GRAND TOUR: IL CASENTINO E LA VALLE TIBERINA

Castello di Poppi

Nell’attraversare la Toscana in questo nuovo viaggio mi ritrovo a pensare che in Italia esistono luoghi che nel tempo hanno conosciuto maggiore o minore fama, senza che ciò implichi una minorità dal punto di vista architettonico, paesaggistico e artistico. Insomma, la provincia italiana non tradisce mai e il Casentino non fa eccezione. Per descriverlo da un punto di vista geografico parto da Arezzo, che costituisce una sorta di baluardo e confine a sud. Dalla città si snoda una lunga strada diritta che percorre una vallata che fiancheggia l’Arno, dove s’incontrano i paesi bassi o appena collinari: Subbiano, Bibbiena, Pratovecchio e Stia dove il Casentino finisce e la strada si protende in due diverse direzione: il Mugello, oppure il salto verso la Romagna in due diverse direzioni, Cesena e Forlì. In questo giro ci sono stati due sconfinamenti, sempre in provincia di Arezzo: Anghiari nella valle tiberina toscana e Monterchi. I paesi alti sono poco abitati e questa caratteristica regionale dell’intera Toscana, si ripropone qui in termini ancora più vistosi. Il silenzio è sovrano, a parte la strada a valle, dove il traffico è più intenso ma senza alcuna frenesia.

Nella zona imperversano molte sagre fra cui numerose quelle della polenta. Certo, siamo in settembre … ma ci sono più di 30 gradi; i cambiamenti climatici non sembrano entrare nell’orizzonte tematico degli organizzatori e anche questo è un segno dei tempi. Queste sagre ci riportano indietro negli anni, la Toscana fu uno dei primi luoghi che visitammo insieme Laura ed io. È passato molto tempo da allora e tanto altro. Questo viaggio è segnato dai ricordi e anche dalla tristezza: ci sono presenze e assenze fra di noi. Alla fine optiamo per la sagra di Subbiano, che ricorda le vecchie feste dell’Unità e delle case del popolo, dove andavano sempre in estate durante i nostri soggiorni a Massa Marittima: anche per Nicola e Ulisse erano appuntamenti assai gradevoli. Il clima però è solo apparentemente lo stesso. I volti sono i medesimi, ma più smarriti e anonimi. Il dato più vistoso però è l’assenza di ogni richiamo politico. È rimasta la festa, senza più neppure la consapevolezza che un tempo era la politica a unire come un collante di valori e a darle quel profumo che oggi non si avverte più. Né arcaica, né moderna, né proletaria, né borghese.

L’escursione a Monterchi aveva uno scopo preciso: vedere La madonna del Parto di Piero della Francesca. L’installazione si trova in un museo molto bene allestito e non troppo frequentato. Si paga un ingresso del tutto congruo per le notevoli risorse tecnologiche del museo, che permettono una visione del quadro in ogni dettaglio possibile. Piero è il trionfo della compostezza, della razionalità delle linee, della sezione aurea, dell’equilibrio che porterà in pieno Rinascimento alle opere pittoriche e architettoniche più celebrate di Raffaello e di Bernini. Che dire però di tale compostezza? L’ammirazione, per quanto mi riguarda, non riesce del tutto a superare il disagio della perfezione. La memoria va allora ai versi di Pound, più precisamente al Canto dell’Usura dove abbondano le metafore pittoriche e linguistiche. Queste ultime rimandano al medioevo e infatti l’inglese che il poeta usa è quello arcaico e anche per quanto riguarda la pittura predominano figure apparentemente minori come Pietro Lombardo, oppure appartenenti al primo Umanesimo, mentre il poeta sembra tenersi lontano dal pieno Rinascimento. Tuttavia, Piero è citato nel testo e sembra una nota stonata: cosa ci fa tutta quella perfezione in un testo cupo e governato da un senso di sventura? Il poeta lo cita come esempio di una pittura che stride con la pratica dell’usura, ma storicamente è proprio il contrario. È il paradosso di Pound, che insegue un Cristianesimo delle origini senza rendersi conto che dall’invenzione del Purgatorio in poi quel mondo era finito ed era il mecenatismo dei Papi, nutrito dal traffico delle indulgenze, a rivestire le cattedrali di opere come quelle di Piero e altri.

Ritroviamo una eco di quel Cristianesimo arcaico a Chiusi della Verna e specialmente all’eremo di Camaldoli. Ci eravamo stati molti anni fa e quella volta Laura ed io riuscimmo persino a parlare affabilmente con uno dei monaci. Erano tempi di apertura e i monasteri offrivano celle a chi voleva trascorrere un periodo di vacanza e meditazione anche per non credenti. Da una rapida ricerca vedo che tutto questo è ancora possibile, seppure con regole più stringenti, ma anche con l’offerta di corsi di yoga e vari tipi di meditazione. Nell’elenco dei monasteri aperti, però, ritrovo la Verna, ma non Camaldoli. La dimensione eremitica è più accentuata in quest’ultimo, mentre nel primo prevale di gran lunga uno degli aspetti del francescanesimo: la convivialità comunitaria, sobria, a tratti severa, ma pur sempre comunità. Qualcosa della severità di entrambi luoghi mi ha ricordato pure Viterbo, anch’essa una città dove i fasti di un Cristianesimo alto medioevale sembrano ancora relativamente intatti.

L’Italia è piena di castelli e anche in questo il Casentino non fa eccezione. Lo stato di conservazione del borgo medioevale e relativo castello di Poppi è invidiabile, un vero gioiello. Il castello è di proprietà dei Conti Guidi, una delle tante famiglie nobiliari italiane, meno paludata di altre, ma il cui lascito è davvero prezioso. La loro storia affonda le radici nelle mille contese altomedioevali, sempre difficili da ricostruire; ma per questo trovo assai esauriente l’opuscolo davvero pregevole messo a punto dal ministero dei beni culturali: un’altra meritoria impresa è la fondazione dell’ecomuseo del casentino con il coinvolgimento delle amministrazioni locali e la pubblicazione dell’opuscolo illustrativo, altrettanto prezioso.

Vale la pena di notare come i Guidi fossero dalla parte ghibellina e una particolare menzione merita allora il busto di Dante conservato nel castello e che depone a favore dei famosi versi di Foscolo indirizzati al poeta, ghibellin fuggiasco. Lo stato di conservazione del castello è il frutto di un’attenzione che si è tramandata per generazioni e che è arrivata fino a noi grazie anche alla politica del Granducato e poi del Ministero. Basti pensare che nella torre del castello si svolsero i primi esperimenti di parafulmini in Italia.

Anghiari ha un fascino un po’ diverso rispetto alle altre località. Il luogo ha una bellezza del tutto particolare, con una via centrale scoscesa, a cui lati ci sono locali e negozi. Da lì si può ammirare la vallata. Anghiari è tante cose, ma lascio per ultima la famosa battaglia perché in fondo la sua notorietà recente ci riporta a tempi assai prossimi e a un’idea ambiziosa e originale proposta da Duccio Demetrio e ripresa da altri studiosi e associazioni fra cui il gruppo Abele: Il progetto autobiografia, che proprio in Anghiari ha il suo centro più importante di iniziative e documentazione. Tale idea s’inseriva in un discorso più ampio che riguarda la microstoria, cioè una memorialistica che farebbe la gioia di Walter Benjamin nel senso che ricalca un modo di fare storiografia da parte dei cronisti medioevali che nel limite del possibile non distinguevano fra gradi e piccoli eventi ma registravano quanto più possibile nei loro scritti. Il progetto autobiografia non è dunque semplicemente la ricostruzione memorialistica di vite comuni da parte degli stessi protagonisti che la scrivono e non è neppure un prendersi cura di se stessi, ma diventa un momento della storia antropologica e del costume di un epoca o di una comunità. Negli stessi anni e cioè nel passaggio di millennio, ricordo alcune delle riviste – di impronta più marcatamente storica – che svolgevano la stessa funzione di memorialistica locale: per esempio Altro che Mestre. Nel tempo forse questi progetti si sono un po’ arenati, forse per un eccesso di dispersione, ma la possibilità di una memorialistica storica che filtra i grandi eventi facendoli passare per le vicende di singoli e comunità, mi sembra iscriversi in quel grande progetto degli Annales, che conferma nel tempo la sua grande vitalità.

Infine, il Museo della battaglia: molto dettagliato, con riproduzioni dei vari schieramenti e tutto quello che ne consegue. La sensazione che provo di fronte a queste ricostruzione è che, pur ben fatte e con dispendio di strumentazioni tecnologiche sempre più raffinate, alla fine sono tutte uguali e molto spesso indicano che chi intraprende una guerra di solito la perde. Perché allora?  

Il viaggio volge al termine e il pensiero ritorna alla provincia italiana che non tradisce mai ma è pure il luogo in cui meglio di qualsiasi altro la nostra vita italica precipita in caduta libera nell’oblio. Se nell’Odissea la terra dei Lotofagi era circoscritta in un’isola, le micro regioni italiane svolgono la medesima funzione su larga scala. Si smarrisce il tempo in questi luoghi, tutto appare attutito e lontano. È la stessa atmosfera che mi parve di cogliere a Venezia nella parte lagunare più estrema e lontana dall’eccesso turistico: il Lido degli Alberoni e la frazione di Malamocco. Del resto lo abbiamo sperimentato in questi giorni. L’intuizione quanto mai preziosa di Ulisse che ha pensato di portare con sé le carte da gioco, ha permesso di fare tardi la sera fra buona cucina, conversazione rilassata, niente televisione, poca radio e silenzio. La sensazione è di essere stati per una settimana nella vita postuma di luoghi che avendo avuto troppo nel loro passato, sono rimasti alla fine immobili in quello che ne era rimasto. Forse la medesima esperienza la provarono gli abitanti di Troia e di Cartagine che sopravvissero ai fasti precedenti e alle successive distruzioni. Rimasero lì dove erano, rifiutando di andarsene chissà dove a inseguire nuove idee di grandezza … poi, si dimenticarono di tutto.

Camaldoli

DIARIO BERLINESE: SETTIMA PARTE.

Treptower Park Berlin

Introduzione

Il titolo di quest’ultima tappa del diario berlinese è quello della mia prefazione al libro Doppia esposizione. Berlin 1985-2015 di Natascia Ancarani, Edizioni del foglio clandestino, Sesto san Giovanni 2015.

Il testo fu scritto nel 2014. Non ho cambiato una virgola del testo, ma esso necessita di qualche riflessione introduttiva. A rileggerlo oggi mi trovo io stesso in una strana posizione. Se guardo ai paragrafi conclusivi i motivi di allarme sul futuro lì indicati sono senz’altro da confermare, ma le ragioni per cui si sono addirittura aggravati sono diverse da quelle che si potevano ipotizzare allora. Il tema dominante, negli anni che vanno dal 2010 in poi e fino alla sconfitta del tentativo compiuto da governo Tsipras di cambiare radicalmente le regole europee, era molto chiaro: riuscirà l’Unione Europea a rimanere in piedi? L’euro è destinato a durare oppure no? Una prima risposta venne dal famoso discorso di Draghi del 2012 – Whatever it takes – ma poi nel 2013 fu fondata Alternative für Deutschland e sempre durante quell’anno giornali sia tedeschi sia europei si ponevano un quesito: cosa accadrebbe se la Germania decidesse di uscire unilateralmente dall’Euro? Erano solo dei sondaggi per capire quali reazioni suscitava una tale ipotesi o qualcuno in Germania ci pensò davvero? Sia come sia, questo era il tema dominante. La prefazione non ne parla esplicitamente ma le preoccupazioni espresse nel finale derivavano da quel clima. Sempre nel 2014 accadde anche qualcosa d’altro, che in quel contesto fu relegato un po’ in sordina: il colpo di stato in Ucraina, l’assalto ai sindacati da parte delle forze più reazionarie ucraine, la fuga del presidente Victor Janukovyč e poi alla rivolta del Donbass. Poi nel 2020 il Covid. 

BERLINO FUTURA

Berlino è stata una città mito dal 1989 in poi. Lo era anche prima, a dire il vero, ma per ragioni talmente diverse, tanto da sembrare persino un luogo differente.

La storia della città, però, è proprio questa dalla seconda metà del 1800 in poi, cioè da quando è diventata così importante e tragicamente decisiva per la storia tedesca ed europea.

Il primo spunto per scrivere questa introduzione lo trovo proprio nella giovinezza di questa metropoli.

Le grandi città mediterranee sono segnate dal tempo, dalla storia che si portano sulle spalle, per non parlare di quelle del vicino Oriente. Damasco ha più di tremila anni di vita, Roma quasi tremila, mentre le città del grande Nord sono recenti, alcune appena nate. Berlino è fra queste, il monumento più antico della città risale al 1700, il fazzoletto di terra (quasi un’isola) che si trova a fianco del Municipio della città, è un quartiere fra i più antichi, ma le targhe portano date che risalgono alla seconda meta del 1700. Berlino è la modernità per eccellenza, l’unica città europea – si dice solitamente – ad assomigliare alle metropoli americane. Storia davvero curiosa, che dimentica un particolare importante e cioè che si tratta del contrario: furono gli architetti del Bauhaus, nei favolosi anni ‘20, a inventare l’architettura moderna a Berlino per poi portarla oltre Atlantico dal 1933 in poi, in fuga dalla Germania hitleriana.

La fine della guerra europea secolare che possiamo in fondo fare iniziare nel 1914 e finire nel 1989, come ormai anche qualche storico comincia a sostenere, segna una netta cesura: dall’anno della caduta del Muro Berlino è un’altra città e produce un mito diverso dai precedenti. Di esso, nell’ampia narrazione di Natascia Ancarani c’è tutto: le sue belle e puntuali descrizioni sono anche una piccola storia e un’utile guida. Che altro potrei aggiungere al suo lavoro che non sia già detto da lei, sebbene sia io stesso uno dei tanti che questa città non la vivono più da turista ma ci abitano per lunghi periodo dell’anno? Allora mi sono detto che forse l’unico modo serio modo per farlo è cercare di avanzare qualche ipotesi sul futuro, non più così tranquillo, e vederlo sullo sfondo dell’Europa di oggi e proprio a ridosso di una svolta, perché le elezioni europee di maggio sono state differenti da tutte quelle che le hanno precedute.

Le cose a Berlino hanno cominciato a cambiare da qualche anno, la spinta propulsiva generata dalla fine della guerra cosiddetta fredda e dall’unificazione tedesca si è esaurita. La città ha goduto per vent’anni e oltre di finanziamenti colossali, è stata rifatta in diverse parti, a Est in particolare, sebbene la sua vastità territoriale sia tale che ci sono quartieri che si possono definire degradati o in fase di recupero, specialmente nel profondo Est, a Marzahn e al Lichtenberg. Berlino doveva essere risarcita per essere stata la frontiera più esposta di una guerra per niente fredda, denaro e progetti sono arrivati da molte parti, fino a farla diventare però una delle città più indebitate al mondo. L’entusiasmo degli anni ‘90 e di una buona metà del nuovo secolo hanno portato progetti importanti, il rifacimento di Potsdamer Platz, con il contributo di architetti provenienti da tutto il mondo, il lavoro di restauro di interi quartieri a Est e molto altro. Un cantiere aperto, ma anche una vivacità culturale che ricorda un po’ quella degli anni ‘20. In questi anni, Berlino è stata anche una città molto accogliente. Oggi su una popolazione di oltre 4,5 milioni di abitanti e che si sta avvicinando ai 5 milioni, il 12% e dunque circa 600.000 sono stranieri, ma si tratta di un dato fluttuante perché in continua crescita. I turchi sono in netta maggioranza, visti i legami storici fra Germania e Turchia e sono oltre 400.000: i latino-americani nel loro complesso vengono subito dopo, incerta la stima di italiani e spagnoli che sembrano più o meno intorno ai 70.000, poi ci sono gli altri. I polacchi a Berlino non sono così numerosi come si crede, perché sono distribuiti su tutta la Germania e molti vanno e vengono dalla Polonia; poi tutta la diaspora dall’Est europeo, ma specialmente dall’ex Jugoslavia; infine la presenza russa, che è storica e data dall’inizio del ‘900. Questa fase espansiva e accogliente è destinata a trovare il suo limite fisiologico, anche perché stanno cambiando molte cose nella stessa Germania.

Le aspettative di coloro che hanno scelto di venire qui nei vent’anni precedenti si sono coagulate intorno ad alcune costanti, che sono altrettanti ingredienti intorno ai quali è cresciuto il mito berlinese: una qualità medio alta della vita a poco prezzo, una certa tolleranza nei confronti di atteggiamenti anticonformisti, confermati dalla presenza di un tessuto assai vasto di aree occupate e centri sociali, che offrivano anche opportunità di lavoro, la possibilità di accedere a percorsi di formazione e lavorativi guidati, un’università all’avanguardia in tutti i settori.

Vediamo le prospettive di ciascuno di questi ingredienti. La qualità della vita si mantiene ancora alta e i prezzi di alcune componenti fondamentali come il cibo, la ristorazione e l’accesso alla vita culturale sono ancora più che appetibili: Londra, per esempio, può anche offrire di più in molti campi ma rimane decisamente più cara. I trasporti sono il solo vero costo abbastanza elevato; lo erano da prima e le tariffe continuano ad aumentare, ma bisogna tenere conto della grande efficienza e anche della presenza massiccia di biciclette, in una città pianeggiante, provvista di ottime piste ciclabili. Se leghiamo però questa componente alle due che seguono, il quadro si complica. Berlino rimane per chi viene da fuori una città anticonformista, ma di certo assai meno di prima. Un evento di un anno e mezzo fa circa, ha segnato una cesura sia sul piano reale, sia su quello simbolico: lo sgombero del Centro sociale più grande e famoso d’Europa, il Tacheles, in pieno centro, nonché la chiusura del museo della fotografia sempre a Kreuzberg.

Sul centro sociale vale la pena di spendere qualche parola in più perché la sua storia è emblematica e non soltanto per Berlino. Tutto cominciò dallo sfratto di una comunità di artisti che occupava uno stabile del centro da 22 anni. La resistenza del collettivo e la solidarietà della popolazione ha retto per un certo periodo di tempo, poi nel 2012 la chiusura. Il Techeles presenta alcune analogie con l’esperienza dell’Angelo Mai e del Teatro Valle occupato di Roma: recuperare spazi lasciati al degrado da privati e pubblica amministrazione e farne centri di laboratori d’arte e luoghi dove si produce cultura e politica. Tuttavia, va anche riconosciuto che negli ultimi anni, lo spirito che aveva animato l’occupazione alla sua nascita si era alquanto logorato ed esaurito, come del resto è avvenuto anche in Italia con molti centri sociali. Le esperienze italiane citate prima, cui vorrei aggiungere quella recentissima di Macao e Ri-Make a Milano, mi sembrano più orientate a comprendere le dinamiche attuali piuttosto che coltivare nostalgie del passato. Il Techeles è stato, come altri luoghi berlinesi, anche la vetrina di un Ovest tollerante e trasgressivo, a fronte del grigiore burocratico della Berlino del socialismo reale. Finita la guerra fredda, tuttavia, non c’era più bisogno della vetrina, ma questo si è tardato a capirlo.

Dopo lo sgombero sui muri della città sono comparse scritte dolenti e rassegnate più che ribelli, del tipo bye bye Kreuzberg: la convinzione che sia finita un’epoca si è fatta strada rapidamente. La speculazione edilizia è arrivata anche qui sebbene la rendita dei suoli sia ancora bassa se confrontata con quella delle altre capitali europee; ma tant’è.

Quanto ai percorsi formativi e di inserimento, essi sono stati negli ultimi vent’anni assai efficienti e di elevata capacità di inclusione, ma ora i sussidi sono stati ridotti drasticamente specialmente per chi viene dalle altre nazioni europee e in particolare da quelle meridionali. Rimane l’università come fulcro e in questo caso la Germania ha continuato saggiamente ad investire e cioè a garantire a tutti gli studenti provenienti anche dagli altri paesi, agevolazioni sociali e bonus che permettono, specialmente a Berlino, uno standard di vita e di possibilità di studio elevate. Ne fa un po’ le spese l’Università di Potsdam, non a caso collocata nel territorio della ex DDR: perché non bisogna dimenticare che più che una riunificazione, la caduta del Muro ha portato all’annessione dell’ex Germania Est a quella occidentale.

La Germania attrae i migliori cervelli e fa concorrenza su questo persino agli Usa: molti scelgono di stare in Europa piuttosto che cambiare continente. Tutte le facoltà ne sono coinvolte anche se il prestigio dell’architettura attrae più di altri rami: però anche un indirizzo di studio come quello antropologico, storicamente inglese, attira alla Humboldt Universität studenti e ricercatori da tutto il mondo.

Quanto durerà tutto questo? Fra gli italiani che vivono a Berlino ce lo si chiede sempre quando ci si ritrova a cena e la risposta è sempre più o meno questa: la Germania sarà l’ultima a cadere in Europa e Berlino l’ultima a cadere in Germania. Dopo avere pronunciato questo mantra ci si ride sopra e si brinda.

Visto che partono ancora in molti per andarci, mi sono domandato cosa risponderei a un giovane che mi chiedesse un consiglio: gli direi che i problemi di Berlino e della Germania sono gli stessi di tutti gli altri paesi europei, seppure su una scala che li vede posizionati in modo diverso da un punto di vista temporale. In sostanza, i problemi futuri della Germania, come dell’Italia e della Grecia, dipendono da che strada prenderà l’Europa: se continueranno queste politiche la campana prima o poi suonerà per tutti e sarà un suono molto sinistro, se invece ci sarà un colpo d’ala, uno scatto che inverta la marcia fallimentare di questi anni, allora Berlino rimarrà pur sempre un grande richiamo, ma forse perderà un poco del suo mito perché ci saranno opportunità anche altrove nel continente.

Tiergarten Berlin

DIARIO BERLINESE: SESTA PARTE

Castello di Charlottemburg.

Marzo 2014

A Berlino l’arte non sta nei musei, nonostante la presenza della celeberrima Inseln, una spianata ampia, dove si trova anche il brutto e imponente Duomo. In quella zona si possono ammirare l’altare di Pergamo, la porta di Ishtar e altre meraviglie. Poi ci sono gli altri musei, la Galleria nazionale, il Berrgruen. Però  l’architettura è la regina delle arti a Berlino e quella si ammira nelle strade. L’imponenza degli edifici di Potsdamer mi ricorda le città statunitensi (e del resto gli architetti tedeschi più importanti fuggirono alla persecuzione nazista rifugiandosi negli States). L’area divide l’opinione pubblica: per alcuni questi palazzi imponenti, costruiti con materiali freddi e non ergonomici, sono ostili a una vita comunitaria: più che abitazioni e uffici sono spazi. Non luoghi? A me non fanno la stessa impressione di certe stazioni e aeroporti, se mai la curiosa sensazione che si prova avventurandosi fra questi edifici è l’evidente eterogeneità dei progetti, che si spiega con una decisione che esula dal campo artistico. Lo stato tedesco, infatti, ha affidato a molti architetti provenienti da tutto il mondo la progettazione di quest’area: è uno dei tanti modi con cui la nuova Gemania ha voluto rompere con la propria storia d’intolleranza e disprezzo verso le forme artistiche moderne. Questo però ha portato a un eclettismo eccessivo, a una mescolanza di stili, di forme che s’accavallano le une sulle altre. Sì, c’è qualcosa di paradossale in tutto ciò, ma mi sembrerebbe ingeneroso non riconoscere le buone ragioni di chi ha pensato a questa soluzione. E intanto eccola di nuovo la porta di Brandeburgo, minuta ormai rispetto a ciò che la circonda, eppure sempre affascinante, in fondo al rettifilo dove, all’altro lato s’eleva la colonna con sopra la statua dorata, immortalata da Wim Wenders ne Il cielo sopra Berlino. Unter den Linden è più elegante che mai, anche i palazzi delle ambasciate e dei consolati degli ex paesi socialisti: tutti raggruppati qui, sembrano meno tetri. Certo, fa effetto vedere ancora nello stesso luogo la bandiera della confederazione russa, dove un militare distratto fa la guardia (si fa per dire) dentro la sua garitta. Non custodisce più nulla: i simboli attirano su di sé suggestioni e idolatrie, violenze, slanci ideali e furori ideologici, il niente non attira più nessuno anche se c’è sempre un militare addetto a custodire il bidone vuoto.

2 Aprile.

“Ma è proprio vero che a Berlino si può vivere con ottocento euro al mese? Dico vivere bene e non sopravvivere, perché questo lo fanno in molti anche a Milano e a Roma …”

“Sì” mi risponde decisa un’amica che lavora qui, che vive e lavora qui …

“Ma come è possibile?”

Più o meno ho potuto constatarlo pure io, ma m’interessa il suo parere.

“Perché la gente che vive qui ha pochi soldi e se i prezzi fossero più alti se ne andrebbero via e molte attività chiuderebbero bottega. Del resto molti che cercano lavoro nell’industria o in settori diversi dal terziario o la pubblica amministrazione se ne sono già andati. Qui il lavoro è poco, la città vive di sussidi, ma la qualità della vita è elevata …”

Il paradosso di Berlino è proprio questo. Una capitale indebitata fino al collo ma ricca e dove si può vivere bene con poco: dove si trova al mondo un luogo come questo? Dove un affitto in una casa del centro arriva al massimo ai quattrocento euro al mese? Tutte le grandi capitali dell’Occidente sono città che vivono sui servizi, l’impiego pubblico e il turismo, ma a differenza delle altre, qui la rendita dei suoli urbani non cresce vertiginosamente e la dinamica dei prezzi è contenuta.  

Intanto, chiacchiera dopo chiacchiera siamo arrivati in Weser Strasse:

“Dicono che assomigli alla Quinta Avenue …” mi dice l’amica sorridendo.

Non sono mai stato a New York e quindi …

È un viale molto lungo e diritto come tutte le arterie berlinesi, costeggiato da due filari di tigli, l’albero berlinese per eccellenza. Parte da Hermann Platz, luogo di ritrovo di giovani e di ubriachi la notte, discretamente sorvegliato dalla polizia. Non è trafficata come la parallela, Karl Marx Strasse, ed è piena di locali, che distinguo subito per uno stile comune anche a quelli che già conosco, dislocati in altri quartieri. Sono locali poveri, i tavoli, le poltrone, persino i divani sono riciclati, comperati da rigattieri e assemblati in qualche modo. In essi si tengono concerti di musica, performance, letture di poesia, rappresentazioni teatrali, almeno tre giorni la settimana. Mi ricordano quelli che ho già visto nella zona compresa fra le fermate del metro di Ederswalder e di Shönhauser, sulla linea due della metropolitana; forse in quel quartiere sono un tantino più eleganti. La vera differenza si scopre lentamente osservando le vetrine: molte si richiamano in modo esplicito all’omosessualità maschile e femminile. Alcuni locali, dalle 21 di sera in poi, sono aperti solo alle donne o solo agli uomini: altri sono misti, ma la presenza di icone omosessuali e lesbiche è esplicita. La via, lunghissima, ha un’illuminazione assai suggestiva, le vecchie lampade che creano una luce intima. Vi regna una tranquillità molto piacevole, i locali e i ristoranti sono diversissimi per prezzo ed eleganza. Ovunque, ci sono spettacoli, improvvisazioni e altro e questa  crea intorno a questa strada affascinante una molteplicità di occasioni di lavoro, specialmente per i giovani. D’inverno ci vengono anche gli anziani in questi locali, sono luoghi caldi e accoglienti e il divieto di fumo non è passato, ci sono state grandi proteste perché, specialmente d’inverno, fumare fuori sui marciapiedi a molti gradi sotto zero è impossibile e i locali rischiavano di chiudere. L’amministrazione comunale ha dovuto cedere. Ci fermiamo in uno dei più tipici, con i tavoloni in legno l’immancabile candela che viene subito accesa anche quanto si è soli, le luci basse e discrete. Il programma è nutrito: musica dal vivo, letture, mostre d’arte.

4 Aprile.

Torno in Hermann Platz e mi avvio per Kottbusser Strasse. In fondo, proprio vicino al ponte su uno dei tanti canali in cui si diramano i fiumi berlinesi, c’è il mercato turco. Si tiene due volte la settimana, il martedì e il venerdì: vi prevalgono di gran lunga i prodotti ortofrutticoli.

Come tutti i mercati del mondo è colorato, anche se lontano dalla fantasmagoria di quelli sudamericani; quello che balza subito all’occhio è che l’offerta di derrate è ben più ampia ed economica di quella che si trova in un qualsiasi supermercato. La seconda considerazione è che i tedeschi che ci vanno sono un’esigua minoranza. Sono i turchi a frequentarlo e sono in grande maggioranza rispetto a tutte le altre comunità presenti in città, che tuttavia sono visibili nella folla che si accalca alle bancarelle.

Per un italiano il mercato turco è una pacchia e infatti ne vengo via ben rifornito.  Esserci venuto, tuttavia, mi conferma una convinzione. A Berlino (non so nel resto della Germania), non prevale il modello d’integrazione alla francese. Il modello berlinese è quello della convivenza cordiale e serena fra diversi. Poche regole comuni, trasmesse in corsi che chi vive qui a lungo è tenuto a frequentare, e poi tutti secondo le proprie tradizioni e consuetudini: integrazione, mescolanze, meticciato, sono, se mai, il risultato finale di un percorso lungo e al largo, non un punto di partenza. Solo a livello individuale (i matrimoni misti esistono anche qui come dappertutto) oppure ad alto livello istituzionale, l’interscambio è più intenso e ricercato. Durante tutti i miei soggiorni, per esempio, mi è capitato di notare come siano frequenti le iniziative che riguardano la Turchia, sempre molto presente nella vita della Germania ed è sufficiente seguire quotidianamente il telegiornale per rendersene conto.

Il modello della pacifica convivenza fra diversi sembra funzionare ed essere accettato da tutti. L’investimento nella mediazione culturale è elevato e intelligente, ma comporta ovviamente un impiego massiccio di risorse umane e finanziarie. Chi decide di stabilirsi a Berlino per un lungo periodo e cerca lavoro deve frequentare un corso di lingua tedesca, cultura, usi e tradizioni, dal costo di 140 euro al mese per sei mesi. Il corso prevede esami che, se vengono superati, danno diritto a un rimborso del costo versato fino al quaranta o cinquanta per cento dell’importo totale. Tale sistema premiale risulta assai motivante e viene apprezzato da tutti. Quanto alla cultura tedesca, usi e tradizioni vengono porti sobriamente, insistendo molto sul rispetto reciproco delle differenze. Certo, vi è uno sforzo particolare dei tedeschi per far dimenticare l’intolleranza del loro passato recente, ma lo fanno con un impegno e un’intelligenza che sembrano contagiare chi vive qui.

Fino a quando potrà reggere tale modello? Il dato nevralgico è la quantità d’investimento pubblico necessario a farlo funzionare. Basso consumo di qualità e prezzi bassi alimentano un circuito di attività che regge proprio perché si mantiene a quel livello e quanto alla convivenza essa sembra tenere in larga parte della città, tranne che nel quartiere intorno alla stazione Lichtenberg, nel profondo est.

6 Aprile

Inevitabile tornarci a Lichtenberg. Lì il clima è diverso: è il quartiere dei naziskin, che si vedono poco in altre parti della città ma sono subito distinguibili. A parte la testa rasata, prerogativa peraltro comune anche ad altri che nazi non sono, indossano un lungo giubbotto nero con uno stemma rotondo in cui la parola skin è visibile. È una specie di divisa, ma non trasandata come nel militare di moda fatto di tute mimetiche sbrecciate, stivaloni indossati anche dalle ragazze; colpisce l’ordine. Ne avevo uno ieri seduto davanti a me sul metro, che sembrava a dire il vero un po’ stranito nel ritrovarsi in mezzo a gente normale che torna a casa la sera con le borse della spesa; tanto poco eroica e guerriera. A Lichtenberg invece è davvero diverso. Non mi stupisce più di tanto.

I luoghi hanno il loro genius, che può essere benefico o malefico e questa stazione mi aveva colpito anche nel 1991 per la sua tetraggine, per quel che di funesto che le si vedeva addosso e che allora poteva essere attribuito, con molte semplificazioni al clima desolante appena successivo al disfacimento della DDR.

Lontana dal centro della città, da quella stazione partivano i treni per Kiev, Mosca, Varsavia, Sofia. Nel’91 mi aveva colpito vederne uno, totalmente vuoto, diretto alla capitale ucraina. Una signora, che aveva colto lo stupore con cui osservavo la scena mi spiegò che i tedeschi non ci salivano più perché in territorio ucraino e bielorusso se c’erano occidentali a bordo i treni venivano assaliti e si veniva derubati di tutto. Rimasi perplesso e incerto se si trattasse di verità o di leggenda metropolitana, ma quando tornai in Italia vidi un servizio della BBC in cui tutto questo era documentato.

Questo luogo, funestato dalla doppia tragedia della storia tedesca, si trova oggi dalla parte opposta del pendolo, immagine di quel passato che non passa e che sembra ripercorrere le sue strade obbligate. Tuttavia nel resto della città tutto questo non si avverte, se non quando ricorrono le date di nascita di Hitler o altre ricorrenze legate al nazismo; allora anche i naziskin abbandonano i loro territori e arrivano fino in centro.

Ottobre 2018.

Il metro mi riporta in piazza Wagner, la fermata del mio rientro a casa. Il luogo è particolarmente tranquillo: ex zona inglese, in fondo al viale di Otto Suhr troneggia il castello di Charlottenburg, un avamposto dentro Berlino della città imperiale di Posdam che si trova a trenta chilometri da qui. Il fiume, in corrispondenza del castello s’allarga e forma una grande ansa, si può scendere e percorrerne le rive dove d’estate attraccano anche i battelli.

Il mio modo di sentire quando una città diventa un luogo in cui vivere è piacevole e non semplicemente un punto di transito è molto semplice: quando i siti più comuni, quelli più famosi e che per forza di cose si visitano per primi, non mi attirano più come le prime volte che ci approdavo. Il passo definitivo, però, è quando avverto il piacere di fare vita di quartiere, di stare dove sono e condividere con gli altri, anche se sconosciuti, la vita quotidiana, con le sue abitudini e la sua gente: nel mio caso, per esempio, il supermercato, il bar delle turche dove la colazione è particolarmente ricca e l’altro, sempre delle turche (li definisco così perché ci lavorano solo giovani donne turche), dove vado la sera quando ci sono le partite di Champions: la consumazione, fra l’altro, costa tre euro invece dei sei di Milano. A Berlino questo passaggio al piacere quotidiano della condivisione di vie e luoghi è avvenuto più in fretta che altrove. In fondo la sfida di un mondo vivibile possibile del futuro è proprio questa: l’utopia di potersi sentire a casa potenzialmente ovunque, utopia nel senso di un orizzonte che ti fa camminare, come scrive Galeano. Cittadini del mondo oggi non è più uno slogan: avviene quotidianamente ovunque, non può essere arrestato come processo: si può soltanto decidere se debba avvenire fra scontri civili, oppure essere il volto alternativo alla superficiale e distruttiva globalizzazione finanziaria. A Berlino sembra di potersi avvicinare a questa utopia: la Berlino non certamente elegante come Parigi, non imperiale come Londra, non stratificata sui millenni come Roma, ma capitale di un’Europa di convivenza pacifica fra diversi, ancora lontana.

Mercato turco

DIARIO BERLINESE: QUINTA PARTE

Bernauer strasse.

BERLINO E IL MURO

Anche in questo capitolo del diario, ho assemblato riflessioni avvenute su un lungo arco di tempo. Il Muro è stato ingombrante quando c’era e per alcuni anni ha continuato a esserlo anche dopo che fu abbattuto. Poi la sua immagine è divenuta più sfocata, poi è successo di tutto. Due anni di Covid e oltre un anno di guerra nel cuore dell’Europa sembrano distanziarci anni luce dalla storia successiva la fine della Seconda Guerra Mondiale; oppure no, ma in che senso è difficile dirlo. La data di inizio del diario non può che essere quella della sua caduta e il racconto comincia da Milano.

Novembre 1989.

I nostri figli avevano otto e dieci anni e, come noi adulti, avevano seguito l’abbattimento del muro in televisione, con l’attenzione e la preoccupazione che i nostri volti sorpresi e anche un po’ attoniti dovevano aver loro trasmesso. Quando ne riparlammo anni dopo mi resi conto che quello era stato il loro ingresso nel mondo dei grandi problemi, quelli che stanno fuori dalla porta di casa. Non eravamo corsi a Berlino a ridosso degli eventi, come avevano fatto molti anche da Milano, saltando sul primo treno o improvvisando macchinate zeppe d’amici e ora sorrido fra me pensando che anche a vent’anni di distanza, nel 2009, giunsi in città due giorni dopo le celebrazioni! È una festa tedesca, avevo pensato nell’89, vedevo la gioia sui volti della popolazione, quasi incredula, non c’era bisogno di cogliere l’ennesima occasione di baldoria e correre là; che fosse anche una festa europea, per quelli della mia generazione non era così scontato e per i più anziani, che avevano vissuto la Seconda Guerra Mondiale al fronte oppure nelle città devastate, lo era ancora meno.

“Voi non li avete conosciuti i tedeschi tutti insieme.”

A pronunciare queste parole, a Milano, nel 1989, era stato in vecchio signore che mi sedeva accanto sul tram 24. Io stavo sfogliando le pagine del Manifesto, con le fotografie dei giovani felici e urlanti che ballavano sul muro mezzo diroccato, mentre altri picconavano come muratori improvvisati.

Cominciammo a parlare: era un democristiano, ma vedevo in lui una sincera preoccupazione. Ritornavano nella sua mente i fantasmi che a me, nato nel 1947, erano giunti di seconda mano: prima attraverso i racconti dei genitori, poi dai libri di storia e dalla mia militanza politica. La frase cinica e lucida di Andreotti però la ricordavo bene: Amiamo così tanto la Germania che siamo felici ce ne siano due. L’avevo ripetuta al mio occasionale interlocutore e avevamo riso.

La mia prima visita a Berlino avvenne nel mezzo di un altro evento storico, tragicomico questa volta: il tentativo di colpo di stato contro Gorbaciov in Unione Sovietica. Arrivavamo dal nord Europa dopo un lungo viaggio nella penisola scandinava, era trascorso quasi un anno dalla caduta del muro e i miei figli sapevano molto della storia della città e non vedevano l’ora di passeggiare per le sue strade. Entrammo in ostello e vedemmo tutti i presenti davanti al televisore, compresi i ragazzi della reception. Il claudicante tedesco mio e di Laura c’impediva di capire subito, ma alla vista del carro armato con sopra Eltsin che arringava una folla, peraltro assai contenuta nel numero, cominciammo a comprendere. Una ragazza al mio fianco disse qualcosa come zurück, Russische zurück!

I Russi tornano indietro: possibile? Dissi fra me e me … Le antiche paure oscuravano la percezione di una realtà ormai irreversibile; anzi, quel gesto stupido e disperato, compiuto da uomini ormai completamente obnubilati e incapaci di leggere la storia, avrebbe ulteriormente accelerato la fine dei paesi socialisti.

Il giorno dopo ce n’andammo in giro per la città e bastava fare questo per capire in modo visivamente impressionante cosa fosse la dissoluzione di uno stato in presa diretta. Lo stato suggerisce immagini di grande potenza, suscita reminiscenze letterarie, lo si può intendere come Moloch, come Grande Fratello, come Castello kafkiano, oppure come il Leviatano di Hobbes. Tutto questo, lungo Unter den Linden, nel 1991, sembrava un delirio da filosofi e scrittori. I militari della ex DDR vendevano di tutto, anzi svendevano di tutto. Una folla ridanciana e addirittura entusiasta, ma con il pensiero un po’ troppo in libera uscita, s’aggirava in mezzo a motociclette militari equipaggiate di tutto, compresi cannocchiali a infrarosso che permettono di uccidere di notte una persona a un chilometro di distanza. Pensai subito, e i fatti successivi mi diedero purtroppo ragione, che quelle armi sarebbero finite da qualche parte molto presto, a riempire arsenali di mafie e gruppi etnici in lotta fra loro. La guerra nella ex Jugoslavia non ebbe bisogno di grandi finanziamenti, bastava andare a Berlino nei posti giusti, attendere, gettare uno sguardo dietro la vetrina, lanciare opportuni segnali a chi era lì pronto a coglierli e si trovava di tutto.

Ci ritornai l’anno dopo e Unter den Linden era stata ripulita, al posto dell’emporio militare a cielo aperto c’era una boutique di bigiotteria dove si vendevano gadgets e pezzi di muro; il cimelio militare più significativo cui si poteva aspirare era il colbacco grigio con la stella rossa appuntata in fronte.

La città, però, non aveva ancora cominciato a cambiare veramente; anzi, passato il tempo della sbronza, delle feste continue, del caos, nel suo centro s’era aperta una voragine. Fra l’est e l’ovest c’era la terra di nessuno, una zona di rispetto tranne che in alcune parti dove le due città si sfioravano e il muro divideva una strada. Ora quel vuoto era desolante: solo ruspe, fango e rovine. Dovevano passare alcuni anni ancora perché nascesse la nuova città.

Bernauer strasse

2008-9.

La mia ricerca del muro e di quanto ne restava cominciò subito, ma è stata assai accidentata. I reperti e i pezzi rimasti sono molti: alcuni lasciati dove erano, altri rimossi e posti altrove. Sono poche però le aree veramente decisive ed emozionati. L’americanata di Warshauer Strasse, per esempio, è proprio il modo più infausto di ricordare il muro, anche se le intenzioni furono certo nobili. Si tratta della porzione più grande conservata nel luogo in cui si trovava, in riva la fiume; anzi una doppia muraglia. Subito dopo l’abbattimento all’amministrazione venne l’idea di conservarlo e di chiedere ad artisti di dipingerne i diversi pezzi. In effetti il muro si presta benissimo a composizioni pittoriche o murales e quindi l’idea in sé era buona e già praticata in modo spontaneo anche prima quando il muro era ancora in piedi ma la parte rivolta a occidente poteva essere avvicinata e dipinta perché le torrette militari stavano solo sulla seconda muraglia. Furono pochi però gli artisti ad aderire al progetto, che fu lasciato a una spontaneità incontrollata. Tuttavia, il luogo in sé è gradevole per la presenza alle punte estreme del percorso di oltre un chilometro, di un locale – Piraten – che fu anche un punto di riferimento del partito con il nome analogo che attraversò come una meteora la politica tedesca. Alla fine del muro dall’altra parte, c’è invece un centro sociale fra i più divertenti e sgangherati che ricordi. Non avendo scritto il suo nome allora non ne ho ritrovata traccia anche perché non si tratta di certo di un centro sociale famoso come il Tachles o il Køpi, che hanno fatto la storia di Berlino. In riva al fiume e dall’assetto territoriale precario, fatto di prati accidentati calanti verso il fiume, tavolini posti in situazioni di equilibrio instabile, in mezzo a ogni genere di cose, il sito è tuttavia gradevole sia per la vista sia per la tranquillità. Con un po’ di pazienza il proprio posto dove fermarsi a leggere consumando un’ottima birra a costi ragionevoli, lo si trova sempre.

Un altro modo sobrio ma convincente di ricordare il muro, lo scoprii quasi per caso durante una visita intorno alla porta di Brandeburgo con amici e amiche in visita dall’Italia. Camminando verso la porta notai una fila di due mattoni di selciato diversi dagli altri, in alcuni punti vistosissimi, in altri che si fondevano con l’arredo urbano. Due semplici mattonelle e sampietrini, dalla foggia però inconfondibile, simili alle pietre d’inciampo. Quando li si vede si comprende subito: ecco, il muro passava di li. Semplice e geniale, anche perché quotidiano; non un monumento, ma qualcosa che accompagna il passante ogni giorno, che viene calpestato ogni giorno. Prima o poi chiunque, anche il più distratto, se ne accorge. La prima parte delle mie visite si conclude con due luoghi canonici: Il Checkpoint Charlie in Friederich Strasse e il museo della DDR a ridosso di Alexander Platz. Definirli deludenti è forse troppo, ma è pur vero che in essi ho trovato quello che in un modo o nell’altro conoscevo già, senza che le ricostruzioni riservassero novità o  particolari emozioni.

2016.

Il sito che davvero vale la pena di visitare è il Memoriale del Muro di Berlino che si trova si trova in Bernauer strasse. Sapevo della sua esistenza, ma visto che i siti precedenti in un modo o nell’altro non mi avevano convinto del tutto, continuavo a rimandare la visita. Fu la lettura in bozze di un libro di cui mi era stato chiesto di scrivere l’introduzione a convincermi ad andarci e lo ribadisco qui. Il titolo del libro è Doppia esposizione. Berlin 1985-2015 di Natascia Ancarani (Autore) Ediz. del Foglio Clandestino, Sesto san Giovanni 2015. Il libro ha molti pregi, ma primo fra tutti essere scritto da chi ha vissuto sia a est sia a ovest in quegli anni. Pr quanto mi riguarda la visita al Memoriale e al piccolo museo annesso è stata un’esperienza di grande rilevanza storica ed emotiva. Un sito sobrio, nudo nella sua essenzialità, nei materiali didascalici messi a disposizione, ma specialmente è la sua conservazione spoglia, le sue torrette dal colore brutto come tutte le installazioni militari a fare impressione. Poi ci sono la storia, il cimitero, i morti, gli aneddoti. Il libro in questione è molto esauriente nel descrivere, la visita lo è altrettanto. Anticipo che questo diario berlinese si concluderà con la pubblicazione dell’introduzione scritta per il libro. Qui voglio ricordare solo uno degli aspetti più grotteschi di tutta la questione. Gli edifici di Bernauer strasse erano collocati a est, ma per una bizzarria che viene spiegata dal libro ma che tuttavia esula un po’ dalla mia capacità di comprensione, il marciapiede sottostante gli edifici era Berlino ovest, il che portò a episodi che nel libro sono descritti, in cui il comico e il tragico si alternano.     

Memoriale del Muro

DIARIO BERLINESE: QUARTA PARTE

Fiumi ghiacciati a Berlino

1 Febbraio 2012. I giorni della merla non tradiscono mai, leggo sui giornali che una copiosa nevicata ha ricoperto Milano: anche a Berlino la temperatura è arrivata a meno otto, alcuni tratti dei canali sono ghiacciati.

20 Febbraio.

Berlino sta cambiando, si cominciano a sentire sul serio anche qui gli effetti della crisi europea. L’aumento del prezzo dei mezzi di trasporto (sebbene non siano stati praticamente toccati gli abbonamenti per studenti e altre fasce protette), la sempre più scarsa manutenzione di scale mobili e altri accessori legati alla rete metropolitana, un aumento visibile di barboni in alcune parti della città. Si vive sempre bene qui, ma i segni del mutamento ci sono tutti. Ne parlo con un lavoratore serbo che vive qui da tempo. Fuggito dalla guerra civile jugoslava ed emigrato in Germania con famiglia, dopo essere passato da Italia, Francia, Olanda. Oltre al serbo croato parla benissimo altre tre lingue (italiano, olandese e inglese) ma solo discretamente il tedesco, tanto che vuole frequentare un corso al Goethe. Fa ogni genere di lavoro che abbia a che fare con la manutenzione degli alloggi.

“Fra due anni vado via …”

“Perché? Lavori bene qui …”

“Si, ma fra due anni tutto finito …”

“Non esageri un po’?”

“Prima avevo troppo lavoro adesso sto fermo anche per un mese … è per questo che sono andato a Parigi con mia moglie e mia figlia … non avevo niente da fare … Parigi belisima.

“E dove torni?”

“A casa in Serbia …”

Lui è un termometro molto sensibile proprio per il lavoro che fa e le sue parole mi colpiscono.

“Solo due anni? Ne sei proprio convinto?”

“Vedremo.”

Fra un tema e l’altro si ricade sulla politica, ho la televisione accesa mentre parliamo e va in onda un servizio storico sulla prima guerra del Golfo.

“Gli americani non sanno fare altro … la guerra, mi ricorda quello che successo con la Serbia.”

Evito di dirgli che quella guerra fu forse voluta con altrettanta forza dagli europei e che fra l’altro ha avvantaggiato non poco la Germania … Continuiamo a parlare e mi rendo conto di quanto prestigio goda Putin presso gli slavi. Lo avvertono come un leader che resiste allo strapotere americano, anche se poi aggiunge che:

“I russi sono il peggio.”

Dopo un lungo giro si ritorna alla Germania e io accenno al saccheggio di Croazia e Slovenia …

“Certo è tutta loro la costa croata, se la sono presa: Sarajevo è tedesca e la Slovenia pure …”

“Il programma di Hitler …”

“Certo e senza sparare un colpo!” 

“Però a Berlino si vive ancora bene dai!”

11 febbraio 2013

Di nuovo verso Berlino. Leggo in aereo le corrispondenze della stampa tedesca sull’ultimo giorno da Papa di Ratzinger. Non mi aspettavo il tono spesso duro, una visione del gesto totalmente diversa da come è stata vissuta in Italia. Faccio una premessa. Ratzinger non era particolarmente amato o considerato in Germania, il soglio pontificio a un cardinale tedesco non ha mai scaldato il loro cuore più di tanto, in televisione le apparizioni del Papa non erano mai aumentate e sono lontanissime dal presenzialismo nella nostra tv, nei dibattiti di seconda serata si sentivano spesso delle critiche anche prima e quando lo scandalo pedofilia ha toccato il fratello Georg c’è chi ha chiesto le sue dimissioni da pontefice. Eppure, ora che le ha date, la stampa tedesca sembra reagire in modo del tutto diverso. Pensavo che anche qui il suo fosse considerato un gesto di coraggio e invece, a parte alcune difese d’ufficio, i commenti sono assai aspri e talvolta decisamente di cattivo gusto. Sotto il titolo di “Infallibile solo nelle dimissioni” la Berliner Zeitung rincara la dose parlando di lui come di un modesto teologo. Si potrebbe però obiettare che il quotidiano berlinese è noto per le sue posizioni progressiste e laiche ma anche Die Welt, conservatore, considera il suo un gesto adatto a un amministratore delegato ma non a un Papa e addirittura la Frankfurter Allgemeine scrive che “il culto della persona ha assunto dimensioni quasi blasfeme, fino al punto che Benedetto XVI persino in pensione si fa chiamare Sua Santità.”

Una differenza abissale con i commenti italiani, ma anche con quelli di altri paesi, per nulla in sintonia con la folla che durante gli ultimi giorni di pontificato accorreva in Piazza san Pietro. Commenti molto tedeschi, si potrebbe dire: il capitano che non può lasciare la nave, il culto del senso di responsabilità che certamente ha qualcosa di protestante e forse anche di queste antiche punture di spillo fra cristiani rimane una eco in queste prese di posizione. Quello che è totalmente assente è un qualsiasi discorso sul ruolo della curia romana in tutta la vicenda, sul peso di un assedio che a tutti è parso evidente.

12 Febbraio.

Forse si capisce di più dell’atteggiamento tedesco, se si considerano altri fattori. Da tempo in Germania le critiche al cattolicesimo investono aspetti teologici e a livello se non di massa, almeno di minoranze agguerrite. Si contesta l’immagine e la dizione Dio padre, in quanto escludente delle donne. Non è una critica che proviene solo da movimenti femministi, ma si sta facendo ampia strada in settori diversi dell’opinione pubblica. Se, infatti, il ritratto di Cristo e la sua nascita storica ne fanno un soggetto maschile senza alcuna discussione possibile, l’immagine di Dio troppo legata alla fisicità di maschio, appare paradossale e in effetti lo è. Vengono in mente anche le parole del buon Albino Luciani, che si fece di tutto per gettare nel ridicolo. Dio è anche madre (lui a dire il vero aveva detto mamma e questo aveva contribuito a suscitare commenti sarcastici e superficiali sentenze psicoanalitiche sulla sua persona), ma vedere oggi lo stesso argomento raccolto in altro modo e con dovizia di argomentazioni, fa una certa impressione; positiva peraltro.

15 Febbraio 2013.

Nasce in Germania Fermare il declino, un movimento che diventerà presto un partito. Si dichiarano europeisti, ma sono contro l’euro e per il ritorno alle monete nazionali o ad aggregazioni monetarie diverse e più leggere. Le novità sono due e forse tre. La prima: il partito è diretto dall’ex presidente della Confindustria tedesca. È una novità e assai eclatante, perché segna una rottura nel fronte dei poteri forti e fa emergere una contraddizione di cui si sapeva da tempo, ma che non era ancora esplosa: è un segnale ostile a Merkel che proviene dall´interno dell’attuale establishment ma che fino a ora era un mugugno. Il partito si chiamerà Alternative für Deutschland. Vedremo se lo stupidario europeista acefalo definirà populisti anche loro. Seconda novità implicita nella prima: un partito conservatore anti euro costringerà la Linke tedesca a chiarire meglio le sue posizioni. Fino a ora la Linke e i movimenti di Occupy Frankfurt, hanno avuto il monopolio dell’opposizione alla moneta unica, ma si sono anche dovuti difendere dalle accuse di populismo, con il risultato che la loro opposizione è risultata spesso debole o di puro principio. Oggi dovranno dire qualcosa di più. Terza novità (forse). La sensazione è che i successi del Movimento Cinque Stelle in Italia abbiano accelerato il varo di questo partito, di certo pronto da tempo a uscire allo scoperto, ma che forse avrebbe atteso le elezioni tedesche in autunno, per poi uscire in vista di quelle europee. In Germania come in Inghilterra, non temono il Grillo in Italia, ma il Grillo in Europa, nei loro paesi. In Portogallo sta nascendo qualcosa di analogo al movimento Cinque stelle e questo fa paura.

20 Febbraio

Ancora su Ratzinger. Il suo gesto è il precipitato massimo di una contraddizione. Un Papa che si dimette come se la sua carica fosse del tutto simile a una qualsiasi altra è un gesto di estrema secolarizzazione, ma da un altro lato non è forse anche un segno di umiltà? Cristo non era un eroe sconfitto per le regole mondane? Il suo comportamento,  almeno nelle intenzioni, non rovesciava il culto antico dell’eroe, legato solo a imprese belliche gloriose? Ratzinger assomiglia di più a un amministratore delegato che scappa prima che arrivino i carabinieri (è una metafora, non arriveranno mai), a sequestrare lo IOR, oppure è uno che dice, tenetevi pure il mondo io me ne vado da un’altra parte? Forse nessuna delle due ma una terza intermedia, però mi colpisce che nessuno, fra i cattolici, pensi all’altra. Solo Cardini ha parlato di una sconfitta di Ratzinger. Forse in un senso leggermente diverso, però. Ci capiremo forse qualcosa di più vedendo chi sarà il nuovo Papa, o forse mai.

10 Aprile.

Le coincidenze temporali sono sempre suggestive: ricordiamo tutti l’impressione che fece il fatto che la Rivoluzione Francese iniziasse nell’89 e che il Muro di Berlino cadesse due secoli dopo nello stesso anno. Che significa? Nulla o forse no: per esempio potrebbe significare che allora si era chiusa una parentesi di due secoli, in cui l’umanità per la prima volta ha sognato di potere realizzare una società giusta nell´al di qua e non nell’aldilà … e per di più ha avuto anche l’ardire di tentarlo e non solo di sognarlo. Che sia stata sconfitta almeno per il momento può fare ghignare soltanto i potenti, i cinici e gli stolti.

Le coincidenze si ripetono anche in questo anno di grazia e intrecciano la piccola Italia addirittura al cosmo e alla divinità. Nel breve spazio di un mese abbiamo nell’ordine: le dimissioni di un Papa, la sede presto vacante della Presidenza della repubblica, un vuoto di governo, elezioni che ci consegnano un parlamento difficilmente governabile, un nuovo Papa. Tutto ciò può anche risultare tragicomico, oppure suggerire che a volte il piccolo e il grande, unendosi in uno spazio temporale assai ristretto, possono essere l’indice o il segno di cambiamenti profondi di cui però stentiamo a vedere la direzione.

3 ottobre 2013.

Il silenzio del governo tedesco su Lampedusa è finito. Le dichiarazioni molto critiche di Shultz, presidente del Parlamento europeo e possibile ministro degli esteri di un governo di Großße Koalition erano passate un po’ inosservate, visto il ruolo istituzionale che ricopre, ma la dichiarazione di seguito che riporto, mette fine al clima di cordoglio unanime, ma pone anche fine alla retorica:

Il ministro degli Interni Hans-Peter Friedrich (Csu) … ha escluso un ripensamento delle regole che governano la politica europea sui rifugiati, ha chiesto l’inasprimento delle pene per i trafficanti di uomini e respinto l’accusa rivolta all’Ue di rinchiudersi nei propri confini.

Solo la Germania ha concesso quest’anno rifugio a 80 mila profughi. La dichiarazione che segue è ancora più chiara:

Le richieste di aiuto dell’Italia a Bruxelles sono legittime, ma a volte appaiono come misere scuse, giacché il Paese, alla fine, non è gravato dal flusso migratorio più di altri Stati membri, al contrario. Finora Roma ha concesso accoglienza ufficiale a 65 mila profughi contro i quasi 600 mila della Germania. In più l’aiuto si esaurisce solo ai rifugiati provenienti da Eritrea, Somalia e ora Siria e, una volta ottenuto il permesso, il rifugiato deve decidere da solo dove sistemarsi senza che gli venga assegnata una residenza, del denaro o adeguata assistenza sanitaria. Al fondo di questa politica c’è l’auspicio che i rifugiati decidano di emigrare ancora in altri Paesi europei, dove le condizioni assicurate sono migliori.

Per risultare credibile nell’intento di umanizzare la politica europea sui rifugiati, ha concluso il quotidiano berlinese, l’Italia deve saper mettere mano anche alla sua stessa legislazione, per esempio alla legge Bossi-Fini.  Fatte salve le ragioni di politica interna che possono avere in parte ispirato questo comunicato, esso contiene però alcune indubbie verità che in Italia si cerca di nascondere.

20 Ottobre.

Scendo dal metro un po’ prima di Postzdamer Platz e attraverso il Tiergarten. I colori autunnali sono esplosivi, è una giornata di sole. I boschi circondano Berlino, così come le acque: non solo la piccola Spree, che sembra un fiumicello se paragonato ai fratelli illustri che solcano altre grandi città europee, ma i grandi laghi. Boschi e laghi ovunque, dentro la città e intorno. Boschi e non giardini e la precisazione è d’obbligo: perché la mano umana si astiene dall’intervenire troppo per abbellire e curare. L’intervento si limita allo stretto necessario: tagli e potatura, rimozione dei rami caduti e questo è tutto; a parte le ampie strade sterrate e i sentieri dove tutti corrono o vanno in bicicletta. Per questo anche il Tiergarten conserva il suo tratto selvaggio, il ciclo vita-morte lasciato al suo procedere naturale: dal risveglio primaverile, alla contenuta esuberanza estiva che appartiene a un bosco nordico, allo smagliante tramonto autunnale, alla marcescenza invernale. Vita e morte, il ciclo ingovernabile ma saggio, che mi fa venire in mente i versi memorabili dell’antologia di Spoon River, che Edgar Lee Masters mette sulle labbra di un personaggio di nome Paul Nitze, che potrebbe persino essere di origine tedesca:

O morte, giardiniere autunnale che prepari la primavera della vita.

Tiergarten Berlin

DIARIO BERLINESE: TERZA PARTE

Sul Nazismo e altro

Premessa

In questa parte metto una sola data perché ho radunato in essa riflessioni che appartengono a momenti diversi. Tuttavia c’è un momento centrale che ha favorito l’intera riflessione: il 2010, quando fu allestita la mostra Hitler e i tedeschi, nel Museo di storia tedesca di Berlino, a 65 anni dalla caduta del regime nazista.

Prenzlauere Allee

Marzo 2010.

L’occasione è stata davvero unica per riflettere. Prima di tutto il titolo, che va preso alla lettera: è una mostra per i tedeschi e proprio per questo è molto interessante. L’edificio che l’ospitava si trova nell’isola dei Musei, un complesso monumentale della città che oggi mi appare meno vecchio e vetusto di quando vi misi piede la prima volta, diversi anni fa. Al piano superiore si trova la mostra delle opere di Begas, l’architetto scultore autore dei progetti urbanistici più importanti risalenti al periodo bismarkiano. Molti dei palazzi più antichi di Berlino (città che – è bene ricordarlo – antica non è), sono suoi, insieme ad alcune sculture e busti che ritraggono il cancelliere di ferro. Distribuito fra piano terra e un altro inferiore, si trova il Museo di storia tedesca dalle origini a oggi e, in quel contesto, la mostra Hitler e i tedeschi, un titolo semplice. Anche le didascalie in inglese, solitamente abbondanti e anche l’apparato di depliant e pubblicazioni connesse, sono questa volta in larga misura, nella sola lingua tedesca. Insomma, una mostra per ragionare come popolo tedesco intorno a una domanda che si ripropone a distanza di decenni: perché è stato possibile un Hitler? Da quando, nel 1968, la Germania ha iniziato a emanciparsi dalla rimozione che aveva accompagnato gli anni immediatamente successivi la catastrofe bellica, la riflessione sul Terzo Reich è stata profonda e incessante. Nella mostra non vi è nessuna sopravvalutazione delle pur presenti forme di resistenza provenienti dall’establishment: nessuna enfasi sulla Rosa Bianca o sul Piano Valchiria, il tentativo di colpo di stato e di attentato a Hitler del 1944, gesto tardivo e peraltro fallito. Nessuno sconto insomma, ma una nuda elencazione di fatti dopo alcune premesse, con un ampio corredo di giornali, altre pubblicazioni, manifesti, pamphlet di propaganda politica, tutta l’iconografia, i simboli, la coreografia che accompagnava le manifestazioni del regime. E ovviamente le immagini, non molte però, non usuali e senza la voce di Hitler, tranne che nella parte finale dove alcuni suoi discorsi venivano diffusi da altoparlanti a un livello di audio abbastanza basso.  

L’effetto su un non tedesco, almeno per quanto mi riguarda, è stato molto forte. Mi sono reso conto (è banale dirlo, ma non ci si pensa), che in fondo tutto quell’armamentario l’avevo visto da lontano, in filmati d’epoca cattivi, sempre in bianco e nero, dove apparivano sempre le stesse immagini. Trovarsi a contatto diretto, poter toccare le bandiere, i labari, vedere dal vivo la croce uncinata nera in campo rosso, la stoffa delle divise, i loro colori, non è la stessa cosa che vederli da lontano. Certo, in questa mostra mancava la rappresentazione del gigantismo oceanico delle mobilitazioni di massa, a parte la fotografia della striscia di luce creata dalle fiaccole accese durante la sfilata sulla Unter den Linden, subito dopo la nomina di Hitler alla cancelleria. La vista da vicino dei simboli più noti del regime nazista mi ha fatto percepire diversamente molti aspetti, soffermare su particolari che sfuggono se osservati a distanza e la prima riflessione che mi è balzata subito alla mente è che in tutta quella coreografia e anche nell’uso dei colori era presente un elemento kitsch che appartiene alla cultura tedesca (il termine è nato qui); tanto da essere presente anche oggi, quando assume aspetti favolistici e innocui, pateticamente ironici e auto ironici: certe trasmissioni televisive del sabato sera sono assolutamente imperdibili sotto tale aspetto. Tale elemento kitsch, nelle raffigurazioni pittoriche, in certi busti del Führer scolpiti da artisti mediocri, in certe sue immagini ravvicinate, diviene maschera grottesca, che raggiunge talvolta effetti di involontaria comicità. Chaplin ha colto davvero in modo profondo e non caricaturale questo effetto di maschera. I baffetti che sembrano sempre posticci, oppure come se gli colasse costantemente il sangue dal naso, la scriminatura dei capelli talmente precisa ed evidenziata (come se la mamma gli scolpisse ogni giorno la riga dei capelli prima di lasciarlo uscire di casa), sono irresistibilmente comiche; oppure l’occhio che guarda sospettoso nella macchina da presa, con uno sguardo che sembra l’imitazione mal riuscita di Buster Keaton. Mentre negli altri gerarchi prevale sempre un aspetto greve e tragico (terribile ascoltare la voce di Goebbels, il suo tono isterico e forzato fino al parossismo, più che non quella di Hitler stesso, capace di usare anche i toni pacati), la comicità involontaria è quasi sempre presente nel Führer. Il comico ha un rapporto assai contiguo con il tragico e basta poco per scivolare da una parte o dall’altra della lama del fine rasoio che le separa. Per i greci non era ovviamente così e neppure per gli antichi dei del pantheon germanici, cui Hitler ha preteso d’ispirarsi. Il nazismo fu anche rappresentazione teatrale che dalla scena ha preteso di andare prima per le strade e poi nella vita di ogni giorno. Se l’idea di trasporre le antiche mitologie nel mondo moderno significa darne una rappresentazione grottesca e caricaturale, l’idea di trasformarle in pratiche politiche produce mostri; ma sono mostri che hanno una loro estetica ipnotica, come aveva ben compreso Walter Benjamin quando denunciava il processo di estetizzazione della politica.

Dalla mostra alla musica di Wagner il passo è breve. Scelto dai nazisti come loro vate musicale, ancora oggi sono in tanti a considerarlo un predestinato al nazismo, anzi una sorta di nazista ante litteram. Il povero Wagner morì nel 1901, sarebbe bene ricordarlo ogni tanto! Naturalmente l’equazione che i nazisti pensarono è semplice da stabilire, tanto semplice e semplicistica che c’è da domandarsi per quale motivo abbia avuto tanta fortuna anche presso molti che nazisti non erano e non sono. A parte la questione che Wagner fosse un antisemita convinto (ma erano in molti a esserlo in Europa e non solo in Germania), è il culto della potenza ciò che i nazisti sentirono o pensarono di sentire nella sua musica e naturalmente il riferimento tematico costante alla mitologia germanica e alla sua grandiosità guerriera, il secondo addendo di un’addizione la cui somma creò il mito wagneriano che conosciamo. Wagner però, era un maestro ineguagliabile del sublime, talvolta patetico, mentre l’esagerazione dei toni lo fa talvolta deragliare. I suoi eccessi e forzature s’avvertono subito a un ascolto non superficiale e c’è molta più potenza, nel senso che i nazisti attribuivano a Wagner, nel frammento musicale di Richard Strauss Così parlò Zarathustra, quando viene eseguito con tutti i crismi da orchestre classiche, oppure nell’assolutismo musicale dei Carmina Burana di Orff, che non in certe fanfarate wagneriane, dove l’eccesso finisce per travolgere tutto, anche la potenza, diventandone caricatura involontaria.

Una notazione particolare, per ritornare alla mostra, meritano i tre acquarelli di Hitler esposti. Piccoli quadri minuscoli, sempre rappresentazioni di scene rurali semplicissime, quasi delle miniature. Hitler amava una ruralità dove è però assente l’essere umano: ci sono le case, i fienili, ma più di tutto colpisce una lindezza maniacale, un ordine perfetto, impossibile da ottenersi in campagna se solo uno vi ha messo piede qualche volta. È anonima la campagna nei suoi quadretti, mentre siamo abituati ad associare l’anonimia alla città moderna e tentacolare che Hitler voleva teatro di progetti faraonici, di una grandiosità smisurata. Anche Walter Speer (l’architetto del regime, le cui realizzazioni sono state così acutamente analizzate da Elias Canetti), che cercò di concretizzare i deliri architettonici del suo capo, scambia la potenza con l’accumulo: niente a che vedere con le piramidi egizie o azteche, tirate su da uomini a braccia, ma la pura rappresentazione di una potenza tragicamente travisata e dunque senza vera tragicità; solo vuoto gigantismo, horror vacui, che apre le porte alla distruzione e all’autodistruzione. 

Sono tornato al Museo ebraico dopo avere visto la Mostra. C’ero stato una prima volta appena arrivato, nel gennaio del 2008. L’impressione generale non è mutata e si può riassumere nella sproporzione esistente fra l’orrore e la sua rappresentazione: lo scarto resta incolmabile anche se in alcuni momenti la distanza si accorcia. Forse sarà proprio per questo che la storia si può ripetere: siamo in grado di produrre l’orrore e la divinità ma poi non siamo in grado di rappresentarli e senza rappresentazione non vi è introiezione definitiva del numinoso, che solo se attraversato veramente può forse essere domato. Omero o chi per lui lo fece nell’Odissea quando fece fare a Ulisse, alla corte di Alcinoo, quello che nessuno da lui si aspetterebbe: rivelare il proprio nome. Quando può farlo però? Nel momento in cui un altro gli racconta le sue gesta: messo davanti alla narrazione delle sue responsabilità Ulisse crolla e scoppia a piangere dicendo:

“Sono io la causa di quei lutti.”

O forse è proprio il Museo a essere poco adatto a rappresentare una tragedia storica come questa e nonostante sia tutto perfetto in quello di Berlino: ricostruzioni accuratissime, dovizia di materiali, analisi storica severa. Tuttavia, capita raramente che si sia colti veramente a disagio, cioè dalla consapevolezza che dietro quella fotografia pregevole artisticamente, dietro quelle linee che s’intersecano con una mirabile capacità compositiva, dietro il dipinto di un artista, si apre l’abisso di un destino difficile da decifrare.

Solo in tre momenti ci si avvicina a un disagio più accentuato: quando si finisce nei tre vicoli ciechi del museo, dai quali si può uscire solo tornando indietro. 

Il primo è il giardino degli esuli. Si accede a esso tramite una porta neppure troppo in vista e si entra in un quadrilatero di pietre altissime poste in verticale, con stretti sentieri fra l’una e l’altra e un perimetro che avvolge l’intera costruzione. Il contrasto fra un luogo idillico come il giardino e le costruzioni in muratura che ricordano quelle a cielo aperto di un altro museo della Shoah nei pressi della porta di Brandeburgo, costruite dall’architetto Eisenmahn, è soffocante. Né prigione né giardino, sembra di stare  nell’ora d’aria di un detenuto.

Il secondo vicolo cieco è la torre: alla fine di un corridoio si entra in un edificio dalle pareti altissime che si restringono in alto. Il soffitto è nero e la poca luce entra da una bocca di lupo a destra. Non vi è niente altro nella torre, nessun arredo, solo la forza soverchiante delle mura e del buio. Infine, il terzo vicolo cieco conduce a un’installazione dell’artista israeliano Menashe Kadishman, intitolata Foglie morte. La lettura della sobria spiegazione è disturbata da un continuo e sinistro clangore, di cui subito non si afferra natura e provenienza: è un suono strano, ferrigno, ma potrebbe provenire anche da una mazza che percuote qualcosa di metallico. Lo si capisce subito dopo avere abbandonato il pannello con l’introduzione. Il visitatore deve percorrere un sentiero abbastanza largo cosparso di pezzi di ferro dallo spessore piuttosto consistente, tutti di forma rotonda e di diverse dimensioni. Tutti i pezzi hanno tre buchi che rappresentano in forma stilizzata occhi e bocca. Sono i teschi calpestati da chi passa, a produrre il suono. Mi vengono in mente le corrusche armi foscoliane mentre anch’io mi avvio sullo scomodo percorso: non dico che si possa cadere, ma il disagio è grande. Guardando bene quei teschi che sto calpestando mi sembrano tutte versioni diverse dell’urlo di Munch o crani di decapitati. Lo sgomento è forte e mentre torno indietro vedo che molti rimangono interdetti, alcune donne si fermano e osservano senza intraprendere il percorso.

Menashe Kadishman, l’artista israeliano, è nato a Tel Aviv nel 1932. Come tutti avrà avuto amici, conoscenti e parenti che sono finiti nei campi di concentramento, ma non ha vissuto la tragedia come chi ne è stato vittima diretta. Sarà forse per questo che, almeno per me, la sua opera è fra tutte quello esposte, la più inquietante e fra le più inquietanti fra quelle che mi sia capitato di vedere sulla Shoah? La sua distanza dalla cosa in sé, non rappresentabile, gli ha consentito questo? Non ho risposte certe, solo un interrogativo da porre e poi la percezione di un’opera d’arte anche nel caso felice in cui tutti si sia d’accordo nel giudicarla valida, è sempre tremendamente soggettiva, sebbene fosse visibile nello sguardo dei presenti insieme a me lo sgomento e l’imbarazzo. Quello che tuttavia manca è l’elemento catartico, almeno io non l’ho minimamente avvertito. Rimane la sproporzione, l’irriducibilità della tragedia.

La mia rassegna si conclude con un ritorno alla resistenza tedesca, perché su di essa c’è molto altro da dire, ora che qualche libro è finalmente venuto alla luce per ricostruire meglio tutto quanto è accaduto in quegli anni tragici. Dobbiamo allora partire dalla fine degli anni ’20 – diciamo dal 1929 – fino al 1934. La resistenza, in Germania, si colloca prima e non alla fine come è accaduto in tutte le altre nazioni europee. Durante gli anni e anche prima e cioè dalla fine degli anni ‘20, le milizie comuniste e socialiste si confrontarono sempre, anche militarmente, con polizia ed esercito e poi dagli anni ‘30 anche con le milizie naziste. In realtà ne sapevo poco pure io ma una sera, dopo un incontro letterario alla libreria italo-tedesco-brasiliana in Tor Strasse (una bizzarria tipicamente berlinese), una delle relatrici mi invita a fare una visita in un birrificio lì vicino. L’edificio di mattoni dalla colorazione tipica, imponente e  bellissimo, nasconde molti segreti. Ci avviciniamo a una parete e lei mi mostra dei segni di pallottola: mi spiega che sono quelli sparati sono  durante gli scontri armati degli anni ‘20-30 e la documentazione lo conferma. Il quartiere è quello di Prenzlauer, più vicino alle stazioni di Bernau e Rosa Luxemburg Platz. Ognuno aveva le sue birrerie di riferimento, gli scontri avvenivano ovunque. La resistenza fu attiva fino a buona parte del 1934 quando Hitler era già al potere. L’ultimo baluardo a cadere fu il Babylon, proprio in Rosa Luxemburg Platz, che fu chiuso nel ‘34. Tuttavia, nel 1936 in occasione delle Olimpiadi, ci furono grandi scioperi e azioni di sabotaggio in tutta Berlino e altrove, tanto che il regime fu costretto a concedere aumenti salariali. La resistenza tedesca, in buona sostanza, fu annientata prima, ma molti riuscirono a fuggire e furono attivi nelle resistenze europee come già si è detto. Tutto questo, per fare giustizia una volta per tutte della narrazione largamente incompleta sulle colpe collettive del popolo tedesco. Il Nazismo godette di un larghissimo consenso, nessuno può negare questo, come del resto il Fascismo in Italia: ma tale risultato fu ottenuto anche grazie all’annientamento fisico delle opposizioni, mentre in altri paesi, la clandestinità gettò le premesse della resistenza futura. Un’ultima considerazione riguarda Berlino. Ben 1500 ebrei decisero, nel pieno della guerra, di non lasciare la città e di non darsi alla fuga: non furono denunciati. Si può immaginare cosa potesse voler dire allora non denunciare un ebreo, eppure a Berlino avvenne anche questo e 1500 sono davvero tanti. Se nessuno fu denunciato significa che la rete di protezione intorno a loro e non solo resistette a delazioni e pressioni.

Museumsinseln Berlin

DIARIO BERLINESE: SECONDA PARTE

Berlin. Alexander Platz

26 Settembre 2010.

Il ritorno a Berlino coincide questa volta con il primo giorno di scuola. Mi sono iscritto a un corso di tedesco. Arrivato ieri mi ritrovo oggi catapultato in un’aula insieme ad altri e altre giovani, ben più giovani di me. Infatti mi guardano con curiosità. Proprio durante la prima mattina ho avuto l’ennesima conferma che Berlino è un luogo del tutto particolare anche per i tedeschi. La nostra insegnante, di Monaco di Baviera e assai severa in tema di regole sociali, almeno all’apparenza, ci ha raccontato un aneddoto molto comune i Germania. Quando in una famiglia ci sono un figlio o una figlia un po’ matti (verrükt), che non vuole dire semplicemente pazzerellone, ma qualcosa di più (in italiano potrebbe stare per trasgressivo, senza regole o anche matto), i genitori e specialmente le madri lo apostrofano così: “Figlio mio, tu sei pazzo, devi andare a Berlino.”

In effetti la città ha goduto di privilegi assai significativi, specialmente per la popolazione giovane e che hanno contribuito ad attirare verso di essa, uomini e donne ribelli. Una misura per tutte: chi si trasferiva a Berlino era esentato dal servizio militare. Berlino era una città assediata anche dopo la fine del blocco sovietico: il suo ripopolamento però era necessario per cui occorreva incentivarlo con misure e bonus di varia natura. Questo favorì il trasferimento nella città di oppositori trasgressivi di ogni tipo. Le occupazioni dei centri sociali erano più che tollerate e costituivano una sorta di welfare aggiuntivo per chi arrivava in città. Tutto questo rese appetibile Berlino anche per molti giovani europei e questo ne faceva una città che agli occhi di molti tedeschi appariva senza regole.

7 Ottobre

Ieri sera il canale di storia ha mandato in onda un lunghissimo servizio unico nel suo genere e che finora non avevo visto neppure qui. Si tratta di una ricostruzione degli ultimi mesi di Guerra, dal febbraio del ‘45 fino al 9 maggio, data in cui l’Ammiraglio Donetz firmò la capitolazione della Germania senza condizioni. Niente di strano fin qui, solo che la ricostruzione storica era giorno per giorno! Il materiale cinematografico, in larga parte di fonte americana, era basato sia su documentazioni giornalistiche di inviati al fronte al seguito delle truppe, sia da filmati di cine operatori improvvisati, soldati stessi incaricati dagli ufficiali. Un materiale dunque diversificato: a volte s’intuiva una totale assenza di regia, in altri casi il contrario, una regia molto sorvegliata che aveva lavorato di tagli e montaggio in modo assai raffinato. L’accompagnamento di voce, sempre in tedesco, faceva pensare a un lavoro d’equipe successivo, anche se ogni tanto il commento fuori campo era in inglese e poi veniva tradotto. Se ne deduceva in generale che la parte tedesca avesse accettato del tutto tale documentazione ritenendola fedele in linea di massima ai fatti. Il mio giudizio di spettatore è assai problematico. Difficile valutare la natura dei tagli: non tanto perché la regia edulcori la guerra dal momento che ne mostra tutti gli orrori seppure senza indulgere in immagini che oggi definiremmo pulp, se non in rarissimi casi. Non trascura di mostrare atti di violenza gratuita da parte delle truppe alleate, anche verso soldati che si erano già arresi. L’effetto generale però appare sconcertante perché filmare ogni giorno di guerra dal febbraio rivela anche un atteggiamento un po’ maniacale. Tre particolari mi hanno colpito e in attesa di vedere le prossime puntate nelle prossime sere. L’assenza di scene di massa all’arrivo delle truppe americane come invece avveniva in Italia, il profluvio di bandiere bianche in segno di resa, sventolate non solo dalle truppe che si arrendevano, ma anche dalla popolazione civile; infine le poche immagini di campi di concentramento. Una sola scena inquadrava i morti accatastati e magrissimi che ci siamo abituati a vedere in altre immagini della Shoah. Naturalmente può essere che trattandosi di materiali mostrati molti anni dopo, la selezione abbia tenuto conto di molti altri documentari, ma se rimaniamo al discorso della presa diretta, si rimane lo stesso perplessi; ma per dare un giudizio definitivo su questo aspetto, attendo che il filmato arrivi a Buchenwald, il solo campo collocato nella parte ovest della Germania,

8 Ottobre.

L’uso della bandiera bianca in segno di resa da parte della popolazione civile, continua a sconcertarmi. Difficile da interpretare. Da un lato potrebbe significare che nell’avanzata delle truppe città per città e con i combattimenti strada per strada era difficile distinguere fra soldati e civili asserragliati nelle case, per cui tutti dovevano considerarsi in qualche modo belligeranti e quindi bersagli potenziali. Questo però contrasta con un altro particolare. L’avanzata delle truppe anglo-americane in territorio tedesco, pur lentissima, non sembra essere stata contrastata più di tanto dopo il fallimento della controffensiva tedesca a ridosso dei confini con Belgio e Olanda. Le scene mostravano interi plotoni che si arrendevano, quelle che hanno filmato veri e propri combattimenti sono poche. O i tagli sono stai fatti in modo tale da non riprendere la resistenza dell’esercito tedesco ai fini di mostrane la rotta più di quanto non fosse, oppure le cose sono andate davvero così, la tenuta della Wehrmacht fu poca cosa; ma questo non spiega (da un punto di vista militare), la lentezza dell’avanzata in territorio tedesco. L’unica supposizione è che ci fosse un accordo con l’Unione Sovietica per cui le truppe anglo americane non dovessero superare certi confini e specialmente lasciare alle truppe sovietiche il compito di entrare a Berlino. Yalta c’era già stata e la famosa mappa consegnata da Churchill a Stalin, con i confini d´Europa già tracciati e definiti quanto a sfere di influenza, era stata vistata dal leder sovietico con un certo entusiasmo, anche se poi – alla richiesta del leader britannico di esserne lui il custode – l’astuto georgiano aveva opposto un cortese rifiuto.   

9 Ottobre.

Oppure la spiegazione è un’altra e cioè che quella porzione di popolo tedesco mostrata dai vincitori, doveva apparire sconfitto come i soldati: in altre parole, i tedeschi tutti erano schierati con il regime e dunque alzavano la bandiera bianca in segno di resa perché si sentivano soldati come chi effettivamente combatteva. In effetti, i volti dolenti e sconfitti della popolazione avevano la stessa espressione delle truppe in divisa che tenevano le mani alzate. Un popolo dunque compatto che si sente partecipe della stessa sconfitta? Solo in una scena si vedono tre donne sorridenti che sventolano la bandiera bianca e che sono del tutto felici di vedere apparire le truppe alleate. Se tagli ci sono stati, eliminando del tutto le scene di entusiasmo così comuni in Italia è evidente che le ragioni andranno cercate non nella Guerra in corso, ma nel disegno del dopo. Accreditare del tutto l’asservimento del popolo italiano al Fascismo era impossibile perché la Resistenza era stata troppo forte per permetterlo: gran parte delle città erano state liberate prima dell’arrivo dei liberatori. In Germania le cose andarono diversamente ma oggi sappiamo anche che ci sono forti indizi che andarono così anche perché fu cancellata la memoria della resistenza tedesca, che pure vi fu, sebbene minoritaria in Germania ma niente affatto residuale nel resto d’Europa. 2000 disertori tedeschi hanno combattuto nella Guerra di Spagna e altri combatterono nelle resistenze europee e anche in Italia e in Unione Sovietica. Per accreditare il mantra della colpa collettiva del popolo tedesco bisognava mostrane il volto dimesso della sconfitta, le bandiere bianche in mano alla popolazione civile, significavano anche questo. Il resto fu cancellato in fretta e su di esso fu imposto il silenzio. Che Buchenwald fosse stato liberato dalla popolazione locale e dagli insorti del campo stesso è stato cancellato per decenni dalla storia tedesca, mentre è stata accreditata e alquanto sopravvalutata una presunta resistenza di settori cattolici e alto borghesi (Stauffenberg, la Rosa Bianca), perché si doveva occultare che c’era stata in Germania anche una attiva resistenza comunista che non aveva mai smesso di agire. In sostanza gli anglo americani, mentre stavano finendo di combattere una guerra ne avevano già iniziata un’altra. Al comune di Buchenwald, che aveva già eletto i propri rappresentanti dopo l’insurrezione, i liberatori americani imposero come borgomastro un vecchio rottame conservatore, cancellando manu militari la decisioni popolari e così avvenne da altre parti. Anche in Italia, peraltro, le trame atlantiche cominciano nel ‘44, quando si capì che la Guerra con il nazifascismo era ormai vinta e si trattava solo di una questione di tempo.   

12 Febbraio 2011.

Va in onda in prima serata un programma dal titolo Nicht alles war schlecht. Il canale Phoenix si occupa di grandi inchieste e il titolo m’incuriosisce: si potrebbe tradurre con non tutto andava male oppure anche con non tutto era cattivo. Quando le prime immagini e le fogge dei vestiti mi riportano agli anni ’70 e le riprese inquadrano Berlino intorno ad Alexander Platz, comprendo subito, prima ancora che si cominci a parlare, che l’oggetto dell’inchiesta è l’ex DDR. I servizi sulla Repubblica Democratica tedesca si sono intensificati negli ultimi anni, ne ho visti diversi, però capisco che questo reportage avrà dei toni e degli accenti differenti dal solito e infatti sarà così. Peraltro, un titolo così esplicito e senza punto interrogativo lo faceva presupporre. Il taglio della ricostruzione era l’immersione nella vita quotidiana, per poi da lì risalire all’economia, alla politica, alla struttura dello stato e alla sua ideologia. Come sempre avviene in questi programmi, il reportage s’interrompeva per far parlare alcuni protagonisti che esprimevano opinioni contrastanti: seguivano poi i commenti da studio, affidati a due diversi storici con approcci differenti. Infine, l’inchiesta si avvaleva di veri e propri momenti di sceneggiatura teatrale, dove venivano messi in scena simulazioni di situazioni in cui la vita comune delle persone entrava in conflitto con l’ideologia ufficiale. In una, per esempio, uno studente delle superiori viene trattenuto alla fine delle lezioni dall’insegnante che lo redarguisce aspramente per la foggia dei suoi vestiti e i capelli lunghi e le scarpe troppo occidentali. Mi stupisco, perché nelle scene precedenti, le immagini di concerti rock a Berlino est inquadravano masse urlanti di giovani niente affatto diverse da quelle delle piazze occidentali degli stessi anni; anzi, veniva sottolineato come l’idea che il rock fosse bandito negli stati socialisti era più il frutto di propaganda che non di realtà. Seguendo il colloquio, capivo che il problema era in effetti un altro e cioè che lo stesso abbigliamento non poteva essere adoperato a scuola e in un concerto; un problema di decoro e di rispetto per lo studio e la funzione della scuola. In sé, la cosa poteva pure avere un senso, se non fosse che la minaccia esplicita che si intuiva durante la sceneggiatura, era quella di sanzioni talmente pesanti e non solo di natura amministrativa, da rendere il tutto quantomeno assurdo. Tornando al titolo: che cosa non era tutto da buttare? Qui l’inchiesta si affidava molto di più alle testimonianze e allora anche le più critiche insistevano su fattori che erano stati ricordati più volte e che da noi venivano presi per semplice propaganda mentre era anche di sostanza: la sanità gratuita, l’accesso allo sport e allo studio, una certa libertà nell’uso del proprio corpo che sfociava nel nudismo come pratica quasi abituale. Un pugile, in particolare, sottolineava fortemente questi aspetti, che non erano negati neppure dai più critici, senza trascurare peraltro la grande questione del doping di massa, spacciato per medicina sportiva. Niente di nuovo sotto questo aspetto, nel senso che il lavoro garantito (anche quando non serviva a nulla) e servizi sociali efficienti, erano gli aspetti del capitalismo di stato comuni a tutti i paesi del socialismo reale, con maggiore o minore efficacia sociale e certamente quelli della ex DDR efficienti lo erano, tanto che ancora oggi nelle parti più orientali di Berlino, per esempio, alcune di quelle istituzioni sono rimaste in piedi e continuano ad essere elementi di aggregazione e di resistenza al degrado. L’inchiesta, a questo quadro sociale che in alcuni momenti appariva (se riportato alle immagini di vita quotidiana), di una decorosa esistenza, un po’ grigia ma non diversa da quella delle società occidentali degli anni ’50, giustapponeva l’altro aspetto, quella della mancanza di libertà, di tutta una serie di restrizioni – alcune delle quali assurde – e per ultima, ma non all’ultimo posto, la presenza abnorme e ingombrante del muro. Fra questi due aspetti, anche in questa inchiesta, c’era un gap, un vuoto nel mezzo che non può essere colmato da un servizio giornalistico per quanto accurato e serio. Il vuoto cui alludo è quello di una riflessione più profonda e che faccia un bilancio non solo politico di quelle società ma anche antropologico e anche teorico, partendo anche da una domanda molto semplice: ma era proprio necessario tutto quell’apparato poliziesco per arrivare a quello che le socialdemocrazie nordiche avevano realizzato a partire dagli anni ’30, senza pagare gli stessi prezzi? La risposta a questa semplice domanda non è naturalmente semplice ma occorre affrontarla se si vuole rimettere al centro la proposta politica una società diversa da quella esistente, patriarcale e capitalistica, ma lontana (seppure in modi diversi), sia dal socialismo reale sia delle socialdemocrazie nordiche che hanno finito il loro ciclo propulsivo sia al loro interno, sia come eventuale modello di riferimento.

6 Ottobre.

I modi in cui la televisione e la stampa tedesca riferiscono delle vicende di Berlusconi, è emblematico per capire la mentalità diversa dei due popoli e delle due culture, ma è anche un indice del fatto che i tedeschi hanno verso di noi un atteggiamento di interesse continuo, che li affascina al di là della facile ironia cui a volte sui abbandonano. Era già accaduto con la bocciatura della proposta Augello che aveva fatto scrivere nei titoli dei telegiornale: Italienisch Senat wählt die Ausschluss von Berlusconi. Letteralmente: il senato italiano vota l’espulsione di Berlusconi. Lo stesso schema linguistico si è ripetuto alcuni giorni dopo con il voto della giunta. Berlusconi verliest Senats mandat: Berlusconi perde il mandato di Senatore. Entrambi i titoli sono basati sul concetto di conseguenza logica derivante da un atto già compiuto. Se la giunta del Senato ha tolto il mandato se ne deduce che Berlusconi è decaduto da Senatore. Il problema è che il concetto di conseguenza logica e della sua stringente consequenzialità viene esteso a una materia per sua natura controversa. In politica esiste la conseguenza logica stringente? Non sempre, neppure per loro e infatti dall’esito elettorale alla formazione del governo, i tempi si allungano anche qui. L’argomentazione che questo avviene perché la Merkel non ha la maggioranza assoluta, come viene scritto dai giornali italiani, è però una obiezione tipicamente italiana, che solitamente qui non ha alcun corso, dal momento che nessuno contesta la sua legittimità a governare. In altri momenti meno delicati di questo, il governo sarebbe probabilmente già nato. Rimane però  un fatto indubitabile. Anche per le caratteristiche della lingua tedesca, il concetto di conseguenza logica è fondamentale e discriminante rispetto alle altre culture e lingue europee.

2 Dicembre.

La morte di Christa Wolf sta passando in un silenzio piuttosto greve qui in Germania. La televisione le aveva dedicato un servizio tre settimane fa. Il mio tedesco non mi permette di capire se fosse un coccodrillo anticipato, la sensazione è che si trattasse di un reportage normale. Pochi i commenti alla notizia della morte e anche girando in rete fra quelli italiani prevale, tranne che in alcuni interventi (primo fra tutto quello di Rossana Rossanda sul Manifesto), una certa acidità. Tutti a ricordare la storia che è poi un falso: quella dei suoi rapporti con la Stasi. Christa Wolf ha ricostruito più volte come sono andate le cose. Non ha negato di essere stata contattata dal servizio, ma a fronte della sua reticenza è stata oggetto lei stessa di attenzioni e spiata. Ci sono personaggi ben più imbarazzanti nella ex DDR, che hanno saputo abilmente riciclarsi. La colpa di Christa Wolf è un’altra: non avere abiurato l’idea comunista pur prendendo tutte le distanze del caso (ma con le armi della critica e della riflessione e non con quelle della rimozione), dalla storia dei regimi orientali. Rossana Rossanda, sul Manifesto, aggiunge altre considerazioni assai acute. Su Wolf ha pesato anche il fatto di non essere amata dalle femministe, proprio perché s’era impicciata di cose come il comunismo. La sua mancata abiura, e la sua tranquilla resistenza, permettono di scoprire molti altarini. È stato divertente in questi giorni leggere che proprio coloro che parlano a proposito e a sproposito di autonomia dell’arte e dell’artista da ogni pensiero, ideologica ecc. rivendicando che solo l’opera fa testo, parlando di Wolf si siano completamente dimenticati dell’opera e abbiano criticato le sue scelte politiche. La Wolf scrittrice avrà tutto il tempo che vuole per tornare a imporsi. Ha saputo risalire alla mitologia greca in un modo originalissimo, lontana sia dai cliché della parodia sia della rivisitazione del mito in chiave postmodernista. Ha certamente attualizzato il mito, ma anche questa parola non le rende giustizia: può renderla a Dürremmatt e a Borges, ma non del tutto a lei. Credo che Wolf abbia cercato nel mito arcaico le radici di una possibile utopia e dunque lo ha proiettato nel futuro, facendone una fonte dinamica d’ispirazione non soltanto letteraria. È questo che rende diverse le sue Cassandra e Medea da altre. Lei interroga questi miti nelle loro parti opache, a volte come in Medea li riscrive completamente, presupponendo tutta un’altra storia che sottostà a quella conosciuta; ma non lo fa sempre, come se seguisse un programma di riscrittura dell’intera storia occidentale al femminile. Altre volte li interroga in modo riflessivo, senza approdare a un’ipotesi necessariamente alternativa. Bisognerà certo ritornare con altri e più affilati strumenti a ripercorrere la sua opera, ma non riesco a sottrarmi, anche in questo caso, dallo scriverne a caldo, in diretta con gli eventi, spettatore partecipe. Anche per il solo fatto di trovarmi qui a Berlino, la sua morte è un altro di quei segni che tirano la riga su un’epoca. Con lei muore una seconda volta la Germania Orientale e forse sono destinate finalmente a morire anche le polemiche, dopo questi brevi fuochi residuali. Il mondo del capitalismo reale nel quale viviamo ci trascinerà in nuove tragedie, ma il passato non ci serve a nulla in questo momento, anche perché a differenza di quello che ha fatto lei, molti altri hanno semplicemente abdicato e rimosso. La sua opera di grande scrittrice del secondo ‘900 potrà invece vivere più liberamente.   

DIARIO BERLINESE: PRIMA PARTE

Spandau promenade

Introduzione

Berlino è stata per alcuni anni una città che ho abitato e non semplicemente visitato: precisamente dal 2007 al 2019. La pandemia Covid 19 ha chiuso una fase della vita, ponendo fine fra l’altro anche alla frequentazione abituale della città. Ci ritornerò? Non lo so, la questione  è assai complessa. I luoghi, con l’età che avanza, tendono a diventare definitivi nel ricordo e si ha quasi paura di turbarli di nuovo con la nostra presenza: poi però ci sono le relazioni e a Berlino ne ho stabilite poche ma di grande valore e intensità e con alcuni è difficile vedersi altrove. In attesa di trovare una soluzione al dilemma ho riletto il diario che ho tenuto in quegli anni e ho deciso di pubblicarlo qui a puntate.    

29 Ottobre 2007.

Abitare una città e non visitarla da turista diventa percepibile quando alcuni luoghi che pure si sono frequentati volentieri durante i primi momenti, escono quasi dalla vita quotidiana, sostituiti da altri più legati al quartiere in cui si vive, al supermercato dove si va sempre perché solo lì si trova il vino che ci piace, oppure l’internet point e il bar dove capita di scambiare qualche parola con i gestori turchi del medesimo.  Questa sensazione si è consolidata proprio in questi giorni.

30 Ottobre.

I luoghi influiscono sul modo di scrivere. È banale dirlo, ma quello che è difficile è mettere a fuoco il perché. Mi capita spesso di pensarlo qui a Berlino. Forse perché il mio tedesco è ancora misero e claudicante, scrivere a Berlino significa chiudersi dentro la propria lingua, attorniato da suoni che soltanto raramente diventano senso. A volte sono semplici parole, la cui frequente ripetizione suggerisce di colpo il significato e allora si forma come un atollo di significati che mi strappa alla lingua mia e mi riporta all’altra: da questa sorta di connubio dialettico sembra nascere qualcosa. Per il resto Berlino è una città che permette di rifarsi una verginità della vista, bombardati come siamo da immagini triviali; in questo anche Roma offre altrettanta e differente ricchezza. Perciò mi piace sempre di più scrivere in queste due città: forse vi è davvero un rapporto inverso fra comunicazione e scrittura. Mi ricordo anche di una recente intervista a uno scrittore ceco – Topol – il quale dice di venire a Berlino a scrivere proprio perché non sa il tedesco e può allora chiudersi in un silenzio che non è quello dell’assenza di parole, ma proprio la possibilità di essere immerso in una realtà potendo conservare la propria distanza. Berlino è avvolgente nel silenzio e questo accende altre parole… E poi la luce del nord, il suo estremismo che ha il proprio contraltare nel buio invernale altrettanto estremo.

6 gennaio 2008.

Forse la caratteristica saliente delle città tedesche è la presenza ancora oggi di un robusto apparato industriale all’interno del perimetro urbano; caso unico in Europa. Andando verso Amburgo con il bus lo si coglie bene. A parte le strutture del porto, tutta l’estrema periferia ovest della città è piena di ciminiere in azione, fabbriche, capannoni. Anche in zone più vicine al centro la presenza di industrie, in qualche caso dismesse, è altrettanto vistosa, tanto che in alcuni punti la città sembra un museo di archeologia industriale a cielo aperto. Alcune aree vengono destinate ad altri usi, ma lasciate nella loro integrità architettonica. A Milano tutto questo non esiste più da 50 anni ormai: l’ultima rovina industriale che ricordo è la stazione fatiscente della Bovisa, prima della bonifica. Nella parte est di Berlino la presenza industriale è ancora più evidente, a volte è difficile capire subito se una fabbrica sia ancora in funzione oppure sia una rovina. Poi si arriva ad Amburgo, un caso a parte: la ricostruzione del porto è qualcosa di spettacolare, uno degli esempi di architettura contemporanea più funzionali e belli da vedere, un mix di rispetto per la storia e di ardite soluzioni.

20 gennaio.

La visita al Museo ebraico di Berlino era in programma da tempo, ma non mi decidevo ad andarci, anche perché va detto che nella capitale tedesca i monumenti, i musei, le iniziative estemporanee che ricordano la Shoah sono tante; tuttavia quando si dice Museo ebraico si pensa a questo di Linden strasse, perché è di tutti il più completo e originale, anche come concezione architettonica. Esso è costruito intorno a quattro linee di forza che s’incrociano: la storia degli Ebrei in Germania da Costantino in poi, la storia delle persecuzioni, e delle conseguenti emigrazioni, la Shoah e infine il ritorno degli Ebrei nella Germania liberata e ancor più dopo la fine dell’Unione Sovietica. Progetto ambizioso, non sempre facile da seguire ma tuttavia esauriente. Le diverse linee che s’incrociano finiscono in tre casi in altrettanti vicoli ciechi. Il senso di essere immersi in un passato che non passa è assai forte, nonostante lo sforzo di avviare un discorso che sia anche di riconciliazione; ancora una volta mi ritrovo a pensare che l’orrore non sia rappresentabile e che solo i Greci si sono avvicinati a poterlo fare con una delle funzioni della tragedia: la catarsi, il rivivere insieme e collettivamente il dramma che permette di compatire, cioè patire insieme.

16 Febbraio.

Il paradosso berlinese quanto è destinato a durare? Difficile dirlo, ma l’insofferenza degli altri tedeschi cresce. A Berlino si vive troppo bene con poco e non è soltanto il frutto di una certa attitudine spartana, ma anche dei cospicui finanziamenti pubblici, riversati sulla città da tutta Europa. Berlino doveva essere risarcita in qualche modo dal fatto di essere stata la città di frontiera per eccellenza, di avere sopportato il peso della guerra fredda come nessun’altra città europea ha dovuto sopportare. Sono passati più di vent’anni, però, la memoria è corta. E poi a est rimpiangono addirittura il muro talvolta, sono molti a parlare di annessione, non di riunificazione e questo genera sentimenti ambivalenti: per l’uomo medio tedesco poco interessato alla politica, i berlinesi dell’est sono ingrati se rimpiangono il passato, mentre il cittadino dell’est, anche quello che aveva seguito le manifestazioni che portarono alla caduta della DDR, oggi, si rende conto di essere stato trattato come un tedesco di serie B. 

20 Febbraio.

Della detenzione dei gerarchi nazisti nel carcere interno alla cittadella di Spandau, non rimane quasi nulla. I tedeschi ricordano in molti modi la terribile avventura nazista, lo fanno con scrupolo e metodo e lo fanno da tempo, dal 1968 in poi, con grande determinazione. Però, hanno voluto ridare all’affascinante complesso di palazzi e cortili della Cittadella di Spandau, il volto di un centro culturale, dove avvengono mostre concerti e altro: hanno fatto bene. Spandau è una cittadina deliziosa, come Potsdam peraltro, circondata dalle acque come sempre, ed è difficile capire se si tratta di uno dei tanti rami e canali della Spree o di che altro, bisognerà restarci un bel po’ in questa città per orientarsi davvero nel suo labirinto di acque e di boschi!

10 Marzo.

A cena con amici italiani che vivono qui a Berlino da tempo.

“Pare siano 800.000 gli invisibili in città mi dice Stefano e Corinne conferma.

“Forse sono un po’ tanti” ribatto io, “e mi è pure difficile pensare che siano proprio invisibili, forse sono tollerati, lo sanno ma finché non diventa un problema, non intervengono …”

Difficile dirlo, ma il problema rimane, il flusso migratorio di giovani verso Berlino è continuo e rilevante e ne conveniamo tutti. Potrà continuare?  Si finisce sempre con questa domanda e la risposta è la recita di un mantra cui siamo tutti abituati: se l’Europa va in pezzi la Germania sarà l’ultima ad andarci e Berlino è l’ultimo posto a cadere. Rassicurati come sempre dopo ogni replica del copione, ci dedichiamo più volentieri al minestrone alla milanese che ho preparato cui segue un agnello sardo con patate e a cui seguirà il panettone – sì proprio lui – acquistato al Mittemeer e cioè alla catena di supermercati che vendono prodotti di pregio dei paesi del Mediterraneo: hanno confuso la Pasqua con il Natale ma la cosa ci mette ancora più allegria. I vini sono del Salento e di Spagna, abbiamo avuto le stesse idee in proposito, ma bevendo l’iberico mi rendo conto che anche loro hanno imparato a fare i rossi.

16 Marzo.

Capitato quasi per sbaglio alla Ostbanhof, cerco di capire cosa ci si possa fare. Ci sono le file di autobus in attesa di partire per i quartieri ancora più esterni di questa città che non finisce mai. Ripercorro allora la galleria da cui si sale ai binari dei treni ed esco dall’altra parte. A distanza vedo delle insegne di negozi. Esco, alla fine della breve scalinata che porta in strada staziona un gruppo di punk con accanto i cani di ordinanza e le bottiglie di birra nel mezzo del cerchio. Mi era già capitato di soffermarmi sulla differenza fra punk milanesi e berlinesi e questo gruppo me le richiama alla mente. Non parlo della foggia degli abiti, largamente comune e neppure del colore dei capelli o delle creste, di ordinanza come i cani, ma dell’atteggiamento. Il punk milanese maschio o femmina che sia è tendenzialmente aggressivo, la sua diversità è esibita: vuole essere notato, salvo poi mandarti al diavolo se gli fai qualche osservazione o anche semplicemente cerchi di parlarci. Spesso l’abito casual nasconde il griffato trash e alternativo, costoso, tanto da far pensare che dietro molti di loro ci siano famiglie non proprio indigenti. Sempre in movimento e petulanti nel chiedere, i punk milanesi, specialmente in certe zone della città, sembrano caricare all’eccesso il piacere di violare le regole; ma poiché nessuna comunità può vivere del tutto senza di esse, ecco che è sul cane che si riversa tale necessità. Mediamente meglio tenuti e puliti dell’animale umano cui si accompagnano, gli esemplari canini del punk milanese ostentano un portamento severo insieme a un distacco aristocratico: si muovono poco, osservano il mondo con l’occhio che oscilla fra un atteggiamento di indifferenza oppure uno sguardo del tipo “ma guarda cosa mi è capitato”; ma è solo un attimo, poi ritornano alla loro riservatezza fin troppo umana. Si spostano poco e solo se strettamente necessario e mai per attirare l´attenzione: sono loro alla fine che s’impongono nella coppia simbiotica, come portatori di una superiore dignità e allora può essere che anche il passante meno predisposto si lasci scivolare una moneta dalle mani, pensando al loro destino.

Il punk berlinese è del tutto diverso: più vicino al cliché nostrano del barbone di città il suo sguardo è rassegnato ma lui o lei sono educatissimi del comportamento. Il punk berlinese chiede con l’aria di chi sa già che non riceverà nulla, specialmente se si trova in metropolitana, ma non manca mai di ringraziare e augurare buona giornata all’interlocutore. Sa già che la sua diversità ha travalicato i confini di una città peraltro accogliente, ma che non tollera chi si è posto troppo oltre le regole e non guarda in faccia nessuno: tutti i punk che ho incontrato sono tedeschi, non ne ho visti di stranieri. E il cane? Pulcioso e sporco come i nostri vecchi cani da pagliaio si ingegna al posto del padrone per procurarsi il cibo, del resto la sua attitudine raminga non gli deve dispiacere del tutto: nella coppia simbiotica è lui a trarre il maggior beneficio da un ritorno al suo stato almeno in parte selvatico, mai del tutto cancellato nella specie cane da appartamento che subisce tutte le nostre nevrosi e malattie. Appena mi vede infatti, è lui a corrermi appresso (sono pur sempre uno che ha invaso il suo territorio), mentre il gruppo dei punk non mi degna di uno sguardo, sia pure per chiedermi qualcosa: una volta che ha messo a fuoco il mio intento del tutto pacifico, mi lascia al mio destino ma mi tiene d’occhio e infatti, non appena ho finito di guardarmi la posta in un internet point, ecco che riappare subito, si avvicina, scodinzola allegramente e mi guarda. È a lui in definitiva che do la moneta, come accade anche a Milano per ragioni opposte. Dal gruppo umano neppure uno sguardo: tutti con gli occhi rivolti a terra, oppure a chi sta loro di fronte in quel momento, seduti in cerchio come una vecchia tribù indiana, indifferenti a tutto e a tutti.

30 Marzo.

Mi sono spinto per l’ennesima volta nell’estrema periferia di Berlino: un vero e proprio viaggio perché il tram ci mette più di mezzora per raggiungere il capolinea di Wittenberg a partire da Alexander Platz! Dopo i grandi viali a ridosso del centro si arriva in una specie di terra di nessuno: campi sterrati, edifici fatiscenti, dove di certo non è difficile nascondersi. Pochi in quest´area gli spazi abitati. Per l’ennesima volta Berlino mi si rivela non solo immensa ma anche molto vuota. Ci sono voragini di spazio nella sua area urbana, e del resto 5 milioni di abitanti in un territorio come questo sono davvero pochi: se fosse una metropoli asiatica o latino americana ci abiterebbero almeno 20 milioni di persone.

2 Aprile.

Sì le cose stanno già cambiando anche qui eccome! La notizia mi arriva proprio oggi. L’amministrazione ha sospeso le erogazioni dei sussidi ai provenienti dai paesi del sud dell’Europa. Ci saranno ricorsi e molti vinceranno anche perché  la norma pare retroattiva, ma il segnale è chiaro e molto forte: l’accoglienza indiscriminata che Berlino ha riservato a tutti e anche fornendo percorsi di integrazione guidati e sussidi economici, è finita. Durava dalla caduta del muro e si farà presto a dimenticare gli anni della generosità, ora che per l’ennesima volta i tedeschi danno la misura della loro capacità di decidere in fretta: in una notte hanno cambiato tutte le regole, cosa per noi difficilmente digeribile viste la propensione a non decidere o a decidere male e poi a fare peggio nel momento di applicare le decisioni.   

3 Aprile.

Il segnale di cambiamento è forte, ma cosa sta davvero a significare al di là delle conseguenze che avrà verso coloro che qui avevano già iniziato un percorso di inserimento? La risposta più ovvia sta nel dire che anche la Germania non poteva continuare a reggere un livello di investimento pubblico e quindi di spesa così elevato, come è avvenuto per vent’anni. Del resto i tagli alla spesa sono cominciati anche qui e ci sono state grandi manifestazioni e scioperi quando è stato investito il settore universitario. Eppure la Germania sembra ancora lontana dal subire una contrazione del livello di vita medio (le secche di povertà e precarietà esistono eccome anche qui ma sono ben mascherate proprio dagli ammortizzatori sociali ancora efficienti). I provvedimenti si prestano dunque a diverse spiegazioni e risposte. Programmazione lungimirante della crisi? Oppure vicolo cieco nel quali tutti i popoli e gli stati europei si sono cacciati e verso il quale vanno in ordine sparso a sbattere uno per uno in tempi diversi? Oppure altro ancora? Difficile dirlo, ma una sensazione mi accompagna in modo martellante: gli storici ricorderanno questi mesi o poco più come un tempo di tregua prima di una grande tempesta. 

Berlin Pankov

GRAND TOUR: DA SCILLA A REGGIO CALABRIA

Reggio calabria

L’autobus arriva prima del previsto, addirittura con un’ora e mezza di anticipo e io mi sono svegliato da poco. Scilla è alle nostre spalle, abbiamo appena superato Villa San Giovanni, ma la strada che ricordo era assai più impervia di questa. Nel dormiveglia prima e ora con il brusco risveglio registro solo lentamente che non siamo più sulla vecchia provinciale, perché il tratto autostradale Salerno Reggio Calabria è stato finalmente completato e il pullman corre velocemente. Entriamo in città dal lungomare, non c’è anima viva, poi al centro di una piccola pineta: vedo le bancarelle di un mercatino domenicale e molti volti magrebini e africani. A sinistra e perpendicolari al viale alberato, le strade vanno bruscamente in salita, ma qui e là compaiono anche ampie scalinate che portano alle vie di mezza collina: poi, addirittura, un lungo tapis roulant. Un’immagine di molti anni fa mi torna alla memoria; anzi più di una e sono tutte televisive, in bianco e nero. Rivedo in rapida sequenza i blindati schierati in fondo alle strade che dalla collina scendono verso il mare; poi le barricate, gli scontri. La rivolta di Reggio Calabria del 1975 mi sembra giungere da un tempo remotissimo alla memoria, ma le strade sono ancora quelle e insieme alle lontane immagini torna il ricordo di una canzone – i treni per Reggio Calabria – di Giovanna Marini. Infine l’attentato in prossimità di Gioia Tauro, la determinazione di chi ci andò a Reggio: non io quella volta e non ricordo più neppure il perché. Alla stazione mi attende Eva in auto: ci dirigiamo verso la città alta. Sono stanco ma il viaggio verso casa è breve. Come avevo pensato l’auto sale perpendicolarmente e a ogni crocevia un viale corre parallelo al lungomare, le scalinate sono ancora più numerose di quelle che mi era sembrato di vedere … ma sono a Reggio Calabria o a Trieste? La sovrapposizione fra le due urbanistiche è impressionante e si conferma a ogni crocevia. Il senso di momentaneo straniamento viene superato di slancio quando Eva mi conferma che non sono il primo a osservarlo, anche se – aggiunge sorridendo – secondo D’Annunzio il chilometro e mezzo del lungomare reggino è il più bello d’Italia. In attesa di andarci a passeggio sorrido celando il mio scetticismo. Il pomeriggio stesso però lo dedichiamo proprio a quello e in effetti bisogna convenire con il Vate e – caso non frequente – il lungomare è stato preservato in modo assai intelligente da scempi urbanistici e altri mostri, nonostante le modifiche introdotte. L’idea d’interrare la ferrovia in un lungo tunnel che tuttavia bene si armonizza all’architettura monumentale precedente, è un esempio di equilibrio riuscito fra esigenze di modernizzazione e paesaggio urbano. Il tunnel del resto è dotato di sistemi di insonorizzazione e dall’esterno non ci si rende quasi conto del passaggio dei treni. 

La visita al castello aragonese si porta via una buona parte del mattino successivo e alla fine metto la mia firma sul registro dei visitatori, constatando che sono davvero troppo pochi per quello che offre.  Risalgo verso i viali più alti e periferici e penso che Reggio è una città architettonicamente fascista. Ne parlo con Paolo Rabissi, che mi conferma lo strano rapporto fra queste due entità urbane agli antipodi dello stivale italico. Anche Trieste lo era, “forse la più fascista d’Italia” aggiunge Paolo ricordando una frase detta da Mussolini, il cui significato era più o meno quello. La città, come tutte quelle di frontiera, era quella in cui la rivendicazione di italianità si sposava perfettamente con l’ideologia del regime. A Reggio la questione è prima di tutto un’altra, lascio per il momento sullo sfondo il tema direttamente e strettamente politico. Quello che mi colpisce girando per le strade è l’architettura delle case, delle palazzine, dei palazzi del potere amministrativo e giudiziario, a parte il mastodontico e modernissimo tribunale: è in questo tratto che trovo lo stile tipicamente fascista, così vistoso perché accompagna il visitatore a ogni strada. Il razionalismo, il gusto per un neoclassicismo fatto di linee sobriamente tracciate si riflette nella costruzione di palazzine basse che raramente arrivano ai cinque piani, monotone ma edificate secondo uno stile nel quale si riflette l’idea corporativa. Man mano che si va verso l’alto o verso i quartieri più popolari, le case e le palazzine sono più spoglie rispetto all’eleganza, comunque non vistosa, del centro o delle vie a ridosso del lungomare, ma il pattern rimane il medesimo, per trasmettere il senso di una appartenenza alla medesima comunità, divisa in classi ma segnata da un tratto comune. Peraltro la non eccessiva altezza degli edifici ha una sua logica antisismica e questo mette in luce un aspetto non troppo conosciuto. Si parla sempre del terremoto di Messina, ma si dimentica spesso di dire che esso coinvolse entrambe le città sullo stretto e che Reggio pagò un prezzo addirittura superiore, una distruzione totale degli edifici storici, ben diversi da quelli che si vedono oggi. Rimangono solo due tracce evidenti dell’architettura urbana reggina precedente l’evento catastrofico del 1908: due palazzetti purtroppo lasciati in un desolante degrado. I loro tratti sono inconfondibilmente arabeggianti, con piccole vetrate che sembrano quelle di una  moschea, colonne di capitelli che riflettono un’eleganza del tutto diversa, un po’ barocca, sfiorati dall’arte della miniatura tipicamente bizantina. La Reggio orientale e urbana scomparve con il terremoto, così come scomparvero i suoi abitanti, sostituiti da genti che provenivano dalle montagne e dalle colline intorno alla città. Si ruppe così la storia millenaria di un insediamento urbano che contende a Damasco e ad altre città del Medio Oriente, il primato dell’antichità delle origini. Facendo un rapido conto degli anni e ricordando le lentezze della burocrazia italiana e l’atteggiamento sostanzialmente coloniale dei suoi governi e la complicità delle classi dirigenti locali meridionali, si può comprendere come il grosso dello sforzo ricostruttivo della città dovette durare assai a lungo, finendo di completarsi proprio negli anni venti e trenta e dunque in pieno regime fascista. Da questo trova la sua origine la compattezza dell’architettura urbana di Reggio. Solo nel corso centrale, quello per intenderci dello struscio serale e domenicale, la mescolanza di stili porta il marchio di una modernità cresciuta dopo, nel secondo dopoguerra e ancor più si vede nella zone urbane più periferiche che hanno tratti di degrado simili a quelle di città più grandi. Infine la grande Reggio, dove la modernità senza alcuno stile è il tratto distintivo, comune ad altre città. Solo l’altezza degli edifici non cambia, tanto che in modo semplice Reggio è forse una città dai criteri antisismici meglio curati che altrove.       

DAVANTI ALLA SICILIA

Passeggio di nuovo sul lungomare assolato con la Sicilia lì a portata di mano, il pensiero corre a Goethe, ma anche a un libro recente scritto a quattro mani da un autore tedesco e da uno italiano: Mario Fortunato, un germanista che vive e lavora a Berlino e  Jan Koneffke, scrittore e traduttore dall’italiano e dal rumeno. Il loro libro mi è molto caro sia perché mi riporta alle atmosfere del Gran Tour di Goethe, sia perché mi riporta a Berlino da cui ormai manco da troppo tempo e all’amicizia con Franco Sepe. Fu proprio lui a suggerirmi la lettura di questo testo del 2016 dedicato proprio all’incontro fra Roma e Berlino. Cosa c’è di meglio che rileggerne alcune parti proprio qui sul bar di una spiaggia assolata, proprio davanti alla Sicilia e all’Etna in lontananza. Il libro è la ricostruzione di percorso personale, una sorta di iniziazione che ha come protagonisti il poeta tedesco e un giovane nordico contemporaneo che arriva nella Calabria di alcuni anni fa: fra il viaggio di Goethe e quello del ragazzo nordico ci sono di mezzo i secoli, ma certe descrizioni sembrano potersi scambiare il tempo, seppure con qualche differenza non da poco. Il poeta tedesco aveva vinto strada facendo i suoi pregiudizi da protestante tedesco nei confronti del mondo mediterraneo e aveva pure incontrato Faustina. La storia d’amore fra il norvegese contemporaneo e il ragazzo calabrese è una storia omosessuale, felice come l’altra.

Il tempo scorre, la lettura piacevole mi accompagna, ma intanto i canadair continuano a volare e a raccogliere acqua, ogni cinque minuti: il rumore è assordante e tutti gli sguardi sono rivolti alle colline circostanti e alla Sicilia. Smetto di leggere e osservo: non riesco a provare una vera apprensione, però la frequenza dei voli suscita un certo allarme. Fumo ovunque, incendi ovunque che nascono in continuazione. Non sono il solo a levare lo sguardo al cielo, del resto è un evento – questo degli incendi – che accade puntualmente ogni anno, ma la sensazione è che l’anno 2017 sia del tutto particolare. Abbandono il libro e sfoglio alcuni quotidiani sui tavoli del bar. La statistica è impietosa, il fenomeno è troppo abnorme per essere associato alle consuetudini tristi dell’estate italiana. C’è qualcosa d’altro? E che cosa? I giornali locali insistono a loro volta sull’abnormità del fenomeno, le ipotesi si susseguono e sono le solite cui si pensa: constato, che a parte alcuni casi, nessuno crede davvero ai piromani. La mia attenzione però si concentra su un articolo in particolare, che mette in relazione gli incendi con l’aumento degli sbarchi di migranti, superiore anch’esso agli anni precedenti. Un uomo seduto al tavolo di fianco al mio mi osserva, ci sorridiamo e salutiamo.

“Lei non è di qui e si sta domandando cosa stia succedendo …”

“Sì, stavo cercando di capire questo articolo, il solo che metta in relazione incendi e sbarchi …”

“Chi controlla gli sbarchi è lo stesso che causa gli incendi …”

Decido di non dire nulla.

“Fra un paio di giorni sarà tutto finito, vedrà.”

Saluta e se ne va.

La sera stessa al telegiornale arriva la notizia che il ministro degli interni Minniti è corso in Libia per raggiungere un accordo sugli sbarchi. Ora sappiamo molto bene cosa stava scritto in quel patto scellerato: i centri di detenzione, la Libia dei torturatori considerata porto sicuro e tutto il resto, ma allora non si capiva bene. Due giorni dopo però, Minniti arrivò in Calabria a magnificare l’accordo appena raggiunto: il giorno dopo cessarono gli incendi. Tornai a quel bar, ma lo sconosciuto con cui avevo parlato non  lo rividi più.     

  

Scilla.

GRAND TOUR: VENEZIA E LIDO DEGLI ALBERONI

Lido degli Alberoni a Venezia

La strana decadenza veneziana è proporzionale alla forza che la Serenissima ebbe nel suo passato. Paolo Rabissi mi corregge quando gliene parlo:

“Guarda che lì come qui a Forte dei Marmi, siamo aldilà della decadenza.”

Ci penso un po’ e ne concludo che Paolo ha ragione: neppure oltre, ma proprio aldilà. Essere oltre vuole dire poter tornare, mentre dall’aldilà non si torna, si può solo permanere in esso immobili, senza mutamento, un po’ come l’acqua della laguna che, anche quando s’increspa, permane nella sua piatta uniformità. I colori però riportano a una bellezza che non muore, fuori dal tempo e anche dalla storia, nonostante i motoscafi. Vista dagli Alberoni, la laguna è anche una striscia di terra sottile, lunga una decina di chilometri e larga non più di uno, che si estende dal Lido vero e proprio, con i suoi sfarzi, fino alla punta estrema da cui ci s’imbarca per Pellestrina, un’altra striscia più o meno analoga, alla fine della quale ci si trova dirimpetto a Chioggia. Davanti a essa e nel mare lagunare, una serie di isolotti disabitati, forse vecchi avamposti militari o piccole fortezze d’avvistamento. Il silenzio la fa da padrone, ma su quello naturale e ambientale pesa anche quello della storia. Venezia sembra non potere avere altro se non un destino turistico, anche se i veneziani i turisti sembrano subirli più che amarli perché è pur sempre una città vivente anche nella contemporaneità, ma in un presente deprivato e stanco. Non so se l’acredine che spesso traspare sia dovuta alla nostalgia per il passato glorioso o semplicemente perché ce l’hanno con il mondo in modo un po’ ottuso, visti i risultati. Forse è soltanto la difficoltà di arrendersi a una legge della storia e dell’antropologia, che pur non avendo la stessa cogenza delle leggi fisiche, pur tuttavia esiste. Chi ha avuto troppo prima non può avere sempre e mi domando, allora, se Venezia non sia una metafora dell’Italia intera.

In Italia e in Grecia è nato gran parte di ciò che definiamo Occidente ed eccoci di nuovo tornati alle origini. Tutte le forme politiche e religiose occidentali sono nate qui: dalla repubblica alla democrazia, dagli imperi all’autocrazia, dai politeismi ai monoteismi. Poco più in là e in tempi molto remoti solo l’Impero Egizio può vantare altrettanto prestigio, ma essendo troppo perfetto nella sua commistione riuscita fra potere religioso e temporale, rimane un modello probabilmente inimitabile. Sul suolo italiano sono nate le due costruzioni geopolitiche più durature della storia occidentale, seconde solo all’Impero Egizio: quello Romano e la Repubblica di Venezia. Sul primo si è detto tutto, su Venezia meno, ma se si pensa alla sua durata nel tempo si rimane stupefatti. I veneziani hanno saputo proteggere molto bene la loro storia: ne sono entrati da protagonisti in punta di piedi, addirittura dal sesto secolo e sulle macerie di una legione romana, per poi uscirne altrettanto in punta di piedi con la conquista napoleonica: oltre mille anni! Quanto alla democrazia, la vulgata che ne pone la nascita nella polis greca, va oggi integrata dalla consapevolezza che, in quella forma, non era esportabile in un grande stato, anche perché il suo difetto d’origine era pur sempre quello di essere fondata su un modello patriarcale e di essere una democrazia per pochi uomini liberi. Le culture nordeuropee e poi quella anglo sassone e francese hanno inventato la sola forma geopolitica moderna, di cui non vi è traccia nell’antichità e che ci accompagnerà ancora per poco: lo stato nazionale. Esso nacque legato a stretto filo al nascente capitalismo, anzi, ne fu l’involucro geopolitico naturale per arrivare a un’estensione su larga scala della fase mercantilista. La Lega Anseatica, pur non essendo uno stato, svolse la stessa funzione, mentre le Repubbliche Marinare in Italia nacquero troppo presto per diventare il collante di una possibile unificazione nazionale. Solo la Repubblica di Venezia assunse un ruolo di grande potenza anomala e questo sorprendente risultato vale la pena di guardarlo più da vicino perché, se da un lato conferma alcune regole immutabili della geopolitica da cinquemila anni a questa parte, dall’altro vi apporta alcune integrazioni assai interessanti. Quella che segue è la cartina della Repubblica di Venezia nel momento della sua massima espansione.

Lo Stato includeva, nel XVIII secolo e sino alla sua caduta, gran parte dell’Italia nord-orientale, nonché dell’Istria e della Dalmazia e oltre a numerose isole del Mare Adriatico (il Golfo di Venezia) e dello Ionio orientale.

Se si osserva attentamente questa strana mappa ci si rende conto che il capolavoro dei veneziani fu la rinuncia a conquistare ampi spazi terrestri, a parte un pezzo relativamente grande di Grecia continentale: per il resto solo isole e strisce di terra. In sostanza la loro genialità fu quella di far credere che fossero un’isola essi stessi, nonostante non lo fossero del tutto; in questo troviamo la conferma di un paradigma geopolitico ma anche una sua mutazione assai intelligente. Lo si capisce anche dalle guerre strategiche che i veneziani intrapresero: non di conquista nel senso usuale del termine, ma volte a eliminare l’eventuale concorrenza e le sole entità politiche che potevano in teoria coltivare un progetto analogo al loro erano proprio le altre repubbliche marinare. Le guerre con queste ultime furono condotte con una determinazione che non lasciò scampo ad Amalfi, Pisa e Genova anche se va detto che quest’ultima aveva già trovato una sua strada diversa per galleggiare piuttosto bene nel nuovo mondo che stava nascendo: diventare il banchiere d’Europa, più tardi insieme ai fiorentini. Quanto a Pisa era troppo nordica per poter svolgere un ruolo autonomo in quello scenario. La vera possibile concorrente era Amalfi, affacciata sulle coste africane, potenzialmente in grado di fare ciò che Venezia fece con le fasce di terra adriatica. Una volta eliminata la concorrenza, infondo conveniva a tutti rispettare e tutelare – pur fra scontri e tensioni – l’autonomia della Repubblica. La rinuncia ad ampie conquiste territoriali lasciava tranquilli i grandi stati nazionali nascenti, che potevano trovare in essa un momentaneo alleato. La sua presenza sulle coste era un presidio contro la pirateria e talvolta i veneziani ne fecero una risorsa: lasciando per esempio via libera ai pirati uscocchi nell’Adriatico, in funzione anti francese e anti spagnola. Insomma, tenendosi fuori dai grandi conflitti dinastici (erano una repubblica), alla larga da tentazioni militariste di ampia conquista territoriale, i veneziani quatti quatti si ritirarono nella loro nicchia. Venezia fu la capitale dell’intero occidente nel 1500, un po’ come New York oggigiorno e questo capolavoro riuscì loro anche per la struttura del governo interno. Se si pensa ai tempi, quello di Venezia era uno stupefacente governo democratico e repubblicano.

L’Italia vista da qui è il più grande museo archeologico a cielo aperto dell’intero Occidente e questa dovrebbe essere la maggiore preoccupazione di governi e popolazione: custodire questo sito, farlo vivere, dedicare ogni energia alla sua manutenzione. Tutto il resto, dalla narrazione sulla settima e poi addirittura quinta potenza industriale è solo il frutto di un’illusione ottica creata dalla Guerra Fredda e che ha cominciato a finire il giorno dopo la caduta del Muro di Berlino. Vi sono solo due elementi di quella parentesi storica, che si possono far risalire alla cultura italiana più profonda e ne costituiscono la vera continuità e un fattore importante d’identità virtuosa: la costruzione di strade e l’apporto scientifico e tecnologico, più che non genericamente culturale. La plastica deriva del moplen e fu sperimentata in Italia prima che altrove grazie a Giulio Natta; c’è almeno un fisico italiano per ogni generazione del ‘900 (Majorana, Fermi, Pontecorvo, Amaldi, Rubbia, Parisi). Oggi questa tradizione continua e sono molto spesso le donne a esserne protagoniste: Gianotti, Branchesi, Fafone e Stratta. Tale apporto riguarda quasi tutti i campi del sapere, con quello scientifico al primo posto: la tradizione umanistica, invece, di cui siamo tanto fieri, si sta perdendo nel degrado di una scuola che non è più in grado di trasmetterla e che forse dovrà essere custodito altrove per alcuni secoli come lo fu la grande cultura classica nei conventi benedettini.

Venezia città

Era da tempo che non approdavo in città e arrivarci dal Lido è un’esperienza del tutto diversa. Il lido è luogo di silenzi. Arrivando da qui non si entra immediatamente nel flusso turistico, come accade giungendo alla stazione o in piazza Roma. Solo le scie degli aerei disturbano la quiete, ma basta non alzare troppo gli occhi al cielo e ci si dimentica che l’aeroporto di Venezia è uno dei più trafficati al mondo. Arrivare nel cuore di Venezia dal Lido è un po’ come venirci da un altro tempo. La città si avvicina lentamente, poi si cominciano a vedere in lontananza i campanili, a individuarli, poi le cupole delle chiese; ma tutto molto lentamente. La velocità delle navi, a confronto con quella di altri mezzi, è rimasta molto indietro, l’acqua offre una resistenza e un attrito che l’aria non conosce, ma neppure la terra. Se non fosse per Porto Marghera con le sue guglie sinistre e minacciose, potremmo essere dei viaggiatori di molti secoli fa provenienti dall’Oriente. Anche il brusio della città si avvicina lentamente e anche quando si è nel vivo del flusso di folla, i rumori rimangono lontani nel tempo, appartenenti anch’essi a un aldilà. Quanto alla folla, sciama verso le solite mete, con mancanza di fantasia, a parte coloro che vengono per vedere mostre o altro. È una folla consumista e disattenta, che può passare indifferentemente dalle magliette delle squadre di calcio ai negozi dei vetri pregiati di Murano. Cose già viste, eppure man mano che ci aggiriamo per la città mi rendo conto che qualcosa è cambiato anche sotto questo aspetto. L’aumento vertiginoso dei chioschi ha assunto una dimensione post consumista, siamo in un altro aldilà, ancora più inquietante. Leggo su un giornale che ora i veneziani stanno protestando per la presenza delle grandi navi davanti a piazza san Marco, ma mi domando se quello che vedo per le strade non sia anche peggio. Capisco gli abitanti che non escono di casa per non finire nel mezzo di questa assurda baraonda, ma perché accettarla allora e in nome di che cosa? Forse dell’affitto di suolo pubblico a prezzi esorbitanti che servirà a risanare il patrimonio della città? Se fosse questo mi sembra una strategia perdente, ma forse non c’è una vera ragione, ma solo una deriva accolta con rassegnazione, come avviene per molte altre cose. L’ambivalenza rabbiosa dei veneziani rispetto al flusso turistico la si coglie meglio entrando nei bar: è quello che facciamo anche noi. L’ordinazione (un gelato per Mattia, un ghiacciolo per Anna, un caffè per me), lascia del tutto insoddisfatto il gestore che infatti dopo l’ordinazione mi chiede perentoriamente se voglio soltanto un caffè. La tentazione di uscire subito è forte, ma poi faccio finta di niente badando solo ad accorciare il più possibile la permanenza. Usciamo e sciamiamo anche noi diretti a Piazza san Marco, con l’idea di farla apprezzare ai nipoti; impresa quanto mai difficile in questo bailamme. Intanto si sta avvicinando mezzogiorno e anche un po’ di fame. Un altro bar si profila all’orizzonte e almeno a una prima vista ha un aspetto accattivante. Piccolo, come tutti gli spazi veneziani, è arredato all’antica. I tavolini eleganti, le sedie curate, le piccole teche con le bottiglie di vino bene allineate invogliano a entrare. Sembra pieno a una prima occhiata panoramica, ma siamo fortunati perché si liberano due tavoli e così possiamo ordinare. Mentre attendiamo mi guardo intorno: sì, siamo proprio capitati in un angolo di vecchia Venezia, allegra, in mezzo a turisti che vengono da tutte le parti, rilassati, anche perché, a differenza dell’altro bar, in questo siamo simpaticamente accolti. Il servizio è ottimo e i gestori sono gentilissimi, svolgono il lavoro nei tempi giusti, rispettando rigorosamente l’ordine delle diverse richieste e hanno un sorriso per tutti: sono tre cinesi e un’indiana.

Il ritorno pomeridiano è un altro viaggio nel tempo. Non è soltanto la lentezza, ma la riconquista del silenzio dopo il caos della città urbana. Solo approdando nella parte più mondana del Lido si apre per un attimo una parentesi, poi è di nuovo oblio. L’autobus corre per i viali ancora vuoti, il caldo è soffocante e rallenta a sua volta i movimenti. Fra il Lido e gli Alberoni c’è una piccola frazione, Malamocco, fatta di vie strette e due larghi Campi. Il nome evoca qualcosa di sinistro, ma il luogo è terso. Il ponte, in fondo alla grande piazza, supera il canale e fa di questa piccola frazione un’isola fra la laguna e le spiagge che da esso s’intravvedono in lontananza. Risalgo sull’autobus verso il piccolo porto dove c’è un bar con terrazza sul mare: un luogo ideale dove leggere e attendere l’ora della riapertura dei negozi, che finalmente arriva; ma alla Coop una sorpresa mi attende. Il supermercato è chiuso anche se gli addetti sono tutti lì al lavoro. Chiedo spiegazioni e mi guardano sorpresi. Due vaporetti non sono arrivati e senza merci sugli scaffali è meglio fare lavori di manutenzione; riapriranno fra un’ora, sperando in un terzo vaporetto. Non ho nessuna voglia di aspettare e, in fondo, a casa ce n’è abbastanza di cibo per arrivare al giorno dopo. Mentre ripercorro a ritroso la strada, con il sole che comincia a calare e i colori della laguna si fanno ancora più sfumati, mi coglie il pensiero che potrebbero farcela per una seconda volta a scomparire e a rinascere i veneziani; o comunque a rimanere nel loro aldilà senza che nessuno li disturbi. Se è sufficiente il mancato arrivo di due vaporetti per fermare il consumismo almeno per qualche ora vuol dire che l’aldilà è proprio una frontiera insuperabile. Con le sue insopportabili zanzare, che nessuna tecnologia potrà mai eliminare del tutto da una laguna, questo mondo potrebbe di nuovo diventare una nicchia, un limbo arcaico nel futuro incerto che ci attende.  

Malamocco