NARRAZIONI FRA MEMORIA E STORIA

Tonino con i minatori

Premessa

Il secondo libro di questo ciclo dedicato alle scritture narrative che si collocano fra memoria collettiva e storia, porta a una vicenda tipicamente italiana, l’emigrazione in cerca di lavoro: un problema storico che data dall’Unità d’Italia e che in forme diverse si ripropone a ogni generazione. La novità è che si tratta di un’emigrazione in Francia, precisamente in Lorena, una regione di confine cui sono legati molti ricordi – spesso tristi – che hanno segnato la storia europea: la miniera e il carbone sono sempre i protagonisti, ma l’emigrazione in Francia è meno nota di altre, meno legata a eventi funesti come la tragedia di Marcinelle in Belgio. Tuttavia, un accordo simile a quello con il governo belga era stato stipulato anche con il governo francese. Infine, l’emigrazione in Francia del secondo dopoguerra vive anche nelle bellissime canzoni di Gianmario Testa, il più francese dei cantautori italiani.

Un viaggio nella memoria

Quelle brevi stagioni, è il titolo del libro di Tonino Pecchia, pubblicato per 26 lettere edizioni nel 2021. Il sottotitolo recita così: Carnet di viaggio tra il “popolo delle gallerie.” Anche questa narrazione, come quella di Paola Martini è autobiografica e tutto inizia da un antefatto casuale: Tonino, il protagonista e narratore, legge casualmente nel 2017 un articolo del 2003 pubblicato su un giornale francese, da un giornalista che diventerà poi il prefatore del libro: Pierre-Christian Guiollard. L’articolo celebrava la chiusura della miniera di Merlebach e di colpo Tonino si ritrova proiettato a ritroso negli anni, a se stesso adolescente quando in un anno niente affatto banale – il 1968 – riceve in regalo il biglietto del treno per recarsi in vacanza dallo zio, che in quella miniera lavorava. La lettura dell’articolo diventa una specie di shock che lo spinge a ritornare sugli stessi luoghi di quelle brevi stagioni da lui trascorse in Lorena decenni prima. Le riflessioni sul presente e i richiami della memoria danno vita un intreccio narrativo fatto di rispecchiamenti e sovrapposizioni. La sensazione prima che ne ho ricavato come lettore è che l’emigrazione in Francia, pur nella durezza di qualsiasi migrazione, aveva dei tratti meno precari e cupi di altre. Il gusto dello stare insieme, il ballo in piazza, il gioco delle bocce, il cibo e il vino, tutta una serie di ritualità che Tonino ricorda puntualmente, dipingono un clima che nella mia memoria è diverso sia dai racconti che sentivo fare dai miei parenti emigrati in Svizzera, sia rispetto a una certa cupezza belga, che si ritrova puntualmente nella canzoni di Brel.

Il viaggio in treno

Il viaggio dell’adolescente Tonino comincia in un modo un po’ traumatico, ma il protagonista lo ricorda con sobrietà e leggerezza. La durezza dell’emigrazione compare subito, i litigi per un posto sul treno, un coltello minaccioso che compare e che subito dopo la minaccia – per fortuna domata – serve ad aprire una valigia da cui escono gli aromi rilasciati da cibi famigliari. L’Europa è quella del dopoguerra, ma non siamo già più nei momenti più aspri, se lo zio ha potuto invitarlo. Quel treno poi – l’Europa Express – fu veicolo per tante cose e tante esperienze diverse. Da studente universitario lo prendevo sempre pure io ogni estate per andare in Inghilterra a studiare e su quel treno si facevano incontri. Accadde anche a Tonino di trovare una ragazza su quel veicolo un po’ magico, che attraversava mezza Europa e arrivava a Calais. L’atmosfera di quel viaggio è ricostruita con leggerezza e ironia dal protagonista, che forse avrebbe preferito continuare su quel convoglio piuttosto che essere atteso dall’automobile dello zio alla stazione di Metz.

Da quel momento però si entra nel cuore della Lorena profonda, con le sue miniere, i suoi paesi – Merlebach, uno dei tanti – con le case basse dei minatori, che a me hanno ricordato molto anche quelle di Niccioleta e Follonica in Toscana. Le terre minerarie hanno tratti comuni. Lo zio però coinvolge il nipote anche nella discesa alla miniera:

… La nostra discesa alla miniera  avvenne in un periodo in cui si effettuava soprattutto manutenzione … La miniera … è un labirinto di strette gallerie, non è opera del lento lavorio naturale, qui è l’uomo che scava e avanza, strappando il minerale alla terra, puntella le gallerie, continua a scavare e avanza sempre più in basso. Si scende tra i 500 e i 1250 metri, la discesa  è buia, appena rischiarata dalle lampade sui caschi di protezione … il calore è spesso soffocante può superare i 40 gradi e persino i 60 pp. 150-1.

La durezza dell’esperienza è però supportata dall’esistenza delle cooperative solidali  dei minatori, da un tessuto sociale che cresce intorno alla miniera e produce cultura, musica persino festival letterari.

La fine del ciclo minerario

Quando Tonino ritorna in quei luoghi molti anni dopo, tutto è cambiato. Il suo ritorno non è solo in Lorena ma anche a Parigi e la prima immagine che registra è il passaggio di una piccola processione religiosa sui Campi Elisi (pag. 136.). La memoria corre indietro nel tempo a quel 1968 che aveva potuto comunque osservare da vicino. Ritrovarsi con una processione nel luogo che fu teatro di scontri memorabili suscita in Tonino una sensazione di straniamento. L’Europa è cambiata profondamente, è caduto il Muro di Berlino e in questi ultimi anni, poi, è successo di tutto. Quanto alla  miniera, i distretti minerari di un tempo si sono trasformati in musei di archeologia industriale. Tutto questo spinge l’autore a una riflessione di sintesi su entrambe le esperienze, quella giovanile e quella del ritorno. Il capitolo 29 intitolato Partire o restare Il problema del ritorno inizia proprio questa riflessione conclusiva che si colloca a metà strada fra narrazione e riflessione saggistica. Tre sono i casi presi in considerazione, corredati da una serie di testimonianze:

L’emigrante che sposa  un’autoctona e resta in Francia.

L’emigrante sposato con  una connazionale che per vari motivi ritorna definitivamente al paese d’origine.

L’emigrante che arriva in Francia e sposa una connazionale vi resta.

Lo zio di Tonino appartiene alla prima categoria e la sua come le altre testimonianze raccolte sono assai importanti ma ci presentano un quadro che probabilmente è assai diverso per chi emigra oggi. Nella nostra contemporaneità sono i giovani e le giovani laureate ad allontanarsi dal Bel Paese perché in esso trovano stipendi da precari a vita e poca mobilità sociale, mentre nelle testimonianze raccolte nel libro la sensazione prevalente è quella di una storia di avanzamento sociale, di difficile integrazione ma pur sempre integrazione. Certamente non è così per i migranti che provengono in Europa e in Italia dal sud del mondo.

L’appendice finale dedicata ai flussi migratori fra Francia e Italia, la ricca documentazione delle fonti consultate e la galleria di fotografie in bianco e nero costituiscono altrettanti contributi preziosi. La sorpresa finale è però un’altra. Tonino non smetterà di viaggiare, continuerà a ritornare in quei luoghi, la storia non è finita e le ultime osservazioni intorno ai problemi che i distretti minerari si lasciano a spalle, primo fra tutti l’inquinamento, sono un’esortazione a non lasciarsi catturare solo dalla memoria e dalla nostalgia, ma guardare al futuro. Ci aspettiamo dunque un seguito.

NARRAZIONI FRA MEMORIA E STORIA

Anghiari, panoramica

Premessa

Due libri che ho letto di recente e la nuova edizione del festival della letteratura working class organizzato dal collettivo della GKN occupata di Firenze, hanno sollecitato una riflessione sulle differenze fra narrazione e romanzo, un tema peraltro trattato anche nell’intervista a Vincenzo Consolo pubblicata su questo blog. La presenza di scritture narrative che si muovono fra storia e memoria si collocano a cavallo di generi diversi, sfuggendo a definizioni canoniche. Lo stesso si può dire per il festival della letteratura Working class, che si propone programmaticamente di occuparsi delle scritture che nascono in ambiente operaio – largamente inteso – e riflettono dall’interno di quel mondo sui meccanismi che governano il rapporto fra linguaggio, mondo del lavoro e società nel suo complesso. Il festival, mi sembra, fra l’altro, un tentativo riuscito di mettere alla prova il concetto di general intellect di Marx, partendo dalle competenze che un gruppo operaio di una fabbrica tecnologicamente molto avanzata è in grado di produrre grazie alle proprie competenze e culture trasversali. Un’ultima caratteristica del festival va infine sottolineata come diversità per me fondamentale rispetto ad altri festival analoghi tenuti in Inghilterra: l’iniziativa si svolge dentro una situazione di conflitto – una fabbrica occupata – e non si pone come momento letterario e artistico separato. Da tempo non esiste più un mandato della società a scrittori e artisti per essere la coscienza critica di una comunità. Tale mandato può essere ripreso come orizzonte di senso mettendo al lavoro e a contatto artisti e scrittori con le situazioni dove le aggregazioni virtuose, come quella di GKN, creano atolli di senso nel mare dell’insensato che ci circonda. Lo stesso può avvenire anche con quelle opere che si pongono il problema di una memoria collettiva da salvare.

Gli anni forti di Paola Martini

Pubblicato da Manni nel 2020, il libro è autobiografico e gli anni forti sono quelli che vanno dal dopoguerra all’uccisione di Aldo Moro. Nella prima parte Martini descrive, con ricchezza e generosità di particolari, la formazione e la crescita di una protagonista femminile – Paola – che da bambina diviene adolescente e poi donna adulta. Il contesto sociale è la campagna Toscana e due sono i perimetri portanti della sua esperienza:  un microcosmo – Villa Gina – e una città di riferimento, Empoli; un terzo, sotto traccia, è l’ambiente cattolico di Gs, che diventerà più importante nel momento in cui l’esperienza della scuola di Barbiana irromperà sulla scena diventando uno dei fattori di cambiamento.

I personaggi di questa prima parte sono abbastanza canonici, fanno parte di un universo sociale che si ritrova anche in altre parti d’Italia: da nonno Fogli alla madre – la signora Lia, come la chiamava sempre Tata –  poi Clemetina e Chiara, le prime forti amicizie femminili, la scoperta del maschile e della sessualità. Sullo sfondo, le notizie del mondo e della grande politica arrivano con la radio insieme alle canzoni: è la storia del dopoguerra italiano fra privazioni e slanci vitali, ma c’è un passaggio significativo quando dalle parole della protagonista affiora questo ricordo:

… siamo state però bambine “selvagge” poco composte rispetto alle nostre coetanee di città … Pag. 20)

Lo stare composti era un’ingiunzione che veniva riservata anche ai maschi specialmente in ambito scolastico: il recupero anche linguistico di un’espressione come questa ci rimanda a quel tempo in modo molto diretto .

Da un passaggio scolastico all’altro, fino al liceo, poi all’università, la città assume un ruolo diverso, cresce la voglia di sperimentare, di andare oltre i confini della piccola comunità e iniziano anche i conflitti – quelli con il padre prima di tutto – ancora una volta in linea con un andamento generazionale che riguarda l’Italia intera. La politica è ciò che li divide ma erano pure anni in cui erano i figli e le figlie a costringere i genitori a confrontarsi con nuove realtà. Certo, alle spalle, c’era anche il boom economico che aveva favorito la scolarizzazione dei ceti operai e piccolo borghesi. Insieme a tutto questo, naturalmente, i primi amori, la presenza sempre più importante di Carlo il giessino, la scoperta dell’Italia intera, i campeggi in Calabria e in Sardenga, un altro passaggio generazionale importante di quegli anni: quella generazione unificò l’Italia una seconda volta e ci sono nel libro dei passaggi che lo sottolineano in modo molto efficace.

Che idea della politica e dell’impegno sociale emergono però da questa narrazione? I passaggi significativi sono diversi, ne isolo alcuni che mi sembrano più emblematici di altri. Il primo è importante per il contesto: la Toscana insieme all’Emilia Romagna era l’emblema del PCI. L’avvicinamento a quel partito è segnata da subito dall’ambivalenza, ma non è la mancanza di radicalità che la protagonista mette in evidenza, ma la distanza fra propaganda e realtà del socialismo reale che sfocia in brevi riflessioni fra cui questa:

Come poteva conciliarsi quel modello opprimente con quello dell’”immaginazione al potere”degli irridenti studenti della Sorbonne di Parigi, del variopinto universo dei pacifisti, dei raduni oceanici di Woodstock? … Pag 118.

Il secondo passaggio è il distacco da GS, che matura in modo più lineare senza troppi traumi, ma di quella esperienza la protagonista conserva una traccia, seppure profondamente trasformata anche dall’esperienza di don Milani: la preponderanza del sociale sul politico che si rifletterà anche nelle scelte lavorative. Il terzo passaggio è fatto di due diversi elementi: la diffidenza rispetto a certe derive sessantottine come il 18 politico, che chi aveva studiato con fatica e sacrifici non poteva accettare – a differenza dei figli dei ceti cittadini del nord – pur capendone alcune delle ragioni. Il passaggio più importante, tuttavia, è la distanza che la protagonista mette fra la propria esperienza e una radicalizzazione dei movimenti da cui la Paola si sente estranea. Il modo in cui lo esprime in questo dialogo con un’amica, da cui emerge anche la crisi nel rapporto con Carlo, è quanto mai significativo:

“… Io non lo capisco Paola, non capisco il suo silenzio, il suo mutismo … Discute solo di politica lui …”

“ Non l’hai ancora capito che loro son diversi da noi? Noi siamo terra e ci sentiamo terra, loro no e non accettano di esserlo .Vogliono essere eroi, capi, avanguardie … Il mio uomo e il tuo scommettono tutto sulla mente”…Pag166.

Per molte donne di quella generazione l’estraneità sfocerà nel femminismo, dal quale peraltro la protagonista non sembra tuttavia toccata più di tanto. Nel dialogo, la lucidità di Paola rispetto al linguaggio politico dei due uomini emerge con chiarezza, ma questo non la salverà dalla cecità rispetto al tradimento di Carlo.

Memoria e biografia

Gli anni forti hanno due centri propulsivi. Il primo è antichissimo e ha a che fare con la narrazione orale, il tramandarsi le esperienze tramite la conversazione e nel racconto conviviale; nel mondo contadino questa modalità è presente da sempre. Questo retroterra porta con sé due conseguenze quasi naturali: la girandola dei personaggi che danno al testo un andamento corale, poi lo scrupolo cronachistico che ricorda un po’ i cronisti medioevali che non distinguevano fra piccoli e grandi eventi, ma cercavano di registrarli tutti per quanto possibile. Forse nel fare questo Martini ha esagerato un po’ e alla sua memoria sembra non sfuggire davvero nulla. I momenti che fungono da spartiacque e che segnano un prima e un dopo emergono quasi sempre dall’osservazione scrupolosa ma senza enfasi eccessiva e senza giudizio, come avviene in questo passaggio, drammatico ma al tempo stesso misurato:

Una notte, fatto di alcool e allucinogeni, Andrea ha tentato di spiccare il volo, verso quel cielo dai colori abbaglianti, che ormai aveva dentro, lanciandosi con un balzo dall’appartamento posto in via dei Neri sul tetto della casa di fronte e si è sfracellato al suolo. Qualcun era con lui in quell’appartamento ma se n’era andato prima, o forse spaventato, era fuggito. Il primo morto per droga a Empoli Pag. 108.

Il secondo centro propulsivo è recente e mi riporta ancora in Toscana, precisamente ad Anghiari, capitale dell’autobiografia e della micro storia. Il progetto varato da Duccio Demetrio si poneva proprio il problema di una memoria storica che avesse anche una valenza antropologica e ricostruisse dal basso anche i grandi eventi e per come essi sono filtrati dalle diverse comunità.

Il racconto di Martini si astiene dal giudicare, le scelte della protagonista anche quando sono chiare ed evidenti, emergono sempre dai dialoghi oppure dai comportamenti e la distanza dai comportamenti che si rifiutano non implica alcun giudizio sugli altri ma guarda piuttosto alla drammaticità della situazione. È quanto avviene in questa citazione che chiude una fase della sua vita e porta verso la conclusione del libro. Il giorno è il più drammatico di quegli anni, quando arriva la notizia dell’assassinio di Moro. Paola è per strada e si rende conto che qualcosa di grave sta accadendo vedendo la folla che si raduna nel centro di Firenze. La notizia la sgomenta, ma è la riflessione finale, lapidaria, a chiudere una fase della propria vita, che di certo non rinnega, ma rispetto alla quale c’è la necessità di una cesura: 

Un nodo mi serrava la gola, perché quel lutto, quella costernazione erano anche miei, come se qualcosa si fosse frantumato per sempre, certamente anche per responsabilità nostre, mie e dei miei compagni.

Non colpevoli, ma neppure liberi di pensare che quella conclusione non ci riguardasse. Pag. 187.

Per concludere

Due considerazioni finali sul tempo e sulla conclusione del libro. Nella prima parte il tempo è scandito da riti di passaggio che sembravano ancora immutabili. Dal capitolo ironicamente intitolato Che anno è – pag. 67, le cose cominciano a cambiare. Subentra un tempo più concitato e anche i ricordi non seguono uno sviluppo lineare perché gli eventi sono filtrati dalla percezione che la protagonista Paola ne ha e questo crea delle sfasature. Così può accadere che un fatto enorme come la bomba di Piazza Fontana emerga improvvisamente dopo altri ricordi in apparenza di minore importanza, ma che le hanno permesso però di afferrare a posteriori tutto il senso di quell’evento: un tempo interiore, dunque, ma non intimistico.

La conclusione del libro contiene tutta l’ambivalenza di quella situazione tragica: ritorno al privato? Riflusso? Oppure apertura verso una nuova vita? Ci sono tutti questi elementi e ancora una volta la narrazione descrive e registra senza pretesa di giudizio. Tuttavia, arrivato alla fine del libro, a me lettore, la meticolosa ricostruzione di quegli anni, mi spinge a dire che poche generazioni hanno avuto la fortuna di poter fare così tante e ricche esperienze nel giro di pochi anni. La combinazione perversa fra stragi di stato e terrorismo pose fine a quel sogno generazionale. Paola, la protagonista sceglie alla fine di vivere, di recuperare la relazione Carlo, di aprirsi a un futuro possibile.

Campagna toscana

GRAND TOUR: IL CASENTINO E LA VALLE TIBERINA

Castello di Poppi

Nell’attraversare la Toscana in questo nuovo viaggio mi ritrovo a pensare che in Italia esistono luoghi che nel tempo hanno conosciuto maggiore o minore fama, senza che ciò implichi una minorità dal punto di vista architettonico, paesaggistico e artistico. Insomma, la provincia italiana non tradisce mai e il Casentino non fa eccezione. Per descriverlo da un punto di vista geografico parto da Arezzo, che costituisce una sorta di baluardo e confine a sud. Dalla città si snoda una lunga strada diritta che percorre una vallata che fiancheggia l’Arno, dove s’incontrano i paesi bassi o appena collinari: Subbiano, Bibbiena, Pratovecchio e Stia dove il Casentino finisce e la strada si protende in due diverse direzione: il Mugello, oppure il salto verso la Romagna in due diverse direzioni, Cesena e Forlì. In questo giro ci sono stati due sconfinamenti, sempre in provincia di Arezzo: Anghiari nella valle tiberina toscana e Monterchi. I paesi alti sono poco abitati e questa caratteristica regionale dell’intera Toscana, si ripropone qui in termini ancora più vistosi. Il silenzio è sovrano, a parte la strada a valle, dove il traffico è più intenso ma senza alcuna frenesia.

Nella zona imperversano molte sagre fra cui numerose quelle della polenta. Certo, siamo in settembre … ma ci sono più di 30 gradi; i cambiamenti climatici non sembrano entrare nell’orizzonte tematico degli organizzatori e anche questo è un segno dei tempi. Queste sagre ci riportano indietro negli anni, la Toscana fu uno dei primi luoghi che visitammo insieme Laura ed io. È passato molto tempo da allora e tanto altro. Questo viaggio è segnato dai ricordi e anche dalla tristezza: ci sono presenze e assenze fra di noi. Alla fine optiamo per la sagra di Subbiano, che ricorda le vecchie feste dell’Unità e delle case del popolo, dove andavano sempre in estate durante i nostri soggiorni a Massa Marittima: anche per Nicola e Ulisse erano appuntamenti assai gradevoli. Il clima però è solo apparentemente lo stesso. I volti sono i medesimi, ma più smarriti e anonimi. Il dato più vistoso però è l’assenza di ogni richiamo politico. È rimasta la festa, senza più neppure la consapevolezza che un tempo era la politica a unire come un collante di valori e a darle quel profumo che oggi non si avverte più. Né arcaica, né moderna, né proletaria, né borghese.

L’escursione a Monterchi aveva uno scopo preciso: vedere La madonna del Parto di Piero della Francesca. L’installazione si trova in un museo molto bene allestito e non troppo frequentato. Si paga un ingresso del tutto congruo per le notevoli risorse tecnologiche del museo, che permettono una visione del quadro in ogni dettaglio possibile. Piero è il trionfo della compostezza, della razionalità delle linee, della sezione aurea, dell’equilibrio che porterà in pieno Rinascimento alle opere pittoriche e architettoniche più celebrate di Raffaello e di Bernini. Che dire però di tale compostezza? L’ammirazione, per quanto mi riguarda, non riesce del tutto a superare il disagio della perfezione. La memoria va allora ai versi di Pound, più precisamente al Canto dell’Usura dove abbondano le metafore pittoriche e linguistiche. Queste ultime rimandano al medioevo e infatti l’inglese che il poeta usa è quello arcaico e anche per quanto riguarda la pittura predominano figure apparentemente minori come Pietro Lombardo, oppure appartenenti al primo Umanesimo, mentre il poeta sembra tenersi lontano dal pieno Rinascimento. Tuttavia, Piero è citato nel testo e sembra una nota stonata: cosa ci fa tutta quella perfezione in un testo cupo e governato da un senso di sventura? Il poeta lo cita come esempio di una pittura che stride con la pratica dell’usura, ma storicamente è proprio il contrario. È il paradosso di Pound, che insegue un Cristianesimo delle origini senza rendersi conto che dall’invenzione del Purgatorio in poi quel mondo era finito ed era il mecenatismo dei Papi, nutrito dal traffico delle indulgenze, a rivestire le cattedrali di opere come quelle di Piero e altri.

Ritroviamo una eco di quel Cristianesimo arcaico a Chiusi della Verna e specialmente all’eremo di Camaldoli. Ci eravamo stati molti anni fa e quella volta Laura ed io riuscimmo persino a parlare affabilmente con uno dei monaci. Erano tempi di apertura e i monasteri offrivano celle a chi voleva trascorrere un periodo di vacanza e meditazione anche per non credenti. Da una rapida ricerca vedo che tutto questo è ancora possibile, seppure con regole più stringenti, ma anche con l’offerta di corsi di yoga e vari tipi di meditazione. Nell’elenco dei monasteri aperti, però, ritrovo la Verna, ma non Camaldoli. La dimensione eremitica è più accentuata in quest’ultimo, mentre nel primo prevale di gran lunga uno degli aspetti del francescanesimo: la convivialità comunitaria, sobria, a tratti severa, ma pur sempre comunità. Qualcosa della severità di entrambi luoghi mi ha ricordato pure Viterbo, anch’essa una città dove i fasti di un Cristianesimo alto medioevale sembrano ancora relativamente intatti.

L’Italia è piena di castelli e anche in questo il Casentino non fa eccezione. Lo stato di conservazione del borgo medioevale e relativo castello di Poppi è invidiabile, un vero gioiello. Il castello è di proprietà dei Conti Guidi, una delle tante famiglie nobiliari italiane, meno paludata di altre, ma il cui lascito è davvero prezioso. La loro storia affonda le radici nelle mille contese altomedioevali, sempre difficili da ricostruire; ma per questo trovo assai esauriente l’opuscolo davvero pregevole messo a punto dal ministero dei beni culturali: un’altra meritoria impresa è la fondazione dell’ecomuseo del casentino con il coinvolgimento delle amministrazioni locali e la pubblicazione dell’opuscolo illustrativo, altrettanto prezioso.

Vale la pena di notare come i Guidi fossero dalla parte ghibellina e una particolare menzione merita allora il busto di Dante conservato nel castello e che depone a favore dei famosi versi di Foscolo indirizzati al poeta, ghibellin fuggiasco. Lo stato di conservazione del castello è il frutto di un’attenzione che si è tramandata per generazioni e che è arrivata fino a noi grazie anche alla politica del Granducato e poi del Ministero. Basti pensare che nella torre del castello si svolsero i primi esperimenti di parafulmini in Italia.

Anghiari ha un fascino un po’ diverso rispetto alle altre località. Il luogo ha una bellezza del tutto particolare, con una via centrale scoscesa, a cui lati ci sono locali e negozi. Da lì si può ammirare la vallata. Anghiari è tante cose, ma lascio per ultima la famosa battaglia perché in fondo la sua notorietà recente ci riporta a tempi assai prossimi e a un’idea ambiziosa e originale proposta da Duccio Demetrio e ripresa da altri studiosi e associazioni fra cui il gruppo Abele: Il progetto autobiografia, che proprio in Anghiari ha il suo centro più importante di iniziative e documentazione. Tale idea s’inseriva in un discorso più ampio che riguarda la microstoria, cioè una memorialistica che farebbe la gioia di Walter Benjamin nel senso che ricalca un modo di fare storiografia da parte dei cronisti medioevali che nel limite del possibile non distinguevano fra gradi e piccoli eventi ma registravano quanto più possibile nei loro scritti. Il progetto autobiografia non è dunque semplicemente la ricostruzione memorialistica di vite comuni da parte degli stessi protagonisti che la scrivono e non è neppure un prendersi cura di se stessi, ma diventa un momento della storia antropologica e del costume di un epoca o di una comunità. Negli stessi anni e cioè nel passaggio di millennio, ricordo alcune delle riviste – di impronta più marcatamente storica – che svolgevano la stessa funzione di memorialistica locale: per esempio Altro che Mestre. Nel tempo forse questi progetti si sono un po’ arenati, forse per un eccesso di dispersione, ma la possibilità di una memorialistica storica che filtra i grandi eventi facendoli passare per le vicende di singoli e comunità, mi sembra iscriversi in quel grande progetto degli Annales, che conferma nel tempo la sua grande vitalità.

Infine, il Museo della battaglia: molto dettagliato, con riproduzioni dei vari schieramenti e tutto quello che ne consegue. La sensazione che provo di fronte a queste ricostruzione è che, pur ben fatte e con dispendio di strumentazioni tecnologiche sempre più raffinate, alla fine sono tutte uguali e molto spesso indicano che chi intraprende una guerra di solito la perde. Perché allora?  

Il viaggio volge al termine e il pensiero ritorna alla provincia italiana che non tradisce mai ma è pure il luogo in cui meglio di qualsiasi altro la nostra vita italica precipita in caduta libera nell’oblio. Se nell’Odissea la terra dei Lotofagi era circoscritta in un’isola, le micro regioni italiane svolgono la medesima funzione su larga scala. Si smarrisce il tempo in questi luoghi, tutto appare attutito e lontano. È la stessa atmosfera che mi parve di cogliere a Venezia nella parte lagunare più estrema e lontana dall’eccesso turistico: il Lido degli Alberoni e la frazione di Malamocco. Del resto lo abbiamo sperimentato in questi giorni. L’intuizione quanto mai preziosa di Ulisse che ha pensato di portare con sé le carte da gioco, ha permesso di fare tardi la sera fra buona cucina, conversazione rilassata, niente televisione, poca radio e silenzio. La sensazione è di essere stati per una settimana nella vita postuma di luoghi che avendo avuto troppo nel loro passato, sono rimasti alla fine immobili in quello che ne era rimasto. Forse la medesima esperienza la provarono gli abitanti di Troia e di Cartagine che sopravvissero ai fasti precedenti e alle successive distruzioni. Rimasero lì dove erano, rifiutando di andarsene chissà dove a inseguire nuove idee di grandezza … poi, si dimenticarono di tutto.

Camaldoli

DIARIO BERLINESE: SETTIMA PARTE.

Treptower Park Berlin

Introduzione

Il titolo di quest’ultima tappa del diario berlinese è quello della mia prefazione al libro Doppia esposizione. Berlin 1985-2015 di Natascia Ancarani, Edizioni del foglio clandestino, Sesto san Giovanni 2015.

Il testo fu scritto nel 2014. Non ho cambiato una virgola del testo, ma esso necessita di qualche riflessione introduttiva. A rileggerlo oggi mi trovo io stesso in una strana posizione. Se guardo ai paragrafi conclusivi i motivi di allarme sul futuro lì indicati sono senz’altro da confermare, ma le ragioni per cui si sono addirittura aggravati sono diverse da quelle che si potevano ipotizzare allora. Il tema dominante, negli anni che vanno dal 2010 in poi e fino alla sconfitta del tentativo compiuto da governo Tsipras di cambiare radicalmente le regole europee, era molto chiaro: riuscirà l’Unione Europea a rimanere in piedi? L’euro è destinato a durare oppure no? Una prima risposta venne dal famoso discorso di Draghi del 2012 – Whatever it takes – ma poi nel 2013 fu fondata Alternative für Deutschland e sempre durante quell’anno giornali sia tedeschi sia europei si ponevano un quesito: cosa accadrebbe se la Germania decidesse di uscire unilateralmente dall’Euro? Erano solo dei sondaggi per capire quali reazioni suscitava una tale ipotesi o qualcuno in Germania ci pensò davvero? Sia come sia, questo era il tema dominante. La prefazione non ne parla esplicitamente ma le preoccupazioni espresse nel finale derivavano da quel clima. Sempre nel 2014 accadde anche qualcosa d’altro, che in quel contesto fu relegato un po’ in sordina: il colpo di stato in Ucraina, l’assalto ai sindacati da parte delle forze più reazionarie ucraine, la fuga del presidente Victor Janukovyč e poi alla rivolta del Donbass. Poi nel 2020 il Covid. 

BERLINO FUTURA

Berlino è stata una città mito dal 1989 in poi. Lo era anche prima, a dire il vero, ma per ragioni talmente diverse, tanto da sembrare persino un luogo differente.

La storia della città, però, è proprio questa dalla seconda metà del 1800 in poi, cioè da quando è diventata così importante e tragicamente decisiva per la storia tedesca ed europea.

Il primo spunto per scrivere questa introduzione lo trovo proprio nella giovinezza di questa metropoli.

Le grandi città mediterranee sono segnate dal tempo, dalla storia che si portano sulle spalle, per non parlare di quelle del vicino Oriente. Damasco ha più di tremila anni di vita, Roma quasi tremila, mentre le città del grande Nord sono recenti, alcune appena nate. Berlino è fra queste, il monumento più antico della città risale al 1700, il fazzoletto di terra (quasi un’isola) che si trova a fianco del Municipio della città, è un quartiere fra i più antichi, ma le targhe portano date che risalgono alla seconda meta del 1700. Berlino è la modernità per eccellenza, l’unica città europea – si dice solitamente – ad assomigliare alle metropoli americane. Storia davvero curiosa, che dimentica un particolare importante e cioè che si tratta del contrario: furono gli architetti del Bauhaus, nei favolosi anni ‘20, a inventare l’architettura moderna a Berlino per poi portarla oltre Atlantico dal 1933 in poi, in fuga dalla Germania hitleriana.

La fine della guerra europea secolare che possiamo in fondo fare iniziare nel 1914 e finire nel 1989, come ormai anche qualche storico comincia a sostenere, segna una netta cesura: dall’anno della caduta del Muro Berlino è un’altra città e produce un mito diverso dai precedenti. Di esso, nell’ampia narrazione di Natascia Ancarani c’è tutto: le sue belle e puntuali descrizioni sono anche una piccola storia e un’utile guida. Che altro potrei aggiungere al suo lavoro che non sia già detto da lei, sebbene sia io stesso uno dei tanti che questa città non la vivono più da turista ma ci abitano per lunghi periodo dell’anno? Allora mi sono detto che forse l’unico modo serio modo per farlo è cercare di avanzare qualche ipotesi sul futuro, non più così tranquillo, e vederlo sullo sfondo dell’Europa di oggi e proprio a ridosso di una svolta, perché le elezioni europee di maggio sono state differenti da tutte quelle che le hanno precedute.

Le cose a Berlino hanno cominciato a cambiare da qualche anno, la spinta propulsiva generata dalla fine della guerra cosiddetta fredda e dall’unificazione tedesca si è esaurita. La città ha goduto per vent’anni e oltre di finanziamenti colossali, è stata rifatta in diverse parti, a Est in particolare, sebbene la sua vastità territoriale sia tale che ci sono quartieri che si possono definire degradati o in fase di recupero, specialmente nel profondo Est, a Marzahn e al Lichtenberg. Berlino doveva essere risarcita per essere stata la frontiera più esposta di una guerra per niente fredda, denaro e progetti sono arrivati da molte parti, fino a farla diventare però una delle città più indebitate al mondo. L’entusiasmo degli anni ‘90 e di una buona metà del nuovo secolo hanno portato progetti importanti, il rifacimento di Potsdamer Platz, con il contributo di architetti provenienti da tutto il mondo, il lavoro di restauro di interi quartieri a Est e molto altro. Un cantiere aperto, ma anche una vivacità culturale che ricorda un po’ quella degli anni ‘20. In questi anni, Berlino è stata anche una città molto accogliente. Oggi su una popolazione di oltre 4,5 milioni di abitanti e che si sta avvicinando ai 5 milioni, il 12% e dunque circa 600.000 sono stranieri, ma si tratta di un dato fluttuante perché in continua crescita. I turchi sono in netta maggioranza, visti i legami storici fra Germania e Turchia e sono oltre 400.000: i latino-americani nel loro complesso vengono subito dopo, incerta la stima di italiani e spagnoli che sembrano più o meno intorno ai 70.000, poi ci sono gli altri. I polacchi a Berlino non sono così numerosi come si crede, perché sono distribuiti su tutta la Germania e molti vanno e vengono dalla Polonia; poi tutta la diaspora dall’Est europeo, ma specialmente dall’ex Jugoslavia; infine la presenza russa, che è storica e data dall’inizio del ‘900. Questa fase espansiva e accogliente è destinata a trovare il suo limite fisiologico, anche perché stanno cambiando molte cose nella stessa Germania.

Le aspettative di coloro che hanno scelto di venire qui nei vent’anni precedenti si sono coagulate intorno ad alcune costanti, che sono altrettanti ingredienti intorno ai quali è cresciuto il mito berlinese: una qualità medio alta della vita a poco prezzo, una certa tolleranza nei confronti di atteggiamenti anticonformisti, confermati dalla presenza di un tessuto assai vasto di aree occupate e centri sociali, che offrivano anche opportunità di lavoro, la possibilità di accedere a percorsi di formazione e lavorativi guidati, un’università all’avanguardia in tutti i settori.

Vediamo le prospettive di ciascuno di questi ingredienti. La qualità della vita si mantiene ancora alta e i prezzi di alcune componenti fondamentali come il cibo, la ristorazione e l’accesso alla vita culturale sono ancora più che appetibili: Londra, per esempio, può anche offrire di più in molti campi ma rimane decisamente più cara. I trasporti sono il solo vero costo abbastanza elevato; lo erano da prima e le tariffe continuano ad aumentare, ma bisogna tenere conto della grande efficienza e anche della presenza massiccia di biciclette, in una città pianeggiante, provvista di ottime piste ciclabili. Se leghiamo però questa componente alle due che seguono, il quadro si complica. Berlino rimane per chi viene da fuori una città anticonformista, ma di certo assai meno di prima. Un evento di un anno e mezzo fa circa, ha segnato una cesura sia sul piano reale, sia su quello simbolico: lo sgombero del Centro sociale più grande e famoso d’Europa, il Tacheles, in pieno centro, nonché la chiusura del museo della fotografia sempre a Kreuzberg.

Sul centro sociale vale la pena di spendere qualche parola in più perché la sua storia è emblematica e non soltanto per Berlino. Tutto cominciò dallo sfratto di una comunità di artisti che occupava uno stabile del centro da 22 anni. La resistenza del collettivo e la solidarietà della popolazione ha retto per un certo periodo di tempo, poi nel 2012 la chiusura. Il Techeles presenta alcune analogie con l’esperienza dell’Angelo Mai e del Teatro Valle occupato di Roma: recuperare spazi lasciati al degrado da privati e pubblica amministrazione e farne centri di laboratori d’arte e luoghi dove si produce cultura e politica. Tuttavia, va anche riconosciuto che negli ultimi anni, lo spirito che aveva animato l’occupazione alla sua nascita si era alquanto logorato ed esaurito, come del resto è avvenuto anche in Italia con molti centri sociali. Le esperienze italiane citate prima, cui vorrei aggiungere quella recentissima di Macao e Ri-Make a Milano, mi sembrano più orientate a comprendere le dinamiche attuali piuttosto che coltivare nostalgie del passato. Il Techeles è stato, come altri luoghi berlinesi, anche la vetrina di un Ovest tollerante e trasgressivo, a fronte del grigiore burocratico della Berlino del socialismo reale. Finita la guerra fredda, tuttavia, non c’era più bisogno della vetrina, ma questo si è tardato a capirlo.

Dopo lo sgombero sui muri della città sono comparse scritte dolenti e rassegnate più che ribelli, del tipo bye bye Kreuzberg: la convinzione che sia finita un’epoca si è fatta strada rapidamente. La speculazione edilizia è arrivata anche qui sebbene la rendita dei suoli sia ancora bassa se confrontata con quella delle altre capitali europee; ma tant’è.

Quanto ai percorsi formativi e di inserimento, essi sono stati negli ultimi vent’anni assai efficienti e di elevata capacità di inclusione, ma ora i sussidi sono stati ridotti drasticamente specialmente per chi viene dalle altre nazioni europee e in particolare da quelle meridionali. Rimane l’università come fulcro e in questo caso la Germania ha continuato saggiamente ad investire e cioè a garantire a tutti gli studenti provenienti anche dagli altri paesi, agevolazioni sociali e bonus che permettono, specialmente a Berlino, uno standard di vita e di possibilità di studio elevate. Ne fa un po’ le spese l’Università di Potsdam, non a caso collocata nel territorio della ex DDR: perché non bisogna dimenticare che più che una riunificazione, la caduta del Muro ha portato all’annessione dell’ex Germania Est a quella occidentale.

La Germania attrae i migliori cervelli e fa concorrenza su questo persino agli Usa: molti scelgono di stare in Europa piuttosto che cambiare continente. Tutte le facoltà ne sono coinvolte anche se il prestigio dell’architettura attrae più di altri rami: però anche un indirizzo di studio come quello antropologico, storicamente inglese, attira alla Humboldt Universität studenti e ricercatori da tutto il mondo.

Quanto durerà tutto questo? Fra gli italiani che vivono a Berlino ce lo si chiede sempre quando ci si ritrova a cena e la risposta è sempre più o meno questa: la Germania sarà l’ultima a cadere in Europa e Berlino l’ultima a cadere in Germania. Dopo avere pronunciato questo mantra ci si ride sopra e si brinda.

Visto che partono ancora in molti per andarci, mi sono domandato cosa risponderei a un giovane che mi chiedesse un consiglio: gli direi che i problemi di Berlino e della Germania sono gli stessi di tutti gli altri paesi europei, seppure su una scala che li vede posizionati in modo diverso da un punto di vista temporale. In sostanza, i problemi futuri della Germania, come dell’Italia e della Grecia, dipendono da che strada prenderà l’Europa: se continueranno queste politiche la campana prima o poi suonerà per tutti e sarà un suono molto sinistro, se invece ci sarà un colpo d’ala, uno scatto che inverta la marcia fallimentare di questi anni, allora Berlino rimarrà pur sempre un grande richiamo, ma forse perderà un poco del suo mito perché ci saranno opportunità anche altrove nel continente.

Tiergarten Berlin

DIARIO BERLINESE: SESTA PARTE

Castello di Charlottemburg.

Marzo 2014

A Berlino l’arte non sta nei musei, nonostante la presenza della celeberrima Inseln, una spianata ampia, dove si trova anche il brutto e imponente Duomo. In quella zona si possono ammirare l’altare di Pergamo, la porta di Ishtar e altre meraviglie. Poi ci sono gli altri musei, la Galleria nazionale, il Berrgruen. Però  l’architettura è la regina delle arti a Berlino e quella si ammira nelle strade. L’imponenza degli edifici di Potsdamer mi ricorda le città statunitensi (e del resto gli architetti tedeschi più importanti fuggirono alla persecuzione nazista rifugiandosi negli States). L’area divide l’opinione pubblica: per alcuni questi palazzi imponenti, costruiti con materiali freddi e non ergonomici, sono ostili a una vita comunitaria: più che abitazioni e uffici sono spazi. Non luoghi? A me non fanno la stessa impressione di certe stazioni e aeroporti, se mai la curiosa sensazione che si prova avventurandosi fra questi edifici è l’evidente eterogeneità dei progetti, che si spiega con una decisione che esula dal campo artistico. Lo stato tedesco, infatti, ha affidato a molti architetti provenienti da tutto il mondo la progettazione di quest’area: è uno dei tanti modi con cui la nuova Gemania ha voluto rompere con la propria storia d’intolleranza e disprezzo verso le forme artistiche moderne. Questo però ha portato a un eclettismo eccessivo, a una mescolanza di stili, di forme che s’accavallano le une sulle altre. Sì, c’è qualcosa di paradossale in tutto ciò, ma mi sembrerebbe ingeneroso non riconoscere le buone ragioni di chi ha pensato a questa soluzione. E intanto eccola di nuovo la porta di Brandeburgo, minuta ormai rispetto a ciò che la circonda, eppure sempre affascinante, in fondo al rettifilo dove, all’altro lato s’eleva la colonna con sopra la statua dorata, immortalata da Wim Wenders ne Il cielo sopra Berlino. Unter den Linden è più elegante che mai, anche i palazzi delle ambasciate e dei consolati degli ex paesi socialisti: tutti raggruppati qui, sembrano meno tetri. Certo, fa effetto vedere ancora nello stesso luogo la bandiera della confederazione russa, dove un militare distratto fa la guardia (si fa per dire) dentro la sua garitta. Non custodisce più nulla: i simboli attirano su di sé suggestioni e idolatrie, violenze, slanci ideali e furori ideologici, il niente non attira più nessuno anche se c’è sempre un militare addetto a custodire il bidone vuoto.

2 Aprile.

“Ma è proprio vero che a Berlino si può vivere con ottocento euro al mese? Dico vivere bene e non sopravvivere, perché questo lo fanno in molti anche a Milano e a Roma …”

“Sì” mi risponde decisa un’amica che lavora qui, che vive e lavora qui …

“Ma come è possibile?”

Più o meno ho potuto constatarlo pure io, ma m’interessa il suo parere.

“Perché la gente che vive qui ha pochi soldi e se i prezzi fossero più alti se ne andrebbero via e molte attività chiuderebbero bottega. Del resto molti che cercano lavoro nell’industria o in settori diversi dal terziario o la pubblica amministrazione se ne sono già andati. Qui il lavoro è poco, la città vive di sussidi, ma la qualità della vita è elevata …”

Il paradosso di Berlino è proprio questo. Una capitale indebitata fino al collo ma ricca e dove si può vivere bene con poco: dove si trova al mondo un luogo come questo? Dove un affitto in una casa del centro arriva al massimo ai quattrocento euro al mese? Tutte le grandi capitali dell’Occidente sono città che vivono sui servizi, l’impiego pubblico e il turismo, ma a differenza delle altre, qui la rendita dei suoli urbani non cresce vertiginosamente e la dinamica dei prezzi è contenuta.  

Intanto, chiacchiera dopo chiacchiera siamo arrivati in Weser Strasse:

“Dicono che assomigli alla Quinta Avenue …” mi dice l’amica sorridendo.

Non sono mai stato a New York e quindi …

È un viale molto lungo e diritto come tutte le arterie berlinesi, costeggiato da due filari di tigli, l’albero berlinese per eccellenza. Parte da Hermann Platz, luogo di ritrovo di giovani e di ubriachi la notte, discretamente sorvegliato dalla polizia. Non è trafficata come la parallela, Karl Marx Strasse, ed è piena di locali, che distinguo subito per uno stile comune anche a quelli che già conosco, dislocati in altri quartieri. Sono locali poveri, i tavoli, le poltrone, persino i divani sono riciclati, comperati da rigattieri e assemblati in qualche modo. In essi si tengono concerti di musica, performance, letture di poesia, rappresentazioni teatrali, almeno tre giorni la settimana. Mi ricordano quelli che ho già visto nella zona compresa fra le fermate del metro di Ederswalder e di Shönhauser, sulla linea due della metropolitana; forse in quel quartiere sono un tantino più eleganti. La vera differenza si scopre lentamente osservando le vetrine: molte si richiamano in modo esplicito all’omosessualità maschile e femminile. Alcuni locali, dalle 21 di sera in poi, sono aperti solo alle donne o solo agli uomini: altri sono misti, ma la presenza di icone omosessuali e lesbiche è esplicita. La via, lunghissima, ha un’illuminazione assai suggestiva, le vecchie lampade che creano una luce intima. Vi regna una tranquillità molto piacevole, i locali e i ristoranti sono diversissimi per prezzo ed eleganza. Ovunque, ci sono spettacoli, improvvisazioni e altro e questa  crea intorno a questa strada affascinante una molteplicità di occasioni di lavoro, specialmente per i giovani. D’inverno ci vengono anche gli anziani in questi locali, sono luoghi caldi e accoglienti e il divieto di fumo non è passato, ci sono state grandi proteste perché, specialmente d’inverno, fumare fuori sui marciapiedi a molti gradi sotto zero è impossibile e i locali rischiavano di chiudere. L’amministrazione comunale ha dovuto cedere. Ci fermiamo in uno dei più tipici, con i tavoloni in legno l’immancabile candela che viene subito accesa anche quanto si è soli, le luci basse e discrete. Il programma è nutrito: musica dal vivo, letture, mostre d’arte.

4 Aprile.

Torno in Hermann Platz e mi avvio per Kottbusser Strasse. In fondo, proprio vicino al ponte su uno dei tanti canali in cui si diramano i fiumi berlinesi, c’è il mercato turco. Si tiene due volte la settimana, il martedì e il venerdì: vi prevalgono di gran lunga i prodotti ortofrutticoli.

Come tutti i mercati del mondo è colorato, anche se lontano dalla fantasmagoria di quelli sudamericani; quello che balza subito all’occhio è che l’offerta di derrate è ben più ampia ed economica di quella che si trova in un qualsiasi supermercato. La seconda considerazione è che i tedeschi che ci vanno sono un’esigua minoranza. Sono i turchi a frequentarlo e sono in grande maggioranza rispetto a tutte le altre comunità presenti in città, che tuttavia sono visibili nella folla che si accalca alle bancarelle.

Per un italiano il mercato turco è una pacchia e infatti ne vengo via ben rifornito.  Esserci venuto, tuttavia, mi conferma una convinzione. A Berlino (non so nel resto della Germania), non prevale il modello d’integrazione alla francese. Il modello berlinese è quello della convivenza cordiale e serena fra diversi. Poche regole comuni, trasmesse in corsi che chi vive qui a lungo è tenuto a frequentare, e poi tutti secondo le proprie tradizioni e consuetudini: integrazione, mescolanze, meticciato, sono, se mai, il risultato finale di un percorso lungo e al largo, non un punto di partenza. Solo a livello individuale (i matrimoni misti esistono anche qui come dappertutto) oppure ad alto livello istituzionale, l’interscambio è più intenso e ricercato. Durante tutti i miei soggiorni, per esempio, mi è capitato di notare come siano frequenti le iniziative che riguardano la Turchia, sempre molto presente nella vita della Germania ed è sufficiente seguire quotidianamente il telegiornale per rendersene conto.

Il modello della pacifica convivenza fra diversi sembra funzionare ed essere accettato da tutti. L’investimento nella mediazione culturale è elevato e intelligente, ma comporta ovviamente un impiego massiccio di risorse umane e finanziarie. Chi decide di stabilirsi a Berlino per un lungo periodo e cerca lavoro deve frequentare un corso di lingua tedesca, cultura, usi e tradizioni, dal costo di 140 euro al mese per sei mesi. Il corso prevede esami che, se vengono superati, danno diritto a un rimborso del costo versato fino al quaranta o cinquanta per cento dell’importo totale. Tale sistema premiale risulta assai motivante e viene apprezzato da tutti. Quanto alla cultura tedesca, usi e tradizioni vengono porti sobriamente, insistendo molto sul rispetto reciproco delle differenze. Certo, vi è uno sforzo particolare dei tedeschi per far dimenticare l’intolleranza del loro passato recente, ma lo fanno con un impegno e un’intelligenza che sembrano contagiare chi vive qui.

Fino a quando potrà reggere tale modello? Il dato nevralgico è la quantità d’investimento pubblico necessario a farlo funzionare. Basso consumo di qualità e prezzi bassi alimentano un circuito di attività che regge proprio perché si mantiene a quel livello e quanto alla convivenza essa sembra tenere in larga parte della città, tranne che nel quartiere intorno alla stazione Lichtenberg, nel profondo est.

6 Aprile

Inevitabile tornarci a Lichtenberg. Lì il clima è diverso: è il quartiere dei naziskin, che si vedono poco in altre parti della città ma sono subito distinguibili. A parte la testa rasata, prerogativa peraltro comune anche ad altri che nazi non sono, indossano un lungo giubbotto nero con uno stemma rotondo in cui la parola skin è visibile. È una specie di divisa, ma non trasandata come nel militare di moda fatto di tute mimetiche sbrecciate, stivaloni indossati anche dalle ragazze; colpisce l’ordine. Ne avevo uno ieri seduto davanti a me sul metro, che sembrava a dire il vero un po’ stranito nel ritrovarsi in mezzo a gente normale che torna a casa la sera con le borse della spesa; tanto poco eroica e guerriera. A Lichtenberg invece è davvero diverso. Non mi stupisce più di tanto.

I luoghi hanno il loro genius, che può essere benefico o malefico e questa stazione mi aveva colpito anche nel 1991 per la sua tetraggine, per quel che di funesto che le si vedeva addosso e che allora poteva essere attribuito, con molte semplificazioni al clima desolante appena successivo al disfacimento della DDR.

Lontana dal centro della città, da quella stazione partivano i treni per Kiev, Mosca, Varsavia, Sofia. Nel’91 mi aveva colpito vederne uno, totalmente vuoto, diretto alla capitale ucraina. Una signora, che aveva colto lo stupore con cui osservavo la scena mi spiegò che i tedeschi non ci salivano più perché in territorio ucraino e bielorusso se c’erano occidentali a bordo i treni venivano assaliti e si veniva derubati di tutto. Rimasi perplesso e incerto se si trattasse di verità o di leggenda metropolitana, ma quando tornai in Italia vidi un servizio della BBC in cui tutto questo era documentato.

Questo luogo, funestato dalla doppia tragedia della storia tedesca, si trova oggi dalla parte opposta del pendolo, immagine di quel passato che non passa e che sembra ripercorrere le sue strade obbligate. Tuttavia nel resto della città tutto questo non si avverte, se non quando ricorrono le date di nascita di Hitler o altre ricorrenze legate al nazismo; allora anche i naziskin abbandonano i loro territori e arrivano fino in centro.

Ottobre 2018.

Il metro mi riporta in piazza Wagner, la fermata del mio rientro a casa. Il luogo è particolarmente tranquillo: ex zona inglese, in fondo al viale di Otto Suhr troneggia il castello di Charlottenburg, un avamposto dentro Berlino della città imperiale di Posdam che si trova a trenta chilometri da qui. Il fiume, in corrispondenza del castello s’allarga e forma una grande ansa, si può scendere e percorrerne le rive dove d’estate attraccano anche i battelli.

Il mio modo di sentire quando una città diventa un luogo in cui vivere è piacevole e non semplicemente un punto di transito è molto semplice: quando i siti più comuni, quelli più famosi e che per forza di cose si visitano per primi, non mi attirano più come le prime volte che ci approdavo. Il passo definitivo, però, è quando avverto il piacere di fare vita di quartiere, di stare dove sono e condividere con gli altri, anche se sconosciuti, la vita quotidiana, con le sue abitudini e la sua gente: nel mio caso, per esempio, il supermercato, il bar delle turche dove la colazione è particolarmente ricca e l’altro, sempre delle turche (li definisco così perché ci lavorano solo giovani donne turche), dove vado la sera quando ci sono le partite di Champions: la consumazione, fra l’altro, costa tre euro invece dei sei di Milano. A Berlino questo passaggio al piacere quotidiano della condivisione di vie e luoghi è avvenuto più in fretta che altrove. In fondo la sfida di un mondo vivibile possibile del futuro è proprio questa: l’utopia di potersi sentire a casa potenzialmente ovunque, utopia nel senso di un orizzonte che ti fa camminare, come scrive Galeano. Cittadini del mondo oggi non è più uno slogan: avviene quotidianamente ovunque, non può essere arrestato come processo: si può soltanto decidere se debba avvenire fra scontri civili, oppure essere il volto alternativo alla superficiale e distruttiva globalizzazione finanziaria. A Berlino sembra di potersi avvicinare a questa utopia: la Berlino non certamente elegante come Parigi, non imperiale come Londra, non stratificata sui millenni come Roma, ma capitale di un’Europa di convivenza pacifica fra diversi, ancora lontana.

Mercato turco

DIARIO BERLINESE: QUINTA PARTE

Bernauer strasse.

BERLINO E IL MURO

Anche in questo capitolo del diario, ho assemblato riflessioni avvenute su un lungo arco di tempo. Il Muro è stato ingombrante quando c’era e per alcuni anni ha continuato a esserlo anche dopo che fu abbattuto. Poi la sua immagine è divenuta più sfocata, poi è successo di tutto. Due anni di Covid e oltre un anno di guerra nel cuore dell’Europa sembrano distanziarci anni luce dalla storia successiva la fine della Seconda Guerra Mondiale; oppure no, ma in che senso è difficile dirlo. La data di inizio del diario non può che essere quella della sua caduta e il racconto comincia da Milano.

Novembre 1989.

I nostri figli avevano otto e dieci anni e, come noi adulti, avevano seguito l’abbattimento del muro in televisione, con l’attenzione e la preoccupazione che i nostri volti sorpresi e anche un po’ attoniti dovevano aver loro trasmesso. Quando ne riparlammo anni dopo mi resi conto che quello era stato il loro ingresso nel mondo dei grandi problemi, quelli che stanno fuori dalla porta di casa. Non eravamo corsi a Berlino a ridosso degli eventi, come avevano fatto molti anche da Milano, saltando sul primo treno o improvvisando macchinate zeppe d’amici e ora sorrido fra me pensando che anche a vent’anni di distanza, nel 2009, giunsi in città due giorni dopo le celebrazioni! È una festa tedesca, avevo pensato nell’89, vedevo la gioia sui volti della popolazione, quasi incredula, non c’era bisogno di cogliere l’ennesima occasione di baldoria e correre là; che fosse anche una festa europea, per quelli della mia generazione non era così scontato e per i più anziani, che avevano vissuto la Seconda Guerra Mondiale al fronte oppure nelle città devastate, lo era ancora meno.

“Voi non li avete conosciuti i tedeschi tutti insieme.”

A pronunciare queste parole, a Milano, nel 1989, era stato in vecchio signore che mi sedeva accanto sul tram 24. Io stavo sfogliando le pagine del Manifesto, con le fotografie dei giovani felici e urlanti che ballavano sul muro mezzo diroccato, mentre altri picconavano come muratori improvvisati.

Cominciammo a parlare: era un democristiano, ma vedevo in lui una sincera preoccupazione. Ritornavano nella sua mente i fantasmi che a me, nato nel 1947, erano giunti di seconda mano: prima attraverso i racconti dei genitori, poi dai libri di storia e dalla mia militanza politica. La frase cinica e lucida di Andreotti però la ricordavo bene: Amiamo così tanto la Germania che siamo felici ce ne siano due. L’avevo ripetuta al mio occasionale interlocutore e avevamo riso.

La mia prima visita a Berlino avvenne nel mezzo di un altro evento storico, tragicomico questa volta: il tentativo di colpo di stato contro Gorbaciov in Unione Sovietica. Arrivavamo dal nord Europa dopo un lungo viaggio nella penisola scandinava, era trascorso quasi un anno dalla caduta del muro e i miei figli sapevano molto della storia della città e non vedevano l’ora di passeggiare per le sue strade. Entrammo in ostello e vedemmo tutti i presenti davanti al televisore, compresi i ragazzi della reception. Il claudicante tedesco mio e di Laura c’impediva di capire subito, ma alla vista del carro armato con sopra Eltsin che arringava una folla, peraltro assai contenuta nel numero, cominciammo a comprendere. Una ragazza al mio fianco disse qualcosa come zurück, Russische zurück!

I Russi tornano indietro: possibile? Dissi fra me e me … Le antiche paure oscuravano la percezione di una realtà ormai irreversibile; anzi, quel gesto stupido e disperato, compiuto da uomini ormai completamente obnubilati e incapaci di leggere la storia, avrebbe ulteriormente accelerato la fine dei paesi socialisti.

Il giorno dopo ce n’andammo in giro per la città e bastava fare questo per capire in modo visivamente impressionante cosa fosse la dissoluzione di uno stato in presa diretta. Lo stato suggerisce immagini di grande potenza, suscita reminiscenze letterarie, lo si può intendere come Moloch, come Grande Fratello, come Castello kafkiano, oppure come il Leviatano di Hobbes. Tutto questo, lungo Unter den Linden, nel 1991, sembrava un delirio da filosofi e scrittori. I militari della ex DDR vendevano di tutto, anzi svendevano di tutto. Una folla ridanciana e addirittura entusiasta, ma con il pensiero un po’ troppo in libera uscita, s’aggirava in mezzo a motociclette militari equipaggiate di tutto, compresi cannocchiali a infrarosso che permettono di uccidere di notte una persona a un chilometro di distanza. Pensai subito, e i fatti successivi mi diedero purtroppo ragione, che quelle armi sarebbero finite da qualche parte molto presto, a riempire arsenali di mafie e gruppi etnici in lotta fra loro. La guerra nella ex Jugoslavia non ebbe bisogno di grandi finanziamenti, bastava andare a Berlino nei posti giusti, attendere, gettare uno sguardo dietro la vetrina, lanciare opportuni segnali a chi era lì pronto a coglierli e si trovava di tutto.

Ci ritornai l’anno dopo e Unter den Linden era stata ripulita, al posto dell’emporio militare a cielo aperto c’era una boutique di bigiotteria dove si vendevano gadgets e pezzi di muro; il cimelio militare più significativo cui si poteva aspirare era il colbacco grigio con la stella rossa appuntata in fronte.

La città, però, non aveva ancora cominciato a cambiare veramente; anzi, passato il tempo della sbronza, delle feste continue, del caos, nel suo centro s’era aperta una voragine. Fra l’est e l’ovest c’era la terra di nessuno, una zona di rispetto tranne che in alcune parti dove le due città si sfioravano e il muro divideva una strada. Ora quel vuoto era desolante: solo ruspe, fango e rovine. Dovevano passare alcuni anni ancora perché nascesse la nuova città.

Bernauer strasse

2008-9.

La mia ricerca del muro e di quanto ne restava cominciò subito, ma è stata assai accidentata. I reperti e i pezzi rimasti sono molti: alcuni lasciati dove erano, altri rimossi e posti altrove. Sono poche però le aree veramente decisive ed emozionati. L’americanata di Warshauer Strasse, per esempio, è proprio il modo più infausto di ricordare il muro, anche se le intenzioni furono certo nobili. Si tratta della porzione più grande conservata nel luogo in cui si trovava, in riva la fiume; anzi una doppia muraglia. Subito dopo l’abbattimento all’amministrazione venne l’idea di conservarlo e di chiedere ad artisti di dipingerne i diversi pezzi. In effetti il muro si presta benissimo a composizioni pittoriche o murales e quindi l’idea in sé era buona e già praticata in modo spontaneo anche prima quando il muro era ancora in piedi ma la parte rivolta a occidente poteva essere avvicinata e dipinta perché le torrette militari stavano solo sulla seconda muraglia. Furono pochi però gli artisti ad aderire al progetto, che fu lasciato a una spontaneità incontrollata. Tuttavia, il luogo in sé è gradevole per la presenza alle punte estreme del percorso di oltre un chilometro, di un locale – Piraten – che fu anche un punto di riferimento del partito con il nome analogo che attraversò come una meteora la politica tedesca. Alla fine del muro dall’altra parte, c’è invece un centro sociale fra i più divertenti e sgangherati che ricordi. Non avendo scritto il suo nome allora non ne ho ritrovata traccia anche perché non si tratta di certo di un centro sociale famoso come il Tachles o il Køpi, che hanno fatto la storia di Berlino. In riva al fiume e dall’assetto territoriale precario, fatto di prati accidentati calanti verso il fiume, tavolini posti in situazioni di equilibrio instabile, in mezzo a ogni genere di cose, il sito è tuttavia gradevole sia per la vista sia per la tranquillità. Con un po’ di pazienza il proprio posto dove fermarsi a leggere consumando un’ottima birra a costi ragionevoli, lo si trova sempre.

Un altro modo sobrio ma convincente di ricordare il muro, lo scoprii quasi per caso durante una visita intorno alla porta di Brandeburgo con amici e amiche in visita dall’Italia. Camminando verso la porta notai una fila di due mattoni di selciato diversi dagli altri, in alcuni punti vistosissimi, in altri che si fondevano con l’arredo urbano. Due semplici mattonelle e sampietrini, dalla foggia però inconfondibile, simili alle pietre d’inciampo. Quando li si vede si comprende subito: ecco, il muro passava di li. Semplice e geniale, anche perché quotidiano; non un monumento, ma qualcosa che accompagna il passante ogni giorno, che viene calpestato ogni giorno. Prima o poi chiunque, anche il più distratto, se ne accorge. La prima parte delle mie visite si conclude con due luoghi canonici: Il Checkpoint Charlie in Friederich Strasse e il museo della DDR a ridosso di Alexander Platz. Definirli deludenti è forse troppo, ma è pur vero che in essi ho trovato quello che in un modo o nell’altro conoscevo già, senza che le ricostruzioni riservassero novità o  particolari emozioni.

2016.

Il sito che davvero vale la pena di visitare è il Memoriale del Muro di Berlino che si trova si trova in Bernauer strasse. Sapevo della sua esistenza, ma visto che i siti precedenti in un modo o nell’altro non mi avevano convinto del tutto, continuavo a rimandare la visita. Fu la lettura in bozze di un libro di cui mi era stato chiesto di scrivere l’introduzione a convincermi ad andarci e lo ribadisco qui. Il titolo del libro è Doppia esposizione. Berlin 1985-2015 di Natascia Ancarani (Autore) Ediz. del Foglio Clandestino, Sesto san Giovanni 2015. Il libro ha molti pregi, ma primo fra tutti essere scritto da chi ha vissuto sia a est sia a ovest in quegli anni. Pr quanto mi riguarda la visita al Memoriale e al piccolo museo annesso è stata un’esperienza di grande rilevanza storica ed emotiva. Un sito sobrio, nudo nella sua essenzialità, nei materiali didascalici messi a disposizione, ma specialmente è la sua conservazione spoglia, le sue torrette dal colore brutto come tutte le installazioni militari a fare impressione. Poi ci sono la storia, il cimitero, i morti, gli aneddoti. Il libro in questione è molto esauriente nel descrivere, la visita lo è altrettanto. Anticipo che questo diario berlinese si concluderà con la pubblicazione dell’introduzione scritta per il libro. Qui voglio ricordare solo uno degli aspetti più grotteschi di tutta la questione. Gli edifici di Bernauer strasse erano collocati a est, ma per una bizzarria che viene spiegata dal libro ma che tuttavia esula un po’ dalla mia capacità di comprensione, il marciapiede sottostante gli edifici era Berlino ovest, il che portò a episodi che nel libro sono descritti, in cui il comico e il tragico si alternano.     

Memoriale del Muro

DIARIO BERLINESE: QUARTA PARTE

Fiumi ghiacciati a Berlino

1 Febbraio 2012. I giorni della merla non tradiscono mai, leggo sui giornali che una copiosa nevicata ha ricoperto Milano: anche a Berlino la temperatura è arrivata a meno otto, alcuni tratti dei canali sono ghiacciati.

20 Febbraio.

Berlino sta cambiando, si cominciano a sentire sul serio anche qui gli effetti della crisi europea. L’aumento del prezzo dei mezzi di trasporto (sebbene non siano stati praticamente toccati gli abbonamenti per studenti e altre fasce protette), la sempre più scarsa manutenzione di scale mobili e altri accessori legati alla rete metropolitana, un aumento visibile di barboni in alcune parti della città. Si vive sempre bene qui, ma i segni del mutamento ci sono tutti. Ne parlo con un lavoratore serbo che vive qui da tempo. Fuggito dalla guerra civile jugoslava ed emigrato in Germania con famiglia, dopo essere passato da Italia, Francia, Olanda. Oltre al serbo croato parla benissimo altre tre lingue (italiano, olandese e inglese) ma solo discretamente il tedesco, tanto che vuole frequentare un corso al Goethe. Fa ogni genere di lavoro che abbia a che fare con la manutenzione degli alloggi.

“Fra due anni vado via …”

“Perché? Lavori bene qui …”

“Si, ma fra due anni tutto finito …”

“Non esageri un po’?”

“Prima avevo troppo lavoro adesso sto fermo anche per un mese … è per questo che sono andato a Parigi con mia moglie e mia figlia … non avevo niente da fare … Parigi belisima.

“E dove torni?”

“A casa in Serbia …”

Lui è un termometro molto sensibile proprio per il lavoro che fa e le sue parole mi colpiscono.

“Solo due anni? Ne sei proprio convinto?”

“Vedremo.”

Fra un tema e l’altro si ricade sulla politica, ho la televisione accesa mentre parliamo e va in onda un servizio storico sulla prima guerra del Golfo.

“Gli americani non sanno fare altro … la guerra, mi ricorda quello che successo con la Serbia.”

Evito di dirgli che quella guerra fu forse voluta con altrettanta forza dagli europei e che fra l’altro ha avvantaggiato non poco la Germania … Continuiamo a parlare e mi rendo conto di quanto prestigio goda Putin presso gli slavi. Lo avvertono come un leader che resiste allo strapotere americano, anche se poi aggiunge che:

“I russi sono il peggio.”

Dopo un lungo giro si ritorna alla Germania e io accenno al saccheggio di Croazia e Slovenia …

“Certo è tutta loro la costa croata, se la sono presa: Sarajevo è tedesca e la Slovenia pure …”

“Il programma di Hitler …”

“Certo e senza sparare un colpo!” 

“Però a Berlino si vive ancora bene dai!”

11 febbraio 2013

Di nuovo verso Berlino. Leggo in aereo le corrispondenze della stampa tedesca sull’ultimo giorno da Papa di Ratzinger. Non mi aspettavo il tono spesso duro, una visione del gesto totalmente diversa da come è stata vissuta in Italia. Faccio una premessa. Ratzinger non era particolarmente amato o considerato in Germania, il soglio pontificio a un cardinale tedesco non ha mai scaldato il loro cuore più di tanto, in televisione le apparizioni del Papa non erano mai aumentate e sono lontanissime dal presenzialismo nella nostra tv, nei dibattiti di seconda serata si sentivano spesso delle critiche anche prima e quando lo scandalo pedofilia ha toccato il fratello Georg c’è chi ha chiesto le sue dimissioni da pontefice. Eppure, ora che le ha date, la stampa tedesca sembra reagire in modo del tutto diverso. Pensavo che anche qui il suo fosse considerato un gesto di coraggio e invece, a parte alcune difese d’ufficio, i commenti sono assai aspri e talvolta decisamente di cattivo gusto. Sotto il titolo di “Infallibile solo nelle dimissioni” la Berliner Zeitung rincara la dose parlando di lui come di un modesto teologo. Si potrebbe però obiettare che il quotidiano berlinese è noto per le sue posizioni progressiste e laiche ma anche Die Welt, conservatore, considera il suo un gesto adatto a un amministratore delegato ma non a un Papa e addirittura la Frankfurter Allgemeine scrive che “il culto della persona ha assunto dimensioni quasi blasfeme, fino al punto che Benedetto XVI persino in pensione si fa chiamare Sua Santità.”

Una differenza abissale con i commenti italiani, ma anche con quelli di altri paesi, per nulla in sintonia con la folla che durante gli ultimi giorni di pontificato accorreva in Piazza san Pietro. Commenti molto tedeschi, si potrebbe dire: il capitano che non può lasciare la nave, il culto del senso di responsabilità che certamente ha qualcosa di protestante e forse anche di queste antiche punture di spillo fra cristiani rimane una eco in queste prese di posizione. Quello che è totalmente assente è un qualsiasi discorso sul ruolo della curia romana in tutta la vicenda, sul peso di un assedio che a tutti è parso evidente.

12 Febbraio.

Forse si capisce di più dell’atteggiamento tedesco, se si considerano altri fattori. Da tempo in Germania le critiche al cattolicesimo investono aspetti teologici e a livello se non di massa, almeno di minoranze agguerrite. Si contesta l’immagine e la dizione Dio padre, in quanto escludente delle donne. Non è una critica che proviene solo da movimenti femministi, ma si sta facendo ampia strada in settori diversi dell’opinione pubblica. Se, infatti, il ritratto di Cristo e la sua nascita storica ne fanno un soggetto maschile senza alcuna discussione possibile, l’immagine di Dio troppo legata alla fisicità di maschio, appare paradossale e in effetti lo è. Vengono in mente anche le parole del buon Albino Luciani, che si fece di tutto per gettare nel ridicolo. Dio è anche madre (lui a dire il vero aveva detto mamma e questo aveva contribuito a suscitare commenti sarcastici e superficiali sentenze psicoanalitiche sulla sua persona), ma vedere oggi lo stesso argomento raccolto in altro modo e con dovizia di argomentazioni, fa una certa impressione; positiva peraltro.

15 Febbraio 2013.

Nasce in Germania Fermare il declino, un movimento che diventerà presto un partito. Si dichiarano europeisti, ma sono contro l’euro e per il ritorno alle monete nazionali o ad aggregazioni monetarie diverse e più leggere. Le novità sono due e forse tre. La prima: il partito è diretto dall’ex presidente della Confindustria tedesca. È una novità e assai eclatante, perché segna una rottura nel fronte dei poteri forti e fa emergere una contraddizione di cui si sapeva da tempo, ma che non era ancora esplosa: è un segnale ostile a Merkel che proviene dall´interno dell’attuale establishment ma che fino a ora era un mugugno. Il partito si chiamerà Alternative für Deutschland. Vedremo se lo stupidario europeista acefalo definirà populisti anche loro. Seconda novità implicita nella prima: un partito conservatore anti euro costringerà la Linke tedesca a chiarire meglio le sue posizioni. Fino a ora la Linke e i movimenti di Occupy Frankfurt, hanno avuto il monopolio dell’opposizione alla moneta unica, ma si sono anche dovuti difendere dalle accuse di populismo, con il risultato che la loro opposizione è risultata spesso debole o di puro principio. Oggi dovranno dire qualcosa di più. Terza novità (forse). La sensazione è che i successi del Movimento Cinque Stelle in Italia abbiano accelerato il varo di questo partito, di certo pronto da tempo a uscire allo scoperto, ma che forse avrebbe atteso le elezioni tedesche in autunno, per poi uscire in vista di quelle europee. In Germania come in Inghilterra, non temono il Grillo in Italia, ma il Grillo in Europa, nei loro paesi. In Portogallo sta nascendo qualcosa di analogo al movimento Cinque stelle e questo fa paura.

20 Febbraio

Ancora su Ratzinger. Il suo gesto è il precipitato massimo di una contraddizione. Un Papa che si dimette come se la sua carica fosse del tutto simile a una qualsiasi altra è un gesto di estrema secolarizzazione, ma da un altro lato non è forse anche un segno di umiltà? Cristo non era un eroe sconfitto per le regole mondane? Il suo comportamento,  almeno nelle intenzioni, non rovesciava il culto antico dell’eroe, legato solo a imprese belliche gloriose? Ratzinger assomiglia di più a un amministratore delegato che scappa prima che arrivino i carabinieri (è una metafora, non arriveranno mai), a sequestrare lo IOR, oppure è uno che dice, tenetevi pure il mondo io me ne vado da un’altra parte? Forse nessuna delle due ma una terza intermedia, però mi colpisce che nessuno, fra i cattolici, pensi all’altra. Solo Cardini ha parlato di una sconfitta di Ratzinger. Forse in un senso leggermente diverso, però. Ci capiremo forse qualcosa di più vedendo chi sarà il nuovo Papa, o forse mai.

10 Aprile.

Le coincidenze temporali sono sempre suggestive: ricordiamo tutti l’impressione che fece il fatto che la Rivoluzione Francese iniziasse nell’89 e che il Muro di Berlino cadesse due secoli dopo nello stesso anno. Che significa? Nulla o forse no: per esempio potrebbe significare che allora si era chiusa una parentesi di due secoli, in cui l’umanità per la prima volta ha sognato di potere realizzare una società giusta nell´al di qua e non nell’aldilà … e per di più ha avuto anche l’ardire di tentarlo e non solo di sognarlo. Che sia stata sconfitta almeno per il momento può fare ghignare soltanto i potenti, i cinici e gli stolti.

Le coincidenze si ripetono anche in questo anno di grazia e intrecciano la piccola Italia addirittura al cosmo e alla divinità. Nel breve spazio di un mese abbiamo nell’ordine: le dimissioni di un Papa, la sede presto vacante della Presidenza della repubblica, un vuoto di governo, elezioni che ci consegnano un parlamento difficilmente governabile, un nuovo Papa. Tutto ciò può anche risultare tragicomico, oppure suggerire che a volte il piccolo e il grande, unendosi in uno spazio temporale assai ristretto, possono essere l’indice o il segno di cambiamenti profondi di cui però stentiamo a vedere la direzione.

3 ottobre 2013.

Il silenzio del governo tedesco su Lampedusa è finito. Le dichiarazioni molto critiche di Shultz, presidente del Parlamento europeo e possibile ministro degli esteri di un governo di Großße Koalition erano passate un po’ inosservate, visto il ruolo istituzionale che ricopre, ma la dichiarazione di seguito che riporto, mette fine al clima di cordoglio unanime, ma pone anche fine alla retorica:

Il ministro degli Interni Hans-Peter Friedrich (Csu) … ha escluso un ripensamento delle regole che governano la politica europea sui rifugiati, ha chiesto l’inasprimento delle pene per i trafficanti di uomini e respinto l’accusa rivolta all’Ue di rinchiudersi nei propri confini.

Solo la Germania ha concesso quest’anno rifugio a 80 mila profughi. La dichiarazione che segue è ancora più chiara:

Le richieste di aiuto dell’Italia a Bruxelles sono legittime, ma a volte appaiono come misere scuse, giacché il Paese, alla fine, non è gravato dal flusso migratorio più di altri Stati membri, al contrario. Finora Roma ha concesso accoglienza ufficiale a 65 mila profughi contro i quasi 600 mila della Germania. In più l’aiuto si esaurisce solo ai rifugiati provenienti da Eritrea, Somalia e ora Siria e, una volta ottenuto il permesso, il rifugiato deve decidere da solo dove sistemarsi senza che gli venga assegnata una residenza, del denaro o adeguata assistenza sanitaria. Al fondo di questa politica c’è l’auspicio che i rifugiati decidano di emigrare ancora in altri Paesi europei, dove le condizioni assicurate sono migliori.

Per risultare credibile nell’intento di umanizzare la politica europea sui rifugiati, ha concluso il quotidiano berlinese, l’Italia deve saper mettere mano anche alla sua stessa legislazione, per esempio alla legge Bossi-Fini.  Fatte salve le ragioni di politica interna che possono avere in parte ispirato questo comunicato, esso contiene però alcune indubbie verità che in Italia si cerca di nascondere.

20 Ottobre.

Scendo dal metro un po’ prima di Postzdamer Platz e attraverso il Tiergarten. I colori autunnali sono esplosivi, è una giornata di sole. I boschi circondano Berlino, così come le acque: non solo la piccola Spree, che sembra un fiumicello se paragonato ai fratelli illustri che solcano altre grandi città europee, ma i grandi laghi. Boschi e laghi ovunque, dentro la città e intorno. Boschi e non giardini e la precisazione è d’obbligo: perché la mano umana si astiene dall’intervenire troppo per abbellire e curare. L’intervento si limita allo stretto necessario: tagli e potatura, rimozione dei rami caduti e questo è tutto; a parte le ampie strade sterrate e i sentieri dove tutti corrono o vanno in bicicletta. Per questo anche il Tiergarten conserva il suo tratto selvaggio, il ciclo vita-morte lasciato al suo procedere naturale: dal risveglio primaverile, alla contenuta esuberanza estiva che appartiene a un bosco nordico, allo smagliante tramonto autunnale, alla marcescenza invernale. Vita e morte, il ciclo ingovernabile ma saggio, che mi fa venire in mente i versi memorabili dell’antologia di Spoon River, che Edgar Lee Masters mette sulle labbra di un personaggio di nome Paul Nitze, che potrebbe persino essere di origine tedesca:

O morte, giardiniere autunnale che prepari la primavera della vita.

Tiergarten Berlin

DIARIO BERLINESE: TERZA PARTE

Sul Nazismo e altro

Premessa

In questa parte metto una sola data perché ho radunato in essa riflessioni che appartengono a momenti diversi. Tuttavia c’è un momento centrale che ha favorito l’intera riflessione: il 2010, quando fu allestita la mostra Hitler e i tedeschi, nel Museo di storia tedesca di Berlino, a 65 anni dalla caduta del regime nazista.

Prenzlauere Allee

Marzo 2010.

L’occasione è stata davvero unica per riflettere. Prima di tutto il titolo, che va preso alla lettera: è una mostra per i tedeschi e proprio per questo è molto interessante. L’edificio che l’ospitava si trova nell’isola dei Musei, un complesso monumentale della città che oggi mi appare meno vecchio e vetusto di quando vi misi piede la prima volta, diversi anni fa. Al piano superiore si trova la mostra delle opere di Begas, l’architetto scultore autore dei progetti urbanistici più importanti risalenti al periodo bismarkiano. Molti dei palazzi più antichi di Berlino (città che – è bene ricordarlo – antica non è), sono suoi, insieme ad alcune sculture e busti che ritraggono il cancelliere di ferro. Distribuito fra piano terra e un altro inferiore, si trova il Museo di storia tedesca dalle origini a oggi e, in quel contesto, la mostra Hitler e i tedeschi, un titolo semplice. Anche le didascalie in inglese, solitamente abbondanti e anche l’apparato di depliant e pubblicazioni connesse, sono questa volta in larga misura, nella sola lingua tedesca. Insomma, una mostra per ragionare come popolo tedesco intorno a una domanda che si ripropone a distanza di decenni: perché è stato possibile un Hitler? Da quando, nel 1968, la Germania ha iniziato a emanciparsi dalla rimozione che aveva accompagnato gli anni immediatamente successivi la catastrofe bellica, la riflessione sul Terzo Reich è stata profonda e incessante. Nella mostra non vi è nessuna sopravvalutazione delle pur presenti forme di resistenza provenienti dall’establishment: nessuna enfasi sulla Rosa Bianca o sul Piano Valchiria, il tentativo di colpo di stato e di attentato a Hitler del 1944, gesto tardivo e peraltro fallito. Nessuno sconto insomma, ma una nuda elencazione di fatti dopo alcune premesse, con un ampio corredo di giornali, altre pubblicazioni, manifesti, pamphlet di propaganda politica, tutta l’iconografia, i simboli, la coreografia che accompagnava le manifestazioni del regime. E ovviamente le immagini, non molte però, non usuali e senza la voce di Hitler, tranne che nella parte finale dove alcuni suoi discorsi venivano diffusi da altoparlanti a un livello di audio abbastanza basso.  

L’effetto su un non tedesco, almeno per quanto mi riguarda, è stato molto forte. Mi sono reso conto (è banale dirlo, ma non ci si pensa), che in fondo tutto quell’armamentario l’avevo visto da lontano, in filmati d’epoca cattivi, sempre in bianco e nero, dove apparivano sempre le stesse immagini. Trovarsi a contatto diretto, poter toccare le bandiere, i labari, vedere dal vivo la croce uncinata nera in campo rosso, la stoffa delle divise, i loro colori, non è la stessa cosa che vederli da lontano. Certo, in questa mostra mancava la rappresentazione del gigantismo oceanico delle mobilitazioni di massa, a parte la fotografia della striscia di luce creata dalle fiaccole accese durante la sfilata sulla Unter den Linden, subito dopo la nomina di Hitler alla cancelleria. La vista da vicino dei simboli più noti del regime nazista mi ha fatto percepire diversamente molti aspetti, soffermare su particolari che sfuggono se osservati a distanza e la prima riflessione che mi è balzata subito alla mente è che in tutta quella coreografia e anche nell’uso dei colori era presente un elemento kitsch che appartiene alla cultura tedesca (il termine è nato qui); tanto da essere presente anche oggi, quando assume aspetti favolistici e innocui, pateticamente ironici e auto ironici: certe trasmissioni televisive del sabato sera sono assolutamente imperdibili sotto tale aspetto. Tale elemento kitsch, nelle raffigurazioni pittoriche, in certi busti del Führer scolpiti da artisti mediocri, in certe sue immagini ravvicinate, diviene maschera grottesca, che raggiunge talvolta effetti di involontaria comicità. Chaplin ha colto davvero in modo profondo e non caricaturale questo effetto di maschera. I baffetti che sembrano sempre posticci, oppure come se gli colasse costantemente il sangue dal naso, la scriminatura dei capelli talmente precisa ed evidenziata (come se la mamma gli scolpisse ogni giorno la riga dei capelli prima di lasciarlo uscire di casa), sono irresistibilmente comiche; oppure l’occhio che guarda sospettoso nella macchina da presa, con uno sguardo che sembra l’imitazione mal riuscita di Buster Keaton. Mentre negli altri gerarchi prevale sempre un aspetto greve e tragico (terribile ascoltare la voce di Goebbels, il suo tono isterico e forzato fino al parossismo, più che non quella di Hitler stesso, capace di usare anche i toni pacati), la comicità involontaria è quasi sempre presente nel Führer. Il comico ha un rapporto assai contiguo con il tragico e basta poco per scivolare da una parte o dall’altra della lama del fine rasoio che le separa. Per i greci non era ovviamente così e neppure per gli antichi dei del pantheon germanici, cui Hitler ha preteso d’ispirarsi. Il nazismo fu anche rappresentazione teatrale che dalla scena ha preteso di andare prima per le strade e poi nella vita di ogni giorno. Se l’idea di trasporre le antiche mitologie nel mondo moderno significa darne una rappresentazione grottesca e caricaturale, l’idea di trasformarle in pratiche politiche produce mostri; ma sono mostri che hanno una loro estetica ipnotica, come aveva ben compreso Walter Benjamin quando denunciava il processo di estetizzazione della politica.

Dalla mostra alla musica di Wagner il passo è breve. Scelto dai nazisti come loro vate musicale, ancora oggi sono in tanti a considerarlo un predestinato al nazismo, anzi una sorta di nazista ante litteram. Il povero Wagner morì nel 1901, sarebbe bene ricordarlo ogni tanto! Naturalmente l’equazione che i nazisti pensarono è semplice da stabilire, tanto semplice e semplicistica che c’è da domandarsi per quale motivo abbia avuto tanta fortuna anche presso molti che nazisti non erano e non sono. A parte la questione che Wagner fosse un antisemita convinto (ma erano in molti a esserlo in Europa e non solo in Germania), è il culto della potenza ciò che i nazisti sentirono o pensarono di sentire nella sua musica e naturalmente il riferimento tematico costante alla mitologia germanica e alla sua grandiosità guerriera, il secondo addendo di un’addizione la cui somma creò il mito wagneriano che conosciamo. Wagner però, era un maestro ineguagliabile del sublime, talvolta patetico, mentre l’esagerazione dei toni lo fa talvolta deragliare. I suoi eccessi e forzature s’avvertono subito a un ascolto non superficiale e c’è molta più potenza, nel senso che i nazisti attribuivano a Wagner, nel frammento musicale di Richard Strauss Così parlò Zarathustra, quando viene eseguito con tutti i crismi da orchestre classiche, oppure nell’assolutismo musicale dei Carmina Burana di Orff, che non in certe fanfarate wagneriane, dove l’eccesso finisce per travolgere tutto, anche la potenza, diventandone caricatura involontaria.

Una notazione particolare, per ritornare alla mostra, meritano i tre acquarelli di Hitler esposti. Piccoli quadri minuscoli, sempre rappresentazioni di scene rurali semplicissime, quasi delle miniature. Hitler amava una ruralità dove è però assente l’essere umano: ci sono le case, i fienili, ma più di tutto colpisce una lindezza maniacale, un ordine perfetto, impossibile da ottenersi in campagna se solo uno vi ha messo piede qualche volta. È anonima la campagna nei suoi quadretti, mentre siamo abituati ad associare l’anonimia alla città moderna e tentacolare che Hitler voleva teatro di progetti faraonici, di una grandiosità smisurata. Anche Walter Speer (l’architetto del regime, le cui realizzazioni sono state così acutamente analizzate da Elias Canetti), che cercò di concretizzare i deliri architettonici del suo capo, scambia la potenza con l’accumulo: niente a che vedere con le piramidi egizie o azteche, tirate su da uomini a braccia, ma la pura rappresentazione di una potenza tragicamente travisata e dunque senza vera tragicità; solo vuoto gigantismo, horror vacui, che apre le porte alla distruzione e all’autodistruzione. 

Sono tornato al Museo ebraico dopo avere visto la Mostra. C’ero stato una prima volta appena arrivato, nel gennaio del 2008. L’impressione generale non è mutata e si può riassumere nella sproporzione esistente fra l’orrore e la sua rappresentazione: lo scarto resta incolmabile anche se in alcuni momenti la distanza si accorcia. Forse sarà proprio per questo che la storia si può ripetere: siamo in grado di produrre l’orrore e la divinità ma poi non siamo in grado di rappresentarli e senza rappresentazione non vi è introiezione definitiva del numinoso, che solo se attraversato veramente può forse essere domato. Omero o chi per lui lo fece nell’Odissea quando fece fare a Ulisse, alla corte di Alcinoo, quello che nessuno da lui si aspetterebbe: rivelare il proprio nome. Quando può farlo però? Nel momento in cui un altro gli racconta le sue gesta: messo davanti alla narrazione delle sue responsabilità Ulisse crolla e scoppia a piangere dicendo:

“Sono io la causa di quei lutti.”

O forse è proprio il Museo a essere poco adatto a rappresentare una tragedia storica come questa e nonostante sia tutto perfetto in quello di Berlino: ricostruzioni accuratissime, dovizia di materiali, analisi storica severa. Tuttavia, capita raramente che si sia colti veramente a disagio, cioè dalla consapevolezza che dietro quella fotografia pregevole artisticamente, dietro quelle linee che s’intersecano con una mirabile capacità compositiva, dietro il dipinto di un artista, si apre l’abisso di un destino difficile da decifrare.

Solo in tre momenti ci si avvicina a un disagio più accentuato: quando si finisce nei tre vicoli ciechi del museo, dai quali si può uscire solo tornando indietro. 

Il primo è il giardino degli esuli. Si accede a esso tramite una porta neppure troppo in vista e si entra in un quadrilatero di pietre altissime poste in verticale, con stretti sentieri fra l’una e l’altra e un perimetro che avvolge l’intera costruzione. Il contrasto fra un luogo idillico come il giardino e le costruzioni in muratura che ricordano quelle a cielo aperto di un altro museo della Shoah nei pressi della porta di Brandeburgo, costruite dall’architetto Eisenmahn, è soffocante. Né prigione né giardino, sembra di stare  nell’ora d’aria di un detenuto.

Il secondo vicolo cieco è la torre: alla fine di un corridoio si entra in un edificio dalle pareti altissime che si restringono in alto. Il soffitto è nero e la poca luce entra da una bocca di lupo a destra. Non vi è niente altro nella torre, nessun arredo, solo la forza soverchiante delle mura e del buio. Infine, il terzo vicolo cieco conduce a un’installazione dell’artista israeliano Menashe Kadishman, intitolata Foglie morte. La lettura della sobria spiegazione è disturbata da un continuo e sinistro clangore, di cui subito non si afferra natura e provenienza: è un suono strano, ferrigno, ma potrebbe provenire anche da una mazza che percuote qualcosa di metallico. Lo si capisce subito dopo avere abbandonato il pannello con l’introduzione. Il visitatore deve percorrere un sentiero abbastanza largo cosparso di pezzi di ferro dallo spessore piuttosto consistente, tutti di forma rotonda e di diverse dimensioni. Tutti i pezzi hanno tre buchi che rappresentano in forma stilizzata occhi e bocca. Sono i teschi calpestati da chi passa, a produrre il suono. Mi vengono in mente le corrusche armi foscoliane mentre anch’io mi avvio sullo scomodo percorso: non dico che si possa cadere, ma il disagio è grande. Guardando bene quei teschi che sto calpestando mi sembrano tutte versioni diverse dell’urlo di Munch o crani di decapitati. Lo sgomento è forte e mentre torno indietro vedo che molti rimangono interdetti, alcune donne si fermano e osservano senza intraprendere il percorso.

Menashe Kadishman, l’artista israeliano, è nato a Tel Aviv nel 1932. Come tutti avrà avuto amici, conoscenti e parenti che sono finiti nei campi di concentramento, ma non ha vissuto la tragedia come chi ne è stato vittima diretta. Sarà forse per questo che, almeno per me, la sua opera è fra tutte quello esposte, la più inquietante e fra le più inquietanti fra quelle che mi sia capitato di vedere sulla Shoah? La sua distanza dalla cosa in sé, non rappresentabile, gli ha consentito questo? Non ho risposte certe, solo un interrogativo da porre e poi la percezione di un’opera d’arte anche nel caso felice in cui tutti si sia d’accordo nel giudicarla valida, è sempre tremendamente soggettiva, sebbene fosse visibile nello sguardo dei presenti insieme a me lo sgomento e l’imbarazzo. Quello che tuttavia manca è l’elemento catartico, almeno io non l’ho minimamente avvertito. Rimane la sproporzione, l’irriducibilità della tragedia.

La mia rassegna si conclude con un ritorno alla resistenza tedesca, perché su di essa c’è molto altro da dire, ora che qualche libro è finalmente venuto alla luce per ricostruire meglio tutto quanto è accaduto in quegli anni tragici. Dobbiamo allora partire dalla fine degli anni ’20 – diciamo dal 1929 – fino al 1934. La resistenza, in Germania, si colloca prima e non alla fine come è accaduto in tutte le altre nazioni europee. Durante gli anni e anche prima e cioè dalla fine degli anni ‘20, le milizie comuniste e socialiste si confrontarono sempre, anche militarmente, con polizia ed esercito e poi dagli anni ‘30 anche con le milizie naziste. In realtà ne sapevo poco pure io ma una sera, dopo un incontro letterario alla libreria italo-tedesco-brasiliana in Tor Strasse (una bizzarria tipicamente berlinese), una delle relatrici mi invita a fare una visita in un birrificio lì vicino. L’edificio di mattoni dalla colorazione tipica, imponente e  bellissimo, nasconde molti segreti. Ci avviciniamo a una parete e lei mi mostra dei segni di pallottola: mi spiega che sono quelli sparati sono  durante gli scontri armati degli anni ‘20-30 e la documentazione lo conferma. Il quartiere è quello di Prenzlauer, più vicino alle stazioni di Bernau e Rosa Luxemburg Platz. Ognuno aveva le sue birrerie di riferimento, gli scontri avvenivano ovunque. La resistenza fu attiva fino a buona parte del 1934 quando Hitler era già al potere. L’ultimo baluardo a cadere fu il Babylon, proprio in Rosa Luxemburg Platz, che fu chiuso nel ‘34. Tuttavia, nel 1936 in occasione delle Olimpiadi, ci furono grandi scioperi e azioni di sabotaggio in tutta Berlino e altrove, tanto che il regime fu costretto a concedere aumenti salariali. La resistenza tedesca, in buona sostanza, fu annientata prima, ma molti riuscirono a fuggire e furono attivi nelle resistenze europee come già si è detto. Tutto questo, per fare giustizia una volta per tutte della narrazione largamente incompleta sulle colpe collettive del popolo tedesco. Il Nazismo godette di un larghissimo consenso, nessuno può negare questo, come del resto il Fascismo in Italia: ma tale risultato fu ottenuto anche grazie all’annientamento fisico delle opposizioni, mentre in altri paesi, la clandestinità gettò le premesse della resistenza futura. Un’ultima considerazione riguarda Berlino. Ben 1500 ebrei decisero, nel pieno della guerra, di non lasciare la città e di non darsi alla fuga: non furono denunciati. Si può immaginare cosa potesse voler dire allora non denunciare un ebreo, eppure a Berlino avvenne anche questo e 1500 sono davvero tanti. Se nessuno fu denunciato significa che la rete di protezione intorno a loro e non solo resistette a delazioni e pressioni.

Museumsinseln Berlin

DIARIO BERLINESE: SECONDA PARTE

Berlin. Alexander Platz

26 Settembre 2010.

Il ritorno a Berlino coincide questa volta con il primo giorno di scuola. Mi sono iscritto a un corso di tedesco. Arrivato ieri mi ritrovo oggi catapultato in un’aula insieme ad altri e altre giovani, ben più giovani di me. Infatti mi guardano con curiosità. Proprio durante la prima mattina ho avuto l’ennesima conferma che Berlino è un luogo del tutto particolare anche per i tedeschi. La nostra insegnante, di Monaco di Baviera e assai severa in tema di regole sociali, almeno all’apparenza, ci ha raccontato un aneddoto molto comune i Germania. Quando in una famiglia ci sono un figlio o una figlia un po’ matti (verrükt), che non vuole dire semplicemente pazzerellone, ma qualcosa di più (in italiano potrebbe stare per trasgressivo, senza regole o anche matto), i genitori e specialmente le madri lo apostrofano così: “Figlio mio, tu sei pazzo, devi andare a Berlino.”

In effetti la città ha goduto di privilegi assai significativi, specialmente per la popolazione giovane e che hanno contribuito ad attirare verso di essa, uomini e donne ribelli. Una misura per tutte: chi si trasferiva a Berlino era esentato dal servizio militare. Berlino era una città assediata anche dopo la fine del blocco sovietico: il suo ripopolamento però era necessario per cui occorreva incentivarlo con misure e bonus di varia natura. Questo favorì il trasferimento nella città di oppositori trasgressivi di ogni tipo. Le occupazioni dei centri sociali erano più che tollerate e costituivano una sorta di welfare aggiuntivo per chi arrivava in città. Tutto questo rese appetibile Berlino anche per molti giovani europei e questo ne faceva una città che agli occhi di molti tedeschi appariva senza regole.

7 Ottobre

Ieri sera il canale di storia ha mandato in onda un lunghissimo servizio unico nel suo genere e che finora non avevo visto neppure qui. Si tratta di una ricostruzione degli ultimi mesi di Guerra, dal febbraio del ‘45 fino al 9 maggio, data in cui l’Ammiraglio Donetz firmò la capitolazione della Germania senza condizioni. Niente di strano fin qui, solo che la ricostruzione storica era giorno per giorno! Il materiale cinematografico, in larga parte di fonte americana, era basato sia su documentazioni giornalistiche di inviati al fronte al seguito delle truppe, sia da filmati di cine operatori improvvisati, soldati stessi incaricati dagli ufficiali. Un materiale dunque diversificato: a volte s’intuiva una totale assenza di regia, in altri casi il contrario, una regia molto sorvegliata che aveva lavorato di tagli e montaggio in modo assai raffinato. L’accompagnamento di voce, sempre in tedesco, faceva pensare a un lavoro d’equipe successivo, anche se ogni tanto il commento fuori campo era in inglese e poi veniva tradotto. Se ne deduceva in generale che la parte tedesca avesse accettato del tutto tale documentazione ritenendola fedele in linea di massima ai fatti. Il mio giudizio di spettatore è assai problematico. Difficile valutare la natura dei tagli: non tanto perché la regia edulcori la guerra dal momento che ne mostra tutti gli orrori seppure senza indulgere in immagini che oggi definiremmo pulp, se non in rarissimi casi. Non trascura di mostrare atti di violenza gratuita da parte delle truppe alleate, anche verso soldati che si erano già arresi. L’effetto generale però appare sconcertante perché filmare ogni giorno di guerra dal febbraio rivela anche un atteggiamento un po’ maniacale. Tre particolari mi hanno colpito e in attesa di vedere le prossime puntate nelle prossime sere. L’assenza di scene di massa all’arrivo delle truppe americane come invece avveniva in Italia, il profluvio di bandiere bianche in segno di resa, sventolate non solo dalle truppe che si arrendevano, ma anche dalla popolazione civile; infine le poche immagini di campi di concentramento. Una sola scena inquadrava i morti accatastati e magrissimi che ci siamo abituati a vedere in altre immagini della Shoah. Naturalmente può essere che trattandosi di materiali mostrati molti anni dopo, la selezione abbia tenuto conto di molti altri documentari, ma se rimaniamo al discorso della presa diretta, si rimane lo stesso perplessi; ma per dare un giudizio definitivo su questo aspetto, attendo che il filmato arrivi a Buchenwald, il solo campo collocato nella parte ovest della Germania,

8 Ottobre.

L’uso della bandiera bianca in segno di resa da parte della popolazione civile, continua a sconcertarmi. Difficile da interpretare. Da un lato potrebbe significare che nell’avanzata delle truppe città per città e con i combattimenti strada per strada era difficile distinguere fra soldati e civili asserragliati nelle case, per cui tutti dovevano considerarsi in qualche modo belligeranti e quindi bersagli potenziali. Questo però contrasta con un altro particolare. L’avanzata delle truppe anglo-americane in territorio tedesco, pur lentissima, non sembra essere stata contrastata più di tanto dopo il fallimento della controffensiva tedesca a ridosso dei confini con Belgio e Olanda. Le scene mostravano interi plotoni che si arrendevano, quelle che hanno filmato veri e propri combattimenti sono poche. O i tagli sono stai fatti in modo tale da non riprendere la resistenza dell’esercito tedesco ai fini di mostrane la rotta più di quanto non fosse, oppure le cose sono andate davvero così, la tenuta della Wehrmacht fu poca cosa; ma questo non spiega (da un punto di vista militare), la lentezza dell’avanzata in territorio tedesco. L’unica supposizione è che ci fosse un accordo con l’Unione Sovietica per cui le truppe anglo americane non dovessero superare certi confini e specialmente lasciare alle truppe sovietiche il compito di entrare a Berlino. Yalta c’era già stata e la famosa mappa consegnata da Churchill a Stalin, con i confini d´Europa già tracciati e definiti quanto a sfere di influenza, era stata vistata dal leder sovietico con un certo entusiasmo, anche se poi – alla richiesta del leader britannico di esserne lui il custode – l’astuto georgiano aveva opposto un cortese rifiuto.   

9 Ottobre.

Oppure la spiegazione è un’altra e cioè che quella porzione di popolo tedesco mostrata dai vincitori, doveva apparire sconfitto come i soldati: in altre parole, i tedeschi tutti erano schierati con il regime e dunque alzavano la bandiera bianca in segno di resa perché si sentivano soldati come chi effettivamente combatteva. In effetti, i volti dolenti e sconfitti della popolazione avevano la stessa espressione delle truppe in divisa che tenevano le mani alzate. Un popolo dunque compatto che si sente partecipe della stessa sconfitta? Solo in una scena si vedono tre donne sorridenti che sventolano la bandiera bianca e che sono del tutto felici di vedere apparire le truppe alleate. Se tagli ci sono stati, eliminando del tutto le scene di entusiasmo così comuni in Italia è evidente che le ragioni andranno cercate non nella Guerra in corso, ma nel disegno del dopo. Accreditare del tutto l’asservimento del popolo italiano al Fascismo era impossibile perché la Resistenza era stata troppo forte per permetterlo: gran parte delle città erano state liberate prima dell’arrivo dei liberatori. In Germania le cose andarono diversamente ma oggi sappiamo anche che ci sono forti indizi che andarono così anche perché fu cancellata la memoria della resistenza tedesca, che pure vi fu, sebbene minoritaria in Germania ma niente affatto residuale nel resto d’Europa. 2000 disertori tedeschi hanno combattuto nella Guerra di Spagna e altri combatterono nelle resistenze europee e anche in Italia e in Unione Sovietica. Per accreditare il mantra della colpa collettiva del popolo tedesco bisognava mostrane il volto dimesso della sconfitta, le bandiere bianche in mano alla popolazione civile, significavano anche questo. Il resto fu cancellato in fretta e su di esso fu imposto il silenzio. Che Buchenwald fosse stato liberato dalla popolazione locale e dagli insorti del campo stesso è stato cancellato per decenni dalla storia tedesca, mentre è stata accreditata e alquanto sopravvalutata una presunta resistenza di settori cattolici e alto borghesi (Stauffenberg, la Rosa Bianca), perché si doveva occultare che c’era stata in Germania anche una attiva resistenza comunista che non aveva mai smesso di agire. In sostanza gli anglo americani, mentre stavano finendo di combattere una guerra ne avevano già iniziata un’altra. Al comune di Buchenwald, che aveva già eletto i propri rappresentanti dopo l’insurrezione, i liberatori americani imposero come borgomastro un vecchio rottame conservatore, cancellando manu militari la decisioni popolari e così avvenne da altre parti. Anche in Italia, peraltro, le trame atlantiche cominciano nel ‘44, quando si capì che la Guerra con il nazifascismo era ormai vinta e si trattava solo di una questione di tempo.   

12 Febbraio 2011.

Va in onda in prima serata un programma dal titolo Nicht alles war schlecht. Il canale Phoenix si occupa di grandi inchieste e il titolo m’incuriosisce: si potrebbe tradurre con non tutto andava male oppure anche con non tutto era cattivo. Quando le prime immagini e le fogge dei vestiti mi riportano agli anni ’70 e le riprese inquadrano Berlino intorno ad Alexander Platz, comprendo subito, prima ancora che si cominci a parlare, che l’oggetto dell’inchiesta è l’ex DDR. I servizi sulla Repubblica Democratica tedesca si sono intensificati negli ultimi anni, ne ho visti diversi, però capisco che questo reportage avrà dei toni e degli accenti differenti dal solito e infatti sarà così. Peraltro, un titolo così esplicito e senza punto interrogativo lo faceva presupporre. Il taglio della ricostruzione era l’immersione nella vita quotidiana, per poi da lì risalire all’economia, alla politica, alla struttura dello stato e alla sua ideologia. Come sempre avviene in questi programmi, il reportage s’interrompeva per far parlare alcuni protagonisti che esprimevano opinioni contrastanti: seguivano poi i commenti da studio, affidati a due diversi storici con approcci differenti. Infine, l’inchiesta si avvaleva di veri e propri momenti di sceneggiatura teatrale, dove venivano messi in scena simulazioni di situazioni in cui la vita comune delle persone entrava in conflitto con l’ideologia ufficiale. In una, per esempio, uno studente delle superiori viene trattenuto alla fine delle lezioni dall’insegnante che lo redarguisce aspramente per la foggia dei suoi vestiti e i capelli lunghi e le scarpe troppo occidentali. Mi stupisco, perché nelle scene precedenti, le immagini di concerti rock a Berlino est inquadravano masse urlanti di giovani niente affatto diverse da quelle delle piazze occidentali degli stessi anni; anzi, veniva sottolineato come l’idea che il rock fosse bandito negli stati socialisti era più il frutto di propaganda che non di realtà. Seguendo il colloquio, capivo che il problema era in effetti un altro e cioè che lo stesso abbigliamento non poteva essere adoperato a scuola e in un concerto; un problema di decoro e di rispetto per lo studio e la funzione della scuola. In sé, la cosa poteva pure avere un senso, se non fosse che la minaccia esplicita che si intuiva durante la sceneggiatura, era quella di sanzioni talmente pesanti e non solo di natura amministrativa, da rendere il tutto quantomeno assurdo. Tornando al titolo: che cosa non era tutto da buttare? Qui l’inchiesta si affidava molto di più alle testimonianze e allora anche le più critiche insistevano su fattori che erano stati ricordati più volte e che da noi venivano presi per semplice propaganda mentre era anche di sostanza: la sanità gratuita, l’accesso allo sport e allo studio, una certa libertà nell’uso del proprio corpo che sfociava nel nudismo come pratica quasi abituale. Un pugile, in particolare, sottolineava fortemente questi aspetti, che non erano negati neppure dai più critici, senza trascurare peraltro la grande questione del doping di massa, spacciato per medicina sportiva. Niente di nuovo sotto questo aspetto, nel senso che il lavoro garantito (anche quando non serviva a nulla) e servizi sociali efficienti, erano gli aspetti del capitalismo di stato comuni a tutti i paesi del socialismo reale, con maggiore o minore efficacia sociale e certamente quelli della ex DDR efficienti lo erano, tanto che ancora oggi nelle parti più orientali di Berlino, per esempio, alcune di quelle istituzioni sono rimaste in piedi e continuano ad essere elementi di aggregazione e di resistenza al degrado. L’inchiesta, a questo quadro sociale che in alcuni momenti appariva (se riportato alle immagini di vita quotidiana), di una decorosa esistenza, un po’ grigia ma non diversa da quella delle società occidentali degli anni ’50, giustapponeva l’altro aspetto, quella della mancanza di libertà, di tutta una serie di restrizioni – alcune delle quali assurde – e per ultima, ma non all’ultimo posto, la presenza abnorme e ingombrante del muro. Fra questi due aspetti, anche in questa inchiesta, c’era un gap, un vuoto nel mezzo che non può essere colmato da un servizio giornalistico per quanto accurato e serio. Il vuoto cui alludo è quello di una riflessione più profonda e che faccia un bilancio non solo politico di quelle società ma anche antropologico e anche teorico, partendo anche da una domanda molto semplice: ma era proprio necessario tutto quell’apparato poliziesco per arrivare a quello che le socialdemocrazie nordiche avevano realizzato a partire dagli anni ’30, senza pagare gli stessi prezzi? La risposta a questa semplice domanda non è naturalmente semplice ma occorre affrontarla se si vuole rimettere al centro la proposta politica una società diversa da quella esistente, patriarcale e capitalistica, ma lontana (seppure in modi diversi), sia dal socialismo reale sia delle socialdemocrazie nordiche che hanno finito il loro ciclo propulsivo sia al loro interno, sia come eventuale modello di riferimento.

6 Ottobre.

I modi in cui la televisione e la stampa tedesca riferiscono delle vicende di Berlusconi, è emblematico per capire la mentalità diversa dei due popoli e delle due culture, ma è anche un indice del fatto che i tedeschi hanno verso di noi un atteggiamento di interesse continuo, che li affascina al di là della facile ironia cui a volte sui abbandonano. Era già accaduto con la bocciatura della proposta Augello che aveva fatto scrivere nei titoli dei telegiornale: Italienisch Senat wählt die Ausschluss von Berlusconi. Letteralmente: il senato italiano vota l’espulsione di Berlusconi. Lo stesso schema linguistico si è ripetuto alcuni giorni dopo con il voto della giunta. Berlusconi verliest Senats mandat: Berlusconi perde il mandato di Senatore. Entrambi i titoli sono basati sul concetto di conseguenza logica derivante da un atto già compiuto. Se la giunta del Senato ha tolto il mandato se ne deduce che Berlusconi è decaduto da Senatore. Il problema è che il concetto di conseguenza logica e della sua stringente consequenzialità viene esteso a una materia per sua natura controversa. In politica esiste la conseguenza logica stringente? Non sempre, neppure per loro e infatti dall’esito elettorale alla formazione del governo, i tempi si allungano anche qui. L’argomentazione che questo avviene perché la Merkel non ha la maggioranza assoluta, come viene scritto dai giornali italiani, è però una obiezione tipicamente italiana, che solitamente qui non ha alcun corso, dal momento che nessuno contesta la sua legittimità a governare. In altri momenti meno delicati di questo, il governo sarebbe probabilmente già nato. Rimane però  un fatto indubitabile. Anche per le caratteristiche della lingua tedesca, il concetto di conseguenza logica è fondamentale e discriminante rispetto alle altre culture e lingue europee.

2 Dicembre.

La morte di Christa Wolf sta passando in un silenzio piuttosto greve qui in Germania. La televisione le aveva dedicato un servizio tre settimane fa. Il mio tedesco non mi permette di capire se fosse un coccodrillo anticipato, la sensazione è che si trattasse di un reportage normale. Pochi i commenti alla notizia della morte e anche girando in rete fra quelli italiani prevale, tranne che in alcuni interventi (primo fra tutto quello di Rossana Rossanda sul Manifesto), una certa acidità. Tutti a ricordare la storia che è poi un falso: quella dei suoi rapporti con la Stasi. Christa Wolf ha ricostruito più volte come sono andate le cose. Non ha negato di essere stata contattata dal servizio, ma a fronte della sua reticenza è stata oggetto lei stessa di attenzioni e spiata. Ci sono personaggi ben più imbarazzanti nella ex DDR, che hanno saputo abilmente riciclarsi. La colpa di Christa Wolf è un’altra: non avere abiurato l’idea comunista pur prendendo tutte le distanze del caso (ma con le armi della critica e della riflessione e non con quelle della rimozione), dalla storia dei regimi orientali. Rossana Rossanda, sul Manifesto, aggiunge altre considerazioni assai acute. Su Wolf ha pesato anche il fatto di non essere amata dalle femministe, proprio perché s’era impicciata di cose come il comunismo. La sua mancata abiura, e la sua tranquilla resistenza, permettono di scoprire molti altarini. È stato divertente in questi giorni leggere che proprio coloro che parlano a proposito e a sproposito di autonomia dell’arte e dell’artista da ogni pensiero, ideologica ecc. rivendicando che solo l’opera fa testo, parlando di Wolf si siano completamente dimenticati dell’opera e abbiano criticato le sue scelte politiche. La Wolf scrittrice avrà tutto il tempo che vuole per tornare a imporsi. Ha saputo risalire alla mitologia greca in un modo originalissimo, lontana sia dai cliché della parodia sia della rivisitazione del mito in chiave postmodernista. Ha certamente attualizzato il mito, ma anche questa parola non le rende giustizia: può renderla a Dürremmatt e a Borges, ma non del tutto a lei. Credo che Wolf abbia cercato nel mito arcaico le radici di una possibile utopia e dunque lo ha proiettato nel futuro, facendone una fonte dinamica d’ispirazione non soltanto letteraria. È questo che rende diverse le sue Cassandra e Medea da altre. Lei interroga questi miti nelle loro parti opache, a volte come in Medea li riscrive completamente, presupponendo tutta un’altra storia che sottostà a quella conosciuta; ma non lo fa sempre, come se seguisse un programma di riscrittura dell’intera storia occidentale al femminile. Altre volte li interroga in modo riflessivo, senza approdare a un’ipotesi necessariamente alternativa. Bisognerà certo ritornare con altri e più affilati strumenti a ripercorrere la sua opera, ma non riesco a sottrarmi, anche in questo caso, dallo scriverne a caldo, in diretta con gli eventi, spettatore partecipe. Anche per il solo fatto di trovarmi qui a Berlino, la sua morte è un altro di quei segni che tirano la riga su un’epoca. Con lei muore una seconda volta la Germania Orientale e forse sono destinate finalmente a morire anche le polemiche, dopo questi brevi fuochi residuali. Il mondo del capitalismo reale nel quale viviamo ci trascinerà in nuove tragedie, ma il passato non ci serve a nulla in questo momento, anche perché a differenza di quello che ha fatto lei, molti altri hanno semplicemente abdicato e rimosso. La sua opera di grande scrittrice del secondo ‘900 potrà invece vivere più liberamente.