DIARIO BERLINESE: PRIMA PARTE

Spandau promenade

Introduzione

Berlino è stata per alcuni anni una città che ho abitato e non semplicemente visitato: precisamente dal 2007 al 2019. La pandemia Covid 19 ha chiuso una fase della vita, ponendo fine fra l’altro anche alla frequentazione abituale della città. Ci ritornerò? Non lo so, la questione  è assai complessa. I luoghi, con l’età che avanza, tendono a diventare definitivi nel ricordo e si ha quasi paura di turbarli di nuovo con la nostra presenza: poi però ci sono le relazioni e a Berlino ne ho stabilite poche ma di grande valore e intensità e con alcuni è difficile vedersi altrove. In attesa di trovare una soluzione al dilemma ho riletto il diario che ho tenuto in quegli anni e ho deciso di pubblicarlo qui a puntate.    

29 Ottobre 2007.

Abitare una città e non visitarla da turista diventa percepibile quando alcuni luoghi che pure si sono frequentati volentieri durante i primi momenti, escono quasi dalla vita quotidiana, sostituiti da altri più legati al quartiere in cui si vive, al supermercato dove si va sempre perché solo lì si trova il vino che ci piace, oppure l’internet point e il bar dove capita di scambiare qualche parola con i gestori turchi del medesimo.  Questa sensazione si è consolidata proprio in questi giorni.

30 Ottobre.

I luoghi influiscono sul modo di scrivere. È banale dirlo, ma quello che è difficile è mettere a fuoco il perché. Mi capita spesso di pensarlo qui a Berlino. Forse perché il mio tedesco è ancora misero e claudicante, scrivere a Berlino significa chiudersi dentro la propria lingua, attorniato da suoni che soltanto raramente diventano senso. A volte sono semplici parole, la cui frequente ripetizione suggerisce di colpo il significato e allora si forma come un atollo di significati che mi strappa alla lingua mia e mi riporta all’altra: da questa sorta di connubio dialettico sembra nascere qualcosa. Per il resto Berlino è una città che permette di rifarsi una verginità della vista, bombardati come siamo da immagini triviali; in questo anche Roma offre altrettanta e differente ricchezza. Perciò mi piace sempre di più scrivere in queste due città: forse vi è davvero un rapporto inverso fra comunicazione e scrittura. Mi ricordo anche di una recente intervista a uno scrittore ceco – Topol – il quale dice di venire a Berlino a scrivere proprio perché non sa il tedesco e può allora chiudersi in un silenzio che non è quello dell’assenza di parole, ma proprio la possibilità di essere immerso in una realtà potendo conservare la propria distanza. Berlino è avvolgente nel silenzio e questo accende altre parole… E poi la luce del nord, il suo estremismo che ha il proprio contraltare nel buio invernale altrettanto estremo.

6 gennaio 2008.

Forse la caratteristica saliente delle città tedesche è la presenza ancora oggi di un robusto apparato industriale all’interno del perimetro urbano; caso unico in Europa. Andando verso Amburgo con il bus lo si coglie bene. A parte le strutture del porto, tutta l’estrema periferia ovest della città è piena di ciminiere in azione, fabbriche, capannoni. Anche in zone più vicine al centro la presenza di industrie, in qualche caso dismesse, è altrettanto vistosa, tanto che in alcuni punti la città sembra un museo di archeologia industriale a cielo aperto. Alcune aree vengono destinate ad altri usi, ma lasciate nella loro integrità architettonica. A Milano tutto questo non esiste più da 50 anni ormai: l’ultima rovina industriale che ricordo è la stazione fatiscente della Bovisa, prima della bonifica. Nella parte est di Berlino la presenza industriale è ancora più evidente, a volte è difficile capire subito se una fabbrica sia ancora in funzione oppure sia una rovina. Poi si arriva ad Amburgo, un caso a parte: la ricostruzione del porto è qualcosa di spettacolare, uno degli esempi di architettura contemporanea più funzionali e belli da vedere, un mix di rispetto per la storia e di ardite soluzioni.

20 gennaio.

La visita al Museo ebraico di Berlino era in programma da tempo, ma non mi decidevo ad andarci, anche perché va detto che nella capitale tedesca i monumenti, i musei, le iniziative estemporanee che ricordano la Shoah sono tante; tuttavia quando si dice Museo ebraico si pensa a questo di Linden strasse, perché è di tutti il più completo e originale, anche come concezione architettonica. Esso è costruito intorno a quattro linee di forza che s’incrociano: la storia degli Ebrei in Germania da Costantino in poi, la storia delle persecuzioni, e delle conseguenti emigrazioni, la Shoah e infine il ritorno degli Ebrei nella Germania liberata e ancor più dopo la fine dell’Unione Sovietica. Progetto ambizioso, non sempre facile da seguire ma tuttavia esauriente. Le diverse linee che s’incrociano finiscono in tre casi in altrettanti vicoli ciechi. Il senso di essere immersi in un passato che non passa è assai forte, nonostante lo sforzo di avviare un discorso che sia anche di riconciliazione; ancora una volta mi ritrovo a pensare che l’orrore non sia rappresentabile e che solo i Greci si sono avvicinati a poterlo fare con una delle funzioni della tragedia: la catarsi, il rivivere insieme e collettivamente il dramma che permette di compatire, cioè patire insieme.

16 Febbraio.

Il paradosso berlinese quanto è destinato a durare? Difficile dirlo, ma l’insofferenza degli altri tedeschi cresce. A Berlino si vive troppo bene con poco e non è soltanto il frutto di una certa attitudine spartana, ma anche dei cospicui finanziamenti pubblici, riversati sulla città da tutta Europa. Berlino doveva essere risarcita in qualche modo dal fatto di essere stata la città di frontiera per eccellenza, di avere sopportato il peso della guerra fredda come nessun’altra città europea ha dovuto sopportare. Sono passati più di vent’anni, però, la memoria è corta. E poi a est rimpiangono addirittura il muro talvolta, sono molti a parlare di annessione, non di riunificazione e questo genera sentimenti ambivalenti: per l’uomo medio tedesco poco interessato alla politica, i berlinesi dell’est sono ingrati se rimpiangono il passato, mentre il cittadino dell’est, anche quello che aveva seguito le manifestazioni che portarono alla caduta della DDR, oggi, si rende conto di essere stato trattato come un tedesco di serie B. 

20 Febbraio.

Della detenzione dei gerarchi nazisti nel carcere interno alla cittadella di Spandau, non rimane quasi nulla. I tedeschi ricordano in molti modi la terribile avventura nazista, lo fanno con scrupolo e metodo e lo fanno da tempo, dal 1968 in poi, con grande determinazione. Però, hanno voluto ridare all’affascinante complesso di palazzi e cortili della Cittadella di Spandau, il volto di un centro culturale, dove avvengono mostre concerti e altro: hanno fatto bene. Spandau è una cittadina deliziosa, come Potsdam peraltro, circondata dalle acque come sempre, ed è difficile capire se si tratta di uno dei tanti rami e canali della Spree o di che altro, bisognerà restarci un bel po’ in questa città per orientarsi davvero nel suo labirinto di acque e di boschi!

10 Marzo.

A cena con amici italiani che vivono qui a Berlino da tempo.

“Pare siano 800.000 gli invisibili in città mi dice Stefano e Corinne conferma.

“Forse sono un po’ tanti” ribatto io, “e mi è pure difficile pensare che siano proprio invisibili, forse sono tollerati, lo sanno ma finché non diventa un problema, non intervengono …”

Difficile dirlo, ma il problema rimane, il flusso migratorio di giovani verso Berlino è continuo e rilevante e ne conveniamo tutti. Potrà continuare?  Si finisce sempre con questa domanda e la risposta è la recita di un mantra cui siamo tutti abituati: se l’Europa va in pezzi la Germania sarà l’ultima ad andarci e Berlino è l’ultimo posto a cadere. Rassicurati come sempre dopo ogni replica del copione, ci dedichiamo più volentieri al minestrone alla milanese che ho preparato cui segue un agnello sardo con patate e a cui seguirà il panettone – sì proprio lui – acquistato al Mittemeer e cioè alla catena di supermercati che vendono prodotti di pregio dei paesi del Mediterraneo: hanno confuso la Pasqua con il Natale ma la cosa ci mette ancora più allegria. I vini sono del Salento e di Spagna, abbiamo avuto le stesse idee in proposito, ma bevendo l’iberico mi rendo conto che anche loro hanno imparato a fare i rossi.

16 Marzo.

Capitato quasi per sbaglio alla Ostbanhof, cerco di capire cosa ci si possa fare. Ci sono le file di autobus in attesa di partire per i quartieri ancora più esterni di questa città che non finisce mai. Ripercorro allora la galleria da cui si sale ai binari dei treni ed esco dall’altra parte. A distanza vedo delle insegne di negozi. Esco, alla fine della breve scalinata che porta in strada staziona un gruppo di punk con accanto i cani di ordinanza e le bottiglie di birra nel mezzo del cerchio. Mi era già capitato di soffermarmi sulla differenza fra punk milanesi e berlinesi e questo gruppo me le richiama alla mente. Non parlo della foggia degli abiti, largamente comune e neppure del colore dei capelli o delle creste, di ordinanza come i cani, ma dell’atteggiamento. Il punk milanese maschio o femmina che sia è tendenzialmente aggressivo, la sua diversità è esibita: vuole essere notato, salvo poi mandarti al diavolo se gli fai qualche osservazione o anche semplicemente cerchi di parlarci. Spesso l’abito casual nasconde il griffato trash e alternativo, costoso, tanto da far pensare che dietro molti di loro ci siano famiglie non proprio indigenti. Sempre in movimento e petulanti nel chiedere, i punk milanesi, specialmente in certe zone della città, sembrano caricare all’eccesso il piacere di violare le regole; ma poiché nessuna comunità può vivere del tutto senza di esse, ecco che è sul cane che si riversa tale necessità. Mediamente meglio tenuti e puliti dell’animale umano cui si accompagnano, gli esemplari canini del punk milanese ostentano un portamento severo insieme a un distacco aristocratico: si muovono poco, osservano il mondo con l’occhio che oscilla fra un atteggiamento di indifferenza oppure uno sguardo del tipo “ma guarda cosa mi è capitato”; ma è solo un attimo, poi ritornano alla loro riservatezza fin troppo umana. Si spostano poco e solo se strettamente necessario e mai per attirare l´attenzione: sono loro alla fine che s’impongono nella coppia simbiotica, come portatori di una superiore dignità e allora può essere che anche il passante meno predisposto si lasci scivolare una moneta dalle mani, pensando al loro destino.

Il punk berlinese è del tutto diverso: più vicino al cliché nostrano del barbone di città il suo sguardo è rassegnato ma lui o lei sono educatissimi del comportamento. Il punk berlinese chiede con l’aria di chi sa già che non riceverà nulla, specialmente se si trova in metropolitana, ma non manca mai di ringraziare e augurare buona giornata all’interlocutore. Sa già che la sua diversità ha travalicato i confini di una città peraltro accogliente, ma che non tollera chi si è posto troppo oltre le regole e non guarda in faccia nessuno: tutti i punk che ho incontrato sono tedeschi, non ne ho visti di stranieri. E il cane? Pulcioso e sporco come i nostri vecchi cani da pagliaio si ingegna al posto del padrone per procurarsi il cibo, del resto la sua attitudine raminga non gli deve dispiacere del tutto: nella coppia simbiotica è lui a trarre il maggior beneficio da un ritorno al suo stato almeno in parte selvatico, mai del tutto cancellato nella specie cane da appartamento che subisce tutte le nostre nevrosi e malattie. Appena mi vede infatti, è lui a corrermi appresso (sono pur sempre uno che ha invaso il suo territorio), mentre il gruppo dei punk non mi degna di uno sguardo, sia pure per chiedermi qualcosa: una volta che ha messo a fuoco il mio intento del tutto pacifico, mi lascia al mio destino ma mi tiene d’occhio e infatti, non appena ho finito di guardarmi la posta in un internet point, ecco che riappare subito, si avvicina, scodinzola allegramente e mi guarda. È a lui in definitiva che do la moneta, come accade anche a Milano per ragioni opposte. Dal gruppo umano neppure uno sguardo: tutti con gli occhi rivolti a terra, oppure a chi sta loro di fronte in quel momento, seduti in cerchio come una vecchia tribù indiana, indifferenti a tutto e a tutti.

30 Marzo.

Mi sono spinto per l’ennesima volta nell’estrema periferia di Berlino: un vero e proprio viaggio perché il tram ci mette più di mezzora per raggiungere il capolinea di Wittenberg a partire da Alexander Platz! Dopo i grandi viali a ridosso del centro si arriva in una specie di terra di nessuno: campi sterrati, edifici fatiscenti, dove di certo non è difficile nascondersi. Pochi in quest´area gli spazi abitati. Per l’ennesima volta Berlino mi si rivela non solo immensa ma anche molto vuota. Ci sono voragini di spazio nella sua area urbana, e del resto 5 milioni di abitanti in un territorio come questo sono davvero pochi: se fosse una metropoli asiatica o latino americana ci abiterebbero almeno 20 milioni di persone.

2 Aprile.

Sì le cose stanno già cambiando anche qui eccome! La notizia mi arriva proprio oggi. L’amministrazione ha sospeso le erogazioni dei sussidi ai provenienti dai paesi del sud dell’Europa. Ci saranno ricorsi e molti vinceranno anche perché  la norma pare retroattiva, ma il segnale è chiaro e molto forte: l’accoglienza indiscriminata che Berlino ha riservato a tutti e anche fornendo percorsi di integrazione guidati e sussidi economici, è finita. Durava dalla caduta del muro e si farà presto a dimenticare gli anni della generosità, ora che per l’ennesima volta i tedeschi danno la misura della loro capacità di decidere in fretta: in una notte hanno cambiato tutte le regole, cosa per noi difficilmente digeribile viste la propensione a non decidere o a decidere male e poi a fare peggio nel momento di applicare le decisioni.   

3 Aprile.

Il segnale di cambiamento è forte, ma cosa sta davvero a significare al di là delle conseguenze che avrà verso coloro che qui avevano già iniziato un percorso di inserimento? La risposta più ovvia sta nel dire che anche la Germania non poteva continuare a reggere un livello di investimento pubblico e quindi di spesa così elevato, come è avvenuto per vent’anni. Del resto i tagli alla spesa sono cominciati anche qui e ci sono state grandi manifestazioni e scioperi quando è stato investito il settore universitario. Eppure la Germania sembra ancora lontana dal subire una contrazione del livello di vita medio (le secche di povertà e precarietà esistono eccome anche qui ma sono ben mascherate proprio dagli ammortizzatori sociali ancora efficienti). I provvedimenti si prestano dunque a diverse spiegazioni e risposte. Programmazione lungimirante della crisi? Oppure vicolo cieco nel quali tutti i popoli e gli stati europei si sono cacciati e verso il quale vanno in ordine sparso a sbattere uno per uno in tempi diversi? Oppure altro ancora? Difficile dirlo, ma una sensazione mi accompagna in modo martellante: gli storici ricorderanno questi mesi o poco più come un tempo di tregua prima di una grande tempesta. 

Berlin Pankov

GRAND TOUR: DA SCILLA A REGGIO CALABRIA

Reggio calabria

L’autobus arriva prima del previsto, addirittura con un’ora e mezza di anticipo e io mi sono svegliato da poco. Scilla è alle nostre spalle, abbiamo appena superato Villa San Giovanni, ma la strada che ricordo era assai più impervia di questa. Nel dormiveglia prima e ora con il brusco risveglio registro solo lentamente che non siamo più sulla vecchia provinciale, perché il tratto autostradale Salerno Reggio Calabria è stato finalmente completato e il pullman corre velocemente. Entriamo in città dal lungomare, non c’è anima viva, poi al centro di una piccola pineta: vedo le bancarelle di un mercatino domenicale e molti volti magrebini e africani. A sinistra e perpendicolari al viale alberato, le strade vanno bruscamente in salita, ma qui e là compaiono anche ampie scalinate che portano alle vie di mezza collina: poi, addirittura, un lungo tapis roulant. Un’immagine di molti anni fa mi torna alla memoria; anzi più di una e sono tutte televisive, in bianco e nero. Rivedo in rapida sequenza i blindati schierati in fondo alle strade che dalla collina scendono verso il mare; poi le barricate, gli scontri. La rivolta di Reggio Calabria del 1975 mi sembra giungere da un tempo remotissimo alla memoria, ma le strade sono ancora quelle e insieme alle lontane immagini torna il ricordo di una canzone – i treni per Reggio Calabria – di Giovanna Marini. Infine l’attentato in prossimità di Gioia Tauro, la determinazione di chi ci andò a Reggio: non io quella volta e non ricordo più neppure il perché. Alla stazione mi attende Eva in auto: ci dirigiamo verso la città alta. Sono stanco ma il viaggio verso casa è breve. Come avevo pensato l’auto sale perpendicolarmente e a ogni crocevia un viale corre parallelo al lungomare, le scalinate sono ancora più numerose di quelle che mi era sembrato di vedere … ma sono a Reggio Calabria o a Trieste? La sovrapposizione fra le due urbanistiche è impressionante e si conferma a ogni crocevia. Il senso di momentaneo straniamento viene superato di slancio quando Eva mi conferma che non sono il primo a osservarlo, anche se – aggiunge sorridendo – secondo D’Annunzio il chilometro e mezzo del lungomare reggino è il più bello d’Italia. In attesa di andarci a passeggio sorrido celando il mio scetticismo. Il pomeriggio stesso però lo dedichiamo proprio a quello e in effetti bisogna convenire con il Vate e – caso non frequente – il lungomare è stato preservato in modo assai intelligente da scempi urbanistici e altri mostri, nonostante le modifiche introdotte. L’idea d’interrare la ferrovia in un lungo tunnel che tuttavia bene si armonizza all’architettura monumentale precedente, è un esempio di equilibrio riuscito fra esigenze di modernizzazione e paesaggio urbano. Il tunnel del resto è dotato di sistemi di insonorizzazione e dall’esterno non ci si rende quasi conto del passaggio dei treni. 

La visita al castello aragonese si porta via una buona parte del mattino successivo e alla fine metto la mia firma sul registro dei visitatori, constatando che sono davvero troppo pochi per quello che offre.  Risalgo verso i viali più alti e periferici e penso che Reggio è una città architettonicamente fascista. Ne parlo con Paolo Rabissi, che mi conferma lo strano rapporto fra queste due entità urbane agli antipodi dello stivale italico. Anche Trieste lo era, “forse la più fascista d’Italia” aggiunge Paolo ricordando una frase detta da Mussolini, il cui significato era più o meno quello. La città, come tutte quelle di frontiera, era quella in cui la rivendicazione di italianità si sposava perfettamente con l’ideologia del regime. A Reggio la questione è prima di tutto un’altra, lascio per il momento sullo sfondo il tema direttamente e strettamente politico. Quello che mi colpisce girando per le strade è l’architettura delle case, delle palazzine, dei palazzi del potere amministrativo e giudiziario, a parte il mastodontico e modernissimo tribunale: è in questo tratto che trovo lo stile tipicamente fascista, così vistoso perché accompagna il visitatore a ogni strada. Il razionalismo, il gusto per un neoclassicismo fatto di linee sobriamente tracciate si riflette nella costruzione di palazzine basse che raramente arrivano ai cinque piani, monotone ma edificate secondo uno stile nel quale si riflette l’idea corporativa. Man mano che si va verso l’alto o verso i quartieri più popolari, le case e le palazzine sono più spoglie rispetto all’eleganza, comunque non vistosa, del centro o delle vie a ridosso del lungomare, ma il pattern rimane il medesimo, per trasmettere il senso di una appartenenza alla medesima comunità, divisa in classi ma segnata da un tratto comune. Peraltro la non eccessiva altezza degli edifici ha una sua logica antisismica e questo mette in luce un aspetto non troppo conosciuto. Si parla sempre del terremoto di Messina, ma si dimentica spesso di dire che esso coinvolse entrambe le città sullo stretto e che Reggio pagò un prezzo addirittura superiore, una distruzione totale degli edifici storici, ben diversi da quelli che si vedono oggi. Rimangono solo due tracce evidenti dell’architettura urbana reggina precedente l’evento catastrofico del 1908: due palazzetti purtroppo lasciati in un desolante degrado. I loro tratti sono inconfondibilmente arabeggianti, con piccole vetrate che sembrano quelle di una  moschea, colonne di capitelli che riflettono un’eleganza del tutto diversa, un po’ barocca, sfiorati dall’arte della miniatura tipicamente bizantina. La Reggio orientale e urbana scomparve con il terremoto, così come scomparvero i suoi abitanti, sostituiti da genti che provenivano dalle montagne e dalle colline intorno alla città. Si ruppe così la storia millenaria di un insediamento urbano che contende a Damasco e ad altre città del Medio Oriente, il primato dell’antichità delle origini. Facendo un rapido conto degli anni e ricordando le lentezze della burocrazia italiana e l’atteggiamento sostanzialmente coloniale dei suoi governi e la complicità delle classi dirigenti locali meridionali, si può comprendere come il grosso dello sforzo ricostruttivo della città dovette durare assai a lungo, finendo di completarsi proprio negli anni venti e trenta e dunque in pieno regime fascista. Da questo trova la sua origine la compattezza dell’architettura urbana di Reggio. Solo nel corso centrale, quello per intenderci dello struscio serale e domenicale, la mescolanza di stili porta il marchio di una modernità cresciuta dopo, nel secondo dopoguerra e ancor più si vede nella zone urbane più periferiche che hanno tratti di degrado simili a quelle di città più grandi. Infine la grande Reggio, dove la modernità senza alcuno stile è il tratto distintivo, comune ad altre città. Solo l’altezza degli edifici non cambia, tanto che in modo semplice Reggio è forse una città dai criteri antisismici meglio curati che altrove.       

DAVANTI ALLA SICILIA

Passeggio di nuovo sul lungomare assolato con la Sicilia lì a portata di mano, il pensiero corre a Goethe, ma anche a un libro recente scritto a quattro mani da un autore tedesco e da uno italiano: Mario Fortunato, un germanista che vive e lavora a Berlino e  Jan Koneffke, scrittore e traduttore dall’italiano e dal rumeno. Il loro libro mi è molto caro sia perché mi riporta alle atmosfere del Gran Tour di Goethe, sia perché mi riporta a Berlino da cui ormai manco da troppo tempo e all’amicizia con Franco Sepe. Fu proprio lui a suggerirmi la lettura di questo testo del 2016 dedicato proprio all’incontro fra Roma e Berlino. Cosa c’è di meglio che rileggerne alcune parti proprio qui sul bar di una spiaggia assolata, proprio davanti alla Sicilia e all’Etna in lontananza. Il libro è la ricostruzione di percorso personale, una sorta di iniziazione che ha come protagonisti il poeta tedesco e un giovane nordico contemporaneo che arriva nella Calabria di alcuni anni fa: fra il viaggio di Goethe e quello del ragazzo nordico ci sono di mezzo i secoli, ma certe descrizioni sembrano potersi scambiare il tempo, seppure con qualche differenza non da poco. Il poeta tedesco aveva vinto strada facendo i suoi pregiudizi da protestante tedesco nei confronti del mondo mediterraneo e aveva pure incontrato Faustina. La storia d’amore fra il norvegese contemporaneo e il ragazzo calabrese è una storia omosessuale, felice come l’altra.

Il tempo scorre, la lettura piacevole mi accompagna, ma intanto i canadair continuano a volare e a raccogliere acqua, ogni cinque minuti: il rumore è assordante e tutti gli sguardi sono rivolti alle colline circostanti e alla Sicilia. Smetto di leggere e osservo: non riesco a provare una vera apprensione, però la frequenza dei voli suscita un certo allarme. Fumo ovunque, incendi ovunque che nascono in continuazione. Non sono il solo a levare lo sguardo al cielo, del resto è un evento – questo degli incendi – che accade puntualmente ogni anno, ma la sensazione è che l’anno 2017 sia del tutto particolare. Abbandono il libro e sfoglio alcuni quotidiani sui tavoli del bar. La statistica è impietosa, il fenomeno è troppo abnorme per essere associato alle consuetudini tristi dell’estate italiana. C’è qualcosa d’altro? E che cosa? I giornali locali insistono a loro volta sull’abnormità del fenomeno, le ipotesi si susseguono e sono le solite cui si pensa: constato, che a parte alcuni casi, nessuno crede davvero ai piromani. La mia attenzione però si concentra su un articolo in particolare, che mette in relazione gli incendi con l’aumento degli sbarchi di migranti, superiore anch’esso agli anni precedenti. Un uomo seduto al tavolo di fianco al mio mi osserva, ci sorridiamo e salutiamo.

“Lei non è di qui e si sta domandando cosa stia succedendo …”

“Sì, stavo cercando di capire questo articolo, il solo che metta in relazione incendi e sbarchi …”

“Chi controlla gli sbarchi è lo stesso che causa gli incendi …”

Decido di non dire nulla.

“Fra un paio di giorni sarà tutto finito, vedrà.”

Saluta e se ne va.

La sera stessa al telegiornale arriva la notizia che il ministro degli interni Minniti è corso in Libia per raggiungere un accordo sugli sbarchi. Ora sappiamo molto bene cosa stava scritto in quel patto scellerato: i centri di detenzione, la Libia dei torturatori considerata porto sicuro e tutto il resto, ma allora non si capiva bene. Due giorni dopo però, Minniti arrivò in Calabria a magnificare l’accordo appena raggiunto: il giorno dopo cessarono gli incendi. Tornai a quel bar, ma lo sconosciuto con cui avevo parlato non  lo rividi più.     

  

Scilla.

GRAND TOUR: VENEZIA E LIDO DEGLI ALBERONI

Lido degli Alberoni a Venezia

La strana decadenza veneziana è proporzionale alla forza che la Serenissima ebbe nel suo passato. Paolo Rabissi mi corregge quando gliene parlo:

“Guarda che lì come qui a Forte dei Marmi, siamo aldilà della decadenza.”

Ci penso un po’ e ne concludo che Paolo ha ragione: neppure oltre, ma proprio aldilà. Essere oltre vuole dire poter tornare, mentre dall’aldilà non si torna, si può solo permanere in esso immobili, senza mutamento, un po’ come l’acqua della laguna che, anche quando s’increspa, permane nella sua piatta uniformità. I colori però riportano a una bellezza che non muore, fuori dal tempo e anche dalla storia, nonostante i motoscafi. Vista dagli Alberoni, la laguna è anche una striscia di terra sottile, lunga una decina di chilometri e larga non più di uno, che si estende dal Lido vero e proprio, con i suoi sfarzi, fino alla punta estrema da cui ci s’imbarca per Pellestrina, un’altra striscia più o meno analoga, alla fine della quale ci si trova dirimpetto a Chioggia. Davanti a essa e nel mare lagunare, una serie di isolotti disabitati, forse vecchi avamposti militari o piccole fortezze d’avvistamento. Il silenzio la fa da padrone, ma su quello naturale e ambientale pesa anche quello della storia. Venezia sembra non potere avere altro se non un destino turistico, anche se i veneziani i turisti sembrano subirli più che amarli perché è pur sempre una città vivente anche nella contemporaneità, ma in un presente deprivato e stanco. Non so se l’acredine che spesso traspare sia dovuta alla nostalgia per il passato glorioso o semplicemente perché ce l’hanno con il mondo in modo un po’ ottuso, visti i risultati. Forse è soltanto la difficoltà di arrendersi a una legge della storia e dell’antropologia, che pur non avendo la stessa cogenza delle leggi fisiche, pur tuttavia esiste. Chi ha avuto troppo prima non può avere sempre e mi domando, allora, se Venezia non sia una metafora dell’Italia intera.

In Italia e in Grecia è nato gran parte di ciò che definiamo Occidente ed eccoci di nuovo tornati alle origini. Tutte le forme politiche e religiose occidentali sono nate qui: dalla repubblica alla democrazia, dagli imperi all’autocrazia, dai politeismi ai monoteismi. Poco più in là e in tempi molto remoti solo l’Impero Egizio può vantare altrettanto prestigio, ma essendo troppo perfetto nella sua commistione riuscita fra potere religioso e temporale, rimane un modello probabilmente inimitabile. Sul suolo italiano sono nate le due costruzioni geopolitiche più durature della storia occidentale, seconde solo all’Impero Egizio: quello Romano e la Repubblica di Venezia. Sul primo si è detto tutto, su Venezia meno, ma se si pensa alla sua durata nel tempo si rimane stupefatti. I veneziani hanno saputo proteggere molto bene la loro storia: ne sono entrati da protagonisti in punta di piedi, addirittura dal sesto secolo e sulle macerie di una legione romana, per poi uscirne altrettanto in punta di piedi con la conquista napoleonica: oltre mille anni! Quanto alla democrazia, la vulgata che ne pone la nascita nella polis greca, va oggi integrata dalla consapevolezza che, in quella forma, non era esportabile in un grande stato, anche perché il suo difetto d’origine era pur sempre quello di essere fondata su un modello patriarcale e di essere una democrazia per pochi uomini liberi. Le culture nordeuropee e poi quella anglo sassone e francese hanno inventato la sola forma geopolitica moderna, di cui non vi è traccia nell’antichità e che ci accompagnerà ancora per poco: lo stato nazionale. Esso nacque legato a stretto filo al nascente capitalismo, anzi, ne fu l’involucro geopolitico naturale per arrivare a un’estensione su larga scala della fase mercantilista. La Lega Anseatica, pur non essendo uno stato, svolse la stessa funzione, mentre le Repubbliche Marinare in Italia nacquero troppo presto per diventare il collante di una possibile unificazione nazionale. Solo la Repubblica di Venezia assunse un ruolo di grande potenza anomala e questo sorprendente risultato vale la pena di guardarlo più da vicino perché, se da un lato conferma alcune regole immutabili della geopolitica da cinquemila anni a questa parte, dall’altro vi apporta alcune integrazioni assai interessanti. Quella che segue è la cartina della Repubblica di Venezia nel momento della sua massima espansione.

Lo Stato includeva, nel XVIII secolo e sino alla sua caduta, gran parte dell’Italia nord-orientale, nonché dell’Istria e della Dalmazia e oltre a numerose isole del Mare Adriatico (il Golfo di Venezia) e dello Ionio orientale.

Se si osserva attentamente questa strana mappa ci si rende conto che il capolavoro dei veneziani fu la rinuncia a conquistare ampi spazi terrestri, a parte un pezzo relativamente grande di Grecia continentale: per il resto solo isole e strisce di terra. In sostanza la loro genialità fu quella di far credere che fossero un’isola essi stessi, nonostante non lo fossero del tutto; in questo troviamo la conferma di un paradigma geopolitico ma anche una sua mutazione assai intelligente. Lo si capisce anche dalle guerre strategiche che i veneziani intrapresero: non di conquista nel senso usuale del termine, ma volte a eliminare l’eventuale concorrenza e le sole entità politiche che potevano in teoria coltivare un progetto analogo al loro erano proprio le altre repubbliche marinare. Le guerre con queste ultime furono condotte con una determinazione che non lasciò scampo ad Amalfi, Pisa e Genova anche se va detto che quest’ultima aveva già trovato una sua strada diversa per galleggiare piuttosto bene nel nuovo mondo che stava nascendo: diventare il banchiere d’Europa, più tardi insieme ai fiorentini. Quanto a Pisa era troppo nordica per poter svolgere un ruolo autonomo in quello scenario. La vera possibile concorrente era Amalfi, affacciata sulle coste africane, potenzialmente in grado di fare ciò che Venezia fece con le fasce di terra adriatica. Una volta eliminata la concorrenza, infondo conveniva a tutti rispettare e tutelare – pur fra scontri e tensioni – l’autonomia della Repubblica. La rinuncia ad ampie conquiste territoriali lasciava tranquilli i grandi stati nazionali nascenti, che potevano trovare in essa un momentaneo alleato. La sua presenza sulle coste era un presidio contro la pirateria e talvolta i veneziani ne fecero una risorsa: lasciando per esempio via libera ai pirati uscocchi nell’Adriatico, in funzione anti francese e anti spagnola. Insomma, tenendosi fuori dai grandi conflitti dinastici (erano una repubblica), alla larga da tentazioni militariste di ampia conquista territoriale, i veneziani quatti quatti si ritirarono nella loro nicchia. Venezia fu la capitale dell’intero occidente nel 1500, un po’ come New York oggigiorno e questo capolavoro riuscì loro anche per la struttura del governo interno. Se si pensa ai tempi, quello di Venezia era uno stupefacente governo democratico e repubblicano.

L’Italia vista da qui è il più grande museo archeologico a cielo aperto dell’intero Occidente e questa dovrebbe essere la maggiore preoccupazione di governi e popolazione: custodire questo sito, farlo vivere, dedicare ogni energia alla sua manutenzione. Tutto il resto, dalla narrazione sulla settima e poi addirittura quinta potenza industriale è solo il frutto di un’illusione ottica creata dalla Guerra Fredda e che ha cominciato a finire il giorno dopo la caduta del Muro di Berlino. Vi sono solo due elementi di quella parentesi storica, che si possono far risalire alla cultura italiana più profonda e ne costituiscono la vera continuità e un fattore importante d’identità virtuosa: la costruzione di strade e l’apporto scientifico e tecnologico, più che non genericamente culturale. La plastica deriva del moplen e fu sperimentata in Italia prima che altrove grazie a Giulio Natta; c’è almeno un fisico italiano per ogni generazione del ‘900 (Majorana, Fermi, Pontecorvo, Amaldi, Rubbia, Parisi). Oggi questa tradizione continua e sono molto spesso le donne a esserne protagoniste: Gianotti, Branchesi, Fafone e Stratta. Tale apporto riguarda quasi tutti i campi del sapere, con quello scientifico al primo posto: la tradizione umanistica, invece, di cui siamo tanto fieri, si sta perdendo nel degrado di una scuola che non è più in grado di trasmetterla e che forse dovrà essere custodito altrove per alcuni secoli come lo fu la grande cultura classica nei conventi benedettini.

Venezia città

Era da tempo che non approdavo in città e arrivarci dal Lido è un’esperienza del tutto diversa. Il lido è luogo di silenzi. Arrivando da qui non si entra immediatamente nel flusso turistico, come accade giungendo alla stazione o in piazza Roma. Solo le scie degli aerei disturbano la quiete, ma basta non alzare troppo gli occhi al cielo e ci si dimentica che l’aeroporto di Venezia è uno dei più trafficati al mondo. Arrivare nel cuore di Venezia dal Lido è un po’ come venirci da un altro tempo. La città si avvicina lentamente, poi si cominciano a vedere in lontananza i campanili, a individuarli, poi le cupole delle chiese; ma tutto molto lentamente. La velocità delle navi, a confronto con quella di altri mezzi, è rimasta molto indietro, l’acqua offre una resistenza e un attrito che l’aria non conosce, ma neppure la terra. Se non fosse per Porto Marghera con le sue guglie sinistre e minacciose, potremmo essere dei viaggiatori di molti secoli fa provenienti dall’Oriente. Anche il brusio della città si avvicina lentamente e anche quando si è nel vivo del flusso di folla, i rumori rimangono lontani nel tempo, appartenenti anch’essi a un aldilà. Quanto alla folla, sciama verso le solite mete, con mancanza di fantasia, a parte coloro che vengono per vedere mostre o altro. È una folla consumista e disattenta, che può passare indifferentemente dalle magliette delle squadre di calcio ai negozi dei vetri pregiati di Murano. Cose già viste, eppure man mano che ci aggiriamo per la città mi rendo conto che qualcosa è cambiato anche sotto questo aspetto. L’aumento vertiginoso dei chioschi ha assunto una dimensione post consumista, siamo in un altro aldilà, ancora più inquietante. Leggo su un giornale che ora i veneziani stanno protestando per la presenza delle grandi navi davanti a piazza san Marco, ma mi domando se quello che vedo per le strade non sia anche peggio. Capisco gli abitanti che non escono di casa per non finire nel mezzo di questa assurda baraonda, ma perché accettarla allora e in nome di che cosa? Forse dell’affitto di suolo pubblico a prezzi esorbitanti che servirà a risanare il patrimonio della città? Se fosse questo mi sembra una strategia perdente, ma forse non c’è una vera ragione, ma solo una deriva accolta con rassegnazione, come avviene per molte altre cose. L’ambivalenza rabbiosa dei veneziani rispetto al flusso turistico la si coglie meglio entrando nei bar: è quello che facciamo anche noi. L’ordinazione (un gelato per Mattia, un ghiacciolo per Anna, un caffè per me), lascia del tutto insoddisfatto il gestore che infatti dopo l’ordinazione mi chiede perentoriamente se voglio soltanto un caffè. La tentazione di uscire subito è forte, ma poi faccio finta di niente badando solo ad accorciare il più possibile la permanenza. Usciamo e sciamiamo anche noi diretti a Piazza san Marco, con l’idea di farla apprezzare ai nipoti; impresa quanto mai difficile in questo bailamme. Intanto si sta avvicinando mezzogiorno e anche un po’ di fame. Un altro bar si profila all’orizzonte e almeno a una prima vista ha un aspetto accattivante. Piccolo, come tutti gli spazi veneziani, è arredato all’antica. I tavolini eleganti, le sedie curate, le piccole teche con le bottiglie di vino bene allineate invogliano a entrare. Sembra pieno a una prima occhiata panoramica, ma siamo fortunati perché si liberano due tavoli e così possiamo ordinare. Mentre attendiamo mi guardo intorno: sì, siamo proprio capitati in un angolo di vecchia Venezia, allegra, in mezzo a turisti che vengono da tutte le parti, rilassati, anche perché, a differenza dell’altro bar, in questo siamo simpaticamente accolti. Il servizio è ottimo e i gestori sono gentilissimi, svolgono il lavoro nei tempi giusti, rispettando rigorosamente l’ordine delle diverse richieste e hanno un sorriso per tutti: sono tre cinesi e un’indiana.

Il ritorno pomeridiano è un altro viaggio nel tempo. Non è soltanto la lentezza, ma la riconquista del silenzio dopo il caos della città urbana. Solo approdando nella parte più mondana del Lido si apre per un attimo una parentesi, poi è di nuovo oblio. L’autobus corre per i viali ancora vuoti, il caldo è soffocante e rallenta a sua volta i movimenti. Fra il Lido e gli Alberoni c’è una piccola frazione, Malamocco, fatta di vie strette e due larghi Campi. Il nome evoca qualcosa di sinistro, ma il luogo è terso. Il ponte, in fondo alla grande piazza, supera il canale e fa di questa piccola frazione un’isola fra la laguna e le spiagge che da esso s’intravvedono in lontananza. Risalgo sull’autobus verso il piccolo porto dove c’è un bar con terrazza sul mare: un luogo ideale dove leggere e attendere l’ora della riapertura dei negozi, che finalmente arriva; ma alla Coop una sorpresa mi attende. Il supermercato è chiuso anche se gli addetti sono tutti lì al lavoro. Chiedo spiegazioni e mi guardano sorpresi. Due vaporetti non sono arrivati e senza merci sugli scaffali è meglio fare lavori di manutenzione; riapriranno fra un’ora, sperando in un terzo vaporetto. Non ho nessuna voglia di aspettare e, in fondo, a casa ce n’è abbastanza di cibo per arrivare al giorno dopo. Mentre ripercorro a ritroso la strada, con il sole che comincia a calare e i colori della laguna si fanno ancora più sfumati, mi coglie il pensiero che potrebbero farcela per una seconda volta a scomparire e a rinascere i veneziani; o comunque a rimanere nel loro aldilà senza che nessuno li disturbi. Se è sufficiente il mancato arrivo di due vaporetti per fermare il consumismo almeno per qualche ora vuol dire che l’aldilà è proprio una frontiera insuperabile. Con le sue insopportabili zanzare, che nessuna tecnologia potrà mai eliminare del tutto da una laguna, questo mondo potrebbe di nuovo diventare una nicchia, un limbo arcaico nel futuro incerto che ci attende.  

Malamocco

GRAND TOUR: LUNGO IL TIRRENO

Bufali nel parco dell’Uccellina

Per il momentaneo ritorno a Milano scelgo il bus: è meglio del treno perché, pur facendo ricorso ad autostrade e superstrade, entra anche nei piccoli centri in cui sono scandite le tappe. Il viaggio è lungo, anzi lunghissimo e anche questo è un vantaggio: il tempo favorisce lo scorrere dei pensieri, la velocità non domina, i percorsi sono a volte bizzarri e questo mi è particolarmente caro perché attraversa luoghi che conosco a memoria ma che da lungo tempo sono usciti dalla mia vita. Dalla stazione romana della Tiburtina si giunge rapidamente all’Aurelia in direzione di Civitavecchia, sfiorando di nuovo la bassa Tuscia laziale. Attraversata la città, la strada svolta a destra e costeggia il mare, che ci accompagnerà a lungo, fino a quando il bus svolterà una seconda volta a destra per attraversare l’Appennino ligure-emiliano. La giornata è luminosa, i vetri schermati del bus attutiscono i colori quel tanto che basta per trasformare un paesaggio consueto in un teatro onirico.  

Il casello della dogana dello stato della Chiesa a Capalbio appare improvviso in fondo al rettilineo dell’Aurelia semi deserta. Era una vista consueta durante le escursioni verso Saturnia o Ansedonia e anche pretesto per rapide lezioni di storia ai figli:

“Vedete? qui c’era il confine con lo Stato della Chiesa, questo era il casello della frontiera e della dogana…”

“Come con la Svizzera?”

“Sì, come con la Svizzera, ma di qua non era Italia ma Granducato di Toscana…”  

Oggi la sua vista mi sorprende. Non è soltanto la distanza di tempo che mi divide dall’ultima volta che passai di qui, ma il cogliere in un lampo quello che anni fa non era mai balenato: l’incuria cui è lasciato, lo stato di abbandono. In fondo è un edificio storico, poteva diventare un museo, un pretesto nel senso più nobile del termine, adatto a custodire memorie storiche e culturali, ospitare convegni in uno scenario magnifico. Invece se ne sta lì come allora, su una via ormai dimenticata dal grande traffico, che ha a disposizione autostrade e superstrade l’una parallela all’altra come ferite inferte alla terra, ai campi. Il bus lo supera in fretta, il tempo corre con l’aiuto di un tranquillo dormiveglia, che finisce quando all’orizzonte vedo i Monti del parco naturale dell’Uccellina. Per anni sono stati un altro dei luoghi che più ho frequentato: d’estate si andava a Massa Marittima, d’inverno ci si tornava durante le vacanze di fine anno. I miei figli sono cresciuti in mezzo a quelle colline e a quei boschi. Per due anni di seguito ci spostammo di un poco e finimmo proprio ad Alberese, la porta d’ingresso del parco, ma quei monti bassi, che precipitavano su un mare che sembrava quasi un oceano davanti alla costa, li frequentavamo comunque, c’era sempre una gita in programma ad attenderci e una meta obbligata: le foci dell’Ombrone.

Il bus intanto è arrivato proprio in un punto che ricordavo benissimo: il lungo ponte che attraversa una larga porzione di campagna sottostante e il fiume, un rigagnolo che quasi non si vede; alla fine di esso si è quasi alle porte di Grosseto. Le foci dell’Ombrone avevano qualcosa di arcaico e di incontaminato, con il bosco retrostante e una lunga via che lo tagliava in due e finiva proprio in riva al mare dove un piccolo bar all’aperto con una semplice tettoia su una vista spettacolare, era la meta tardo pomeridiana di aficionados dell’aperitivo con tramonto. Era un rito che si è ripetuto molte volte nella mia vita di quegli anni. Il mare era proprio a ridosso, si mangiava la riva ogni giorno di più, ma il piccolo locale resisteva e ritrovarlo a sei mesi di distanza, seppure spostato di qualche metro, era un piccolo miracolo. Il bosco dietro di esso e da entrambi i lati della strada era fitto e con una varietà di vegetazione incredibile, i cinghiali, i bovini che pascolavano bradi e nei quali ogni tanto ci si imbatteva, i funghi autunnali. Poi la foce vera e propria, con il suo habitat fatto di uccelli migratori, acque che si mescolavano e quel sole rosso all’orizzonte.

Ho letto da qualche parte e poi confermato da amici che tutto questo non esiste più da tempo, il mare si è mangiato qualcosa come due o tre chilometri di costa. Del vecchio bar con tettoia non c’è più traccia da tempo, il bosco sommerso dalle acque si è ritirato e la foce stessa non può essere visitata come prima e ha perso molto del suo fascino. Mentre l’autobus entra in Grosseto – la Kansas City italiana secondo Luciano Bianciardi – il pensiero ritorna a Civita di Bagnoregio e alla simulazione vista al museo delle frane, a quell’Italia che non esisterà più fra 100 milioni di anni. In realtà, i mutamenti vistosi sono visibili e presenti anche oggi, ma a volte non li vediamo, a volte non vogliamo vederli, a volte escono dalle nostre vite quei luoghi che avevamo così tanto amato e poco importa che non esistano più nelle forme in cui li abbiamo conosciuti; anzi, è meglio così, perché possiamo ricordarli e farli rivivere come vogliamo. In fondo, le micro dimensioni sono governate dalle stesse leggi fisiche delle macro dimensioni, almeno questo sembrano dirci i fisici e la natura è sempre la Sfinge leopardiana che sappiamo. A ripensarci quella mappa adesso mi fa meno paura, possiamo vedere le trasformazioni anche giorno per giorno, ci accompagnano per quel tratto che ci compete e non saprei dire se una simulazione come quella vista che ci proietta in un futuro inimmaginabile serva davvero a qualcosa, a capire le micro modifiche, quelle su cui forse possiamo davvero ancora influire. Non lo so… ma intanto il bus ha raggiunto la stazione: è tempo di un caffè.

Foce dell’Ombrone

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GRAND TOUR: TRA FALISCHI E CIVITONICI

Civita Castellana. Forte Sangallo

All’ingresso di Civita Castellana si rimane colpiti dalla sua toponomastica: un richiamo continuo alla lotta antifascista e alla Repubblica romana del 1849. Targhe, vie e piazze; ma colpisce anche la storica insegna di una delle prime sezioni del Partito Socialista Italiano. Sono simboli presenti anche in altre città e paesi, ma qui l’occhio li registra in continuazione, segno di una densità che da altre parti non appare così evidente e se alcune intitolazioni sono canoniche (via Antonio Gramsci, per esempio), altre lo sono assai meno: Via Don Minzoni, via Martiri delle Fosse Ardeatine, Via Ugo Bassi, Via Anita Garibaldi. Non si tratta però solo di un culto rétro della memoria storica perché due vie sono intitolate a Salvador Allende e a Peppino Impastato. Nonostante il buon numero di chiese e le usuali vie dedicate a santi famosi o locali, si percepisce un sottofondo anticlericale che si avverte anche nei Castelli Romani, a Rocca di Papa, per esempio. La Repubblica del ‘49 non riguardò solo Roma città ma coinvolse una parte del territorio laziale; a differenza di Viterbo, molto più papalina per evidenti ragioni storiche. Una seconda vistosa caratteristica è che la città è orientata secondo l’asse est ovest e questo significa che il sole e la luce la dominano in tutte le ore del giorno. Infine, non manca di monumentalità, grazie al Forte Sangallo, che contiene fra l’altro un bellissimo museo etrusco che – insieme  a quello di Nepi forma un complesso di grande pregio; infine il Palazzo Falisco, con i suoi arredi preziosi e cinquecenteschi, oggi sede alberghiera di pregio. Civita è piena di altre sorprese, legate all’artigianato e alla nascita delle prime fabbriche negli ultimi decenni del diciannovesimo secolo, tanto da costituire un piccolo ed eccellente polo industriale e artigianale che si è spento lentamente solo pochi decenni fa. A ricordare tutto questo c’è un museo fra i più sorprendenti e degni di grande attenzione. A un’attenta osservazione, sembra di poter dire che si sono confrontate qui, come in altre parti d’Italia, due utopie. La prima è quella rivoluzionaria operaia, nelle sue diverse declinazioni – e relative concordanze e discordanze – che ha percorso l’Europa intera dalla metà del 1800 in poi. In Italia – e non saprei dire se ciò è accaduto anche altrove – ne è esistita un’altra, un’utopia del capitale incarnata a volte da figure che sembrano scambiarsi i ruoli: per esempio Casimiro Marcantoni, socialista della prima ora, poi imprenditore, attento al sociale, fondatore di cooperative e ispiratore di un modello gestionale dell’impresa basato sulla partecipazione dei lavoratori, sia in qualità di soci dell’azienda sia in altre forme cooperativistiche. Il nome di Marcantoni non è noto come altri, ma egli fu fra i primi di una stirpe che ha incarnato l’utopia del capitale di dar vita a una società organica legata al valore della produzione, naturalmente rigidamente divisa in classi, che dovevano tuttavia trovarsi a contatto e a una distanza stabilita e non arbitrariamente proiettata verso una sguaiata enormità senza limiti, legata alla pulsione più distruttiva e all’avidità, come è oggi sotto gli occhi di tutti nell’epoca del turbo capitalismo post borghese e post proletario. Fu l’utopia di Crespi (coevo più o meno di Marcantoni) che è ben visibile ancora oggi nell’idea costruttiva del villaggio omonimo alle porte di Milano. Poi fu l’utopia di Luisa Sargentini Spagnoli, anche lei quasi coeva; poi di Adriano Olivetti, Giovanni Pirelli e Giuseppe Luraghi, l’ultimo degno rappresentante di questa stirpe di imprenditori e imprenditrici. Fu un’utopia guardata con sospetto e in questo ostracismo si ritrovano uniti sia i perenni rivoluzionari senza rivoluzione, perché naturalmente si tratta di un’utopia del capitale, sia gli attuali piloti automatici del capitale che nulla ne sanno né vogliono sapere. Ovvio, quasi banale che fosse un’utopia padronale; eppure fu un intellettuale critico e anomalo come Franco Fortini a ricordare a noi ragazzi delle scuole superiori l’importanza di Adriano Olivetti, senza che questo gli impedisse, un paio di anni dopo, di essere uno fra i pochi intellettuali militanti degni di questo nome che seppe capire l’importanza dei movimenti nati intorno al ’68 e a parteciparvi direttamente e non dalla sua scrivania; persino con una radicalità che molti ventenni non avevano.1

Mi avvio verso il centro e l’occhio corre di nuovo ai nomi delle strade. La storia qui non è semplicemente passata; no, questa città ne è stata protagonista per un arco di tempo assai lungo, alla fine del quale la memoria non è un culto astratto, ma un indice della cura con cui una comunità custodisce se stessa. Le stesse lapidi, i nomi delle vie, superata la sorpresa del primo giorno, si offrono al mio sguardo in modo diverso, a cominciare da quella celebrativa di un famoso discorso che Ugo Bassi tenne nel 1848 dal balcone dell’attuale piazza Matteotti. Bassi fu un protagonista della Repubblica Romana insieme a Garibaldi e fu fucilato dagli austriaci nel 1849; fino alla targa dedicata a Giuseppe Di Vittorio e voluta dai lavoratori e dalle lavoratrici della ceramica iscritti alla CGIL. La storia non è acqua per chi la sa conservare e la fama di questa piccola città italiana ne fece una meta obbligata del Grand Tour. Goethe la visitò nel 1786, Corot vi dipinse paesaggi maestosi, Mozart fu ospite nel 1770 e suonò per i civitesi.

Nepi

Alla città si arriva con un bus di linea che da Civita ci mette poco meno di mezzora e ciò che mi colpisce di più arrivando è il contrasto fra le piccole dimensioni dell’abitato e la sua monumentalità, peraltro conservata in modo egregio, tanto che il pensiero corre per un istante a Viterbo e al suo centro storico. Proseguendo nella visita però mi rendo conto che lo scenario è differente perché alla potenza severa di alcune costruzioni se ne aggiungono altre in cui prevale l’esibizione di una forza e anche di un certo sfarzo che rimandano piuttosto ai Castelli Romani. Nepi mi sembra stare nel mezzo, sospesa fra due tempi storici diversi, ma la direzione verso cui guarda è quella delle lotte rinascimentali fra diverse casate, dalle quali emergeranno un buon numero di Papi: Vico e Colonna, Orsini e infine Borgia, cui si deve la possente Rocca fondata nel 1499, opera disegnata da  Sangallo II il vecchio. Anche il Forte Sangallo di Civita fu fondato dal Borgia e allora si comprende che Viterbo è lontana, nonostante i pochi chilometri che la separano da qui. L’esorbitante numero di chiese in un territorio piccolo la distanzia da Civita, pur così vicina: è il paradosso della terra italiana, dove tutto si mescola caoticamente, dove le linee divisorie passano da sentieri impervi che rompono e ricreano il tessuto sociale per faglie, come se la geografica sismica di tutte queste terre appenniniche avesse un’influenza diretta sulla storia e le vicende umane.

Ritorno a Roma

Campagna romana by Thomas Cole

Il bus finalmente arriva, siamo in pochi a salirvi e questa è una buona notizia. Un’altra sorpresa è il percorso diverso da quello che mi aspettavo: attraversiamo nuovi piccoli paesi, fino a Campagnano, che già conoscevo perché Michele e Francesca hanno proprio lì una casa. La campagna romana finisce bruscamente più volte e più volte si ha la sensazione di essere finalmente arrivati a Roma, ma poi, svoltato un angolo, ecco che di nuovo ci si perde in mezzo a casolari e sterpaglie. Al nuovo addensarsi di case compare finalmente anche il cartello: Roma. C’ero già stato da queste parti durante una delle tante incursioni periferiche. Ora percorro la Cassia al contrario e la città fa tutto un altro effetto. Roma è una metropoli continuamente interrotta da larghi spazi verdi, a volte brulli a volte boscosi: terre di nessuno che hanno una somiglianza con gli spazi vuoti di Berlino … Berlino e Roma: le due città sono gemellate. È normale che due capitali così importanti lo siano, ma la combinazione non è affatto scontata anche perché nell’esperienza europea dei gemellaggi, l’enfasi è solitamente posta sulle problematiche comuni, siano esse di carattere amministrativo e territoriale. La domanda, allora, si pone naturale: cosa possono avere in comune la metropoli più moderna d’Europa, dove l’edificio più antico risale alla metà del 1700, con la città eterna, la cui storia millenaria e stratificata si respira in ogni strada? Nulla sembrerebbe, a parte il fatto puramente formale di essere entrambe città che occupano un territorio vastissimo rispetto al numero di abitanti. A Roma la modernità – pure assai significativa – è tutta concentrata nelle geometrie dei palazzi dell’Eur, nell’ufficio della posta alla Piramide, nella ex Centrale Elettrica Montemartini, oggi trasformata in uno straordinario Museo e nel Gasometro. Se si vuole viaggiare molto indietro nel tempo, a Berlino, bisogna per forza varcare le porte di un Museo. Soltanto vivendole entrambe queste due metropoli, si arriva a comprendere, invece, che le ragioni del gemellaggio ci sono eccome, anche a prescindere dal loro essere due capitali! Provo a dirne alcune, naturalmente del tutto basate su un’esperienza puramente soggettiva, seppure fondata su una lunga frequentazione che anche il percorso del mio bus ripropone puntualmente. La prima. Nonostante la ricchezza di musei, teatri, auditorium, chiese, monumenti, offerta culturale di alto livello, Roma e Berlino vanno vissute open air. Passeggiare per le loro strade, scoprirne angoli, piazze, scorci di fiume e canali (Berlino ha più ponti di Venezia), è un’esperienza eccitante, anche quando può risultare estraniante: come, per esempio, quando capita di trovarsi, improvvisamente, in una periferia pasoliniana, oppure – a Berlino – nel mitico agglomerato urbano di Marzan, all’estrema periferia orientale dalla città. Diverse anche nel loro modo di essere estranianti, Roma e Berlino, tuttavia, si comprendono a distanza anche in questo.

Berlin. Treptower Park

La luce e il bosco. Ecco due altre affinità profonde e forse imprevedibili. In entrambe, i lampioni hanno qualcosa di antico e la luce che emanano è intima. A Berlino vi è una sola vistosa eccezione: la zona di K’Damm, dove prevale il gusto tutto statunitense del neon, uno sfavillio da luna park che contrasta con la luce soffusa di altre aree della città. K’Damm era la vetrina ricca e presuntuosa dell’Occidente durante la Guerra Fredda. Oggi è rimasto il neon, per il resto la via è costellata di negozi delle maggiori e più rinomate case di moda, design e altro: ma sono vuoti a tutte le ore! Quanto alla luce naturale, pur agli antipodi, ancora una volta Roma e Berlino si comprendono, perché entrambe le città sono luoghi di luce estrema, abbacinante. La controra romana, i riflessi di certi soli sui monumenti, il riverbero di luce su paesaggi che oscillano fra rovine e natura, come al Parco degli Acquedotti, con i suoi monoliti di pietra cariati dal tempo, sono esperienze uniche: ma lo sono pure la luce del nord che penetra dentro la notte in estate e sembra non finire mai, oppure il buio che scende presto di pomeriggio durante il lungo inverno: e, ancora, il chiarore di certe albe estive alle quattro del mattino, immerse nel silenzio del sonno in piena luce sono  un’esperienza altrettanto grandiosa, come pure passeggiare in riva della Spree alle 21 di una sera di luglio, con il sole ancora alto e caldissimo, come mi capitò spesso, durante l’indimenticabile estate del 2010. Il bosco, poi, non il giardino! Non mancano quelli classici all’italiana o alla francese, ma gli spazi verdi che affascinano maggiormente hanno, in entrambe le città, un elemento irriducibile di selvatico, di presenza di una natura non domata. A Roma, questa caratteristica si coniuga spesso con la rovina archeologica, oppure il bosco è popolato da grotte che sono la continuazione di costruzioni che continuano a decadere da secoli, ma che, tuttavia, rimangono sempre in piedi. Parchi come quello della Caffarella, oppure il già citato degli Acquedotti o Appio Claudio, che ne sono quasi la continuazione, occupano una parte consistente del territorio urbano, tanto che della città si perdono un po’ le tracce quando ci si trova proprio nel mezzo; lo stesso per quello dell’Appia Antica che occupa un territorio ben più grande di quello più conosciuto ai lati della strada consolare, ma si insinua nel cuore della città come un bosco fatto di sentieri bellissimi e rovine. Non è diversa l’esperienza quando ci si aggira nel Tiergarten o a Treptower Park. Ci sono le strade sterrate e i sentieri, ampi, dove si cammina benissimo; ma tutto intorno, la natura è lasciata a se stessa, al suo naturale ricambio e gli interventi umani sono pochi e manutentivi. L’acqua dei canali scorre lenta sotto alberi secolari e salici e gli animali, scoiattoli, in primo luogo, si sentono a casa loro. A Berlino manca la rovina come siamo abituati a vederla anche nei dipinti ottocenteschi, ma in alcuni casi, come nel parco di Treptow, essa assume sembianze moderne, imprevedibili e a volte estranianti. Dal carro armato sovietico a un vecchio parco giochi con strutture che sembrano resti di astronavi, fino alla grande spianata dedicata ai soldati russi che contribuirono alla liberazione della città dal nazismo.

Intanto ho raggiunto la grande stazione di Saxa Rubra e salgo rapidamente su un autobus diretto nel centro. La giornata è bellissima e il bus che mi sta riportando nel centro storico di Roma sfiora Villa Doria Pamphili, uno dei luoghi romani che preferisco. Scendo e mi avvio verso l’ingresso e in un certo senso mi ritrovo a Civita Castellana: anticlericalismo e repubblica romana scandiscono la visita. La prima via, infatti, è intitolata a Bartolomeo Rozat, svizzero combattente per la Repubblica romana.      


1 Un’ampia e dettagliata riflessione sul nesso fra cultura industria e movimento operaio nell’Italia del secondo dopoguerra, si trova nel blog alla Rubrica cento fiori. Il saggio è diviso in tre parti intitolate: Arti e lettere nel ‘900 italiano: fra rivoluzione e industria.     

GRAND TOUR: CIVITA DI BAGNOREGIO

Civita di Bagnoregio

Il viaggio verso Civita di Bagnoregio è una piccola odissea ed è proprio nel raggiungerla che è nata l’idea che io medesimo stessi facendo un viaggio nell’Italia del Grand Tour. Spostarsi nella campagna laziale se non si possiede un’automobile (la carrozza con cui Goethe si muoveva lungo la penisola), è impresa assai ardua e se si vuole farlo di domenica quasi impossibile: persino un viaggio Roma Viterbo in un giorno di festa è soggetto a molte limitazioni, mentre se si vuole raggiungere un piccolo paese da un altro bisogna andare a piedi o affidarsi all’autostop, un modo di muovermi che per età è finito fuori tempo massimo. Già, andare a piedi… quando ne parlai a Berlino con Franco Sepe, di questa mia avventura, fu lui ad esortarmi a lasciar perdere il grande Goethe e rivolgermi piuttosto a un altro viaggiatore meno noto del poeta, che – appunto – affermava già allora che per capire l’Italia era meglio affidarsi alle gambe che ad altri mezzi di trasposto: il suo nome è  J.G. Seume, il titolo in tedesco del suo libro Spaziergang nach Syrakus, un titolo intrigante e che sembrerebbe corrispondere a un certo modo di viaggiare. Passeggiata verso Siracusa suona infatti nella nostra lingua, con un intento probabilmente anche ironico. Non so se l’idea di viaggiare a piedi o con mezzi rudimentali gli venne solo per felice intuizione e vezzo, oppure perché si era convinto che quello fosse il solo modo di entrare in contatto con il paese reale. Fatto sta che mentre mi avvio con largo anticipo (forse un felice presentimento) alla fermata dell’autobus che mi è stata indicata niente meno che dall’ufficio del turismo, scopro che da lì non raggiungerò mai Civita di Bagnoregio. Mi aggiro con una certa ansia, chiedo ma ricevo risposte stranite, come se stessi domandando come si raggiunge New York e invece Civita è a meno di trenta chilometri. Alla fine mi ricordo che la signora che gestisce il bed and breakfast dove alloggerò mi aveva detto di lavorare a Viterbo e allora la chiamo e mi faccio guidare da lei alla fermata giusta. Tiro un respiro di sollievo e mentre attendo come tutti che il mezzo si materializzi finalmente dalla curva, arriva una signora e chiede un’informazione ai presenti. Le risponde sollecitamente un extracomunitario: preciso e calmo le dà tutte le indicazioni con chiarezza e dovizia di particolari. Che sciocco sono stato! penso fra me. Era a loro che avrei dovuto chiedere e non a occasionali passanti italiani. Abituati ad arrangiarsi, a correre da un luogo all’altro a tutte le ore, giostrandosi fra un lavoro e un altro, non possono di certo permettersi sbavature e ritardi perché potrebbero costare loro molto cari. E poi come tutti i popoli giovani e fuggiti da terre invase dalle nostre truppe o da noi predate, hanno voglia di vivere e capacità d’iniziativa; altro che lo sguardo spento del giovane cui avevo chiesto informazione, tanto spento da farmi pensare che stessi parlando a uno straniero che avesse difficoltà con la lingua. Invece no, ma era come se lo fosse, straniero a casa sua, non perché qualcuno gli stava rubando qualcosa, ma perché si era perso da solo, nella sua rassegnazione e ignavia. Arrivo finalmente a Civita e l’accoglienza della signora fa dimenticare tutto, come doveva avvenire anche nei secoli passati: affabilità e gentilezza, calore umano semplice e diretto. È lei a dirmi che di domenica sarà impossibile spostarmi da lì. Mi rassegno anch’io, lo avevano fatto anche Goethe e Seume.

Una delle scoperte più belle fatte nella città storica di Civita è il Museo delle frane, che a prima vista non sembra contenere qualcosa di così prezioso: ricostruisce le vicissitudini della città nei secoli, la lotta incessante per preservarne l’esistenza in mezzo a terremoti, catastrofi atmosferiche e altre catastrofi. L’alternanza di fotografie in alta definizione e sobrie spiegazioni tecniche accessibili a tutti catturano sempre più l’attenzione, diventano una lezione sulla nostra terra, ma anche una testimonianza dell’amore con cui questa comunità sa essere attenta alla propria storia geologica, che viene pur sempre prima di ogni altra e determina ancora oggi i comportamenti umani come migliaia di anni fa; tanto più in una terra in cui gli insediamenti risalgono a epoche remotissime. Alla fine, un’ampia cartina mappamondo illustra le evoluzioni del globo. Si parte dalle prime fratture nella Pangea (100 milioni di anni fa), si risale pian piano fino a noi, dalla carta emergono lentamente le linee che conosciamo, scandite sempre dal tempo: 50 milioni, 10, ecc. È come assistere a una lunga nascita e arriviamo finalmente a noi, poi l’occhio mi corre più a destra, la simulazione non è finita, la didascalia recita: la terra fra 100 milioni di anni. L’inaspettata prosecuzione del percorso mi lascia senza fiato: guardo quella mappa, si fa fatica a riconoscere cosa sia accaduto. L’Italia non esiste più, rimangono solo due moncherini (forse la catena delle Alpi), che sembrano essersi mangiati non solo l’intera penisola ma anche una parte della Francia, che al tempo stesso è finita sulla Spagna dando vita a una informe e violenta sovrapposizione forzata.  Il ventre dell’Africa non è più gravido di terra ma di acqua, l’Oceano ha ridotto tutto il centro del continente a un striscia sottile, non ricordo nulla delle Americhe, perché l’immagine di quell’Europa strana e sinistra ha assorbito tutta la mia attenzione. Non ci saremo più e il pensiero corre a quell’invettiva di Pasolini, dove il poeta augura all’Italia di sprofondare nel Mediterraneo e di farla finita con la sua storia e la sua antropologia devastata. Andrà proprio così secondo la simulazione: esco con un senso di smarrimento che la ragione non riesce ad attenuare. 

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GRAND TOUR: LA TUSCIA

Viterbo sotterranea.

Diversi anni fa, durante un lungo soggiorno nella zona dei Castelli Romani, ebbi la fortuna di conoscere un gruppo di archeologi e antropologi che lavoravano in quella zona. Non erano professionisti, facevano altri lavori e si dedicavano allo studio del loro territorio per passione e a quello scopo avevano fondato un’associazione culturale. Erano tutti uomini tranne Antonia Arnoldous, olandese d’origine ma residente da tempo a Rocca di Papa. Antonia era la sola vera professionista: oltre alla pubblicazione di diversi studi su Roma e le zone limitrofe, fu lei a riscoprire le rovine di un tempio di Diana, di cui si sapeva l’esistenza ma che se ne stava sommerso da tempo dalla vegetazione selvaggia intorno al lago di Nemi. Fu un’estate ricchissima e anche un ritorno indietro alla storia più arcaica che riemergeva pian piano dai ricordi della scuola elementare e media: Albalonga, le sue strane origini legate al nome, la cultura preromana, le leggende del lago di Nemi, le sole intorno alle quali potevo dirmi un poco più esperto, visto che avevo già letto Il ramo d’oro di Frazer. Durante una delle tante discussioni serali, qualcuno disse rivolto a me una frase che ricordo a memoria: guarda che non si può capire Roma se non si vedono i Castelli. A parte le implicazioni storiche dell’osservazione, me n’ero già accorto, in particolare proprio a Rocca di Papa, dove mi capitava spesso – e con iniziale stupore – d’incontrare volti (specialmente maschili) che sembravano statue viventi di antichi romani, specialmente nel modo di portare i capelli, lisci e in avanti.

La frase pronunciata quella lontana sera mi è tornata di colpo alla memoria all’inizio di questo mio tour nella Tuscia: impossibile capire Roma senza il retroterra dell’alto Lazio, Viterbo in particolare. La fisiognomica in questo caso non c’entra perché quello che colpisce molto di più nella città odierna è la presenza multietnica diffusa: piuttosto che volti etruschi si vedono ovunque volti africani, mediorientali, più raramente asiatici e latino americani.  

Roma fu un grande attrattore, prima di tutto per ragioni geopolitiche. Domina chi sta in pianura (i colli di Roma sono bassi rispetto ai Castelli e all’alto Lazio), o su un altopiano che è pur sempre una pianura; se ha un fiume lungo il quale crescere e il mare vicino il quadro è completo. Oppure domina chi è un’isola (Inghilterra e Giappone docet), o chi possiede un territorio talmente vasto da essere in sé un intero continente, seppure soggetto a fenomeni di disgregazione interna (Cina e Usa). La dinamica fra le linee di forza che ciascuna di queste aggregazioni esprime in contrapposizione agli altri concorrenti, detta le regole della geopolitica da migliaia di anni ed è sufficiente andare a vedere dove sono i nodi strategici militari: a capo Miseno, sede della flotta romana, oggi c’è la flotta statunitense. Chi sta in alto o nelle selve può solo opporre una tignosa resistenza (ci vollero secoli per domare i popoli autoctoni del Lazio e gli Etruschi), ma alla fine non può che rimanere lì dove si trova. Chi sta in basso attrae, assimila, metabolizza ed espelle come scarto la parte negativa che non gli serve o ritiene pericolosa. Alla fine, chi sta in alto viene depauperato, o assorbito come fortezza chiamata a presidiare un territorio, mentre se oppone resistenza e non può venire vinto con gli assedi, viene lasciato prima o poi al suo destino perché chi si trova in basso ha a disposizione molte strade per i suoi traffici. Per questa ragione ci troviamo oggi nella preziosa condizione di potere ammirare mirabili sopravvivenze quali Pitigliano, Civita di Bagnoregio, Velleja romana, Pentadattilo e gli altri paesini arroccati sulle aspre montagne calabresi e tante altre piccole comunità più o meno abbandonate. Opposero strenua ed eroica resistenza alla geopolitica del loro tempo, oppure erano le sentinelle di un potere di pianura che fu rovesciato da altri. Sono ancora lì a ricordarci che dominio, sopraffazione e bellezza vanno sempre insieme e continueranno ad andare insieme finché le logiche geopolitiche si muoveranno secondo le medesime linee di forza patriarcali di migliaia di anni fa.

Viterbo e i Castelli sono due scenari che fanno da sfondo, da serbatoio e da linfa vitale al fiorire della civiltà romana, prima e dopo la classicità. Esercitarono tale ruolo in modo diverso perché la terra degli Etruschi ha al proprio interno una cesura che nei Castelli romani non c’è: se si va a Volterra, si percepisce di essere in un altro mondo, rispetto a quello della Tuscia laziale. Nei Castelli, invece, la loro natura di sfondo emerge in modo lampante, come se Roma avesse bisogno di appoggiare le proprie spalle a qualcosa che stava dietro e in alto. Forse dipende anche dal fatto che la storia preromana dei Castelli è più nota, mentre gli etruschi rimangono su uno sfondo più opaco, nonostante si riconosca la loro grande influenza e si sappia molto di più su di loro di quanto se ne sapesse quando frequentavo le scuole. In effetti, anche Viterbo, nel gioco e nella dinamica di questi due mondi satellitari intorno a Roma, ebbe un’importanza ben maggiore successivamente. Albalonga, invece, fu molto probabilmente un modello di polis che influenzò la primissima crescita di Roma, l’assorbimento dell’elemento etrusco richiese più tempo e probabilmente fu più complesso che non quello sabino. Le rovine arcaiche intorno a Nemi, ma anche le strade preromane come quella che dal Monte Cavo arriva fino ad Albano laziale, conservate dal fitto bosco dei Castelli, sono resti archeologici che denotano una cultura già complessa e un pantheon di divinità assai antico. Tuttavia, la tarda età imperiale impresse ai Castelli una svolta che accentuò di molto la distanza dall’altra area satellitare dell’alto Lazio; ma con questo siamo nel cuore dell’epoca cristiana. Viterbo colpisce subito per due caratteri che s’impongono all’occhio, anche a una visita superficiale: lo straordinario stato di conservazione del suo centro storico e l’unità di stile del medesimo. Il secondo aspetto, conseguenza del primo, è tuttavia il più importante. La pietra e il tufo, le linee forti e semplici dell’architettura degli edifici, conferiscono all’area un’immagine di compatta coerenza, solidità e severità: l’arredo urbano moderno, fatto perlopiù di addobbi floreali, rampicanti, altre piante ornamentali, si sposa benissimo con quello antico, costituito principalmente dalle bellissime fontane. Il Palazzo dei Papi, collocato in fondo alla via che inizia da Piazza della Morte, conserva le medesime caratteristiche di severità, mentre dal loggiato si gode una vista imponente sulla valle sottostante e sulla collina dove inizia la Viterbo moderna. Anche quest’ultima, almeno per quella parte che si vede dal palazzo e dal loggiato, appare pensata con la stessa coerenza, che si perde quanto più si va in direzione della zona industriale. I colori sono diversi perché non si può imitare su altri materiali quello del tufo e della pietra, ne risulterebbe un anonimo grigio; ma la prevalenza di tinte chiare, solari e tenue che sfumano in un ventaglio che va dal rosa deciso all’ocra, al melone, riflettono, anche in una parte della Viterbo moderna, la stessa coerenza di stile. Al contrario di quanto avviene nei Castelli, la città arcaica è sotterranea, ma la continuità dei materiali da costruzione ne accentua ulteriormente la severità. Viterbo è austera, sobriamente elegante nel suo centro storico e l’immagine sintetica che se ne ricava è quella di una città tardo medioevale governata da una Chiesa che dominava senza esibizione di forza perché godeva di un consenso molto alto e cercava di trasmettere un’immagine di sé coerente con i valori cristiani. Niente a che vedere con i Castelli. Quando, arrivando da Roma, si giunge nella grande piazza parcheggio a ridosso del centro storico di Frascati, la vista corre alla collina sovrastante all’imponente palazzo Aldobrandini: è il trionfo della monumentalità Rinascimentale, con il suo sfoggio di potere e ricchezza, il gusto dell’arte, lo sfarzo delle residenze dell’aristocrazia nera vaticana: è il destino dei Castelli, iniziato già nell’epoca imperiale romana ai primordi (sembra che persino Giulio Cesare avesse una villa sulle rive del lago di Nemi). Viterbo è molto più distante del centinaio di chilometri che la separano da questo territorio, con Roma nel mezzo e in basso. 

Il lago di Nemi

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GRAND TOUR

Casa di Meleagro

Il titolo è nato un po’ per caso e un po’ per scherzo, ma durante il percorso ne sono diventato sempre più convinto. L’Italia che ho visto mi ha riportato alle descrizioni di Goethe, di Stendhal, di altri viaggiatori e viaggiatrici meno illustri ma altrettanto acuti. Fu Richard Lassels a usare per primo l’espressione Grand Tour nel 1670; la fortuna di tale binomio, tuttavia, trovò una conferma concreta nei secoli successivi, quando la pratica del Grand Tour divenne una parte consistente della formazione personale di figli e figlie dell’aristocrazia nord europea, poi di artisti grandi e piccoli, infine di semplici curiosi e avventurieri di vario genere. Quei viaggiatori furono l’anticipazione del flaneur urbano immortalato da Baudelaire, ma anche la declinazione nomade su larga scala di un’attitudine verso l’esplorazione di mondi e culture diverse, che si andava consolidando in Europa, insieme alla riscoperta delle lontane fonti classiche della nostra cultura. Cominciavano le spedizioni archeologiche alla ricerca delle rovine di Troia e Montaigne, già nel corso del 1600, era stato il primo filosofo e antropologo europeo che nella sua biografia di intellettuale aveva saputo unire la passione della scoperta con quella del viaggio. In pieno ‘800 sarebbe venuta l’ultima ondata di esploratori, più segnatamente colonialista e predatoria: infatti le spedizioni si rivolsero verso l’Africa e l’Asia alla ricerca di spazi lasciati liberi dalle imprese coloniali dei secoli precedenti. Nella prima parte del ‘900, infine, furono gli appartenenti alle avanguardie politiche e artistiche a percorrere il continente europeo in ogni direzione, finendo tutti, prima o poi, dentro la carneficina delle due Guerre Mondiali.

Il mio piccolo grand tour è cominciato da un’area circoscritta del centro Italia ed è continuato per spostamenti a salti sul territorio, da un punto all’altro e senza un programma preciso, esplorando a volte un’area piccola fin nei dettagli, oppure scegliendo di colmare lacune di visite precedenti che avevano lasciato al margine alcune località. Durante il percorso alcune scelte geografiche sono maturate e sono diventate sempre più consapevoli, dopo un primo momento di casualità. Prima di tutto l’assenza delle maggiori città come fulcro della narrazione. In secondo luogo, il racconto si snoda lungo la cronologia delle visite, senza alcun riguardo per i salti – anche bruschi – da nord a sud, da est a ovest. Solo un’eccezione ho previsto a questa regola e riguarda l’ultimo luogo geografico di questo viaggio; se chi legge avrà la bontà di arrivarci ne capirà il motivo.

La relativa assenza delle grandi città italiane (con tutti i limiti che tale espressione ha, se le paragoniamo a megalopoli come Londra, Berlino e Parigi e con l’eccezione di Roma per ragioni in gran parte extra nazionali), ha diverse motivazioni che si sono a loro volta affacciate durante il percorso. Città come Torino, Milano, Genova, Firenze Napoli e Palermo hanno rappresentato un punto di riequilibrio rispetto all’Italia dei comuni, dei campanili e del localismo più o meno virtuoso. L’Italia come nazione ha avuto nelle aggregazioni urbane che ho citato i centri di sintesi politica economica e culturale (di cui Roma era il terminale simbolico), che hanno giocato un ruolo fondamentale nei passaggi nevralgici e spesso tragici della storia italica: per questa ragione esse furono capaci di offrire un orizzonte più ampio e condiviso, nonché un volto nazionale all’Italia. Questo non è più vero dagli anni ’90 del secolo scorso  e tale convinzione si è confermata lungo la strada e mi ha portato a vedere le città più grandi dalla loro provincia e ancor più ad arrivarci dalla provincia.

Quanto alla scelta di un percorso casuale e a salti, per spiegarlo mi servo di una metafora cinematografica: ho considerato il mio grand tour come un unico piano sequenza che non aveva bisogno di alcun lavoro di montaggio, ma solo di flash back.  L’attraversamento di luoghi in parte già noti, in altri casi per nulla, ha infatti riportato alla memoria viaggi precedenti e mi ha permesso di ritornarci, rivedendo quei momenti alla luce di quanto osservavo ora. In alcuni casi, ho scelto di non ritornare a visitare quei luoghi ma di affidarmi solo ai ricordi più o meno lontani, nutrendoli con nuove letture piuttosto che con nuove visite. 

Infine, il mio è stato un viaggio anche nei libri: sia quelli degli autori maggiori e minori che dell’Italia hanno scritto, sia spigolando fra gli scritti di altri viaggiatori e viaggiatrici più comuni. Ne potrei citare molti ma preferisco che chi legge li incontri strada facendo. Di uno soltanto voglio scrivere in questa introduzione perché mi ha accompagnato in ogni fase del viaggio e con il quale mi sono trovato ad avere una sorta di confronto continuo: Non ti riconosco, di Marco Revelli Einaudi 2016. A questa parte introduttiva seguiranno nei prossimi giorni i capitoli di questo viaggio. 

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DIARIO DEL NORD

Questo racconto di viaggio fu pubblicato sulla rivista Manocomete, l’anno è il 1993, successivo al colpo di stato che causò la fine di Gorbaciov e dell’Unione Sovietica: il nord cui si riferisce il titolo sono in realtà i confini fra Germania e Polonia.  

Angermunde è una cittadina anonima, a metà strada fra Berlino e il confine  polacco.   La  pensione Eschert  è  gestita  dalla  signora Eschert,  vedova.  

“Morgen  ich  gehe  zu  Sceczin”,  pronuncio alla  ‘polacca’. 

La  signora  mi  sta  facendo il  letto,  alza  il  capo bruscamente interrompendosi:  “Stettin,  Stettin, mi corregge alzando la  voce: 

“Stettin ist Deutschland, meine Mutter uber Oder” vive  di là, è nata di là anche lei e  “di  là…”

È  sabato pomeriggio, i giovani sono in giro: difficile capire  come sono fatti, ma non mi sembrano revanscisti  come la signora Eschert.

Schwedt  è  una  tipica   cittadina  dell’ex  DDR:  piste  ciclabili bellissime, ampi spazi verdi. Eppure l’immagine globale è dimessa e malinconica. Poi improvvisamente,  da  dietro  un angolo, sbuca la guglia di una cattedrale in stile lubecchese, in mattoni rosso scuro. L’unico segno di accoglienza, a parte gli uffici turistici chiusi è questo richiamo religioso.  Mi aggiro per  le stradine intorno alla chiesa finché  sbuco in una strada più larga; guardando  verso  sinistra mi sembra di scorgere  un  ponte … Mi  era rassegnato a non vederlo, poi  me  ne  ero  quasi dimenticato; l’Oder invece  passa  proprio ai limiti estremi di Schwedt.  Il fiume, come la Neisse che scorre più a sud o l’Elba, ha diviso  popoli  e  famiglie, lavato nell’acqua  strisce  dolorose  di sangue; scorre davanti  a  me  silenzioso,  avvolto  in  una  sottile nebbiolina.   Sul ponte passano molte automobili, povere e  scassate: sono i polacchi che vengono a lavorare in Germania. C’è qualcosa   di  cupo,  un’atmosfera  inquietante  che   mi   è emotivamente nota; è un’aria che  respiravo  da ragazzo, un misto di provincia nord milanese, primi anni 60 e dignitosa povertà.

Domani andrò a Stettino, nonostante le voci di veri e propri assalti ai treni per derubare chi viaggia. Il  treno  parte alle 8.20, arrivo in stazione alle 8, così  almeno credo; ma è  tornata  l’ora  solare,  sono  le  sette. Entro nello scomodissimo supermercato/bar.  Dentro, oltre alla commessa, ci  sono due uomini ed una donna  dallo  sguardo  vuoto  ed i vestiti dimessi; siedono  vicino alla finestra e si dividono una bottiglia  di  birra. Il cielo è grigissimo; la notte  ha  piovuto e a letto, al caldo, ho provato una sensazione piacevolissima da tempo dimenticata:  sentirsi protetti e al sicuro. Perché proprio qui? È un pensiero che si muove  come  un tarlo nella mente, accentuato dalla sosta forzata  e nonostante il disturbo dei  tre  che  si  fa  più pesante; sono già ubriachi. Sentirsi al sicuro in una casa tedesca dal tetto spiovente e dai balconi che sembrano uscire dall’illustrazione di una favola dei  Fratelli Grimm. Sarà la nostalgia di questa tana  calda a far sì che i tedeschi siano spesso così allarmati ed insicuri verso chi è fuori ed estraneo? Ma perché io straniero ho avvertito la stessa sensazione di calore  e  protezione?  Esiste  allora uno spirito del luogo che, come un fato antico, modella l’inconscio collettivo?

Mi aggiro per i vagoni e mi imbatto in un ragazzo alto e magro, dagli occhi gentili, biondo ma  non  tedesco.  È  polacco,  dico fra me e decido  subito di stare lì. 

“Es ist frei” mi dice indicando  cinque sedili vuoti. 

Se avesse gli  occhi  un  po’ più azzurri e spiritati assomiglierebbe  all’attore preferito da Waida.  Invece i  suoi  sono marrone chiaro, espressivi ma non  esagerati. 

“Ich arbeit in Berlin.”

 “Zurück?”

“Ya zurück meine familie ist in Polen”

“Stettin?”

“Nicht in  Sceczin” mi corregge con  un  sorriso  dolce  e senza acrimonia.

“Mein stadt”  e  poi  aggiunge  qualcosa che non  capisco.  

“Ich  gehe  zu Sceczin”  gli rispondo.

“Ich arbeit in Berlin.

“Keine arbeit in Polen?”

“Keine, keine” e scuote la testa  sconsolato  “Arbeit  problema  in  Polen “

“Arbeit problema in Italien “

“Bist du Italienisch?”

“Ya ich bin ein Italienisch”

Sono in  sei in famiglia e tre hanno  perso  il  lavoro. 

“In Berlin geld zwei monate”  mi fa il segno dei soldi con le dita “In Polen sechs monate”

“Was ist deine arbeit?” fa il verniciatore di auto in un garage ed è contento.  Abita a 500 chilometri da Stettino e torna per due  giorni in permesso.  La frontiera è  vicina, il ragazzo ha il passaporto in mano:  “Ich  bin 21” jungen mensch.

“Warum keine arbeit in Polen?”

“Lech  Walesa” mi dice decisissimo; è la  prima  volta  che  lo vedo animarsi nello sguardo e nella voce.  Io faccio segni di assenso con il capo “Walesa fahrt” continua lui “America, England, Geld Geld fur Polen, aber kein Geld fur Polen”

Penso fra me che non abbiamo ancora parlato del papa e lui 

“Papst  Polen  Papst” 

“Bist  du  Catolisch?” 

“Ya  ich bin Catolisch” 

“Walesa  ist Catolisch” butto lì  con  malignità e  lui scrolla le  spalle,  poi  mi  indica  la  penna  nel  taschino con il ritratto  di  Wojtila “Grosse, grosse” e si mette a ridere,  come  a dire “era solo un distintivo e basta”  Il viaggio è quasi finito, il treno è fermo, sta arrivando il controllo passaporti “Habst du  ein Polsch passeporte gesehen?”

“No.” 

Me lo mostra orgoglioso. Stettino Glowny, ciao amico.

La stazione è grigia e sporca; l’Odra le scorre davanti ed il mare è a poche miglia, ma il porto mi sembra inattivo. La ragazza dell’informazione turistica parla solo polacco, mi prende una piccola crisi di sconforto. Mi avvio all’edicola e compero una cartina  della città; lì ritrovo il mio amico. È disperato. Il treno era in ritardo e non ce  ne  eravamo  accorti; lui ha perso il suo.   

“Quando è il prossimo accidenti? 

Scuote il capo sconsolato e non mi risponde; forse non riuscirà nemmeno ad arrivare. 

“Wait, ich gehen zu wechsel und kommen zurüück.”

Torno, ma lui non c’è più e che altro avrei potuto dirgli e fare poi?

Una  tazza di te costa 7.500 sloti, il listino ufficiale però  porta scritto 5.000, mentre il nuovo prezzo è segnato a mano su un foglio. Mi  ricordo improvvisamente dell’ultima vacanza in Jugoslavia, quando i prezzi cambiavano  tutti  i  giorni  ma  le  correzioni sul listino ufficiale erano settimanali:due anni dopo la guerra.

Quella  del   cambiavalute   sembra   essere   l’attività  economica principale  della città, oltre al commercio minuto.  Ne  ho  contati sei nelle adiacenze dell’albergo.  Fuori hanno insegne luminosissime, molto  simili  ai  richiami  dei locali  porno.   Anche i  nomi  sono esotici: Kantor,  Lombard  e  solo  alcuni  portano  la  scritta più tradizionale   –  Wechsel  o  Change  –  in  piccolo.    Lombard   mi incuriosisce;  è  un  omaggio  agli   italiani,  primi  banchieri  e cambiavalute?  Anche nella City di Londra c’è una Lombard Street. ll gran numero di cambi indica che il commercio clandestino di valuta è stato  legalizzato. Quest’ovvia  considerazione, tuttavia, non esaurisce il problema.  Il primo dato che mi balza all’occhio è che sono sempre pieni di polacchi e non di turisti. Ne ho visti più di uno entrare, cambiare e poi recarsi subito nel negozio a fianco a fare la spesa. Era lo stipendio mensile dunque quello che finiva al cambiavalute e poi subito nelle tasche del dettagliante. Molti di questi  saranno  lavoratori  in  Germania  ma  il  numero  mi  sembra eccessivo;  avranno anche delle riserve di valuta pregiata ma non  mi è allora chiaro come se la siano procurata. Il giro d’affari è consistente e coloro che rastrellano la valuta non saranno,  nel giro di qualche anno, dei ricchi qualunque;  tutti insieme costituiranno una lobby potente, in grado di gestire capitali consistenti.  Per  farne che? E chi sono poi  questi  percettori  di valuta pregiata?  Nuovi ceti  rampanti polacchi in cerca di posizioni preminenti?  E quali conseguenze politiche avrà questo traffico?

Per cenare scelgo il King, un ristorante del centro. Il locale è discretamente affollato.   I  due  seduti  alla  mia  destra  parlano inglese  e vestono in modo simmetrico: uno indossa una camicia  color latte ed un paio di  pantaloni rosso/ciclamino,  mentre  il  secondo veste  gli  stessi  capi a colori  invertiti. Entrambi  portano  un foulard di seta nel collo della camicia. Le coppie irregolari  si  muovono  fuori  stagione,  seguono percorsi imprevedibili, s’aggirano raminghe per rotte periferiche, cercano nei luoghi  meno  romantici  la  libertà  del  loro anonimato  e di una silenziosa  ed  intima trasgressione.

La  birra che ieri costava 20.000 sloti questa sera ne costa  17.000; naturalmente il bar è lo stesso, però è cambiato il cameriere.

Non è tardi ma c’è poca gente in giro; intorno ai cambiavalute c’è un andirivieni continuo È un’atmosfera strana che non  mi  piace. Poi dal fondo  della  strada  vedo  sbucare  un  bassotto  seguito da quattro persone: padre, madre e due ragazzi dell’età dei miei figli. I cani ed i  loro  padroni  ispirano  ovunque  un  senso di fiducia e sicurezza.  Alzo la testa e ne vedo altri in giro, alcuni liberi altri al guinzaglio. È anche qui  l’ora dell’ultimo passeggio come qualcuno  starà  facendo  a Milano con  Laika. Padroni e cani si assomigliano ovunque e i primi  potrebbero capirsi a volo in qualunque lingua per il solo fatto di condividere questa esperienza. Chissà che alla fine  siano  i  padroni  di  cani  gli  unici  a capirsi e a dialogare, chissà che seguendo l’animale (perché è il padrone  che segue il suo cane) non diventi  trasparente la buffa comunanza che ci fa tutti uguali davanti al nostro cane.

Di  fianco all’albergo c’è un saldo. Mentre passo mi sento chiamare da una voce  femminile; penso alla solita commessa che invita i clienti a entrare, sorrido e scuoto la testa.  Lei però  continua, mi rivolge qualche  parola  in  polacco  e  il  tono della voce mi fa sobbalzare perché sembra un richiamo disperato.  Mi volto sorpreso. Non è una commessa. È una  ragazza  bionda,  appoggiata alla porta  del  negozio; a terra c’è il sacchetto della spesa. Ci guardiamo, lei continua a parlare, tento di rispondere in inglese, ma lei scuote il  capo “ne’, ne”.  Provo in tedesco; niente. In quel momento vedo le stampelle addossate al muro e comincio a capire. Mi avvicino e lei  sorride,  tira un sospiro di sollievo  “please,  please”  “Help” “Help, help” è quasi un  grido.   Vedo le sue gambe torte, il busto diritto, le ginocchia retroflesse il viso biondo e gentile, la parte bassa del suo corpo deturpata. Credo sia distrofica o peggio; vuole attraversare la strada. Le do il  braccio e ci avviamo fermando il traffico. Arriviamo di là ma non posso lasciarla perché cadrebbe. Dobbiamo raggiungere il muro e sono  altri  venti metri di strada, durante  i  quali  per la testa mi passa di tutto: perché  non  è assistita? Perché è uscita proprio lei a fare la spesa? Quanti anni ha, dove abita?  Cosa farà domani?  “Taxi” forse l’ho gridato per un desiderio di restare ancora un  poco con lei, sorride ma nega con il capo. 

“Ma non puoi andare così dove abiti, help polski help polski, mi guardo  attorno  ma  nessuno  mi  sembra  rassicurante…

“ne help polski, ne help polski, polski…” e qui si interrompe ma il gesto è inequivocabile; sputa per terra. I polacchi non ti aiutano e scuote la testa  sconsolatamente, continuando a ripetere  “ne help polski, ne help polski”. Arriviamo  al  muro, ci guardiamo, ha gli occhi  lucidi  ma sorride; è più tranquilla e mi indica  che posso andare.  Poi con la mano sulle labbra mi manda un piccolo bacio e cerca   di  stringermi  la  mano;  barcolla  di  nuovo e  mi  tocca sorreggerla. Poi l’accarezzo sul viso e mi volto di scatto. Vado via, mi è passata la voglia di fare qualsiasi cosa; entro in albergo ritiro il bagaglio e vado alla stazione.

Bad Saarow Pieskov, e’ una localita’ termale su un lago, un  gioiello dell’ex DDR, famoso dagli anni 20 e visitato da artisti e poeti; c’è la casa di Gorki che trascorse qui un lungo periodo di cura. Di  fianco all’ostello c’è una ex caserma sovietica in  disarmo. I bambini ci entrano per giocare, passando da un buco della rete metallica  e  mentre se ne stanno lì ecco che arriva  un  camion  di soldati, entra e  non  li  guarda  neppure.

La  stazione di Bad Saarov è surreale: un capanno di legno in aperta campagna, ermeticamente chiuso. Quando arrivo c’è un uomo con due borse. Fa freddo, cominciamo a guardarci, mi avvicino. Non mi  ero sbagliato: le borse sono piene di  funghi.  L’uomo comincia a parlare rapidamente, con brevi pause ogni tanto.  I temi sono i soliti:  non c’è  lavoro,  prima  non   potevamo   muoverci,  adesso  abbiamo  il

passaporto  ma ci mancano i soldi per andare dove vogliamo.  Esaurite le lamentele  comincia  la  seconda  parte  del  discorso: i polacchi stanno  peggio di noi, anche la lira non va bene, il marco invece  è  pesante.  Tira  fuori   di   tasca   alcune   monete   e  le  guarda orgogliosamente. Arriva davvero il  treno:  incredibile!  È  un convoglio pendolare, pieno di operai  e studenti.  Sulla mia carrozza c’è  una  colonia di bambini delle scuole elementari che  tornano  a Berlino dopo aver trascorso due  settimane  di  ‘scuola natura’ a Bad Saarov.   Cantano  a  squarciagola “Il gallo e’ morto”  in  tutte  le lingue, come si conviene.  Sono  incantato dalle pronunce esatte, da tono,  dall’entusiasmo  che  ci  mettono; i  passeggeri  sorridono  e sopportano benissimo il chiasso, le maestre non fanno una piega.

Eltsin bombarda il Parlamento, i  giornali  titolano  a nove colonne alla porta di Brandeburgo la gente discute animatamente.  Mi avvicino ed il ritornello dei discorsi è  martellante:  “I russi torneranno!”

Alla Marienkirche c’e’ una manifestazione di piazza; sono abitanti del Kreuzberg che protestano  contro  i  progetti speculativi a danno del  quartiere  un  tempo  gioiello di  Berlino  ovest,  regno  della trasgressione e delle libertà  occidentali:  case occupate, cultura, circoli,  una  vivacità  intellettuale  degna  della  Repubblica  di Weimar.  Signori si chiude! Il gioco è finito; caduto il muro la costosa vetrina è stata dismessa, i locali chiusi, le occupazioni smantellate, l’area ripulita dagli extracomunitari. Si è liberi in relazione ad una possibile alternativa, ma non nell’unicum esistente. Ritorno  all’ostello  di  Kluckstrasse, il  treno  parte  alle nove.

Rifaccio sull’autobus 129 il percorso che porta alla stazione dello zoo. Ku’Damm è piena di luce: domani è sabato.

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MITI

“Siamo qui.”

Si voltò e vide una bambina; si avvicinò e lei lo prese per mano.

“Ti stavamo aspettando Amleto.”

“Scusate il ritardo, ma, non sapevo, non so cosa fare.”

Un altro che portava sul capo un elmo a due punte, si portò al loro fianco; insieme a lui vi era un cane bellissimo, dal pelo folto e dallo sguardo quasi umano.

“Vieni fratello.”

Andarono sopra un’altura dalla quale si poteva dominare una vasta distesa pianeggiante. Dapprima gli sembrò uniforme ma poi, guardando bene, scorse due luoghi distinti, separati da una sottile striscia di nebbia e in ognuno di essi gli sembrò che qualcuno si stesse muovendo. A lato di entrambi quegli spazi, scorse qualcosa, ma la poca luce impediva di vedere bene. Si voltò perplesso e un altro, che nel frattempo si era avvicinato, si rivolse a lui:

“Sono esseri umani, se guardi attentamente, là in fondo, vedrai un re che dovresti conoscere molto bene e il vecchio cieco, appoggiato a quel masso, fu un famoso re di Tebe.”

“E quella sono io”, ma osservando nella direzione indicata dalla bambina, vide una vecchia.

“Non mi riconosci?”

Risero tutti e fu allora che Amleto si accorse di loro.

“Sono confuso; perché noi ci troviamo in mezzo a loro? E io … qual è il mio posto?”

“Non in mezzo a loro, ma più in alto e più lontano, ma non tanto da non riuscire a vederli e non così in alto da sembrare dei, come volli diventare io.”, aggiunse parlando fra sé quello che gli aveva indicato il re di Tebe.

Amleto li osservò uno ad uno, poi, parlando fra sé:

“Ma voi non avete vissuto, mentre io …” ma non continuò la frase e allora un altro si rivolse a lui:

“Attribuisci troppo valore a quello che gli uomini chiamano storia. Prendi il mio caso; la figura che vedi là nell’angolo, vicina al re di Tebe, porta il mio stesso nome, Enea. Compì grandi imprese, fondò una città famosa (almeno così si dice); eppure nessuno può affermare con certezza chi di noi due sia il più vivo e il più vero nel ricordo degli umani.”
“Pensa a quel re di Tebe che sta laggiù” gli fece eco un altro dagli occhi incavati, accalorandosi come non mai! E continuò dicendo:

“O se preferisci pensa al principe Hamlet! Che hanno fatto d’importante tutti questi uomini? Del primo si sa che regnò, quanto al secondo non vi è certezza neppure di questo.”

Poi si voltò, indicando un’ombra dietro di lui e proseguì:

“Guarda costui che sempre mi segue e che forse tu riconoscerai; credi che preferisca essere ricordato come il conte di Southampton, oppure come il Bardo?”

Amleto lo guardò turbato, poi chinò il capo e aggiunse sotto voce:

“Dici bene, come se fosse facile.”

L’ombra, che fino a quel momento non aveva mostrato alcun segno d’interesse per loro, alzò il capo e guardò Amleto negli occhi, poi in tono mesto disse:

“Accade talvolta a chi scrive, che una voce rifiutata nel testo ci prenda per mano nelle nostre vite e ci guidi come un demone cieco, trascinandoci nelle tragedie di un testo immaginario. Il pianto, allora, invece di liberarsi in parole, imprigiona i nostri gesti quotidiani, diventa rabbia, si dirige su chi ci è più vicino, colpisce e divide come una spada, spesso ci annienta. Altre volte sono i gesti, le risa, il pianto a muoversi da soli, senza che noi stessi sappiamo dove andranno infine a depositarsi.”

Così detto chinò il capo. Amleto, che lo aveva ascoltato piangendo, si rivolse a lui:

“Sei stato tu a crearmi, oppure è a quel re che sta laggiù, fra gli umani, a cui mi devo rivolgere? Di chi sono figlio? Chi di voi due può sciogliere il mio enigma?”

L’ombra non rispose e gli altri si avvicinarono e lo portarono via di lì; poi uno di loro gli cinse le spalle con il braccio:

“Furono pur sempre esseri umani a crearci, siamo schiavi di condizioni umane, viviamo in eterno, sia pure, ma solo passando fugacemente, generazione dopo generazione, nelle menti dei pochi che ci accolgono, sempre in balìa del caso, fino a che la stoltezza dei molti non porrà fine a tutto quanto.”

“Questo varrà per voi, ma non per me! Io, Cassandra, non fu mai accolta, mai! In nessuna epoca e da nessuno!”

“Ma perché tutti insieme?” chiese Amleto dopo averle rivolto uno sguardo distratto; poi continuò:

“Cosa ci si aspetta da noi? Ditemi almeno questo se volete che io scelga.”

Nessuno gli rispose, sebbene la frase li avesse colpiti. Anche Amleto tacque; si guardò intorno e si avvide che si trovavano più in basso di prima e che l’altura su cui erano saliti si trovava alla loro sinistra.  Vide muoversi qualcuno a pochi passi da loro e pensò si trattasse delle schiere degli umani, poi presto si avvide che non era così; notò infatti che i loro corpi erano diversi da quelli degli altri,  perché una parte di essi era oscurata. Fu Cassandra ad avvicinarsi a lui:

“Sono gli utopisti, i riformatori sociali e i rivoluzionari; di loro possiamo vedere solo la parte che assomiglia a noi, mentre gli umani – che da qui non riesci a scorgere – possono vedere la parte che a loro assomiglia. Potranno scegliere con chi stare ma dovranno rinunciare a una parte di sé; solo allora potranno mostrarsi con l’intero corpo a coloro che avranno scelto.”

Amleto l’ascoltò in silenzio, poi volse di nuovo lo sguardo verso quegli strani individui. Uno di essi, in particolare, l’attirò; di lui si vedevano soltanto gli occhi socchiusi e sottilissimi. Il suo sguardo era di straordinaria acutezza e da quelle piccole aperture sembravano uscir fuori tanti piccoli raggi di luce che finivano per catturare l’attenzione di ognuno. Tutta l’energia di quel corpo si era trasferita in essi e Amleto vi sentì vibrare una gamma così vasta di sentimenti che ne fu colpito. Poi vide un altro avvicinarsi a lui. Aveva soltanto il volto; un volto da ragazzo, quasi un bambino sorridente e aperto. I suoi occhi, però, erano fissi, come se qualcosa avesse spezzato il suo sguardo in tenera età.  Quando però incontrò gli occhi dell’altro  si animò, mentre il primo dei due – dal canto suo – trovò in essi sollievo alla propria inquietudine.

“Sono arrivati da poco” disse Cassandra e aggiunse: “si cercano sempre; se vuoi, avvicinandoti, udrai la loro storia; forse ti potrà servire.”

Amleto si avvicinò ai due, voltandosi ogni tanto per vedere se Cassandra lo stesse seguendo; ma lei preferiva tenersi a distanza. Si sedette quando gli parve di essere abbastanza vicino, senza che i due si accorgessero della sua presenza. Dopo essersi abbracciati, almeno così gli sembrò dal movimento di entrambi, cominciarono a parlare.

“Ti ho atteso fratello mio e ora che sei qui potrò finalmente udire dalla tua voce cosa è successo dopo che i miei occhi furono spenti proprio quando vedevo davanti a me la luce di una speranza futura.”

“Lo so, lo so Saša carissimo, fui io a dire a nostra madre che ti avevano impiccato, anch’io vidi la tua stessa luce, ho proseguito il cammino  e credevo così di avere emendato il tuo errore e il mio errore anche.”

“Avrai tempo per raccontarmi di nuovo anche questo, la tua fama mi ha già raggiunto, so cosa hai fatto, è altro che vorrei spere; ero ansioso di rivederti, certo, eppure non ti aspettavo così presto.”

“E non sai invece quanto volte mi sono augurato di raggiungerti prima! Volevo andarmene, ma il peso che avevo reso sulle spalle fu condiviso da milioni di umani che videro come noi quella luce e così invece di schiacciarmi, esso mi buttava continuamente in alto nonostante il mio corpo si trascinasse come uno straccio zuppo di sofferenza. Non mi lasciavano andare via; poi, quando finalmente il mio corpo si è fermato mi hanno rinchiuso per settant’anni in uno stupido mausoleo sulla Piazza Rossa e come se non bastasse uno scienziato indegno di questo nome si è tenuto il mio cervello; voleva scoprire, pensa un po’, come è fatta la mente di un genio! Come se in quell’ammasso di fili consumati, ci potesse essere qualcosa di più dei segni della mia malattia.”

“Perché dici questo? Volevi venire prima? Non riesco a capire, avevi appena raggiunto la soglia del mondo che sognavamo. Ho cercato spesso di vedere con i tuoi occhi; non appena arrivato qui, capii il mio errore ma ero certo che tu saresti andato più in là.”

“E così avvenne, ma anch’io fui spezzato come te, ma la mano che lo fece era più sottile di quella del boia, assomigliava alle nostre Saša, era fatta come le nostre. Spostava la luce che vedevamo allontanandola sempre di più e chiedendoci di seguirla  e mentre noi eseguivamo i suoi ordini la mano colpiva spietatamente alle nostre spalle.”

“Un tradimento allora!”

“E così non c’era luce dietro di noi, ma soltanto un’ombra che cresceva sempre di più; quando me ne avvidi era troppo tardi. Mi ritrovai solo ai margini di un labirinto.”

“Fosti tradito allora!”

“No, non fu così.”

“Un altro errore allora …”

“Mi sono ingannato. Ho creduto che le mie opere nascessero dalla volontà e dalla comprensione di quello che tu chiami ancora il tuo errore. Pensai così che fosse la passione da lasciare da parte e la mia mente agì con la freddezza necessaria per lasciarla fuori di me. In  realtà a spingermi su quella strada fu un sentimento per me impronunciabile quando ero in vita. Cercavo di restituirti qualcosa che ti era stato tolto; ed eri stato proprio tu a farmi vedere per primo quella luce. Pensai che fosse stata la tua generosità ad averti tradito. E invece agivo io stesso in nome di un impulso generoso  che non volevo riconoscere come mio.”

“E quando te ne accorgesti?”

“Poco dopo aver varcato la soglia. Avevo sognato quel momento; il mio libro più bello, sai, lo scrissi allora, a cose fatte ne 1919. Fu una liberazione e quando di notte, alla luce del lume, le parole sembravano uscire dalla mia mano come schiere trionfanti, mi accorsi che accanto ad esse c’era anche la tua Sasha, la tua mano anarchica e di ragazzo, la tua mano con tutta la tua passione e la tua giovinezza impiccata. E le parole volavano, volavano fuori, sembrava non avessero confini, salivano sulla fortezza di Pietro Paolo che intravedevo dalla finestra e sembravano sgretolarla un poco ogni notte. E scrivendolo sentivo che in quelle parole tornava a risplendere la luce, come l’avevamo vista la prima volta!”

“E poi che accadde?”

“Durante il giorno quelle parole le dimenticavo; non me ne accorsi subito. Esse si allontanavano dalle mie opere diurne e queste crescevano senz’anima. Di notte erano le mie parole a crescere e sgretolavano fortezze, ma erano fortezze immaginarie; dalla finestra la intravedevo nell’ombra, la fortezza di Pietro Paolo era sempre là ed ora vi erano rinchiusi i tuoi aguzzini, ma era nera e minacciosa come quando vi fosti impiccato tu.”

“Replicasti il mio errore dunque, sognasti troppo e troppo in fretta.”

“No Saša, perché capivo ogni giorno di più che senza le parole del libro che stavamo scrivendo insieme, era la luce ad andarsene. Ma il giorno successivo la mano continuava a distruggere quanto era stato scritto la notte, ma essa era del tutto simile alla mia, era la mia Saša! E così ricominciavo daccapo la notte successiva e le altre ancora ed ogni giorno ed ogni notte misuravo ciò che era rimasto come saldo. Finché non crollai io stesso e tutto cominciò a dissolversi; ti allontanasti di nuovo nelle tenebre e la mia mente si consumò, le lacrime che mai volli  mostrare divennero un acido che cominciò a scavare e a corrodere dentro di me e allora decisi di andarmene.”
“Eppure incontrarti mi ha fatto tornare la speranza e quando ti guardo quella luce io continuo a vederla.”

“Anch’io la vedo e mi tormenta, sapessi almeno perché mai continuiamo a vederla!”
“Forse perché c’è un’altra soglia che dovremo attraversare, ma dovremo farlo insieme.”

I due tacquero di colpo e gli occhi del primo cominciarono a rivolgersi di nuovo in tutte le direzioni, mentre il volto dell’altro tornava alla sua fissità.

Amleto allora ritornò verso Cassandra, che l’attendeva.

“Perché hanno taciuto così bruscamente?”

“Perché non capiscono che manca loro qualcosa. Anche insieme non troveranno la soglia che cercano e così ogni volta sono costretti a ripetere daccapo la loro storia e dovranno farlo molte altre volte e non solo qui fra noi; ma capiranno prima o poi, non essere così triste.”

Anche gli altri si erano avvicinati e tutti insieme si diressero di nuovo verso l’altura, in cima alla quale li attendeva il cane, insieme ad una figura che prima non aveva visto. La luce era cambiata e le schiere degli umani erano ora ben visibili. La striscia di nebbia che li separava, si assottigliava talmente in alcuni punti, che le due colonne si sfioravano senza tuttavia vedersi e neppure immaginare la presenza dell’altra. E mentre una schiera si trascinava un fardello di atroci sofferenze, l’altra – con gli occhi rivolti verso l’alto – si trascinava il fardello altrettanto pesante di una felicità ebete e incantata. Amleto scosse il capo e osservando lo spazio ai lati delle due schiere, vide agitarsi altre figure.

“Chi sono quelli?”

“Sono i personaggi minori, oppure molto recenti o appartenenti a opere di scarso valore; attendono che noi li chiamiamo, ma non possiamo. Continueranno a oscillare sulle loro piccole barche in attesa che qualcuno più grande di loro li traghetti da qualche parte.”

“E non potrebbero proprio loro mostrarci che viviamo un’attesa? Un tempo risparmiato e tenuto in serbo per qualcosa che non sappiamo?”

“Non è un tempo, fratelli e sorelle, ma una scelta, sta a noi prendere nelle nostre mani il nostro destino; a noi che vediamo quello di cui gli umani vedono soltanto un lato perché da tempo hanno distolto lo sguardo dalla sola parte di loro che vive.”

Si voltarono tutti.

“Non è forse questa la promessa che fece sperare le genti nel corso dei millenni? Se liberi finalmente, dai nostri creatori, fossimo proprio noi, i personaggi che essi hanno creato a far vivere le nostre storie e dunque anche la parte migliore di loro? Smettetela di guardarli e di cercare nelle loro imprese tutte le risposte e tu Amleto, rimani con noi, non tornare nel mezzo di altri principi e re.”

Si avvicinarono e si sedettero in cerchio accanto a lei.

“E da che cosa cominceresti regina e da quando?”

Allora Sherazade si sedette, incrociò le gambe e parlò.

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