HORROR VACUI

Premessa

Il 6 dicembre scorso a Fuori orario è andato in onda Zabriskie Point. Mi è capitato di rivederlo diverse volte e ad ogni nuova visione cambiavano un po’ le prospettive, si aggiungevano riflessioni che modificavano le sensazioni precedenti, tranne per un particolare: la scena finale, una delle sequenze più straordinarie della storia del cinema.

Antonioni mise in scena nel film la contestazione globale del sistema. La sceneggiatura è una delle più felici e straordinarie sulle vicende di quegli anni per l’acutezza con cui sa cogliere tutte le sfumature e le contraddizioni di una generazione; le scene iniziali del film, in particolare, il dibattito nell’università occupata, sono una sintesi difficilmente superabile – anche dal punto di vista della semplice documentazione storica – del vissuto emozionale, della psicologia, delle passioni dei protagonisti di quegli anni.

La trama si snoda intorno alla vicenda di un ragazzo che si crede (o meglio finge di credersi) accusato di avere sparato a un poliziotto durante un assalto delle forze di polizia a un’università occupata. Egli sa di essere innocente anche se la tentazione di uccidere l’ha avuta dopo aver visto un agente sparare a un manifestante. Decide di salvarsi da quella che è una sua ipotesi di reato commesso tentando una fuga folle e irrazionale, che culmina con il furto di un aereo. Il gesto imprime alla narrazione una svolta, poiché da quel momento egli è ritenuto davvero colpevole di avere sparato.

Antonioni usa abilmente un cliché tipicamente americano, quello della fuga solitaria di un protagonista maledetto (sempre maschile perché il tempo di ‘Thelma e Louise era ancora lontano), senza interrogare lo spettatore sulle ragioni psicologiche che hanno spinto il protagonista a una soluzione così palesemente assurda; perché non bisogna dimenticare che il ragazzo non ha sparato affatto, il poliziotto è stato colpito da qualcun altro e non da lui. Tale cliché è presente nei films di James Dean, ma è ovviamente l’archetipo che sta dietro anche un romanzo come On the road di Jack Kerouac, altro mito di quegli anni.

I protagonisti di queste fughe patetiche e disperate sono di solito piccoli o grandi criminali, bulli, spostati e appartengono tutti alla generazione precedente quella della contestazione, passata alla storia con l’epiteto di gioventù bruciata.

Antonioni rilegge il cliché con l’occhio di un europeo, eliminando gli aspetti banalmente sentimentali, ma pone anche un preciso limite alla potenzialità politica del suo protagonista. Fra gli spostati interpretati da James Dean (totalmente estranei alla politica) e il ragazzo di Zabriskie Point (che dovrebbe rappresentare una generazione politicizzata), esistono più affinità che distanze.

Il ragazzo sorvola, inseguito da mezzo esercito, le autostrade; il suo, in fondo, è un viaggio in automobile, solo un po’ più sollevato da terra. Dall’alto vede una giovane donna e atterra vicino a lei. Siamo vicini a Zabriskie Point, un luogo selvaggio, disseminato di colline brulle, scoscese e solitamente assolate. È in questo scenario estraniato ed estraniante che i due s’incontrano, dopo che con le sue evoluzioni il ragazzo è riuscito ad attirare l’attenzione di lei.

Daria è una giovane che ha un appuntamento a Phoenix con un uomo d’affari che potrebbe anche essere suo padre. È il tipo della donna emancipata che sa il fatto suo e sembra appartenere a un mondo lontano da quello del suo occasionale compagno di viaggio. Tuttavia i suoi modi non sono diversi da quelli delle studentesse che occupano le università, anche lei è segnata da un marchio generazionale che attraversa le classi e le culture. Nel dialogo con lui, però, è meno prigioniera di schemi. Fuma tranquillamente marijuana senza remore di nessun tipo ma anche con la capacità di tenere sotto controllo la sua trasgressione: è il prototipo di quella che diventerà in pochi anni una donna in carriera, molto maschile nei modi, aggressiva al punto giusto.

I due raggiungono il punto più bello della vallata e lì fanno l’amore, come in un sogno. È una scena molto mimata, una rappresentazione teatrale e quasi a volerla rendere ancora più onirica, Antonioni immagina altri corpi che si rotolano in amplessi plastici e rallentati che ricordano movimenti animaleschi.

Una volta concluso il loro breve idillio i due ripartono, ciascuno per la propria strada, non prima però di aver dipinto l’aereo di nero con due grandi occhi. Il suo muso si confonde con quello di Micky Mouse: siamo in pieno mito americano!

Daria prosegue il suo viaggio e tiene la radio accesa per sapere come andrà a finire la storia di questo strano ragazzo con il quale ha condiviso due ore della sua vita e di cui, cosa molto americana, tutte le radio libere seguono in diretta la vicenda. Lei giunge finalmente alla sua meta: una villa sontuosa in cima a una collina rocciosa. Mentre si accinge a entrare apprende dalla radio che il ragazzo con cui ha fatto l’amore è stato brutalmente massacrato dalla polizia in una scena al tempo stesso feroce e grottesca per l’evidente sproporzione esistente fra la pericolosità del soggetto e i mezzi impiegati per ucciderlo. La giovane donna si aggira inebetita fra i locali della sontuosa dimora, incapace di parlare, in preda a un’emozione fortissima. Sbircia da dietro le porte e ode in una specie di trance la trattativa che si sta svolgendo fra il manager con cui ha un appuntamento e altri uomini. Stanno decidendo come trasformare la valle in cui lei e il ragazzo hanno fatto l’amore in un business turistico: una specie di drive in con vista sulla vallata. L’uomo la vede, non si accorge del suo stato d’animo e le indica semplicemente dove accomodarsi. La ragazza si aggira ancora nella casa, spiando senza sentirli i discorsi di alcune signore che prendono il sole ai bordi della piscina. È a questo punto che avviene in lei un metamorfosi rapidissima. La giovane donna, in preda a una rabbia impotente e disperata s’immagina che quello che è stato fino a quel momento il suo mondo, esploda. E la sua visione si materializza: la villa e tutta la collina saltano per aria, non una ma più volte, prima con il suono dell’esplosione, poi silenziosamente e al rallentatore. Per lunghi dieci minuti tutto quel mondo solido e compatto si frammenta e come un fungo atomico fa salire verso il cielo pezzi di sé. Volano televisori, elettrodomestici, come in un collage futurista sullo sfondo di un cielo terso, pezzi di oggetti diversi convivono in un volo lento e inesorabile fino a diventare pulviscolo. Alla fine la ragazza sale sulla sua auto e se ne va con un sorriso: la catarsi è avvenuta, inizia da quel momento la sua vera vita. Ciò che andava in frantumi nella scena finale del film era quella società dei consumi che da noi non si era ancora affermata: certo gli slogan contro il consumismo erano vivi anche qui, ma la scelta di Antonioni di collocare il film negli USA, fa emergere l’asimmetria esistente fra i due mondi. La regia, insistendo su ogni minimo particolare con sequenze sempre più ravvicinate, che dal piano lungo a quello intermedio arrivano fino al primo piano, lo sottolinea ancora di più. Valga per tutte l’esplosione del frigorifero.

Dal 1970 a oggi

Qualcosa è davvero esploso nel mondo occidentale, ma non sono stati gli oggetti a dissolversi e a volare via, bensì le nostre vite. I grandi artisti e le grandi opere d’arte, cui Zabriskie Point appartiene, sanno spesso vedere il futuro ma non sempre alla lettera. Antonioni, con quella scena, voleva rappresentare i sogni colorati, apparentemente violenti, ma sostanzialmente ingenui, di una generazione di rivoluzionari a metà: contraltare impotente di un potere che non sapeva valutare il pericolo reale rappresentato dal ragazzo e lo massacra non direi senza pietà (all’impersonalità crudele del potere siamo abituati), ma senza nessuna minima intelligenza di quanto sta accadendo.

Visto con gli occhi di oggi, tuttavia, il film si presta a più complesse considerazioni. Partiamo dalla scena del massacro del ragazzo. Antonioni filma con quella sequenza il gap generazionale che negli Usa di quegli anni separava ormai i padri dai figli. Una società sgomenta di fronte alle domande del mondo giovanile e dominata da un ceto politico largamente paranoico (come aveva peraltro dimostrato il maccartismo di qualche anno prima), rispondeva alle proprie paure con la cecità di una violenza irrazionale e stupida rivolta contro i suoi stessi figli! Il problema è che a poco più di trent’anni di distanza, tale atteggiamento si è trasformato, né più né meno, nella politica estera statunitense.

Torniamo ora alla sequenza finale. È accaduto agli oggetti il contrario di quanto accade in essa. Un cumulo di macerie materiali e morali ci sovrasta e ci circonda; in questa enorme discarica, detriti di esperienze passate di diverso e talvolta opposto segno convivono e si sommano saturando lo spazio psichico e quello fisico. Gli oggetti non sono esplosi ma si sono moltiplicati (o si potrebbe anche dire che è esplosa la loro produzione) e se qualcosa accadrà di questa massa vagante, sarà un’implosione; oppure succederà che i rifiuti, sempre meno riciclabili, di questa massa inutile satureranno sempre più lo spazio fisico.

Infine la villa del magnate. Nel film di Antonioni essa è un vero e proprio bunker circondato dal deserto; assomiglia a un antico feudo europeo, ma senza i villaggi contadini intorno. Il dominio espresso in quelle immagini è un dominio sul vuoto, sulla terra bruciata. Antonioni vede qui, profeticamente, il destino di una società in cui il dominio diventa identico a quello del signore; ma spogliato di ogni nobiltà e signoria.

Gli oggetti, sia in quanto valori d’uso sia in quanto scorie da rottamare, sono cresciuti in quantità saturando lo spazio, hanno sgretolato ogni senso, ma tutto questo è avvenuto come in una sequenza rallentata, mentre l’immaterialità si è trasferita altrove, nella metafisica del rizoma informatico e nella sua rete di relazioni virtuali. Entropia nello spazio fisico e asettica immaterialità nello spazio virtuale.

Lo spazio fisico diventa così un simulacro del potere, ma al tempo stesso viene presidiato in negativo nella forma dell’inefficienza programmata dei servizi vitali: le nostre città vengono lasciate a un progressivo abbandono perché esse non sono più la sede fisica del dominio ma soltanto il paravento dietro il quale il bunker si riorganizza in modo tendenzialmente invisibile, distruggendo tutti i legami sociali e le infrastrutture civili che reggono una società.

ARTI E LETTERE NEL ‘900 ITALIANO:  FRA RIVOLUZIONE E INDUSTRIA. Terza parte

Un tentativo di bilancio

L’originalità di questo frammento di storia culturale italiana è indubbia, sia per la durata nel tempo, sia perché è sufficiente una rapida indagine per capire che in nessun altro paese occidentale è esistito qualcosa di paragonabile. A valle dei cicli industriali conclusi è nata in Gran Bretagna e nel nord Europa una disciplina come l’archeologia industriale, che si è diffusa in vario modo anche in altri paesi. Il restauro dei docks di Londra, piuttosto che i villaggi minerari sono esempi straordinari di queste nuove discipline, nonché attrazioni turistiche; ma siamo nell’ambito di una cultura museale, seppure profondamente diversa dal museo tradizionale.9

In sede conclusiva mi pongo due interrogativi in particolare: è esistita un’egemonia della cultura di sinistra nell’Italia del secondo dopoguerra? Il particolare rapporto fra cultura, industria e movimento operaio, può essere considerato un segmento importante della traduzione originale in lingua italiana del compromesso fordista fra capitale e lavoro che ha caratterizzato l’intero mondo occidentale post bellico?10 Anticipo le conclusioni dicendo che, pur nel loro intreccio, fra le due domande vi è una notevole asimmetria. Mentre alla seconda mi sentirei di dare una risposta affermativa, sulla prima occorre innanzi tutto scorporare dall’analisi concreta dei processi concreti, la narrazione propagandistica che è stata alimentata, per opposte ragioni, sia da destra sia da sinistra.

Il rapporto virtuoso fra scienza, cultura industriale, capacità manageriali e cultura tout court fu un fattore determinante nella rinascita post bellica, fino al boom economico. La politica petrolifera di Mattei, l’invenzione del Moplen – il padre della plastica – da parte di Giulio Natta, che gli valse il premio Nobel per la chimica nel 1963 e che fu prodotto dalla Montedison, sono tappe decisive – insieme a quelle già ricordate in precedenza – per affermare che l’intreccio del tutto particolare fra cultura e industria fu un elemento propulsivo della società italiana. A questo aggiungerei la consulenza dell’economista Federico Caffè ai primissimi governi di centro sinistra. Alcuni capitani d’industria come Olivetti e Luraghi e un banchiere come Raffaele Mattioli hanno giocato un ruolo di primaria importanza che va molto oltre le loro funzioni istituzionali e ha costituito un tessuto intermedio, più che un corpo intermedio vero e proprio; piuttosto una trama trasversale fra impresa, istituzioni culturali e politica che ha permesso la crescita di una cultura laica e in molti casi di sinistra, protetta da interventi censori, che pur non mancarono e furono molto gravi. Valga per tutto la fondazione a Milano, per esempio, della casa della Cultura, un baluardo della sinistra non solo milanese, alla cui nascita contribuirono personaggi di spicco del capitalismo italiano, oltre a quelli già ricordati; lo stesso si può dire della casa editrice Einaudi a Torino. Laici e in qualche caso – Mattioli – in odore di massoneria, ma lontano dagli scandali che sarebbero scoppiati decenni dopo, svolsero insieme a un pezzo consistente di sinistra socialista un ruolo terzo – basato sul rispetto dell’autonomia della cultura e sulla diversità – rispetto sia ai democristiani sia ai comunisti: in molti casi, questo mondo intermedio offrì più di una sponda alla crescita di una cultura democratica e fu assai importante nelle trasformazioni del sindacato. Capitalismo illuminato? Sì, ma con dei limiti molto precisi. Gli imprenditori citati, cui possiamo aggiungere anche Mattei, erano prima di tutto una minoranza anomala rispetto a un mondo imprenditoriale acefalo e reazionario, diretto a bacchetta da un altro banchiere – Enrico Cuccia – e tenuto a balia dalla sua creazione – Mediobanca – che suppliva con le sue acrobazie finanziarie alla storica incapacità del capitalismo italiano di ricapitalizzarsi con le proprie forze. In secondo luogo, non erano di certo gli Olivetti a dirigere Confindustria e a trattare con i sindacati: questo compito era lasciato ai mazzieri come Valletta e Costa, nonché alla Celere di Scelba. Tuttavia, i vari Olivetti, Girotti e alcuni dei managers di stato costituirono un cuscinetto che permise una certa flessibilità e fin quando riuscirono ad avere voce in capitolo, poterono far pesare la loro autorevolezza sia in campo economico, sia ancor più in campo culturale, dove nessuno si permetteva di criticare anche le loro scelte più eccentriche, tenuto conto dell’ignoranza congenita di gran parte del ceto imprenditoriale italiano. Quegli uomini, tuttavia, non avevano eredi e quando la crisi del boom economico portò al pettine molti nodi sociali e politici, già nel 1963, le redini furono prese dai settori più reazionari ed eversivi: cominciava a finire quella tradizione anomala, fatta anche di salotti trasversali – per esempio quello di Giulia Maria Crespi a Milano – e iniziava un’altra storia.

Diverso il discorso sulla cosiddetta egemonia della cultura di sinistra, sebbene s’intrecci con la questione del compromesso fordista. Credo ci sia una prima considerazione da fare: intellettuali come i coniugi Steiner e come Elio Vittorini permisero alla stampa del Pci di avvalersi delle menti migliori e dei progetti grafici più avanzati esistenti in quegli anni. Politecnico rimane un’impresa straordinaria – lo sarà Alfabeta in un contesto diverso anni dopo –  e anche Rinascita, la rivista teorica del Pci, era quanto di più moderno si potesse pensare in quegli anni. Se parliamo di egemonia in senso gramsciano possiamo dire che la pubblicistica comunista si avvalse del meglio e così pure altre istituzioni culturali. Tuttavia, ci sono due problemi di cui tenere conto: prima di tutto la stagione dei rapporti idilliaci fra Pci e intellettuali s’incrinò molto presto, almeno con alcuni di loro. In secondo luogo, la cultura del militante medio del Pci, non era sintonizzata sulla stessa lunghezza d’onda di chi dirigeva la politica culturale nel partito. L’egemonia che il Pci cercava di esercitare sugli intellettuali come mondo separato era un mondo a se stante. In buona sostanza, l’intellettuale organico del Pci, quello che si occupava della cultura intesa come lavoro di massa da un lato, ma che al tempo stesso teneva i rapporti con i grandi intellettuali dall’altro, parlava ai colti con un linguaggio e agli incliti con un altro, riproducendo al proprio interno una tradizione curiale tutta italiana. Questa contraddizione fu particolarmente visibile rispetto a tre nuovi aspetti della cultura di massa: il fotoromanzo, il cinema e la canzone. 11

Il fotoromanzo come genere nacque infatti nell’immediato dopoguerra proprio in Italia e da qui si diffuse in tutto il mondo. Un libro recente di Anna Bravo ne ricostruisce puntualmente la storia.12 L’autrice ricostruisce le riunioni semiclandestine della casa editrice Universo (che con L’intrepido aveva già avvicinato il pubblico femminile al fumetto) e l’uscita – nel giugno del 1946 – proprio di Grand Hotel. Il libro di Bravo è uno strumento ricco e documentato per chi voglia ricostruire la storia di questa vicenda dal dopoguerra in poi. L’atteggiamento schizofrenico del Pci e anche della Dc, rispetto allo strepitoso successo di pubblico di Grand Hotel e al boom di imitazioni furono immediate. In questa prima fase la diffusione del fotoromanzo si scontrò con la doppia opposizione piuttosto accesa sia da parte cattolica sia comunista, con motivazione desolatamente ovvie: traviare i giovani spingendoli verso condotte di vita immorali, per i primi, instupidire il proletariato distogliendolo dalla lotta di classe, per i secondi. Cosa accadde, però, nel giro di pochi anni per determinare un atteggiamento completamente diverso da parte comunista? Bravo lo ricorda, accennando a un dibattito assai riservato, in cui ebbero una parte attiva e alla fine vincente, intellettuali come Cesare Zavattini, Damiano Damiani, Oreste Del Buono. Da quel dibattito nacquero imprese editoriali che ebbero un ruolo politico durante la campagna elettorale del 1953 (Legge truffa), che fu combattuta anche a colpi di fotoromanzo, con grande panico da parte democristiana, che dovette correre ai ripari, vista l’efficacia del genere. Fra le chicche che si scoprono ripercorrendo questa vicenda ci sono anche Andreotti e Scalfaro impegnati nella proposta di fotoromanzi di carattere religioso. Infine, dulcis in fundo, a Cesare Zavattini si deve l’idea della rivista Bolero. Oreste Del Buono fu il primo a cimentarsi in una letteratura popolare i cui protagonisti fossero operai e contadini e Damiano Damiani scrisse le prime di queste storie. Tornando a Zavattini, il programma di Bolero era molto chiaro: una rivista per le cameriere,  rivolta a un pubblico femminile di lavoratrici e casalinghe. Il genere avrà una sua evidente vitalità fino agli anni Settanta e dei primi Ottanta, con storie che affrontavano temi come contraccezione e aborto.

La terza fase riguarda il cinema e i cambiamenti che stavano avvenendo nell’ambito della musica cosiddetta leggera. Come mai gli intellettuali vincenti come Zavattini and company, venivano tenuti in palmo di mano dal Pci ed esaltati come intellettuali proletari, mentre i registi venivano bollati da Aristarco – anch’egli intellettuale di punta del partito –  come pornografi dei sentimenti? 13 A mio giudizio  le ragioni sono tre, relativamente autonome fra di loro. La prima sta nella diffidenza che la cultura comunista italiana ebbe sempre, nei confronti delle avanguardie artistiche e della settima arte, specialmente in quegli anni. Non bisogna dimenticare che la cultura profonda della dirigenza comunista era umanistica, molti sarebbero stati dei buoni professori di lettere e di latino. Il nume tutelare di quella cultura era Francesco De Sanctis, reinterpretato da Gramsci: nonostante l’omaggio formale alle avanguardie sovietiche, che avevano aperto sia nel cinema sia nella grafica le maggiori e più importanti trasformazioni novecentesche e proprio nella Russia del primo decennio del secolo e poi nei primi anni successivi la Rivoluzione Bolscevica, Il Pci scelse da subito e molto di più gli interventi censori di Stalin e Zadanov, ben rappresentato da Mario Alicata, il cui furore non era infondo diverso da quello dei sovietici. La seconda ragione sta nella nozione complessa e spesso ambivalente – anche in Gramsci – di nazional popolare. Il dibattito che precedette la svolta del 1953 verteva su questo e sul modo di recepire quel concetto. Anche Pasolini, con la sua esperienza di direttore per un anno della rivista Vie Nuove, si pose questo problema e fu in sintonia con Zavattini e gli altri: la rottura sarebbe avvenuta dopo ed è assai interessante cogliere i diversi passaggi della riflessione pasoliniana che avvenne per tappe. Può sembrare strano ma il primo passo di questa rottura avvenne a metà degli anni 60 con la polemica sul festival di Sanremo, avviata da Calvino e Fortini, cui aderì in un primo tempo Pasolini medesimo. Tornando al cinema, la sua ricezione da parte della cultura comunista fu molto più ambivalente di quanto sembri, come tutte le novità tecnologiche di quegli anni, televisione compresa. Il neorealismo duro dei primi anni del dopoguerra era del tutto conforme alla poetica del realismo socialista reinterpretato in chiave italiana e per questo fu accettato senza problemi; ma già con De Santis regista le cose non sono così semplici come sembrano. Riso amaro suscitò un notevole scandalo nelle sezioni del Pci e Togliatti dovette impegnarsi personalmente in un giro d’Italia nelle sezioni per difendere la pellicola come grande opera sul lavoro. Qual’era il motivo dello scandalo? Le cosce delle mondine, che per non bagnarsi gli abiti arrotolavano le gonne per poter svolgere il loro lavoro.

Che differenza c’è fra quelle immagini e quelle dei fumetti o fotoromanzi che raccontavano storie spesso anacronistiche rispetto alla vita che facevano i loro lettori e le loro lettrici? La risposta sta anche nella differenza fra parola e immagine. Le storie popolari di Damiani o le vite di Bolero e Grand Hotel, erano pur sempre letteratura e ubbidivano a un’esigenza di alfabetizzazione di un popolo ancora in larga parte analfabeta che poteva trovare anche in quelle storie uno strumento efficace di acculturazione. Con il cinema del dopoguerra, libero dalle censure e dalla retorica della propaganda fascista, comincia un’altra storia che la cultura comunista cavalcò entusiasticamente con il neorealismo, cominciò a non capire più dalla metà degli anni sessanta in poi finendo per sottovalutarla e poi per subirla. Oppure reagì con una scissione schizofrenica. Da un lato ammiccare agli intellettuali e al pubblico colto osannando Antonioni e fingendo di capirlo, oppure difendendo la sua tradizione umanistica e popolare fatta di biblioteche delle sezioni – tutt’altro che banali – e di una letteratura di massa di cui faceva parte anche il fotoromanzo; il tutto però, separato dalla cultura alta che andava per un’altra strada. Nel mezzo e grazie al cinema, cresceva una cultura di massa che preparò molte cose fra cui i movimenti della fine degli anni sessanta, che infatti sorpresero del tutto la cultura comunista: da quel momento iniziò anche il declino politico del partito, nonostante i successi elettorali. Il declino culturale erano venuto prima, con buona pace del nesso struttura sovrastrutture e riguardava proprio l’incomprensione delle dinamiche che andava prendendo la cultura di massa nel contesto del neocapitalismo italiano. Entra in scena anche un protagonista che sembra minore ma non lo è: la canzone. Il primo ad accorgersene fu Pasolini quando, prendendo le distanze dalla polemica sul Festival di Sanremo, cui anche lui aveva dato un contributo all’inizio, riconobbe che (cito a memoria) niente poteva rappresentare meglio l’estate del 1964 di Sapore di sale di Gino Paoli.

Il combinato disposto fra queste spinte e contro spinte contraddittorie, faceva del mondo comunista una società nella società come avrebbe detto anni dopo Pasolini, ma in un’ottica di arroccamento difensivo. Se parliamo dell’insieme della società italiana, non vi è dubbio che l’egemonia culturale clerico-fascista fosse di gran lunga prevalente ed esercitò un plumbeo dominio fino alla metà degli anni ’60. Basti pensare ai processi che subì Pasolini, alla canea reazionaria che travolse Fausto Coppi, a Braibanti, ai casi continui di censura, al sequestro di film e romanzi, alla censura televisiva nei confronti di Dario Fo e Franca Rame. Tale egemonia cominciò a essere messa in discussione non tanto dalla critica comunista, ma dai processi di modernizzazione innescati dal boom economico e dall’irruzione della sociologia statunitense negli atenei italiani. Tale processo non fu affatto compreso dal Pci. Non bisogna infatti dimenticare che i grandi consiglieri politici del partito non erano più gli Steiner e i Vittorini, non erano gli economisti, ma piuttosto esponenti importanti del mondo cattolico come Franco Rodano, oppure uomini come Ambrogio Donini, che guardavano prima di tutto al mondo cattolico, da atei, ma anche ostili alla cultura laica e socialista più progressista; prima di tutto in materia di sessualità e famiglia. I primi movimenti di massa anticapitalistici durante quegli anni, furono certamente tenuti a battesimo anche dal Pci – si pensi al luglio del 1960 – ma furono le riviste eretiche del marxismo italiano, nate da costole socialiste e comuniste, fu l’opera di intellettuali come Fortini, Beccalli, Panzieri, Bellocchio, Morandi, Pirelli, infine il Concilio Vaticano Secondo, a creare quello strano crogiolo, frutto dell’eterogenesi dei fini, che sarebbe esploso nel triennio 1967-69 e che spazzò via per un decennio l’egemonia clerico-fascista.11 Fu una parentesi felice, ma mise anche in evidenza che se egemonia vi fu, essa non venne prevalentemente dalla cultura del Pci, ma da una sinistra più vasta, operaista e antiautoritaria, o dalla teologia della liberazione. Il Pci cercò di cavalcare i movimenti, poi fu costretto a inseguire, come su tutta la materia riguardante i diritti civili, poi a cercare di egemonizzare o reprimere. Le trame eversive criminali, le stragi e la scelta sciagurata della lotta armata posero fine alla parentesi più felice della storia italiana recente e travolsero anche il Pci.


9 Insieme all’archeologia industriale è nata, in particolare in alcuni paesi del nord Europa come Danimarca e Olanda, l’idea del turismo antropologico, cioè rivolto al passato. Ci sono molte agenzie che se ne occupano in quei paesi. Si tratta di trascorrere un periodo di vacanza in villaggi che sono stati ricostruiti in base agli studi etnografici. Si sceglie il periodo storico nel quale si vuole viaggiare e ci si ritrova a vivere nelle condizioni di cinque o diecimila anni fa.  Nel nord Europa questi villaggi sono usati anche per fini didattici.

10 Il compromesso fordista ha prima di tutto un contenuto geopolitico ed economico che qui non viene preso in considerazione, ma almeno qualche accenno è necessario. Sostanzialmente, si tratta delle politiche keynesiane – anche se la formula va presa con le pinze – fondate sul piano Marshall, lanciato per non ripetere gli errori compiuti alla fine della Prima Guerra Mondiale con la pace di Versailles. Non più soltanto l’imposizione leonina alla Germania di riparare i danni di guerra con il conseguente sequestro dell’economia tedesca, ma il varo di un programma di aiuti basato sull’espansione della spesa pubblica, l’intervento dello stato in economia secondo il modello del new deal rooseveltiano, i consumi di massa e un welfare a geometria variabile a seconda dei diversi paesi. La declinazione, comune a tutti gli stati europei, fu il riconoscimento della libertà sindacale, il ripristino del diritto di sciopero e ovviamente la libertà di organizzazione dei partiti politici. Nello scenario italiano il patto costituzionale e le sue conseguenze politiche furono la cornice entro la quale possiamo collocare altri due elementi: il varo del piano Ina-casa del governo Fanfani, fortemente osteggiato dagli Stati Uniti e il piano del lavoro sottoscritto da Di Vittorio. 

11 Questa parte del saggio dedicata al cinema, al fotoromanzo e alle canzoni, è la rielaborazione di un testo già pubblicato sulla rivista online Overleft, nell’ambito di una dibattito della redazione cui parteciparono anche altri.

12 Il fotoromanzo174 pag., Euro 12.00 – Edizioni il Mulino (L’identità italiana n.22) ISBN.

13 A questo proposito mi riferisco all’espressione usata da Adriano Voltolin nel suo intervento su Oveleft.

11 Il compromesso fordista ha prima di tutto un contenuto geopolitico ed economico che qui non viene preso in considerazione, ma almeno qualche accenno è necessario. Sostanzialmente, si tratta delle politiche keynesiane – anche se la formula va presa con le pinze – fondate sul piano Marshall, lanciato per non ripetere gli errori compiuti alla fine della Prima Guerra Mondiale con la pace di Versailles. Non più soltanto l’imposizione leonina alla Germania di riparare i danni di guerra con il conseguente sequestro dell’economia tedesca, ma il varo di un programma di aiuti basato sull’espansione della spesa pubblica, l’intervento dello stato in economia secondo il modello del new deal rooseveltiano, i consumi di massa e un welfare a geometria variabile a seconda dei diversi paesi. La declinazione, comune a tutti gli stati europei, fu il riconoscimento della libertà sindacale, il ripristino del diritto di sciopero e ovviamente la libertà di organizzazione dei partiti politici. Nello scenario italiano il patto costituzionale e le sue conseguenze politiche furono la cornice entro la quale possiamo collocare altri due elementi: il varo del piano Ina-casa del governo Fanfani, fortemente osteggiato dagli Stati Uniti e il piano del lavoro sottoscritto da Di Vittorio.