MITI

“Siamo qui.”

Si voltò e vide una bambina; si avvicinò e lei lo prese per mano.

“Ti stavamo aspettando Amleto.”

“Scusate il ritardo, ma, non sapevo, non so cosa fare.”

Un altro che portava sul capo un elmo a due punte, si portò al loro fianco; insieme a lui vi era un cane bellissimo, dal pelo folto e dallo sguardo quasi umano.

“Vieni fratello.”

Andarono sopra un’altura dalla quale si poteva dominare una vasta distesa pianeggiante. Dapprima gli sembrò uniforme ma poi, guardando bene, scorse due luoghi distinti, separati da una sottile striscia di nebbia e in ognuno di essi gli sembrò che qualcuno si stesse muovendo. A lato di entrambi quegli spazi, scorse qualcosa, ma la poca luce impediva di vedere bene. Si voltò perplesso e un altro, che nel frattempo si era avvicinato, si rivolse a lui:

“Sono esseri umani, se guardi attentamente, là in fondo, vedrai un re che dovresti conoscere molto bene e il vecchio cieco, appoggiato a quel masso, fu un famoso re di Tebe.”

“E quella sono io”, ma osservando nella direzione indicata dalla bambina, vide una vecchia.

“Non mi riconosci?”

Risero tutti e fu allora che Amleto si accorse di loro.

“Sono confuso; perché noi ci troviamo in mezzo a loro? E io … qual è il mio posto?”

“Non in mezzo a loro, ma più in alto e più lontano, ma non tanto da non riuscire a vederli e non così in alto da sembrare dei, come volli diventare io.”, aggiunse parlando fra sé quello che gli aveva indicato il re di Tebe.

Amleto li osservò uno ad uno, poi, parlando fra sé:

“Ma voi non avete vissuto, mentre io …” ma non continuò la frase e allora un altro si rivolse a lui:

“Attribuisci troppo valore a quello che gli uomini chiamano storia. Prendi il mio caso; la figura che vedi là nell’angolo, vicina al re di Tebe, porta il mio stesso nome, Enea. Compì grandi imprese, fondò una città famosa (almeno così si dice); eppure nessuno può affermare con certezza chi di noi due sia il più vivo e il più vero nel ricordo degli umani.”
“Pensa a quel re di Tebe che sta laggiù” gli fece eco un altro dagli occhi incavati, accalorandosi come non mai! E continuò dicendo:

“O se preferisci pensa al principe Hamlet! Che hanno fatto d’importante tutti questi uomini? Del primo si sa che regnò, quanto al secondo non vi è certezza neppure di questo.”

Poi si voltò, indicando un’ombra dietro di lui e proseguì:

“Guarda costui che sempre mi segue e che forse tu riconoscerai; credi che preferisca essere ricordato come il conte di Southampton, oppure come il Bardo?”

Amleto lo guardò turbato, poi chinò il capo e aggiunse sotto voce:

“Dici bene, come se fosse facile.”

L’ombra, che fino a quel momento non aveva mostrato alcun segno d’interesse per loro, alzò il capo e guardò Amleto negli occhi, poi in tono mesto disse:

“Accade talvolta a chi scrive, che una voce rifiutata nel testo ci prenda per mano nelle nostre vite e ci guidi come un demone cieco, trascinandoci nelle tragedie di un testo immaginario. Il pianto, allora, invece di liberarsi in parole, imprigiona i nostri gesti quotidiani, diventa rabbia, si dirige su chi ci è più vicino, colpisce e divide come una spada, spesso ci annienta. Altre volte sono i gesti, le risa, il pianto a muoversi da soli, senza che noi stessi sappiamo dove andranno infine a depositarsi.”

Così detto chinò il capo. Amleto, che lo aveva ascoltato piangendo, si rivolse a lui:

“Sei stato tu a crearmi, oppure è a quel re che sta laggiù, fra gli umani, a cui mi devo rivolgere? Di chi sono figlio? Chi di voi due può sciogliere il mio enigma?”

L’ombra non rispose e gli altri si avvicinarono e lo portarono via di lì; poi uno di loro gli cinse le spalle con il braccio:

“Furono pur sempre esseri umani a crearci, siamo schiavi di condizioni umane, viviamo in eterno, sia pure, ma solo passando fugacemente, generazione dopo generazione, nelle menti dei pochi che ci accolgono, sempre in balìa del caso, fino a che la stoltezza dei molti non porrà fine a tutto quanto.”

“Questo varrà per voi, ma non per me! Io, Cassandra, non fu mai accolta, mai! In nessuna epoca e da nessuno!”

“Ma perché tutti insieme?” chiese Amleto dopo averle rivolto uno sguardo distratto; poi continuò:

“Cosa ci si aspetta da noi? Ditemi almeno questo se volete che io scelga.”

Nessuno gli rispose, sebbene la frase li avesse colpiti. Anche Amleto tacque; si guardò intorno e si avvide che si trovavano più in basso di prima e che l’altura su cui erano saliti si trovava alla loro sinistra.  Vide muoversi qualcuno a pochi passi da loro e pensò si trattasse delle schiere degli umani, poi presto si avvide che non era così; notò infatti che i loro corpi erano diversi da quelli degli altri,  perché una parte di essi era oscurata. Fu Cassandra ad avvicinarsi a lui:

“Sono gli utopisti, i riformatori sociali e i rivoluzionari; di loro possiamo vedere solo la parte che assomiglia a noi, mentre gli umani – che da qui non riesci a scorgere – possono vedere la parte che a loro assomiglia. Potranno scegliere con chi stare ma dovranno rinunciare a una parte di sé; solo allora potranno mostrarsi con l’intero corpo a coloro che avranno scelto.”

Amleto l’ascoltò in silenzio, poi volse di nuovo lo sguardo verso quegli strani individui. Uno di essi, in particolare, l’attirò; di lui si vedevano soltanto gli occhi socchiusi e sottilissimi. Il suo sguardo era di straordinaria acutezza e da quelle piccole aperture sembravano uscir fuori tanti piccoli raggi di luce che finivano per catturare l’attenzione di ognuno. Tutta l’energia di quel corpo si era trasferita in essi e Amleto vi sentì vibrare una gamma così vasta di sentimenti che ne fu colpito. Poi vide un altro avvicinarsi a lui. Aveva soltanto il volto; un volto da ragazzo, quasi un bambino sorridente e aperto. I suoi occhi, però, erano fissi, come se qualcosa avesse spezzato il suo sguardo in tenera età.  Quando però incontrò gli occhi dell’altro  si animò, mentre il primo dei due – dal canto suo – trovò in essi sollievo alla propria inquietudine.

“Sono arrivati da poco” disse Cassandra e aggiunse: “si cercano sempre; se vuoi, avvicinandoti, udrai la loro storia; forse ti potrà servire.”

Amleto si avvicinò ai due, voltandosi ogni tanto per vedere se Cassandra lo stesse seguendo; ma lei preferiva tenersi a distanza. Si sedette quando gli parve di essere abbastanza vicino, senza che i due si accorgessero della sua presenza. Dopo essersi abbracciati, almeno così gli sembrò dal movimento di entrambi, cominciarono a parlare.

“Ti ho atteso fratello mio e ora che sei qui potrò finalmente udire dalla tua voce cosa è successo dopo che i miei occhi furono spenti proprio quando vedevo davanti a me la luce di una speranza futura.”

“Lo so, lo so Saša carissimo, fui io a dire a nostra madre che ti avevano impiccato, anch’io vidi la tua stessa luce, ho proseguito il cammino  e credevo così di avere emendato il tuo errore e il mio errore anche.”

“Avrai tempo per raccontarmi di nuovo anche questo, la tua fama mi ha già raggiunto, so cosa hai fatto, è altro che vorrei spere; ero ansioso di rivederti, certo, eppure non ti aspettavo così presto.”

“E non sai invece quanto volte mi sono augurato di raggiungerti prima! Volevo andarmene, ma il peso che avevo reso sulle spalle fu condiviso da milioni di umani che videro come noi quella luce e così invece di schiacciarmi, esso mi buttava continuamente in alto nonostante il mio corpo si trascinasse come uno straccio zuppo di sofferenza. Non mi lasciavano andare via; poi, quando finalmente il mio corpo si è fermato mi hanno rinchiuso per settant’anni in uno stupido mausoleo sulla Piazza Rossa e come se non bastasse uno scienziato indegno di questo nome si è tenuto il mio cervello; voleva scoprire, pensa un po’, come è fatta la mente di un genio! Come se in quell’ammasso di fili consumati, ci potesse essere qualcosa di più dei segni della mia malattia.”

“Perché dici questo? Volevi venire prima? Non riesco a capire, avevi appena raggiunto la soglia del mondo che sognavamo. Ho cercato spesso di vedere con i tuoi occhi; non appena arrivato qui, capii il mio errore ma ero certo che tu saresti andato più in là.”

“E così avvenne, ma anch’io fui spezzato come te, ma la mano che lo fece era più sottile di quella del boia, assomigliava alle nostre Saša, era fatta come le nostre. Spostava la luce che vedevamo allontanandola sempre di più e chiedendoci di seguirla  e mentre noi eseguivamo i suoi ordini la mano colpiva spietatamente alle nostre spalle.”

“Un tradimento allora!”

“E così non c’era luce dietro di noi, ma soltanto un’ombra che cresceva sempre di più; quando me ne avvidi era troppo tardi. Mi ritrovai solo ai margini di un labirinto.”

“Fosti tradito allora!”

“No, non fu così.”

“Un altro errore allora …”

“Mi sono ingannato. Ho creduto che le mie opere nascessero dalla volontà e dalla comprensione di quello che tu chiami ancora il tuo errore. Pensai così che fosse la passione da lasciare da parte e la mia mente agì con la freddezza necessaria per lasciarla fuori di me. In  realtà a spingermi su quella strada fu un sentimento per me impronunciabile quando ero in vita. Cercavo di restituirti qualcosa che ti era stato tolto; ed eri stato proprio tu a farmi vedere per primo quella luce. Pensai che fosse stata la tua generosità ad averti tradito. E invece agivo io stesso in nome di un impulso generoso  che non volevo riconoscere come mio.”

“E quando te ne accorgesti?”

“Poco dopo aver varcato la soglia. Avevo sognato quel momento; il mio libro più bello, sai, lo scrissi allora, a cose fatte ne 1919. Fu una liberazione e quando di notte, alla luce del lume, le parole sembravano uscire dalla mia mano come schiere trionfanti, mi accorsi che accanto ad esse c’era anche la tua Sasha, la tua mano anarchica e di ragazzo, la tua mano con tutta la tua passione e la tua giovinezza impiccata. E le parole volavano, volavano fuori, sembrava non avessero confini, salivano sulla fortezza di Pietro Paolo che intravedevo dalla finestra e sembravano sgretolarla un poco ogni notte. E scrivendolo sentivo che in quelle parole tornava a risplendere la luce, come l’avevamo vista la prima volta!”

“E poi che accadde?”

“Durante il giorno quelle parole le dimenticavo; non me ne accorsi subito. Esse si allontanavano dalle mie opere diurne e queste crescevano senz’anima. Di notte erano le mie parole a crescere e sgretolavano fortezze, ma erano fortezze immaginarie; dalla finestra la intravedevo nell’ombra, la fortezza di Pietro Paolo era sempre là ed ora vi erano rinchiusi i tuoi aguzzini, ma era nera e minacciosa come quando vi fosti impiccato tu.”

“Replicasti il mio errore dunque, sognasti troppo e troppo in fretta.”

“No Saša, perché capivo ogni giorno di più che senza le parole del libro che stavamo scrivendo insieme, era la luce ad andarsene. Ma il giorno successivo la mano continuava a distruggere quanto era stato scritto la notte, ma essa era del tutto simile alla mia, era la mia Saša! E così ricominciavo daccapo la notte successiva e le altre ancora ed ogni giorno ed ogni notte misuravo ciò che era rimasto come saldo. Finché non crollai io stesso e tutto cominciò a dissolversi; ti allontanasti di nuovo nelle tenebre e la mia mente si consumò, le lacrime che mai volli  mostrare divennero un acido che cominciò a scavare e a corrodere dentro di me e allora decisi di andarmene.”
“Eppure incontrarti mi ha fatto tornare la speranza e quando ti guardo quella luce io continuo a vederla.”

“Anch’io la vedo e mi tormenta, sapessi almeno perché mai continuiamo a vederla!”
“Forse perché c’è un’altra soglia che dovremo attraversare, ma dovremo farlo insieme.”

I due tacquero di colpo e gli occhi del primo cominciarono a rivolgersi di nuovo in tutte le direzioni, mentre il volto dell’altro tornava alla sua fissità.

Amleto allora ritornò verso Cassandra, che l’attendeva.

“Perché hanno taciuto così bruscamente?”

“Perché non capiscono che manca loro qualcosa. Anche insieme non troveranno la soglia che cercano e così ogni volta sono costretti a ripetere daccapo la loro storia e dovranno farlo molte altre volte e non solo qui fra noi; ma capiranno prima o poi, non essere così triste.”

Anche gli altri si erano avvicinati e tutti insieme si diressero di nuovo verso l’altura, in cima alla quale li attendeva il cane, insieme ad una figura che prima non aveva visto. La luce era cambiata e le schiere degli umani erano ora ben visibili. La striscia di nebbia che li separava, si assottigliava talmente in alcuni punti, che le due colonne si sfioravano senza tuttavia vedersi e neppure immaginare la presenza dell’altra. E mentre una schiera si trascinava un fardello di atroci sofferenze, l’altra – con gli occhi rivolti verso l’alto – si trascinava il fardello altrettanto pesante di una felicità ebete e incantata. Amleto scosse il capo e osservando lo spazio ai lati delle due schiere, vide agitarsi altre figure.

“Chi sono quelli?”

“Sono i personaggi minori, oppure molto recenti o appartenenti a opere di scarso valore; attendono che noi li chiamiamo, ma non possiamo. Continueranno a oscillare sulle loro piccole barche in attesa che qualcuno più grande di loro li traghetti da qualche parte.”

“E non potrebbero proprio loro mostrarci che viviamo un’attesa? Un tempo risparmiato e tenuto in serbo per qualcosa che non sappiamo?”

“Non è un tempo, fratelli e sorelle, ma una scelta, sta a noi prendere nelle nostre mani il nostro destino; a noi che vediamo quello di cui gli umani vedono soltanto un lato perché da tempo hanno distolto lo sguardo dalla sola parte di loro che vive.”

Si voltarono tutti.

“Non è forse questa la promessa che fece sperare le genti nel corso dei millenni? Se liberi finalmente, dai nostri creatori, fossimo proprio noi, i personaggi che essi hanno creato a far vivere le nostre storie e dunque anche la parte migliore di loro? Smettetela di guardarli e di cercare nelle loro imprese tutte le risposte e tu Amleto, rimani con noi, non tornare nel mezzo di altri principi e re.”

Si avvicinarono e si sedettero in cerchio accanto a lei.

“E da che cosa cominceresti regina e da quando?”

Allora Sherazade si sedette, incrociò le gambe e parlò.

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