Premessa
Il 6 dicembre scorso a Fuori orario è andato in onda Zabriskie Point. Mi è capitato di rivederlo diverse volte e ad ogni nuova visione cambiavano un po’ le prospettive, si aggiungevano riflessioni che modificavano le sensazioni precedenti, tranne per un particolare: la scena finale, una delle sequenze più straordinarie della storia del cinema.
Antonioni mise in scena nel film la contestazione globale del sistema. La sceneggiatura è una delle più felici e straordinarie sulle vicende di quegli anni per l’acutezza con cui sa cogliere tutte le sfumature e le contraddizioni di una generazione; le scene iniziali del film, in particolare, il dibattito nell’università occupata, sono una sintesi difficilmente superabile – anche dal punto di vista della semplice documentazione storica – del vissuto emozionale, della psicologia, delle passioni dei protagonisti di quegli anni.
La trama si snoda intorno alla vicenda di un ragazzo che si crede (o meglio finge di credersi) accusato di avere sparato a un poliziotto durante un assalto delle forze di polizia a un’università occupata. Egli sa di essere innocente anche se la tentazione di uccidere l’ha avuta dopo aver visto un agente sparare a un manifestante. Decide di salvarsi da quella che è una sua ipotesi di reato commesso tentando una fuga folle e irrazionale, che culmina con il furto di un aereo. Il gesto imprime alla narrazione una svolta, poiché da quel momento egli è ritenuto davvero colpevole di avere sparato.
Antonioni usa abilmente un cliché tipicamente americano, quello della fuga solitaria di un protagonista maledetto (sempre maschile perché il tempo di ‘Thelma e Louise era ancora lontano), senza interrogare lo spettatore sulle ragioni psicologiche che hanno spinto il protagonista a una soluzione così palesemente assurda; perché non bisogna dimenticare che il ragazzo non ha sparato affatto, il poliziotto è stato colpito da qualcun altro e non da lui. Tale cliché è presente nei films di James Dean, ma è ovviamente l’archetipo che sta dietro anche un romanzo come On the road di Jack Kerouac, altro mito di quegli anni.
I protagonisti di queste fughe patetiche e disperate sono di solito piccoli o grandi criminali, bulli, spostati e appartengono tutti alla generazione precedente quella della contestazione, passata alla storia con l’epiteto di gioventù bruciata.
Antonioni rilegge il cliché con l’occhio di un europeo, eliminando gli aspetti banalmente sentimentali, ma pone anche un preciso limite alla potenzialità politica del suo protagonista. Fra gli spostati interpretati da James Dean (totalmente estranei alla politica) e il ragazzo di Zabriskie Point (che dovrebbe rappresentare una generazione politicizzata), esistono più affinità che distanze.
Il ragazzo sorvola, inseguito da mezzo esercito, le autostrade; il suo, in fondo, è un viaggio in automobile, solo un po’ più sollevato da terra. Dall’alto vede una giovane donna e atterra vicino a lei. Siamo vicini a Zabriskie Point, un luogo selvaggio, disseminato di colline brulle, scoscese e solitamente assolate. È in questo scenario estraniato ed estraniante che i due s’incontrano, dopo che con le sue evoluzioni il ragazzo è riuscito ad attirare l’attenzione di lei.
Daria è una giovane che ha un appuntamento a Phoenix con un uomo d’affari che potrebbe anche essere suo padre. È il tipo della donna emancipata che sa il fatto suo e sembra appartenere a un mondo lontano da quello del suo occasionale compagno di viaggio. Tuttavia i suoi modi non sono diversi da quelli delle studentesse che occupano le università, anche lei è segnata da un marchio generazionale che attraversa le classi e le culture. Nel dialogo con lui, però, è meno prigioniera di schemi. Fuma tranquillamente marijuana senza remore di nessun tipo ma anche con la capacità di tenere sotto controllo la sua trasgressione: è il prototipo di quella che diventerà in pochi anni una donna in carriera, molto maschile nei modi, aggressiva al punto giusto.
I due raggiungono il punto più bello della vallata e lì fanno l’amore, come in un sogno. È una scena molto mimata, una rappresentazione teatrale e quasi a volerla rendere ancora più onirica, Antonioni immagina altri corpi che si rotolano in amplessi plastici e rallentati che ricordano movimenti animaleschi.
Una volta concluso il loro breve idillio i due ripartono, ciascuno per la propria strada, non prima però di aver dipinto l’aereo di nero con due grandi occhi. Il suo muso si confonde con quello di Micky Mouse: siamo in pieno mito americano!
Daria prosegue il suo viaggio e tiene la radio accesa per sapere come andrà a finire la storia di questo strano ragazzo con il quale ha condiviso due ore della sua vita e di cui, cosa molto americana, tutte le radio libere seguono in diretta la vicenda. Lei giunge finalmente alla sua meta: una villa sontuosa in cima a una collina rocciosa. Mentre si accinge a entrare apprende dalla radio che il ragazzo con cui ha fatto l’amore è stato brutalmente massacrato dalla polizia in una scena al tempo stesso feroce e grottesca per l’evidente sproporzione esistente fra la pericolosità del soggetto e i mezzi impiegati per ucciderlo. La giovane donna si aggira inebetita fra i locali della sontuosa dimora, incapace di parlare, in preda a un’emozione fortissima. Sbircia da dietro le porte e ode in una specie di trance la trattativa che si sta svolgendo fra il manager con cui ha un appuntamento e altri uomini. Stanno decidendo come trasformare la valle in cui lei e il ragazzo hanno fatto l’amore in un business turistico: una specie di drive in con vista sulla vallata. L’uomo la vede, non si accorge del suo stato d’animo e le indica semplicemente dove accomodarsi. La ragazza si aggira ancora nella casa, spiando senza sentirli i discorsi di alcune signore che prendono il sole ai bordi della piscina. È a questo punto che avviene in lei un metamorfosi rapidissima. La giovane donna, in preda a una rabbia impotente e disperata s’immagina che quello che è stato fino a quel momento il suo mondo, esploda. E la sua visione si materializza: la villa e tutta la collina saltano per aria, non una ma più volte, prima con il suono dell’esplosione, poi silenziosamente e al rallentatore. Per lunghi dieci minuti tutto quel mondo solido e compatto si frammenta e come un fungo atomico fa salire verso il cielo pezzi di sé. Volano televisori, elettrodomestici, come in un collage futurista sullo sfondo di un cielo terso, pezzi di oggetti diversi convivono in un volo lento e inesorabile fino a diventare pulviscolo. Alla fine la ragazza sale sulla sua auto e se ne va con un sorriso: la catarsi è avvenuta, inizia da quel momento la sua vera vita. Ciò che andava in frantumi nella scena finale del film era quella società dei consumi che da noi non si era ancora affermata: certo gli slogan contro il consumismo erano vivi anche qui, ma la scelta di Antonioni di collocare il film negli USA, fa emergere l’asimmetria esistente fra i due mondi. La regia, insistendo su ogni minimo particolare con sequenze sempre più ravvicinate, che dal piano lungo a quello intermedio arrivano fino al primo piano, lo sottolinea ancora di più. Valga per tutte l’esplosione del frigorifero.
Dal 1970 a oggi
Qualcosa è davvero esploso nel mondo occidentale, ma non sono stati gli oggetti a dissolversi e a volare via, bensì le nostre vite. I grandi artisti e le grandi opere d’arte, cui Zabriskie Point appartiene, sanno spesso vedere il futuro ma non sempre alla lettera. Antonioni, con quella scena, voleva rappresentare i sogni colorati, apparentemente violenti, ma sostanzialmente ingenui, di una generazione di rivoluzionari a metà: contraltare impotente di un potere che non sapeva valutare il pericolo reale rappresentato dal ragazzo e lo massacra non direi senza pietà (all’impersonalità crudele del potere siamo abituati), ma senza nessuna minima intelligenza di quanto sta accadendo.
Visto con gli occhi di oggi, tuttavia, il film si presta a più complesse considerazioni. Partiamo dalla scena del massacro del ragazzo. Antonioni filma con quella sequenza il gap generazionale che negli Usa di quegli anni separava ormai i padri dai figli. Una società sgomenta di fronte alle domande del mondo giovanile e dominata da un ceto politico largamente paranoico (come aveva peraltro dimostrato il maccartismo di qualche anno prima), rispondeva alle proprie paure con la cecità di una violenza irrazionale e stupida rivolta contro i suoi stessi figli! Il problema è che a poco più di trent’anni di distanza, tale atteggiamento si è trasformato, né più né meno, nella politica estera statunitense.
Torniamo ora alla sequenza finale. È accaduto agli oggetti il contrario di quanto accade in essa. Un cumulo di macerie materiali e morali ci sovrasta e ci circonda; in questa enorme discarica, detriti di esperienze passate di diverso e talvolta opposto segno convivono e si sommano saturando lo spazio psichico e quello fisico. Gli oggetti non sono esplosi ma si sono moltiplicati (o si potrebbe anche dire che è esplosa la loro produzione) e se qualcosa accadrà di questa massa vagante, sarà un’implosione; oppure succederà che i rifiuti, sempre meno riciclabili, di questa massa inutile satureranno sempre più lo spazio fisico.
Infine la villa del magnate. Nel film di Antonioni essa è un vero e proprio bunker circondato dal deserto; assomiglia a un antico feudo europeo, ma senza i villaggi contadini intorno. Il dominio espresso in quelle immagini è un dominio sul vuoto, sulla terra bruciata. Antonioni vede qui, profeticamente, il destino di una società in cui il dominio diventa identico a quello del signore; ma spogliato di ogni nobiltà e signoria.
Gli oggetti, sia in quanto valori d’uso sia in quanto scorie da rottamare, sono cresciuti in quantità saturando lo spazio, hanno sgretolato ogni senso, ma tutto questo è avvenuto come in una sequenza rallentata, mentre l’immaterialità si è trasferita altrove, nella metafisica del rizoma informatico e nella sua rete di relazioni virtuali. Entropia nello spazio fisico e asettica immaterialità nello spazio virtuale.
Lo spazio fisico diventa così un simulacro del potere, ma al tempo stesso viene presidiato in negativo nella forma dell’inefficienza programmata dei servizi vitali: le nostre città vengono lasciate a un progressivo abbandono perché esse non sono più la sede fisica del dominio ma soltanto il paravento dietro il quale il bunker si riorganizza in modo tendenzialmente invisibile, distruggendo tutti i legami sociali e le infrastrutture civili che reggono una società.