’immagine del femminile assente dalla vita. Questo passaggio e un altro successivo, in cui, dall’esplosione di una pietra, emerge un vecchio braccio umano che verrà posto in cima al totem, portano il protagonista a mettere in scena con le sue pietre il sogno di ricostruire l’umanità.

La conclusione di questo spettacolo mi riporta a un confronto con l’altro dal titolo Mavara. Unisco queste due opere in una riflessione conclusiva perché, proprio per la loro grande diversità, portano in scena anche uno sguardo femminile e uno maschile sulla nostra contemporaneità. Mavara è un percorso di liberazione, compiuto da una donna, la quale sente che la propria presenza nel mondo è soltanto agli inizi e ha davanti a sé un futuro tutto da scoprire. La scena finale in cui la protagonista accompagna con il gesto e con il suono felice della voce, la liberazione di tutte le scorie, si apre alla speranza, ma al tempo stesso ha le proprie radici antropologiche in una tradizione di sapienza femminile che è stata repressa dalle società patriarcali. Niente potrebbe essere più lontano, in questo senso, dall’accompagnamento verso la fine del mondo, evocato da 2984. Entrambi gli spettacoli, però, ci mettono di fronte a un dilemma reale: perché se è vero che l’immaginario apocalittico è prevalentemente maschile e affonda le sue radici nella tradizione millenarista cristiana, d’altro canto la speranza di liberazione non può ignorare che il monito sulla possibile fine dell’umanità non viene da Cassandre d’occasione o pseudo indovini, ma da scienziati e scienziate.

HORROR VACUI

Premessa

Il 6 dicembre scorso a Fuori orario è andato in onda Zabriskie Point. Mi è capitato di rivederlo diverse volte e ad ogni nuova visione cambiavano un po’ le prospettive, si aggiungevano riflessioni che modificavano le sensazioni precedenti, tranne per un particolare: la scena finale, una delle sequenze più straordinarie della storia del cinema.

Antonioni mise in scena nel film la contestazione globale del sistema. La sceneggiatura è una delle più felici e straordinarie sulle vicende di quegli anni per l’acutezza con cui sa cogliere tutte le sfumature e le contraddizioni di una generazione; le scene iniziali del film, in particolare, il dibattito nell’università occupata, sono una sintesi difficilmente superabile – anche dal punto di vista della semplice documentazione storica – del vissuto emozionale, della psicologia, delle passioni dei protagonisti di quegli anni.

La trama si snoda intorno alla vicenda di un ragazzo che si crede (o meglio finge di credersi) accusato di avere sparato a un poliziotto durante un assalto delle forze di polizia a un’università occupata. Egli sa di essere innocente anche se la tentazione di uccidere l’ha avuta dopo aver visto un agente sparare a un manifestante. Decide di salvarsi da quella che è una sua ipotesi di reato commesso tentando una fuga folle e irrazionale, che culmina con il furto di un aereo. Il gesto imprime alla narrazione una svolta, poiché da quel momento egli è ritenuto davvero colpevole di avere sparato.

Antonioni usa abilmente un cliché tipicamente americano, quello della fuga solitaria di un protagonista maledetto (sempre maschile perché il tempo di ‘Thelma e Louise era ancora lontano), senza interrogare lo spettatore sulle ragioni psicologiche che hanno spinto il protagonista a una soluzione così palesemente assurda; perché non bisogna dimenticare che il ragazzo non ha sparato affatto, il poliziotto è stato colpito da qualcun altro e non da lui. Tale cliché è presente nei films di James Dean, ma è ovviamente l’archetipo che sta dietro anche un romanzo come On the road di Jack Kerouac, altro mito di quegli anni.

I protagonisti di queste fughe patetiche e disperate sono di solito piccoli o grandi criminali, bulli, spostati e appartengono tutti alla generazione precedente quella della contestazione, passata alla storia con l’epiteto di gioventù bruciata.

Antonioni rilegge il cliché con l’occhio di un europeo, eliminando gli aspetti banalmente sentimentali, ma pone anche un preciso limite alla potenzialità politica del suo protagonista. Fra gli spostati interpretati da James Dean (totalmente estranei alla politica) e il ragazzo di Zabriskie Point (che dovrebbe rappresentare una generazione politicizzata), esistono più affinità che distanze.

Il ragazzo sorvola, inseguito da mezzo esercito, le autostrade; il suo, in fondo, è un viaggio in automobile, solo un po’ più sollevato da terra. Dall’alto vede una giovane donna e atterra vicino a lei. Siamo vicini a Zabriskie Point, un luogo selvaggio, disseminato di colline brulle, scoscese e solitamente assolate. È in questo scenario estraniato ed estraniante che i due s’incontrano, dopo che con le sue evoluzioni il ragazzo è riuscito ad attirare l’attenzione di lei.

Daria è una giovane che ha un appuntamento a Phoenix con un uomo d’affari che potrebbe anche essere suo padre. È il tipo della donna emancipata che sa il fatto suo e sembra appartenere a un mondo lontano da quello del suo occasionale compagno di viaggio. Tuttavia i suoi modi non sono diversi da quelli delle studentesse che occupano le università, anche lei è segnata da un marchio generazionale che attraversa le classi e le culture. Nel dialogo con lui, però, è meno prigioniera di schemi. Fuma tranquillamente marijuana senza remore di nessun tipo ma anche con la capacità di tenere sotto controllo la sua trasgressione: è il prototipo di quella che diventerà in pochi anni una donna in carriera, molto maschile nei modi, aggressiva al punto giusto.

I due raggiungono il punto più bello della vallata e lì fanno l’amore, come in un sogno. È una scena molto mimata, una rappresentazione teatrale e quasi a volerla rendere ancora più onirica, Antonioni immagina altri corpi che si rotolano in amplessi plastici e rallentati che ricordano movimenti animaleschi.

Una volta concluso il loro breve idillio i due ripartono, ciascuno per la propria strada, non prima però di aver dipinto l’aereo di nero con due grandi occhi. Il suo muso si confonde con quello di Micky Mouse: siamo in pieno mito americano!

Daria prosegue il suo viaggio e tiene la radio accesa per sapere come andrà a finire la storia di questo strano ragazzo con il quale ha condiviso due ore della sua vita e di cui, cosa molto americana, tutte le radio libere seguono in diretta la vicenda. Lei giunge finalmente alla sua meta: una villa sontuosa in cima a una collina rocciosa. Mentre si accinge a entrare apprende dalla radio che il ragazzo con cui ha fatto l’amore è stato brutalmente massacrato dalla polizia in una scena al tempo stesso feroce e grottesca per l’evidente sproporzione esistente fra la pericolosità del soggetto e i mezzi impiegati per ucciderlo. La giovane donna si aggira inebetita fra i locali della sontuosa dimora, incapace di parlare, in preda a un’emozione fortissima. Sbircia da dietro le porte e ode in una specie di trance la trattativa che si sta svolgendo fra il manager con cui ha un appuntamento e altri uomini. Stanno decidendo come trasformare la valle in cui lei e il ragazzo hanno fatto l’amore in un business turistico: una specie di drive in con vista sulla vallata. L’uomo la vede, non si accorge del suo stato d’animo e le indica semplicemente dove accomodarsi. La ragazza si aggira ancora nella casa, spiando senza sentirli i discorsi di alcune signore che prendono il sole ai bordi della piscina. È a questo punto che avviene in lei un metamorfosi rapidissima. La giovane donna, in preda a una rabbia impotente e disperata s’immagina che quello che è stato fino a quel momento il suo mondo, esploda. E la sua visione si materializza: la villa e tutta la collina saltano per aria, non una ma più volte, prima con il suono dell’esplosione, poi silenziosamente e al rallentatore. Per lunghi dieci minuti tutto quel mondo solido e compatto si frammenta e come un fungo atomico fa salire verso il cielo pezzi di sé. Volano televisori, elettrodomestici, come in un collage futurista sullo sfondo di un cielo terso, pezzi di oggetti diversi convivono in un volo lento e inesorabile fino a diventare pulviscolo. Alla fine la ragazza sale sulla sua auto e se ne va con un sorriso: la catarsi è avvenuta, inizia da quel momento la sua vera vita. Ciò che andava in frantumi nella scena finale del film era quella società dei consumi che da noi non si era ancora affermata: certo gli slogan contro il consumismo erano vivi anche qui, ma la scelta di Antonioni di collocare il film negli USA, fa emergere l’asimmetria esistente fra i due mondi. La regia, insistendo su ogni minimo particolare con sequenze sempre più ravvicinate, che dal piano lungo a quello intermedio arrivano fino al primo piano, lo sottolinea ancora di più. Valga per tutte l’esplosione del frigorifero.

Dal 1970 a oggi

Qualcosa è davvero esploso nel mondo occidentale, ma non sono stati gli oggetti a dissolversi e a volare via, bensì le nostre vite. I grandi artisti e le grandi opere d’arte, cui Zabriskie Point appartiene, sanno spesso vedere il futuro ma non sempre alla lettera. Antonioni, con quella scena, voleva rappresentare i sogni colorati, apparentemente violenti, ma sostanzialmente ingenui, di una generazione di rivoluzionari a metà: contraltare impotente di un potere che non sapeva valutare il pericolo reale rappresentato dal ragazzo e lo massacra non direi senza pietà (all’impersonalità crudele del potere siamo abituati), ma senza nessuna minima intelligenza di quanto sta accadendo.

Visto con gli occhi di oggi, tuttavia, il film si presta a più complesse considerazioni. Partiamo dalla scena del massacro del ragazzo. Antonioni filma con quella sequenza il gap generazionale che negli Usa di quegli anni separava ormai i padri dai figli. Una società sgomenta di fronte alle domande del mondo giovanile e dominata da un ceto politico largamente paranoico (come aveva peraltro dimostrato il maccartismo di qualche anno prima), rispondeva alle proprie paure con la cecità di una violenza irrazionale e stupida rivolta contro i suoi stessi figli! Il problema è che a poco più di trent’anni di distanza, tale atteggiamento si è trasformato, né più né meno, nella politica estera statunitense.

Torniamo ora alla sequenza finale. È accaduto agli oggetti il contrario di quanto accade in essa. Un cumulo di macerie materiali e morali ci sovrasta e ci circonda; in questa enorme discarica, detriti di esperienze passate di diverso e talvolta opposto segno convivono e si sommano saturando lo spazio psichico e quello fisico. Gli oggetti non sono esplosi ma si sono moltiplicati (o si potrebbe anche dire che è esplosa la loro produzione) e se qualcosa accadrà di questa massa vagante, sarà un’implosione; oppure succederà che i rifiuti, sempre meno riciclabili, di questa massa inutile satureranno sempre più lo spazio fisico.

Infine la villa del magnate. Nel film di Antonioni essa è un vero e proprio bunker circondato dal deserto; assomiglia a un antico feudo europeo, ma senza i villaggi contadini intorno. Il dominio espresso in quelle immagini è un dominio sul vuoto, sulla terra bruciata. Antonioni vede qui, profeticamente, il destino di una società in cui il dominio diventa identico a quello del signore; ma spogliato di ogni nobiltà e signoria.

Gli oggetti, sia in quanto valori d’uso sia in quanto scorie da rottamare, sono cresciuti in quantità saturando lo spazio, hanno sgretolato ogni senso, ma tutto questo è avvenuto come in una sequenza rallentata, mentre l’immaterialità si è trasferita altrove, nella metafisica del rizoma informatico e nella sua rete di relazioni virtuali. Entropia nello spazio fisico e asettica immaterialità nello spazio virtuale.

Lo spazio fisico diventa così un simulacro del potere, ma al tempo stesso viene presidiato in negativo nella forma dell’inefficienza programmata dei servizi vitali: le nostre città vengono lasciate a un progressivo abbandono perché esse non sono più la sede fisica del dominio ma soltanto il paravento dietro il quale il bunker si riorganizza in modo tendenzialmente invisibile, distruggendo tutti i legami sociali e le infrastrutture civili che reggono una società.

BORIS GODUNOV

La scelta di Chailly e Kasper Holten di non cambiare il programma della Prima della Scala è stata felicissima, anche perché compiuta senza troppo rumore e inutili forzature, puntando tutto sulla potenza del dramma di Musorgskij e Puškin, modernissimo se si va oltre l’apparenza. Storiaccia ultra maschile di potere, trono e altare, apparentemente da ancien regime ma in realtà, come sottolineato anche dalla regia che ha modernizzato i costumi in corso d’opera, esempio di una storia che non passa e si ripete. Il tratto modernissimo, che distanzia a mio giudizio l’opera di Musorgskij dal Macbeth di Verdi, è il dramma psicologico di Boris, il suo contorcimento emotivo che testimonia come la ripetizione infinita del cliché va comunque incontro a una modernità che non si può più evitare: Dostoevskij non è poi così lontano. Gli interpreti poi sono stati superbi, in particolare Ildar Abdrazakov nel ruolo di Boris; ma tutti, a cominciare dai cori; per concludere con un finale emozionante.

Ottime anche le proteste, quelle vere di piazza, non quello di chi voleva fermare tutto.

 

IL CAPITALE UMANO: Un film di Paolo Virzì

Premessa

La lettura di un libro recentissimo Una vita da liberata oltre l’Apocalisse capitalista di Paolo Ciccarelli, pubblicato da Derive Approdi, mi ha ricordato il film di Paolo Virzì di qualche anno fa. Ciccarelli, nel libro, usa l’espressione capitale umano per indicare il degrado non solo linguistico che l’espressione rivela e cui se ne possono aggiungere altre. Nel film possiamo vedere i prodromi di quella che sempre Ciccarelli definisce come Apocalisse capitalista.   https://deriveapprodi.com/libro/una-vita-liberata/

LO STILE

Il capitale umano di Paolo Virzì, elogiato generalmente dalla critica, a parte la gazzarra scatenata dalla Lega nord, che non rientra nei canoni del giudizio  estetico ma solo in quelli della sotto cultura politica dell’Italia di oggi, non è durato al lungo nelle sale e mi auguro che qualche cinema lo rimetta in programmazione.

L’importanza del film di Virzì sta prima di tutto proprio nel suo valore estetico e nel linguaggio cinematografico che usa, cosa di cui non sempre vale la pena di occuparsi, perché le novità in questo campo sono poche. A questo aggiungerei che il regista livornese, con quest’opera, fuoriesce dai canoni consunti della commedia all’italiana, sebbene ne mantenga qualche traccia in alcuni frammenti del film, per approdare a un’opera più matura e originale che dimostra anche la sua capacità di cambiare e sperimentare. 

Il soggetto è tratto da un romanzo dal titolo omonimo scritto da Stephen Amidon e ambientato nel Connecticut, il cuore dell’America wasp, che Virzì trasferisce liberamente in un nord Italia che spazia dalla Brianza al varesotto; un ambientazione immaginaria dal punto dei vista dei nomi inventati dei paesi, ma in realtà riconoscibilissima anche da un punto di vita paesaggistico. Le colline innevate dove si trovano le ville dei protagonisti ricordano assai paesaggi analoghi della Lombardia a nord di Milano e a ridosso dei confini svizzeri. La sala cinematografica che la signora Bernaschi (Valeria Bruni Tedeschi) ha la velleità di ristrutturare per farne un centro di cultura e arti, potrebbe essere collocata nel centro di Varese.

Il motore da cui prende avvio la narrazione è semplice: un incidente automobilistico, un uomo in bicicletta, investito di notte mentre se ne sta tornando a casa dopo il lavoro: sarà lui il capitale umano di cui stabilire un prezzo.

L’espediente della trama noire si sposa con la strategia compositiva e narrativa di Virzì. Dalla sequenza dell’incidente si passa al giorno dopo e a quelli successivi, quando entrano in scena i personaggi più importanti del film. Appartengono a due famiglie, ma, nel prosieguo della narrazione, tale nucleo centrale si espande a un cerchio più allargato di persone.

Lo spettatore non capisce subito perché la scelta cade su di loro, lo comprenderà strada facendo. Le vite dei protagonisti s’intrecciano istante dopo istante, come dentro un inesorabile gorgo, che farà emergere lentamente, fra le molte altre cose, anche la responsabilità di chi ha provocato l’incidente. Virzì dedica a ciascuno dei personaggi principali altrettante lunghe sequenze, accompagnandoli nella loro vita di tutti i giorni. Tuttavia, il regista livornese non si serve della modalità tipica dei film a episodi (per esempio America oggi di Altman). La tecnica è quella di riproporre, all’interno di ciascuna sequenza dedicata al personaggio in oggetto, alcune scene identiche, ma riprese da inquadrature diverse, che corrispondono ai movimenti diversi dei personaggi, approdando così a una oggettiva e coerente messa in scena che rispetta in modo rigoroso le unità di luogo, tempo e azione. Farò un solo esempio concreto.

Un momento importante del film è quando tutti i personaggi principali confluiscono in una cena sociale alla fine della quale c’è la cerimonia di premiazione di alcuni studenti. Nella sequenza dedicata al primo di loro, un uomo, lo vediamo arrivare sul luogo contemporaneamente a una donna che vi giunge in auto; lei si ferma e scoppia in un pianto dirotto, rimanendo all’interno dell’abitacolo. La macchina da presa riprende l’uomo che, non visto da lei, sbircia all’interno dell’auto, perplesso. Lo spettatore è sorpreso quanto lui perché non sa ancora il motivo del pianto, lo comprenderà solo seguendo la sequenza dedicata alla protagonista femminile. Quando, alla fine di essa, lei giunge alla cerimonia, la macchina da presa, posta all’interno dell’abitacolo, inquadra lei che guida, finché non posteggia e comincia a piangere. Sempre dall’interno dell’auto lo spettatore vede l’uomo che sbircia attraverso il finestrino mentre passa di fianco al veicolo. La scena è la stessa di prima, ma ripresa da due angoli di visuale diversi, che non sono però scelti in base alla soggettività del protagonista – la memoria soggettiva non gioca alcun ruolo nel film – ma mettono al centro la situazione in cui il personaggio si trova coinvolto. Le ragioni del pianto della signora sono assai concrete, ma riportano a un meccanismo quasi impersonale che governa la sua vita così come le altre. Alla fine, lo spettatore arriverà a comporre da solo il mosaico, o l’affresco. La cinepresa di Virzì si muove come un narratore onnisciente, ma lo spazio-tempo in cui si svolgono le vite dei protagonisti mette in evidenza come la relatività delle loro diverse azioni arrivi a disegnare una sintesi che sfugge però a ciascuno di loro preso singolarmente.

Gli antecedenti del film di Virzì si trovano in Kubrick, il primo, forse, a usare una tecnica analoga nel suo secondo film, un noir dal titolo classico Rapina a mano armata. In tempi più recenti lo hanno riproposto l’indimenticabile Yol di Serif Gören e Yilmaz Güney, ma specialmente Before the Rain del macedone Mancevski, infine Underground di Emir Kusturica. Non a caso si tratta di film sulla guerra civile nella ex Jugoslavia, oppure intorno a situazioni sociali drammatiche come nella pellicola del regista turco. Moderne tragedie che il cinema ha saputo spesso raccontare meglio della narrativa. Chi sono i personaggi del film di Virzì?

IL PROFONDO NORD.

Dino Ossola, interpretato da Fabrizio Bentivoglio, è un uomo cinico, incapace di amare, ignorante e invidioso. L’ex moglie Roberta Morelli, interpretata da Valeria Golino, lo ha lasciato  e cerca in qualche modo di occuparsi della loro figlia Serena –  interpretata da Matilde Gioli – a differenza di Dino, che non capisce nulla delle inquietudini della ragazza, ma pensa solo a usarla come grimaldello per entrare nelle simpatie di Giovanni Bernaschi, interpretato da Fabrizio Gifuni: infatti, la ragazza ha una relazione con il figlio di lui e di Carla Bernaschi, Massimiliano, interpretato da Guglielmo Pinelli. Ossola ha un’agenzia immobiliare i cui affari sono modesti: riuscire a entrare con il proprio capitale nel fondo d’investimento di Giovanni Bernaschi sarebbe per lui il tanto agognato salto di qualità, l’ingresso nel grande giro della finanza, al quale si può accedere solo da una certa cifra in su, che nel caso specifico sono 600.000 euro. Le promesse di guadagni sono peraltro miracolistiche. Ossola è un parvenu senz’arte né parte, un aspirante arricchito; a differenza dell’altro, uno squalo della finanza, un uomo senza scrupoli, che ovviamente sotto sotto disprezza l’immobiliarista.

La moglie di Bernaschi vive nell’ombra del marito e gode di tutti i privilegi in quanto  sua ospite in una gabbia dorata, dalla quale improvvisamente sente il bisogno – del tutto velleitario – di uscire: l’occasione è il salvataggio di un cinema teatro, un bene pubblico che sta andando a pezzi e che lei vuole contribuire a ristrutturare con i soldi del marito. Mette in piedi un gruppo abbastanza male assortito di personaggi che dovrebbero garantire un profilo culturale alla programmazione, ma tutto andrà in fumo perché Giovanni, con lo stesso cinismo con cui aveva promesso i soldi alla moglie per darle un contentino, revoca la promessa quando le cose sembreranno andar male.

I figli delle due famiglie, Serena e Massimiliano, sono ragazzi nevrotici e sbandati: vittime? Certamente sì, ma anche complici, Massimiliano specialmente, che gode anche lui dei benefici della gabbia dorata, dalla quale non riesce a uscire ribellandosi, se non nel modo tipico di tutti i ribelli senza causa e cioè con gli eccessi cosiddetti trasgressivi: l’alcol, i Suv, tutto quell’armamentario consumistico utile a riempire un abissale horror vacui. Serena, introversa e gentile, è certamente più consapevole di lui e alla fine, sarà uno dei personaggi più positivi del film, ma in modo molto relativo perché pure lei ha un rapporto del tutto distorto con la legalità, non sa distinguere fra verità e menzogna, seppure a fin di bene. Il suo rapporto con Massimiliano è senza sbocco, vuole allontanarsi da lui ma ricade sempre nella trappola del ricatto sentimentale e del senso di colpa: pretende di salvarlo dalle sue trasgressioni e infatti, sarà proprio a causa di una notte brava in cui Massimiliano si sente male, che la sua vicenda s’intreccerà fatalmente con quella della vittima dell’incidente.

Ciò che salva Serena in qualche modo è la presenza della madre, che, pur con tutti i limiti ambientali del caso, riuscirà in alcuni momenti decisivi a esserle vicina. È la sua presenza a dare alla ragazza la forza di guardare al di fuori del proprio ambiente e d’incontrare Luca Ambrosini, interpretato da Giovanni Anzaldo. Luca è un altro ribelle senza causa, ma anche senza soldi e lavoro, o meglio con lavori precari e qualche precedente con la legge. Condivide con il rampollo della famiglia Bernaschi tutte le finte trasgressioni della sua generazione di nevrotici conformisti: aspetto da punk, musica rock, un pizzico di cultura da centro sociale, la tossicodipendenza. Serena lo sa, ma il loro rapporto è paradossalmente più sano perché lei non cerca di salvarlo, ma solo di stargli vicino: il loro è un amore fra due disperati, ma non disperato come l’altro.

L’intreccio di vite e situazioni precipita quando Giovanni Bernaschi dice a Dino Ossola che il fondo non sta andando affatto bene e che lui rischia di perdere l’intero investimento di 600.000 euro. Dino cerca di convincerlo a farsi restituire il capitale, ovviamente senza sortire effetto alcuno, né muovere alcun sentimento nell’altro. Su un piano parallelo a questa vicenda si svolge l’altra e cioè le indagini sull’incidente, che si stringono sempre di più intorno a quello che si presume il colpevole e cioè Massimiliano, il figlio dei Bernaschi. Gli indizi a suo carico sono molto gravi, tanto gravi da convincere anche i genitori che così è. Giovanni, venuto a conoscenza della cosa, non si preoccupa affatto del figlio, verso il quale ha parole di disprezzo, ma solo dello scandalo e dei fastidi che ne possono sortire; ma il colpo di scena è dietro l’angolo. Non è lui il responsabile dell’incidente ed è proprio Dino Ossola che lo viene a sapere casualmente: soltanto lui può scagionare il ragazzo raccontando alla polizia quello che sa e questo naturalmente diventa un’arma di ricatto nelle sue mani. La famiglia Bernaschi accetta, anche se il prezzo monetario da pagare  Ossola è alto, ma non più di tanto perché si saprà alla fine che il fondo d’investimento si è ripreso alla grande, grazie a speculazioni ardite.

Non è Giovanni Bernaschi che si presenta all’appuntamento per la transazione finale con Dino Ossola; alla bisogna si presta sua moglie Carla e l’appuntamento avviene proprio in quel cinema diroccato che lei avrebbe voluto ristrutturare. L’umiliazione delle sue aspirazioni velleitarie non è però finita perché tutta la scena fa pensare subito che oltre al prezzo in denaro ce ne sia un altro da pagare, una prestazione sessuale, una richiesta che anche lei si aspetta. È uno dei momenti più drammatici del film, che Virzì risolve a mio avviso in un modo magistrale; ma non dirò nulla su questo come sul colpevole dell’incidente, per non togliere il piacere di scoprirlo a chi il film non lo ha ancora visto. 

Vale la pena di considerare a questo punto la straordinaria interpretazione di tutti gli attori e le attrici di questo film, anche gli esordienti o quasi. Uno dei meriti maggiori della cinematografia italiana non solo contemporanea è proprio questa: potersi avvalere di una recitazione che viene spesso dal teatro come nel caso di Gifuni e Bentivoglio, ma anche di un linguaggio che non è fatto di effetti speciali, ma che si affida alla bravura.

TRE FINALI

Il film di Virzì offre al pubblico tre diversi finali, uno tragico che ha anche a che fare con la spiegazione del titolo, un secondo soltanto drammatico, il terzo più ottimista. Un dramma dunque, quello del regista livornese, che mantiene però, anche nel momento della speranza, un tono amaro e dolente.

Il secondo dei finali avviene durante un grande ricevimento che si svolge a casa dei Bernaschi. Il fondo di investimento è risalito, tutti i clientes di Giovanni, che lo avrebbero volentieri buttato a mare in caso di fallimento, sono di nuovo tutti radunati intorno a lui a ossequiarlo. Si sono salvati anche loro- al prezzo dello sfascio di un intero paese –  e si godono felici il pericolo scampato. È in questo contesto che Carla Bernaschi pronuncia, rivolta al marito che peraltro non se ne cura, una frase che suona al tempo stesso come la verità su ciò che abbiamo visto, ma che dal suo punto di vista, è una pietra tombale messa sulle proprie aspirazioni di donna. Il catering del ricevimento non è molto originale ma dice Carla: avresti potuto dar loro anche cibo per cani e sarebbero venuti lo stesso.

Nel terzo dei finali, la macchina da presa inquadra Luca e Serena, sorridenti e silenziosi, l’uno di fronte all’altra: è il solo squarcio di futuro che s’intravede alla fine del gorgo. È un futuro da disperati anche il loro, ma ha un percorso possibile di riscatto davanti: sono loro due e nell’ombra la madre di Serena, la piccola catarsi che Virzì ci lascia.

Due parole, infine, sui motivi che hanno fatto imbestialire i leghisti all’uscita del film. I personaggi in questione, se visti dal loro lato meno tragico, sono stati presi in giro più volte dai cosiddetti film panettone e da tutto il ciarpame della cosiddetta commedia all’italiana nelle sue forme più degradate. Tali film non hanno mai indignato i leghisti, che anzi ridono a crepapelle di quelle avventure. Qual è la differenza allora? Un conto è rappresentare le macchiette nord italiche, come hanno fatto Renato Pozzetto, Massimo Boldi e altri, un conto è togliere loro la maschera e mostrarne il volto cinico e ferino, razzista e ignorante.  

IL CINEMA ITALIANO CONTEMPORANEO.

Fra le critiche pubblicate sulla carta stampata in occasione dell’Oscar al film di Sorrentino, è emersa qui e là l’idea che il premio fosse stato dato anche per omaggiare la tradizione cinematografica italiana. I meriti ci sono tutti, la settima arte è certamente, fra  quelle contemporanee nostrane, insieme al teatro, di livello buono e talvolta eccellente, a differenza di una letteratura spesso stereotipata ed esangue. La produzione cinematografica non risente di scosse generazionali e propone insieme a grandi vecchi come I Fratelli Taviani, Bertolucci e Marco Bellocchio, un generazione di mezzo assai importante, con Moretti, Salvatores, Tornatore e Amelio, Agosti, Avati; poi i molti giovani  fra cui Sorrentino, che è pur sempre il regista di Le conseguenze dell’amore e Il Divo, prove ben più convincenti dell’ultima premiata; ma anche Garrone, Comencini, Rubino, Ozpetek e altri: e ovviamente Virzì.

Il cinema italiano è assai premiato in tutte le rassegne più importante: da Berlino a Cannes a Venezia, mentre un discorso a parte va secondo me riservato all’Oscar.

Il cinema d’autore più premiato negli ultimi vent’anni in tutti i più importanti festival, tranne che negli Usa, è quello proveniente dalle cinematografie dei paesi extra occidentali, con l’esclusione dell’India, ma per scelta propria, perché gli indiani, che hanno la cinematografia industriale più grande del mondo dopo Hollywood, hanno deciso per il momenti di puntare sul mercato interno. Oppure provengono da nazioni occidentali, ma periferiche, con l’eccezione dell’Italia.

Dal greco Anghelopoulos al cinese Yan Gi Mou, all’iraniano Kiarostami, dai turchi Serif Gören e Ylmaz Günev, al montenegrino Manchevski, dal serbo Kusturica al finlandese Kaurismaki e georgiano Ioseliani, l’australiana Jane Campion, sono questi i grandi protagonisti. Uniche eccezioni, il britannico Ken Loach e gli italiani, appunto e forse qualcun altro che avrò dimenticato.

Gli statunitensi occupano il campo del prodotto industriale e lo esportano in tutto il mondo imponendo il doppiaggio nelle lingue dei paesi ospitanti mentre rifiutano il doppiaggio in inglese delle pellicole straniere. Il cinema d’autore statunitense non gode dei favori di Hollywood, tanto che Martin Scorsese, per fare un esempio, ha girato Gangs of New York a Cinecittà e non solo per un problema di costi, ma perché il soggetto del film era ritenuto troppo anti americano e quanto a Woody Allen, poi, il suo rifiuto di Hollywood è notorio.

Quando si tratta dell’Oscar, gli americani tendono a premiare i film che si sposano meglio con la fascia medio alta del loro prodotto industriale (Spielberg è un autore fondamentale per capire questo), oppure perché incarnano i loro miti e immaginari più amati e in questo l’Italia fa la parte del leone. Non è un caso che fra tutti gli autori citati in precedenza, solo l’australiana Jane Campion con Lezioni di piano (migliore sceneggiatura),  e Kusturica, che ebbe una nomina, si sono avvicinati l’Oscar.

Nel caso specifico de La grande bellezza, cosa c’era di meglio di una Roma bellissima, di un po’ di folklore mediterraneo e di decadenza imperiale, visti da lontano? Pochi altri film sono stati più ad hoc di questo per il pubblico americano. A parte Fellini e Antonioni che sono ben altro, anche i film di Benigni e Salvatores avevano altre valenze.

Mediterraneo, però, non è il miglior film di Salvatores, ma incarnava anch’esso molto bene l’immaginario che l’establishment culturale statunitense vuole veicolare dell’Italia, mentre La vita è bella fu premiato perché il tema della Shoah è nevralgico, senza dimenticare che Train de vie, che affronta le stesse problematiche, gli è a mio avviso superiore.

Tuttavia, lo splendido Cesare deve morire dei Taviani l’Oscar non lo ha visto neppure da lontano, così come Nanni Moretti; vedremo se il prossimo anno Il capitale umano sarà per gli americani degno di uno sguardo.

TI AMO

Edvard Munch, Amore e Psiche, 1907

ATTO UNICO

Personaggi: A e B.

La scena è un’ampia sala con annessa cucina. A e B entrano e iniziano i preparativi di un pranzo o cena, in silenzio. Dopo un po’ si sorridono scambiandosi un rapido bacio.

A:Ti amo.

B: Perché mi dici questo? In tono leggermente apprensivo.

A: Perché ti amo.

B:  Mi togli il fiato dicendolo così, adesso.

Intanto proseguono nei preparativi, tagliano della verdura, a volte insieme a volte disgiunti e continueranno a farlo durante l’intera rappresentazione.

A: Non capisco.

B: sono parole forti: che responsabilità sentirselo dire, dopo così poco tempo, non mi dai modo di difendermi.

A: è un mio atto di libertà poterlo dire, mi fa sentire bene.

B: vedi dunque che non c’entra nulla con l’amore? Ti fa sentire bene, ma mette in ansia me, è una piccola frase, ma talmente grande, che t’investe e pone nella condizione di non sapere cosa dire, a parte chi – solo per ansia – ti risponde anch’io (enfasi comica), come il cane di Pavlov. E poi non è un gesto, sono parole e le parole valgono di più.

A: diciamo che è un atto gratuito, allora; ma affermando che le parole valgono di più riconosci che non se ne può fare a meno.

B: Il linguaggio amoroso è il vero problema, le sue trappole, i suoi stereotipi. Del resto basta leggere gli epistolari di grandi scrittori e scrittrici: una noia mortale, se li paragoni ai dialoghi nelle loro opere.

A: Ma certo! Perché quando scrivono dei loro amori sono persone come tutti noi, esseri umani comuni con le loro debolezze, le loro ingenuità e persino stupidità.

B: Ma allora mi dai ragione! Se persino loro, così straordinari, così capaci di suscitare emozioni sulla carta, quando scrivono di sé e per sé sembrano dei cretini, pensa a noi che comuni lo siamo, che mai e poi mai potremmo pensare di avvicinarci alle loro altezze.

A: Ma l’amore è comune, persino banale e cretino a volte, un’operetta.

B: Sì, un’operetta che per futili ragioni rischia spesso di trasformarsi in una tragedia.

A: Oh, piantala con il tuo cinismo prèt a porter.

B: E dai era solo una battuta. Si scambiano di nuovo un bacio.

A: e poi esageri con gli epistolari, proprio tutti sono pieni di sciocchezze?       .

B: Forse tutti no, ma in questo momento me ne viene in mente uno solo: quello fra Abelardo ed Eloisa.

A: Dino e Sibilla no?

B: Ma dai, un profluvio di paroloni, una volontà di esagerare che si sovrappone al testo, tanto che a volte persino la sintassi diventa claudicante. Sono forzate quelle lettere, devono esibire l’amore!

A: In effetti non hai tutti i torti e la mia era una provocazione: ma perché proprio Eloisa e Abelardo?  

B: Nelle loro lettere, per come le ricordo, c’è lo sgomento della scoperta, il candore di una prima volta.

A: Perché quella magia non potrebbe ripetersi?

B: In astratto è possibile, ma nel loro caso lo era per le condizioni in cui avvenne l’incontro: straordinario, troppo straordinario. Ecco, forse soltanto gli incontri straordinari possono generare qualcosa di buono sul piano artistico. L’amore è sempre straordinario per chi lo vive, ma non come materia artistica.

A: Perché nel loro caso sì?

B: Due religiosi, un uomo e una donna che improvvisamente scoprono, ma anche s’interrogano, sull’eros e la sua natura, ne discutono la compatibilità o meno con il cristianesimo.

A: La pagarono cara entrambi, lui specialmente se non ricordo male.

B: Beh in un certo senso sì per la crudeltà con cui infierirono, ma anche lei pagò un prezzo altissimo. La cosa stupefacente è però il tempo che ci misero a condannarli. Un tempo incredibile se pensi alla loro condizione sacerdotale, non identica, ma insomma entrambi religiosi lo erano. Ci si aspetterebbe che in quattro e quattr’otto se ne fossero liberati e invece no.

A: E come te lo spieghi?

B: Mah, la mia è un’ipotesi, ma non l’ho mai ripensata più di tanto, ne parlo ora con te. Erano tempi in cui i dottori della chiesa riscoprivano la cultura greca, Aristotele, Platone: pensa a Tommaso d’Aquino.

A: Sì, ma cosa c’entrano loro due?

B: Ci arrivo. La riscoperta della cultura classica, della logica, della filosofia, aveva riaperto le porte su quel mondo dopo secoli di oblio e censura più o meno esplicita. Perché non riscoprire che vi era una via alla sapienza che passava dall’eros? Qualcuno forse si chiese se insieme alla logica aristotelica ci fosse qualcosa d’altro da recuperare da quel mondo.

A: Mi stai dicendo che di riscoperta in riscoperta si poteva andare lontano.

B: Più o meno sì, naturalmente la mia è un’ipotesi, ma come giustificare altrimenti il tempo che ci hanno messo a condannarli? Se fosse accaduto dopo sarebbero andati per le spicce.

A: o avrebbero coperto tutto.

B: Certo ed è un motivo d’interesse in più. Niente ipocrisia nel loro caso o doppia morale. Tutto è stato discusso alla luce del sole fino alla fine, naturalmente senza dimenticare i tempi. Non sto dicendo che fu un dibattito pubblico come i nostri televisivi, ma che per l’epoca tutto avvenne alla luce del sole.

A: E la conclusione fu terribile.

B: sì, ma anche la crudeltà di infierire sul corpo di Abelardo, se ci pensi, è comprensibile se la leggi in chiave di paura. Ne ebbero davvero tanta di paura e fu l’ultima volta in cui s’interrogarono sull’eros, forse perché capirono che era meglio non farlo. Meglio metterci una pietra sopra una volta per tutte.

A: Certo, non poteva che essere così. Riscoprire tutto il mondo greco voleva dire rimettere in circolo anche l’omosessualità e questo era davvero troppo per un gruppo maschile misogino e omofobico dove tutti sono vestiti da donna e si definiscono spose di Cristo! Un corto circuito vero e proprio!

Ridono entrambi.

B: E poi non sottovalutare Paolo.

A: di Tarso?

B: certo, il buon Saulo, persecutore di cristiani e omosessuale lui stesso. Due cose troppo pesanti per essere portate sulle spalle dopo la conversione. Come tutti gli ultimi arrivati era un fanatico e se ci metti l’omosessualità si raddoppia tutto: aveva troppo da farsi perdonare, altro che peccato originale!

A: accidenti, è interessante quello che dici, ma molto forte!

B: Ci conosciamo ancora poco, ma anche tu ne hai da dire di cose, ho letto sai quello che scrivi.

Si sorridono e si scambiano di nuovo un rapido bacio.

A: Da quel momento in poi sappiamo come è andata a finire, eros fuorigioco, cancellato, rimosso.

B: e le donne addirittura nemiche, il peccato e tutto il resto. L’epistolario di Eloisa e Abelardo per fortuna ci è arrivato, qualcuno non se l’è sentita di bruciarlo, sebbene facesse davvero paura.

A: Tu però, proprio ora, hai detto l’epistolario e non solo il gesto di amarsi: dunque anche per te le parole sono importanti. Non è che ne hai paura del linguaggio amoroso? O del linguaggio in quanto tale?   Sorridendo maliziosamente.

Sorride anche B e insieme mettono della verdura che hanno tagliato in una grande padella.

B: Ho paura degli stereotipi. Forse si può dire solo alla fine una frase del tipo ti ho amato o amata: è dopo che lo si sa.

A: quando è troppo tardi.

B: In che senso.

A: detto come lo hai espresso ora sembra che sia da poter dire solo in punto di morte.

B: o sul punto di lasciarsi.

A: Non è un po’ una morte anche quella?

B: Senza esagerare, dai. Sì, partire è un po’ morire e anche lasciare lo è, ma non esageriamo con le metafore, la vita continua anche dopo un amore finito, lo sappiamo anche noi.

A: essere lasciati se mai.

Accendono il fuoco sotto la padella delle verdure, uno dei due prende altro dal frigorifero.

B: Come? Vuoi dire entrambi?

A: Sì, a volte lasciare è più difficile che esserlo.

B: sì questo lo credo anch’io.

Prendono una tovaglia da un cassetto e la distendono sulla tavola, in silenzio. A aggrotta la fronte, B osserva poi riprende a parlare.

B: Stai pensando a qualcosa che non vuoi dirmi.

A: È vero, ma te lo dico subito. Pensavo agli indiani.

B sta portando due piatti in tavola ma si blocca di colpo.

B: Gli indiani? Che c’entrano?

A si avvicina, sorride, prende i due piatti e li depone sul tavolo: si scambiano un rapido bacio.

A: Non gli indiani dell’India ma quelli d’America, i popoli originari del nuovo mondo. Sai come si salutavano loro?

B: No.

A: Noi diciamo comunemente come va, come stai … loro, quando due s’incontravano chiedevano: Come sto?

B segue con attenzione aggrottando la fronte, intanto prende altri due piatti e li porta in tavola, poi si siede.

B: Forse comincio a capire. Solo chi mi vede può dire come sto?

A: Sì, questo intendevano; chi guarda vede tutto, almeno rispetto a te vede anche quello che tu non vedi, come lo dici, per esempio, lo sguardo, l’occhio, il volto tirato oppure solare, il colore della pelle, se qualcosa nell’inflessione della voce comunica allegria oppure disperazione o indifferenza.

B sorride poi:

B: Beh ci sono anche gli specchi.

A rimane un attimo con le posate in mano a pensare.

A: Forse non è la stessa cosa.

B: certo che non lo è e adesso ti racconto anch’io una leggenda, non ricordo se indiana o proveniente da altre culture.

A: guarda che non è una leggenda il modo di salutarsi, ci sono evidenze.

B: e dai, mi vuoi dire che la storia è fatta solo di evidenze?

Ridono entrambi, poi sistemano le posate in silenzio e vanno ai fornelli, controllano che tutto proceda e ritornano al tavolo.

B: la leggenda è questa. Se a notte, nel buio più totale ti metti davanti a uno specchio e ti guardi intensamente, ti sembra all’inizio di non vedere nulla, poi emerge la tua fisionomia come una pellicola che s’impressiona, però i tratti sono deformati e mutanti: se resisti e continui a guardare vedrai il volto del diavolo.

A: gli ortodossi dicono qualcosa di simile, che continuando a guardare un’icona a lungo nel buio, a un certo punto tu credi che sia l’icona a fissarti e non tu lei: certo loro non pensavano al diavolo. La tua leggenda però mi ha fatto venire in mente anche un dramma di Canetti.

Entrambi in silenzio si recano di nuovo a fornelli, poi A ritorna al tavolo e sistema per bene i bicchieri, i tovaglioli.

B: Canetti ha scritto anche per il teatro?

A: sì è la parte meno conosciuta della sua opera e forse una ragione c’è: non credo siano drammi rappresentabili, ma in questo degli specchi ha un’intuizione formidabile.

B segue il discorso continuando a occuparsi delle pentole ai fornelli.

A: Nel dramma, Canetti  immagina che gli specchi siano stati aboliti, nessuno può averne in casa e se non ricordo male il loro possesso è punito addirittura con sanzioni molto pesanti. Però il governo ha istituito delle case d’appuntamento, come i vecchi bordelli. Si entra, si paga, si accede a una stanza dove ci sono diversi tipi di specchi: naturalmente che visita sceglie anche quanto tempo restare.   

B scoppia a ridere, anche A si associa alla risata.

B: Canetti mi sorprende sempre.

A: Sì ha ragione, però adesso non so più bene dove siamo rimasti.

B si volta verso A dopo avere spento tutti i fornelli.

B: Siamo rimasti che qui è tutto pronto.

A si alza e va al frigorifero da cui prende una bottiglia di vino.

A: E che ci attende anche un grande vino.

B porta una pentola sul tavolo e ve la deposita, A stappa la bottiglia di Champagne. Si siedono e B riempie i bicchieri. Deposita la bottiglia e guarda A intensamente:

B: Ti amo?

A: Ti amo?

Sorridono poi i due bicchieri si toccano. Buio in sala.

Giovanni Busi detto Cariani (1485 ca./ 1547), Ritratto di due giovani uomini

Dopo la fine del mondo

L’ultimo spettacolo delle Nina’s Drag Queen: Le Gattoparde. L’ultima festa prima della fine del mondo, rappresentato alla Biennale Teatro di Venezia, edizione del 2020, a cura di Antonio Latella, ritorna al Teatro Carcano di Milano, da martedì 19 a domenica 24 ottobre, dopo l’esordio del  maggio scorso: la scheda dello spettacolo si trova nel sito del teatro.  

La rappresentazione giunge a proposito nel mezzo della pandemia ancora in corso; non perché ne parli, anzi, non ne parla proprio. Tuttavia, a cominciare dal titolo, il testo ci pone di fronte a uno scenario evocato più volte in questi mesi, sia in racconti in presa diretta, oppure con riferimento a romanzi del passato e più in generale a un sentimento apocalittico che è aleggiato più volte, assumendo forme diverse. Il motivo di fondo è la Festa, con la maiuscola, perché sia intorno a essa, sia nel momento della sua fine, gira l’intera rappresentazione. La festa non finiva mai e continuava a cominciare è la battuta iniziale di una Gattoparda e rappresenta a livello di scrittura quello che è la chiave in una composizione musicale. In quel continuava a cominciare c’è molto dello spettacolo: una girandola di personagge, un vorticare di scene e quadri, di battute incalzanti che invitano sì al riso, ma che rivelano anche una volontà di leggerezza troppo esibita per essere del tutto vera e infatti, nella battuta iniziale ricordata, c’è anche la rappresentazione di un girare a vuoto e il rimando a un periodo della storia europea che fu preludio ai disastri di un secolo: come non ricordare la Belle Epoque e la sua frenesia? Un’altra battuta, sempre iniziale, lo sottolinea:

… Io desidero, desidero … tutto quello che non si può desiderare … forse non so neanche più cosa. Tutti i miei desideri sono di morte!

L’ansia esibita di desiderare a tutti i costi, ma senza sapere bene che cosa, domina queste figure femminili anche nei loro momenti più felici. La Festa s’ispira anche al Ballo del Gattopardo e questo ci rimanda all’Italia e alla sua storia, che costituisce un altro centro propulsore del testo, ma con scarso – se non assente – riferimento al romanzo di Tomasi di Lampedusa; se mai qualche eco del film di Luchino Visconti.  

Come in tutte le feste ci sono dei siparietti, dei momenti appartati. In uno di questi entra in scena la chiacchiera culturale e da questo comprendiamo di essere nella contemporaneità; o meglio, quella contemporaneità che prende corpo negli anni ’80 del secolo scorso. Anche i riferimenti a una certa televisione e al ruolo che vi ebbe Raffaella Carrà lo sottolinea più volte. Le battute del gruppo di Gattoparde ruotano intorno a una di loro che ha scritto un romanzo storico sull’Italia e sta cercando un editore; ma da un’altra parte della festa c’è anche una regista che cerca attrici per un serial in sei puntate sulla storia d’Italia. Vacuità di propositi, velleità e piccoli opportunismi, s’inseguono a un ritmo incalzante: ma sono vive o morte queste Gattoparde? Sono entrambe. Italia, addobbata nel tricolore, recita la sua parte nel rivivere alcuni passaggi chiave della vita nazionale. Ritorna periodicamente in scena, alternandosi al gruppo delle Gattoparde che concionano intorno a romanzi storici e film su di lei. Insieme ad altre figure, le Garibaldine per esempio, percorre in brevi quadri la vita nazionale, dal Risorgimento, al ventennio Fascista, alla Repubblica. Sullo sfondo una storia d’amore fra Rosaria e Diana, che diventa visibile e raccontabile in tempi a noi prossimi: forse il solo cambiamento positivo dentro l’inarrestabile decadenza della vita nazionale.

LA FINE

Cosa non vedono le protagoniste della festa infinita, o fingono di non vedere? Come nella Lettera rubata di Poe sta sotto gli occhi di tutti, anche dei nostri che guardiamo lo spettacolo: la grande baldoria sta per finire. Quando la Festa si trasforma in un campo di battaglia e spazio desertificato, non si rimane in fondo sorpresi. Il cambiamento, però, implica un’estensione dello spazio: non è più solo l’Italia ma è la comunità umana, la Terra direbbe un giovane di Friday for future. Nella scena ormai vuota le Gattoparde riemergono e in una sorta di capovolgimento dei Sei personaggi in cerca d’autore: non sono più loro ad avere una storia da raccontare più interessante di quella che andava in scena, è la scena a non esserci più, anzi la comunità che la sostiene. Siamo personagge o persone, umane o disumane domanda Tommasina. Nella scena dissolta le Gattoparde decidono di compiere un rito funebre per il futuro/mondo che non esiste più. Eppure un futuro bisogna continuare a immaginarlo, ma esso è un percorso che porta fuori dal teatro; o se si vuole fuori dalla finzione. Questo finale, pur essendo infondo annunciato durante tutto lo spettacolo, giunge improvviso, nei tempi giusti e si conclude con la rapidità di un sogno che scompare. Le Gattoparde, spoglie, senza più costumi e orpelli, sfilano come fantasmi, poi lasciano la scena con poche ed essenziali parole. Eppure il finale non è pessimista: ci sarà vita anche dopo la fine del mondo e chi è sopravvissuto dovrà inventarlo di nuovo.

IL TESTO E LA REGIA       

Nel percorso delle Nina’s questo testo rappresenta un cambiamento di prospettiva che era già emerso nello spettacolo precedente, a sentire le recensioni critiche. La novità maggiore è la scrittura del testo da parte del gruppo, mentre in precedenza si trattava di rielaborazioni in chiave Drag Queens di testi classici come Il Giardino dei ciliegi ribattezzato Il giardino delle ciliege, o L’opera dei mendicanti (DragPennyOpera). Il cimento con il testo è pienamente riuscito. Il secondo cambiamento consiste in un uso più moderato del playback, senza però diminuire la presenza musicale che rimane essenziale come negli altri spettacoli. La continuità sono la costruzione a quadri, il ruolo della danza e la cura dei costumi. La combinazione fra questi elementi e il ritmo particolarmente incalzante scelto dalla regia, permettono di assorbire i tempi morti del passaggio da un quadro all’altro. La tensione rimane alta e costante per tutto lo spettacolo, dalla durata non più così usuale nel teatro contemporaneo. Lascio per ultima le prove d’attore, convincenti come sempre, che rivelano un’intesa profonda del gruppo, che va aldilà dell’aspetto squisitamente teatrale e professionale. Un’operazione, per concludere, difficile e pienamente riuscita.