Orfeo: Parte seconda

Aristeo

Premessa

In questa seconda parte, la riflessione sarà focalizzata sul mito di Orfeo in quanto tale, ma senza dimenticare il testo rilkiano e il saggio di Brodskj cui è dedicata la prima parte del saggio che trovate nella stessa rubrica con il titolo Rilke – Brodskj – Orfeo.

Il mito è assai complesso perché – più di altri – è in realtà un intreccio fra miti diversi e la stessa definizione mito di Orfeo si presta a molti fraintendimenti, prima di tutto perché il suo nome è sempre associato a quello di Euridice; ma al tempo stesso, come vedremo, proprio quest’ultima, più ci si addentra nel labirinto e più sfuma in una nebbia che la nasconde sempre di più. Del mito nella sua interezza esistono peraltro versioni diverse. La mia scelta va a quella di Robert Graves, che ritengo l’autorità più affidabile del ‘900 in campo mitografico, il cui pregio più grande è proprio quello di raccogliere nella sua opera proprio le diverse e a volte contrastanti versioni dei miti, citando le fonti antiche e dando conto delle diverse interpretazioni di alcuni passaggi della vicenda. In nota ho riprodotto il suo testo preso dal capitolo eponimo, con poche modifiche irrilevanti in passaggi che erano ripetitivi e non aggiungevano nulla a quanto detto in precedenza.1 Accanto a Graves, però mi sono avvalso anche del racconto di Virgilio, che nella parte finale delle Georgiche, inserisce la favola dal titolo Aristeo e le api, per poi stabilire una relazione assai originale e suggestiva fra la favola e il mito di Orfeo.

Un labirinto di miti

La mia rilettura parte da un libro di Alessandro Carrera. Egli vede in Orfeo ed Euridice due figure simboliche di cui la seconda, il principio femminile, rappresenta l’ispirazione poetica, che svanisce nel momento in cui l’opera è compiuta. Orfeo, dal canto suo, per creare qualcosa deve rinunciare al proprio delirio di onnipotenza giovanile che pretende di tenere presso di sé sia l’opera sia l’ispirazione. Fin qui Carrera.2 Nel momento in cui Orfeo permette all’opera di esistere, perde Euridice.3 Nel mito classico, dunque, i due sono una coppia indissolubile, nonostante il loro diverso destino. Naturalmente il fatto che l’ispirazione debba avere sembianze femminili mentre l’opera sia compiuta da un agente maschile non è affatto neutra: si tratta di un’idea platonica e patriarcale. Il non detto (o detto a metà) è che l’ispirazione deve essere per forza un principio femminile perché il femminile è in rapporto diretto con la divinità (e la poesia è ispirata dagli dei secondo gli antichi), mentre il maschile –  pur limitato –  è il solo produttore di cultura.4 I momenti topici del mito sono l’iniziazione alla sua arte da parte di Orfeo – che ha diverse tappe – e la morte di Euridice. Nella prima fase della narrazione la relazione del poeta con quest’ultima appare del tutto separata dalle vicende della sua vita. Dal testo, si capisce che a Orfeo guardavano in molte e anche in molti, ma che lui aveva occhi e orecchi solo per Euridice. Di lei, tuttavia, non sappiamo molto, a parte il fatto di essere sposa di Orfeo, ma qualche fonte suggerisce che fossero solo fidanzati per dirla in termini a noi consueti. Quanto a Orfeo, egli è decritto secondo i canoni del mondo classico: il viaggio con gli Argonauti sulla nave Argo alla ricerca del Vello d’Oro fu un’impresa eroica, anche se nel caso specifico è strano che egli non ci abbia raccontato nulla di quel viaggio e il mito ci dice semplicemente che egli andò con loro e che con la sua cetra, cui aveva apportato delle modifiche, li aiutò a superare molte difficoltà. Vita e arte, impresa eroica e relazione matrimoniale s’incontrano in un momento tragico: un tentativo di stupro, a causa del quale e per cercare di sfuggirvi, Euridice muore morsa da una serpe. Entra così in scena Aristeo che è la causa prima, seppure indiretta, della morte di lei, ma è anche un figura importante per molto altro nel Pantheon greco. Apicoltore e pastore di greggi, a lui dobbiamo, secondo il mito, la lavorazione del miele. La storia di Aristeo s’incrocia solo in quel momento con l’altra narrazione, tanto che in certe versioni il suo stesso nome viene riportato di sfuggita. Andando alle fonti, ci s’imbatte subito in alcune sorprese. Per esempio che di Euridice ne esistono tre e che molte righe vengono dedicate alle altre due prima che gli estensori delle note ricordino che “la più famosa è la ninfa che fu sposa del poeta Orfeo.” Cito la frase fra virgolette perché è un ritornello che si ritrova in più definizioni e specialmente nel libro di Graves. Detto ciò, le note passano a narrare in modo più o meno completo la discesa nell’Ade da parte di lui e tutto quello che già sappiamo. La seconda sorpresa può essere il constatare che fosse una ninfa, cioè una creatura non proprio del tutto umana. Come abbiamo visto Rilke non se ne cura e tanto meno lo rileva Brodskj, ma questo secondo aspetto rende ancor più impalpabile la sua figura. Le ninfe appartengono alle forze ctonie della terra, sono entità che sfuggono alla nostra piena comprensione e anche il ricorso alle definizioni canoniche mette fra noi e loro una distanza difficilmente colmabile. Se andiamo un po’ avanti nel tempo e arriviamo a Virgilio, a noi più vicino come sensibilità, forse troviamo un’altra chiave d’accesso alla complessità di questa narrazione. Il poeta latino, mettendo in parallelo la vicenda di Orfeo con quella di Aristeo e riferendosi a sua volta ad altre fonti, afferma che le due narrazioni vanno poste in contrapposizione per fare risaltare la differenza di comportamento fra i due uomini. A che cosa si riferisce Virgilio? Al fatto che l’apicoltore, ritenuto dagli dei il responsabile indiretto della morte di Euridice, viene punito con la sottrazione delle api, cioè viene privato non solo del suo lavoro ma anche della sua identità. Disperato, egli ammette la sua responsabilità, compie un atto di umiltà e chiede cosa possa fare in riparazione. Gli dei gli impongono un sacrificio e gli restituiscono le api. Orfeo, invece, a fronte della perdita di Euridice, sfida gli dei, viola il confine fra vita e morte, si preclude la strada della riparazione e infatti la parte finale del suo mito ci racconta di un cambiamento radicale di vita, su cui ritorneremo perché è in quella trasformazione che si nasconde molto del fascino che dal romanticismo in poi il mito ha attirato di nuovo su di sé. In sostanza, se si sta al testo di Virgilio, Euridice nella dinamica relazionale fra le due narrazioni occupa nel suo mito di appartenenza lo stesso spazio che hanno le api in quello di Aristeo! Vuoi vedere che il tutto non è altro che una storia fra uomini in cui lei viene messa in mezzo come puro pretesto? Lasciamo parlare allora l’autorità maggiore in questo campo: cosa dice Graves a proposito della ninfa? Ebbene, sulla nostra Euridice Graves non dice nulla, nel senso che non vi è alcuna voce autonoma nella sua mitografia, che porti il suo nome come invece avviene per Orfeo e per altri! La ninfa esiste solo nella narrazione del mito e in alcune note, due in particolare. La sua presenza è un puro pretesto per significare altro, un simbolo e niente più. Quanto ad Aristeo, egli rappresenta l’agricoltore, colui che compie delle opere le quali, oltre che gratificare chi le compie, sono utili alla comunità. Virgilio fra i due eroi sposa senza dubbio il secondo, che si sottopone al giudizio degli dei e ne esce con un gesto riparatore, che non solo gli restituisce la sua identità, ma lo riporta all’interno della comunità da cui era stato bandito. Veniamo ora alle due note che riporto nelle loro parti essenziali e si trovano sempre in Graves. La prima la troviamo nel capitolo dal titolo I Figli del mare, nel quale il mito di Orfeo non è neppure citato:

Pare che l’appellativo della dea-Luna la proclamasse onnipotente nel cielo e nella terra (si riferisce alla ninfa Doride ndr); l’appellativo Euribia … signora del mare; Euridice (ampia giustizia), signora dell’Oltretomba, che essa stringeva nelle spire di serpente. Sacrifici umani maschili erano offerti alla dea come Euridice e le vittime morivano per il morso di una vipera. La morte di Echidna per mano di Argo, si ricollega probabilmente alla soppressione del culto argivo della dea-sperpente. Suo fratello Adone è il serpente oracolare che alberga in ogni paradiso, le cui spire sono avvolte nell’albero di mele.

La seconda la troviamo nel capitolo dal titolo Orfeo. Nella prima parte, che riassumo,  Graves cita le fonti antiche dove si dice che la morte di Euridice per il morso del serpente si trova soltanto nella versione tarda del mito e come essa sia basata su un certo numero di equivoci. La parte finale, che si riferisce alla citazione riportata in precedenza, si conclude in questo modo: 

Erano le vittime di Euridice e non Euridice stessa che dovevano morire per il morso del serpente.”5

Ce n’è quanto basta per rivedere tutta la faccenda in ben altro modo!

Non mi occuperò delle assonanze con il mito biblico della cacciata dal paradiso terrestre presenti nella prima citazione (il serpente avvolto nei rami dell’albero di mele), che mi sembra un problema decisamente minore rispetto agli altri. Ripartiamo dall’inizio e dagli appellativi con cui si designa la ninfa Doride: sono tre e uno di questi è proprio Euridice che significa Signora dell’oltretomba. La cosa più sorprendente però è che Doride, nel mito orfico, viene indicata come la madre di Euridice. Dunque, si crea un’evidente e paradossale sovrapposizione di funzioni. La sposa di Orfeo sfuma in una sempre più rarefatta indeterminatezza e questo spiega il motivo per cui Graves non le dedica una voce autonoma. Chi è Euridice in sostanza? La sua identità, quanto più ci addentriamo nel dedalo degli intrecci fra miti diversi, tanto più si allontana da noi, fino a diventare un appellativo di sua madre. L’elemento veramente dirompente, tuttavia, è quello che segue immediatamente: Euridice viene descritta come colei che stringe l’Oltretomba nelle spire di un serpente. Per comprendere bene l’importanza di questo passaggio dobbiamo fare una piccola digressione che ci porta in un grande museo e poi a una statuetta.  

Il museo è il Pergamon di Berlino, giustamente famoso per l’altare della città in dimensioni naturali. In esso, tuttavia, si trova anche un altro gioiello archeologico meno noto: la riproduzione della porta che a Babilonia si apriva sulla via processionaria. Tale reperto viene indicato anche con l’appellativo di Porta di Ishtar, la dea babilonese più importante del Pantheon arcaico. Di lei esistono poche riproduzioni, ma una assai famosa è una statuetta che la ritrae in posizione eretta, le gambe leggermente divaricate così da conferire all’immagine, maggiore potenza e solennità. Le braccia della dea sono leggermente piegate ai gomiti e le mani, all’altezza delle spalle, stringono fortemente due serpenti. Gli animali sono il simbolo della potenza femminile che trova la sue radici nelle forze ctonie della terra,  o anche dell’acqua in misura minore: il serpente le rappresenta benissimo entrambe. Se ora passiamo alla seconda nota e precisamente alla sua parte finale citata, ecco che il cerchio si chiude. In tempi antichissimi, i sacrifici umani erano sempre maschili. Una traccia importante di questo si trova, per esempio, nella ricchissima analisi che Frazer (Il ramo d’oro) fa dei miti e delle leggende legate al lago di Nemi e al culto di Diana. Il Re dei boschi era un uomo molto anziano (probabilmente uno schiavo) che durava in carica un anno e che veniva sacrificato ritualmente alla fine del medesimo. Diana, come Ishtar, era dea protettrice della natura nel suo aspetto più selvaggio, con i loro simboli già ricordati. Quando Graves ricorda che non era Euridice (cioè le donne) a essere sacrificata, ma i maschi, ci rimanda a un’epoca precedente. Come mai allora quello che era il simbolo della potenza femminile – il serpente – diventa nel mito di Orfeo la causa efficiente della morte di Euridice? Per trovare una risposta possibile dobbiamo tornare ancora una alla preziosa indicazione che ci ha fornito Virgilio e cioè che il mito di Orfeo va letto in parallelo a quello di Aristeo. Azzardo allora un sintesi. I due miti, se letti insieme, alludono al passaggio da una società precedente a una società patriarcale. Che tali società precedenti si possano definire matriarcali o matrilineari oppure no è questione troppo controversa per affrontarla qui.6 Quello che mi sembra certo, invece, è il significato simbolico che assume la morte di Euridice per il morso di una serpe. Lo potremmo definire in questo modo, secondo un’interpretazione libera della legge del contrappasso: quello che era un tempo il simbolo del potere femminile diviene ora la causa efficiente della sua morte. Se stupro vi è stato, è quello di un’intera cultura, vinta dal nascente patriarcato e infatti la prima delle note lo dice esplicitamente quando parla di una soppressione del culto argivo della donna-serpente.

Un mito romantico

Orfeo ritorna in auge con il romanticismo ed è l’ultima parte della narrazione che può aiutarci a capire perché. Il fallimento della sua impresa provoca un radicale cambiamento nella sua vita. Così lo racconta il mito nella versione di Graves:

Si rifugiò allora Orfeo sul monte Rodope, in Tracia trascorrendo il tempo in solitudine e nella disperazione. Rifiutava le donne e riceveva solo ragazzi e adolescenti maschi che istruiva all’astinenza e sull’origine del mondo e degli dei.

Alcuni commenti si soffermano sull’implicito richiamo all’omosessualità in questo passaggio, ma non credo si tratti dell’aspetto più importante perché lo è di più il fatto che istruisse i ragazzi all’astinenza delle pratiche sessuali e che rifiutasse le donne, un comportamento radicalmente diverso rispetto alla sua vita precedente. Orfeo si ritira in una sorta di eremo e l’accento va posto proprio su questo e sull’astinenza (che sia etero od omo poco importa). Proprio intorno a tale scelta rinasce il mito di una funzione sacerdotale del poeta, che diventa una figura sciamanica; nella tradizione a noi più prossima, tale narrazione mitica trova le sue traduzioni moderne nel titanismo di Worsdsworth e Coleridge, per esempio, oppure in una concezione della libertà sottratta a qualsiasi vincolo (il poeta come figura che si colloca al di là del bene e del male) e in tempi a noi ancora più  prossimi nell’immagine della torre d’avorio tanto cara a Rilke. Quanto sia aderente alla lettera del mito tale interpretazione è assai discutibile: ovviamente, come si è già detto, tutte le interpretazioni sono legittime purché motivate, ma alcune si offrono più di altre alle critiche. Torniamo allora per un’ultima volta al mito e alla sua conclusione. Dopo avere detto del ritiro eremitico di Orfeo ecco cosa accade:

Quando Dioniso invase la Tracia Orfeo trascurò di onorarlo, iniziando i suoi fedeli ad altri misteri e condannando i sacrifici umani.

Da tale accenno possiamo trarre una conferma di quanto detto in precedenza e cioè che Orfeo rappresenta una figura molto arcaica, legata a una società precedente a quella in cui si afferma e si consolida il patriarcato. Quello che avviene successivamente, tuttavia, ci mostra quanto fosse feroce la lotta fra due (diremmo oggi) visioni del mondo. Dioniso incarica:  

le Menadi di far vendetta. Arrivato il momento stabilito, si scagliarono contro di lui con furia selvaggia, lo fecero a pezzi e sparsero le sue membra per la campagna gettando la testa nel fiume Ebro, ma la testa che galleggiò sempre cantando fino al mare, fu portata dalle onde all’isola di Lesbo.

Da questo capiamo ancora una volta che Orfeo è una figura chiave di quelle società precedenti il consolidarsi del patriarcato, ma ci fa anche comprendere quanto sia discutibile l’idea che tali società si potessero definire pacifiche. Tuttavia, alla vendetta delle Menadi segue puntualmente la punizione degli dei.

Ogni essere del creato pianse la sua morte, le ninfe indossarono una veste nera in segno di lutto e i fiumi si ingrossarono per il troppo pianto. Le Muse recuperarono le membra di Orfeo e le seppellirono ai piedi del monte Olimpo e ancor oggi, in quel luogo, il canto degli usignoli  è il più soave che in qualunque parte della terra. Ma gli dei che tutto vedevano e giudicavano, decisero di inviare una tremenda pestilenza in tutta la Tracia per punire il delitto delle Baccanti.

Infine la conclusione.

La popolazione allo stremo delle forze consultò l’oracolo per sapere come far cessare quella disgrazia e questi sentenziò che per porre fine a tanto dolore era necessario cercare la testa di Orfeo e rendergli gli onori funebri. Fu così che la sua testa venne ritrovata da un pescatore nei pressi della foce del fiume Melete e fu deposta nella grotta di Antissa, sacra a Dioniso. In quel luogo la testa di Orfeo iniziò a profetizzare finché Apollo, vedendo che i suoi oracoli di Delfi, Grinio e Claro non erano più ascoltati, si recò alla grotta e gridò alla testa di Orfeo di smettere di interferire con il suo culto. Da quel giorno la testa tacque per sempre. Fu recuperata anche la sua lira che fu portata a Lesbo nel tempio di Apollo che però decise di porla nel cielo in modo che tutti potessero vederla a ricordo del fascino della poesia e delle melodie dello sfortunato Orfeo, alle quali anche la natura si arrendeva, creando la costellazione della Lira.

Quello che si può intravedere nella conclusione è che gli dei impongono che anche Orfeo venga reintegrato nella comunità, nonostante la violazione del divieto divino ed è probabile che questo avvenisse perché resistevano, all’interno di una società ormai patriarcale, le culture e i culti precedenti. La sua testa ritrovata pone fine alla contesa, ma l’ingiunzione di tacere, cioè di non profetizzare più e la successiva giubilazione nella costellazione della lira, lo riducono a puro simbolo museale: sono altri ormai i paradigmi su cui si muove la società greca, Orfeo può continuare a piangere in eterno la perdita di Euridice, ma può farlo in cielo, non più sulla terra.

Tre ninfe


1 Robert Graves, I miti greci, traduzione di Elisa Morpurgo, presentazione Umberto Albini, Milano 1995, pp.99-102

Orfeo, il più famoso poeta e musicista che la storia abbia mai avuto, era figlio di Eagro, re della Tracia e della musa Calliope (o secondo altri di Apollo e di Calliope). Il Dio Apollo un giorno gli donò una lira e le muse gli insegnarono a usarla e acquistò una tale padronanza dello strumento che aggiunse anche altre due corde portando a nove il loro numero per avere una melodia più soave. Come prima grande impresa Orfeo partecipò alla spedizione degli Argonauti e con la  sua cetra li aiutò a superare molte difficoltà. Ogni creatura amava Orfeo ed era incantata dalla sua musica e dalla sua poesia ma lui aveva occhi solo per una donna: Euridice, figlia di Nereo e di Doride che divenne sua sposa. Un giorno, nei pressi di Tempe, Euridice s’imbatté in Aristeo, che cercò di usarle violenza. La fanciulla per sfuggire alle sue insistenze si mise a correre ma ebbe la sfortuna di calpestare un serpente nascosto nell’erba, che la morsicò, provocandone la morte istantanea. Orfeo, impazzito dal dolore e non riuscendo a concepire la propria vita senza la sua sposa decise di scendere nell’Ade per cercare di strapparla dal regno dei morti. Convinse con la sua musica Caronte a traghettarlo sull’altra riva dello Stige; il cane Cerbero e i giudici dei morti a farlo passare e nonostante fosse circondato da anime dannate che tentavano in tutti i modi di ghermirlo, riuscì a giungere alla presenza di Ade e Persefone. Una volta giunto al loro cospetto, Orfeo iniziò a suonare e a cantare la sua disperazione e solitudine e le sue melodie erano così piene di dolore e di disperazione che gli stessi signori degli inferi si commossero; le Erinni piansero, la ruota di Issione si fermò e i perfidi avvoltoi che divoravano il fegato di Tizio non ebbero il coraggio di continuare nel loro macabro compito. Ade gli concesse di ricondurre Euridice nel regno dei vivi a condizione che durante il viaggio verso la terra la precedesse e non si voltasse a guardarla fino a quando non fossero giunti alla luce del sole. Orfeo, presa così per mano la sua sposa iniziò il suo cammino verso la luce, ma appena sorse la luce del sole Orfeo si volse per vedere se Euridice era con lui e  così la perdette per sempre. Si rifugiò allora Orfeo sul monte Rodope, in Tracia trascorrendo il tempo in solitudine e nella disperazione. Rifiutava le donne e riceveva solo ragazzi e adolescenti maschi che istruiva all’astinenza e sull’origine del mondo e degli dei. Quando Dioniso invase la tracia Orfeo trascurò di onorarlo, iniziando i suoi fedeli ad altri misteri e condannando i sacrifici umani. Ogni mattina egli si alzava per salutare l’alba sulla sommità del monte Pangeo  e affermava che Elio, che lui chiamava Apollo, era il più grande di tutti gli dei. Irritato, Dioniso incaricò le Menadi di far vendetta. Arrivato il momento stabilito, si scagliarono contro di lui con furia selvaggia, lo fecero a pezzi e sparsero le sue membra per la campagna gettando la testa nel fiume Ebro, ma la testa che galleggiò sempre cantando fino al mare, fu portata dalle onde all’isola di Lesbo.. Ogni essere del creato pianse la sua morte, le ninfe indossarono una veste nera in segno di lutto e i fiumi si ingrossarono per il troppo pianto. Le Muse recuperarono le membra di Orfeo e le seppellirono ai piedi del monte Olimpo e ancor oggi, in quel luogo, il canto degli usignoli  è il più soave che in qualunque parte della terra. Ma gli dei che tutto vedevano e giudicavano, decisero di inviare una tremenda pestilenza in tutta la Tracia per punire il delitto delle Baccanti. La popolazione allo stremo delle forze consultò l’oracolo per sapere come far cessare quella disgrazia e questi sentenziò che per porre fine a tanto dolore era necessario cercare la testa di Orfeo e rendergli gli onori funebri. Fu così che la sua testa venne ritrovata da un pescatore nei pressi della foce del fiume Melete e fu deposta nella grotta di Antissa, sacra a Dioniso. In quel luogo la testa di Orfeo iniziò a profetizzare finché Apollo, vedendo che i suoi oracoli di Delfi, Grinio e Claro non erano più ascoltati, si recò alla grotta e gridò alla testa di Orfeo di smettere di interferire con il suo culto. Da quel giorno la testa tacque per sempre. Fu recuperata anche la sua lira che fu portata a Lesbo nel tempio di Apollo che però decise di porla nel cielo in modo che tutti potessero vederla a ricordo del fascino della poesia e delle melodie dello sfortunato Orfeo, alle quali anche la natura si arrendeva, creando la costellazione della Lira.Orfeo, il più famoso poeta e musicista che la storia abbia mai avuto, era figlio di Eagro, re della Tracia e della musa Calliope (o secondo altri di Apollo e di Calliope). Il Dio Apollo un giorno gli donò una lira e le muse gli insegnarono a usarla e acquistò una tale padronanza dello strumento che aggiunse anche altre due corde portando a nove il loro numero per avere una melodia più soave. Come prima grande impresa Orfeo partecipò alla spedizione degli Argonauti e con la  sua cetra li aiutò a superare molte difficoltà. Ogni creature amava Orfeo ed era incantata dalla sua musica e dalla sua poesia ma lui aveva occhi solo per una donna: Euridice, figlia di Nereo e di Doride che divenne sua sposa. Un giorno, nei pressi di Tempe, Euridice s’imbatté in Aristeo, che cercò di usarle violenza. La fanciulla per sfuggire alle sue insistenze si mise a correre ma ebbe la sfortuna di calpestare un serpente nascosto nell’erba, che la morsicò, provocandone la morte istantanea. Orfeo, impazzito dal dolore e non riuscendo a concepire la propria vita senza la sua sposa decise di scendere nell’Ade per cercare di strapparla dal regno dei morti. Convinse con la sua musica Caronte a traghettarlo sull’altra riva dello Stige; il cane Cerbero e i giudici dei morti a farlo passare e nonostante fosse circondato da anime dannate che tentavano in tutti i modi di ghermirlo, riuscì a giungere alla presenza di Ade e Persefone. Una volta giunto al loro cospetto, Orfeo iniziò a suonare e a cantare la sua disperazione e solitudine e le sue melodie erano così piene di dolore e di disperazione che gli stessi signori degli inferi si commossero; le Erinni piansero, la ruota di Issione si fermò e i perfidi avvoltoi che divoravano il fegato di Tizio non ebbero il coraggio di continuare nel loro macabro compito. Ade gli concesse di ricondurre Euridice nel regno dei vivi a condizione che durante il viaggio verso la terra la precedesse e non si voltasse a guardarla fino a quando non fossero giunti alla luce del sole. Orfeo, presa così per mano la sua sposa iniziò il suo cammino verso la luce, ma appena sorse la luce del sole Orfeo si volse per vedere se Euridice era con lui e  così la perdette per sempre. ” Si rifugiò allora Orfeo sul monte Rodope, in Tracia trascorrendo il tempo in solitudine e nella disperazione. Rifiutava le donne e riceveva solo ragazzi e adolescenti maschi che istruiva all’astinenza e sull’origine del mondo e degli dei. Quando Dioniso invase la tracia Orfeo trascurò di onorarlo, iniziando i suoi fedeli ad altri misteri e condannando i sacrifici umani. Ogni mattina egli si alzava per salutare l’alba sulla sommità del monte Pangeo  e affermava che Elio, che lui chiamava Apollo, era il più grande di tutti gli dei. Irritato, Dioniso incaricò le Menadi di far vendetta. Arrivato il momento stabilito, si scagliarono contro di lui con furia selvaggia, lo fecero a pezzi e sparsero le sue membra per la campagna gettando la testa nel fiume Ebro, ma la testa che galleggiò sempre cantando fino al mare, fu portata dalle onde all’isola di Lesbo.. Ogni essere del creato pianse la sua morte, le ninfe indossarono una veste nera in segno di lutto e i fiumi si ingrossarono per il troppo pianto. Le Muse recuperarono le membra di Orfeo e le seppellirono ai piedi del monte Olimpo e ancor oggi, in quel luogo, il canto degli usignoli  è il più soave che in qualunque parte della terra. Ma gli dei che tutto vedevano e giudicavano, decisero di inviare una tremenda pestilenza in tutta la Tracia per punire il delitto delle Baccanti. La popolazione allo stremo delle forze consultò l’oracolo per sapere come far cessare quella disgrazia e questi sentenziò che per porre fine a tanto dolore era necessario cercare la testa di Orfeo e rendergli gli onori funebri. Fu così che la sua testa venne ritrovata da un pescatore nei pressi della foce del fiume Melete e fu deposta nella grotta di Antissa, sacra a Dioniso. In quel luogo la testa di Orfeo iniziò a profetizzare finché Apollo, vedendo che i suoi oracoli di Delfi, Grinio e Claro non erano più ascoltati, si recò alla grotta e gridò alla testa di Orfeo di smettere di interferire con il suo culto. Da quel giorno la testa tacque per sempre. Fu recuperata anche la sua lira che fu portata a Lesbo nel tempio di Apollo che però decise di porla nel cielo in modo che tutti potessero vederla a ricordo del fascino della poesia e delle melodie dello sfortunato Orfeo, alle quali anche la natura si arrendeva, creando la costellazione della Lira.

2 Alessandro Carrera, La distanza del cielo, Edizioni Medusa, Milano 2011, capitolo V pp. 159-202. Il libro di Carrera è assai importante per ricostruirne il suo percorso di poeta e critico ed è un lungo excursus su alcuni momenti chiave della poesia europea, da Dante a Leopardi. Di altri capitolo di questo testo mi sono occupato in un lungo saggio dedicato al mito di Amore e Psiche, anch’esso oggetto dell’analisi di Carrera.  

3 Una suggestiva testimonianza su questo passaggio dal desiderio all’opera ci è stato offerto nella contemporaneità da Marcel Proust. Riferendosi a Jean Santeuil egli afferma a un certo punto che quella scrittura fu anche un modo di non far nascere la Recherche, un modo di girare intorno al tema e al problema senza risolverlo. Per definire tale situazione usa la parola paresse che ha un significato più articolato di pigrizia e allude all’accidia ma anche agli ignavi danteschi perché in definitiva decidere di far nascere l’opera è anche prendersi la responsabilità di una scelta. La recherche nacque dopo quando il suo autore decise di obbligarsi in una sorta di clausura. Pur sfrondata da elementi suggestivamente narrativi delle proprie vicende personali, questa testimonianza rimane importante per comprendere quel doloroso passaggio che dal desiderio porta alla sua realizzazione.

4 La critica femminista alla filosofia classica greca, al platonismo in particolare e poi alla filosofia classica tedesca ha prodotto numerosissimi libri e studi a partire dalla prime riviste degli anni ’70. Mi rifaccio a questi e ad alcuni testi Sputiamo su Hegel di Carla Lonzi e il Manifesto di Rivolta femminile. A queste aggiungo le opere di Ida Magli.  Sul tema specifico del rapporto fra cultura, maschile e femminile, in particolare, lo ha affrontato in Viaggio intorno all’uomo bianco.

5 Robert Graves I miti greci, cit., pag 114- 1 e pag. 102-4.

6 In una semplice nota non è possibile affrontare una tematica tanto complessa e su cui lo stesso femminismo è diviso. Mi limito perciò ad alcuni suggerimenti di lettura.

Chi afferma con decisione l’esistenza dei società matrifocali e matrilineari e matriarcali precedenti il patriarcato  si rifà prima di tutto all’opera del teologo protestante Bachofen, che trovò l’entusiastico consenso da parte di Engels. L’opera di Bachofen è stata poi ripresa da esponenti di primo piano del femminismo internazionale come Marjia Gimbutas, Mary Daly, Heide Goettner-Abendroth, la cui opera è stata pubblicata recentemente da Mimesis; infine Riane Eisler. In Italia sono importanti gli studi di Momolina Marconi, Luciana Percovich, Gabriella Galzio, Luisella Veroli. Una ricostruzione attenta di tutto il dibattito a partire dai miti arcaici delle Amazzoni si trova alla voce Matriarcato, a cura di Eva Cantarella nell’enciclopedia Treccani. Dello scritto di Cantarella riporto le sue conclusioni che personalmente condivido:

Come emerge da quanto visto nel precedente capitolo, il potere femminile, oggi, non è più solo un sogno femminista: è diventato un modello pacifista ed ecologista. E per chi desideri leggerlo in questa chiave è ovviamente più che legittimo trovare in esso conforto e speranza. Ma non senza aver chiarito un equivoco: quello di chi sembra ritenere che per essere pacifisti, ecologisti o femministi sia necessario credere nella storicità del matriarcato, della gilania, o di un qualsivoglia scomparso potere femminile. Pensare che chi dubita della storicità del potere femminile sia antifemminista, antipacifista o antiecologista significa confondere pericolosamente il piano delle ideologie e quello della ricostruzione storica. E se è vero che operare una totale separazione tra questi settori è tutt’altro che semplice, è anche vero che essi non possono essere appiattiti al punto da essere sovrapposti, come è quasi sempre accaduto quando si è discusso e si discute di matriarcato. La breve rassegna della storiografia sul potere femminile sin qui tracciata sembra fornirne una chiara dimostrazione, ponendosi al tempo stesso come ammaestramento. La diversa valenza politica che nel corso di poco più di un secolo è stata attribuita al matriarcato (di volta in volta marxista, razzista, femminista, pacifista ed ecologista) sta a indicare quanto possa essere grave il pericolo di pensare che il compito della ricerca storica sia quello di mandare messaggi. A seconda dei momenti, delle situazioni, e soprattutto di chi li invia, questi messaggi possono cambiare e assumere segni non solo diversi ma addirittura opposti. Il che non toglie, peraltro, che il dibattito sul matriarcato abbia avuto risultati molto importanti. Grazie alle caratteristiche che il preteso potere femminile avrebbe avuto (soprattutto, come già detto, nella formulazione bachofeniana), esso ha fornito lo spunto a una serie di indagini di grande attualità e interesse sull’opposizione tra virilità e femminilità nelle strutture psichiche. Sul piano storiografico, mettendo in discussione la naturalità e quindi l’inevitabilità della dominanza maschile, ha stimolato indagini, sia storiche sia antropologiche, che hanno consentito di cogliere la varietà e l’eterogeneità delle organizzazioni familiari e sociali nello spazio e nel tempo, individuando l’esistenza di organizzazioni matrilocali e matrilineari tanto nel passato quanto nel presente delle società di interesse etnografico. E questo, certo, non è merito da poco.

Infine un libro recente di grande importanza è l’Alba di tutto scritto da David Graeber e David Wengrow e pubblicato da Rizzoli.   

T. S. ELIOT: I QUARTETTI

East Coker

Nel secolo della relatività dei concetti di spazio/tempo, Eliot ritrova l’eterno come archetipo e su di esso proietta lo scenario del secolo tragico che sta alle nostre spalle. Versi come:

O Dark dark dark. They all go into the dark/The vacant interstellar spaces, the vacant into the vacant/ The captains, merchant bankers, eminent men of letters,/The generous patrons of art, the statesmen and the rulers,/Distinguished civil servants, chairmen of many committees,/ Industrial lords and petty contractors,/ all go into the dark.

(O tenebra tenebra tenebra. Loro/tutti vanno nelle tenebre, nei vuoti/spazi interstellari, il vuoto/va nel vuoto, capitani uomini/d’affari, eminenti letterati generosi/patroni delle arti, uomini di stato/ e governanti, insigni/funzionari, presidenti/di molti comitati, signori/dell’industria e piccoli/imprenditori,/tutti vanno nelle tenebre, e tenebre./) 7

colpiscono profondamente chi li legge per la loro semplicità, per l’immediatezza del loro impatto sonoro e d’immagine, per gli echi che rimandano. Questo è già stato detto eppure risuona come nuovo, non l’abbiamo mai udito in questa forma, sebbene ci sia familiare. Il letterato o chi è abituato a leggere molta poesia sentirà immediatamente l’eco di riferimenti scontati: dal memento mori, al Gongora di alcuni sonetti. Anche chi letterato non è sentirà in questi versi l’eco di qualcosa di profondo e smisurato. Cosa crea questo effetto? Penso che abbiamo qui a che fare con un procedimento che consiste nell’accostare due concretezze in una similitudine asimmetrica. L’elenco di personaggi normalmente considerati impoetici (presidenti, funzionari, piccoli imprenditori ecc.) si accoppia all’altrettanto concreta indicazione di un orizzonte (la tenebra) come luogo e destino di ciò che è stato nominato in precedenza. Tornando allora alla concretezza dell’elenco precedente, ci rendiamo conto della sua finitezza e storicità; dunque della sua intrinseca limitatezza. Quell’elenco di figure che, in altri contesti, incarnano il massimo della potenza mondana, vengono da questi versi sigillati e ricondotti alla loro piccolezza. Sono due concretezze diverse che si accostano; quella di ciò che è infinitamente piccolo (pur apparendo potente) e quella di ciò che è infinitamente grande. Poste l’una vicina all’altra esse creano un corto circuito mentale ed emozionale insieme, oltre che la forza delle immagini. La precisione di Eliot nell’elencare fa risaltare questi figure e le rende  immediatamente riconoscibili; non abbiamo a che fare solo con il concreto e l’astratto, tanto meno con il generico, ma neppure con qualcosa di spiritualistico e disincarnato. È solo dopo avere dato concretezza a ognuna di queste figure e al destino che le attende che il poeta può liberare la sua poesia fino a estendere la visione a quella che chiamiamo convenzionalmente condizione umana:

And all we go with them, into the silent funeral/

(E noi tutti andiamo con loro/nel funerale silenzioso/) 8

Torniamo ancora una volta per un momento a queste figure che corrono verso la tenebra. In esse riconosciamo facilmente la mondanità del ‘900; non manca nessuno e c’è da credere che se Eliot fosse stato vivo nel pieno degli anni ’90, il suo scrupoloso elencare non avrebbe trascurato operatori di Internet, gnomi della finanza, funzionari della Big Science, guru della Silicon Valley, anchor men televisivi, brokers e riviste di informatica. È la potenza del mondo e dei suoi burocrati e funzionari, che sfilano sotto i nostri occhi; vedendo il loro destino ultimo Eliot li riduce a ombre e li fa rientrare nella condizione che ci vuole sottoposti a una legge più grande dell’umana potenza; ma c’è anche qualcosa di più perché se pensiamo bene a questo elenco e lo riportiamo all’oggi, capiremmo subito come alcune di quelle figure sono già passate in giudicato. In sostanza, la potenza mondana muta più in fretta di quanto non si creda, anche all’interno del suo codice. Con la sua precisa nominazione Eliot dice indirettamente che il poeta troppo attento al mondo o che scambia l’attualità per la storia, può finire in un vicolo cieco e non potrà certo scrivere una grande poesia. Ciò che importa però non è tanto la ripetizione di una verità che il sermone cristiano ha tramandato nei secoli con le modalità che gli sono proprie, ma la rappresentazione scenica, l’effetto di contrasto fra tempo storico ed eternità, tempo umano e tempo cosmico; la percezione di entrambi è immediata e concreta perché incarnata nella storia così come in figure emblematiche.

Eliot ha descritto questo procedimento con l’espressione di correlativo oggettivo, un concetto complesso che è il risultato di un lento distillato di riflessioni.

Se si guarda al testo poetico va detto che con esso si ritorna alla concretezza della similitudine per arrivare alla metafora e all’allegoria. Nel procedimento di Eliot la metafora non è una similitudine cui siano stati elisi i connettivi, perché essa stessa è il punto di partenza; così come lo era in John Donne, cui Eliot deve più che qualcosa, anche se quando si pensa a lui i riferimenti sono solitamente altri, Dante in primo luogo.

La prima sezione dei Four Quartets, intitolata Burnt Norton, ripropone il nesso fra luogo, tempo storico ed eternità. Nell’esplorare tale relazione Eliot si trova nel mezzo di una contraddizione: per lui, nella storia così come nella politica che la produce, non vi può essere redenzione. Il poeta, dunque, deve aprirsi a una dimensione che travalica la vicenda umana. È da questo che nasce una concezione del tempo che Eliot vede come un’unità fra passato e futuro che precipita sempre nel presente:

/Time past and time future/What might have been and what has been/Point to one end, which is always present./  9

(Il tempo passato e il tempo futuro/ciò che poteva essere e ciò che è stato/Tendono a un solo fine, che è sempre presente./)

È una concezione vicina a quella espressa da Jung nei saggi sulla sincronicità; senza per questo ipotizzare alcuna influenza diretta o indiretta, sebbene la questione vada almeno accennata.

La definizione che Eliot stesso ha dato di correlativo oggettivo, si trova un passaggio celeberrimo e molto citato dei suoi scritti teorici. Nei saggi raccolti sotto il titolo Il bosco sacro composti dal 1917 al 1920, così scrive:

Si tratta di un processo di concentrazione, di una cosa nuova che ne risulta da moltissime esperienze che alla persona pratica e attiva non sembrerebbero tali … Le esperienze non sono rievocate … Il cattivo poeta è di solito incosciente laddove dovrebbe essere cosciente e cosciente dove dovrebbe essere incosciente. Tutti e due gli errori tendono a farlo personale.” E più oltre così continua: “L’unico modo di esprimere un’emozione in forma d’arte, consiste nel trovare un correlativo oggettivo; in altre parole una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi che costituiscono la formula di quella particolare emozione 10

Se restiamo alla lettera e allo spirito della citazione il correlativo oggettivo eliotiano non ha nulla a che vedere con il ricordo e la memoria in senso soggettivo (e la differenza con Montale, associato spesso ma arbitrariamente a lui, è cruciale), ma neppure con le epifanie joyciane o proustiane.

La memoria soggettiva, volontaria o involontaria che sia, presuppone un soggetto e un dato (oppure un oggetto ricordato), che riguardano soltanto la persona che ricorda. Naturalmente il grande poeta sa rendere universale le emozioni indipendentemente dal punto di partenza, ma qui non è in gioco il valore di un testo in sé, ma la comprensione di un procedimento: che rimane differente, perché il correlativo oggettivo necessita di una soggettività dal ruolo diverso. Il problema sta proprio nel soggetto che seleziona gli oggetti a partire da sé, mentre nel correlativo oggettivo il punto di partenza è dato da una concatenazione di oggetti o stratificazioni che portano in sé dei significati, che sono esposti allo sguardo e che hanno una relativa autonomia da chi li osserva.

Il caso più emblematico di procedimento soggettivo è quello ben noto della madeleine proustiana, un oggetto attraverso il quale il soggetto può accedere a un rimosso, facendolo rivivere; ma la madeleine di Proust sarà sempre la sua, mentre London Bridge o Burnt Norton non sono ricordi personali di T. S. Eliot, ma luoghi continuamente esposti alla vista che in un certo momento appare non semplicemente per ciò che mostra a tutti, ma trasfigurato.

Il correlativo oggettivo è altra cosa anche perché ha prima di tutto a che fare con lo spazio entro il quale sono collocati degli oggetti che portano su di essi il marchio della stratificazione delle età, come accade ai tronchi degli alberi quando vengono tagliati; mentre la madeleine proustiana ha a che fare solo con il tempo, la rimozione e lo psichico.

L’inizio della seconda sezione di Burnt Norton, più precisamente i primi quindici versi, sono un esempio emblematico del modo di operare del correlativo oggettivo eliotiano. Il primo verso è una citazione di Mallarmè, tratta da un testo che è un omaggio a Baudelaire:

/Garlic and sapphires in the mud/.

(/Aglio e zaffiri nel fango./)

In questo modo il poeta stabilisce una genealogia, una catena che instaura una fraternità poetica rivolta ai suoi sodali più vicini nel tempo: i modernisti di cui fa parte anche Laforgue, che ispirò i testi giovanili di Eliot.

Aglio, zaffiro e fango, tuttavia, sono anche tre parole molto concrete; c’è un carro che avanza faticosamente in questi versi, trattenuto da tre elementi che costituiscono la natura organica:

/Garlic and sapphires in the mud/Clot the bedded axle-tree./

(/Aglio e zaffiri nel fango./S’aggrumano sul mozzo confitto./)

Preso nel suo insieme il distico è una concrezione di senso e costituisce, come vedremo, il primo termine di paragone di una similitudine. I versi seguenti indicano una situazione intermedia:

 /The trilling wire in the blood/

(/Il filo vibrante del sangue/)

può essere il segno lasciato dal carro, metafora della condizione umana. Tuttavia questo filo non è soltanto doloroso perché:

/Sings below inveterate scars /11

(/Canta sotto le vecchie ferite/)

L’ossimoro rappresentato in questo sangue che canta, chiude una prima fase.

Il lenimento del dolore, il peso della storia, confluiscono in questo intreccio fra similitudine e metafora. I tre versi successivi diventano il secondo termine di paragone della similitudine: la raffigurazione e rappresentazione del corso degli astri. Anche in questi versi troviamo una condensazione che per forza sintetica richiama il primo distico:  

/The dance along the artery/The circulation of the lymph/are figured in the drift of stars/Ascend to summer in the tree/.12

(/La danza lungo l’arteria/la circolazione della linfa/Han figura nel corso degli astri,/raggiungono l’estate nell’albero./)

La concretezza della dizione (corso degli astri è un’espressione molto comune), richiama sia i segni dello zodiaco sia le costellazioni. Ancora una volta due concretezze asimmetriche creano un effetto di moltiplicazione del senso. Lo zodiaco e le costellazioni diventano il luogo su cui si proiettano le vicende umane; come su una tela simile a quella dove Aracne aveva rappresentato le vicende che riguardavano gli dei. Il soggetto del passaggio alla seconda parte è una danza complessa, attraverso l’arteria in cui circola la linfa vitale. Essa ha il potere di ascendere nell’albero e noi – elemento umano che compare per la prima volta nel testo – ascendiamo più in alto dell’albero stesso. In tale ascesa:

/We move above the moving tree/In light upon the figured leaf/And hear upon the sodden floor/Below, the boarhound and the boar/Pursue their pattern as before/But reconciled among the stars./ 13

(/Noi muoviamo al di sopra dell’albero/In moto/nella luce sopra le foglie/Istoriate/E udiamo sul suolo bagnato/ Lì sotto, il veltro e il cinghiale/Continuare la trama di sempre/ ma riconciliati tra gli astri./)

Ancora una volta torna in questi versi che chiudono i primi quindici una forte concentrazione di elementi concreti e simbolici. Eliot cita Dante, suo primo maestro, ma ciò che importa è quel piano acquitrinoso che segue la legge di sempre. Siamo qui in presenza di una spiritualità impastata con il fango, il peso della storia; non un’entità disincarnata. Il mondo segue la legge di sempre, ma proiettato sulla sfera celeste esso appare riconciliato perché ricondotto a un ordine superiore. Tale ordine, tuttavia, non è semplicemente quello cristiano: non si tratta in sostanza di un’assunzione al cielo. La ciclicità cui si allude in questi versi coniuga la sapienza antica dello zodiaco con il mito cristiano; ma in una mescolanza che la poesia rende inestricabile.

L’inizio della seconda sezione termina dunque con l’indicazione di un luogo, o meglio di due mondi – l’uno terrestre, l’altro celeste – che diventano i due termini di paragone di questo fitto intreccio di similitudini, ma anche di metonimie.

Nel prosieguo, tale luogo della proiezione diviene l’immobile punto dell’universo che ruota, il perno di ogni senso; simile al punto di Lagrange fra la Terra e la Luna, dove le forze gravitazionali s’equivalgono così da creare una sorta di culla astrale. È il punto della rigenerazione, molto vicino al concetto di vuoto per il Tao Te Ching; ma può essere anche interpretato come motore immobile. Più che un dio personale siamo in presenza dell’energia cosmica:

 /And the still point of the turning world. Neither flesh nor fleshless;/ Neither from not towards; at the still point, there the dance is,/ But neither arrest or movement. And do not call it fixity,/ Where past and future are gathered. Neither movement from nor towards,/ Neither ascent nor decline. Except for the point, the still point,/ There would be no dance, and there is only the dance./

(/Al punto fermo del mondo che ruota. Né corporeo, né incorporeo;/Ne muove dà né verso; al punto fermo. Là è la danza,/Ma né arresto né movimento. E non la chiamate fissità,/Quella dove sono riuniti il passato e il futuro. Né moto da né verso,/Né ascesa né declino./Tranne che per il punto, il punto fermo./Non ci sarebbe la danza, e c’è solo la danza./)

Nel prosieguo della ricompaiono tutti gli elementi che ripropongono la drammaticità irrisolta del rovello eliotiano.

/But only in time can the moment in the rose-garden, The moment in the harbour where the rain beat,/The moment in the draughty church at smoke fall/ Be remembered; involved with past and future./ Only through time time is conquered./ 14

(/Ma solo nel tempo il momento nel giardino delle rose./Il momento sotto la pergola dove la pioggia batteva,/Il momento nella chiesa piena di correnti d’aria all’ora che il fumo ristagna,/Possono essere ricordati, mischiati al passato e al futuro,/Solo col tempo si conquista il tempo./

È nel tempo, nel momento in cui si manifesta la rosa, ma non si tratta del tempo storico.

La terza sezione dei Quartets, East Cocker, può da sola costituire una sintesi dell’opera. I primi nove versi solenni, già citati, delineano uno scenario di grande suggestione e potenza. Gli echi che rimandano sono tanti, alcuni già ricordati. Il tono, per esempio, ricorda l’Ecclesiaste, ma anche il verso più solenne di John Donne e addirittura una eco dei suoi sermoni. Eppure la sorpresa permane. È vero che abbiamo già udito queste parole e sarà lo stesso Eliot a ricordarcelo in un verso:

/You say I am repeating/ Something  I have said before. I will say it again./

(/Dici che sto ripetendo/Qualcosa che ho già detto. Lo dirò ancora./)

Riflettendo ancora sulla concretezza della similitudine possiamo constatare che l’effetto della concatenazione diviene sempre più rarefatto e sottile; ma sempre legato a quella concretezza iniziale. L’effetto ottenuto da Eliot è lo stesso del gettare un sasso in uno stagno. I cerchi d’acqua diventano sempre più tenui quanto più ci si allontana dal punto d’impatto. Probabilmente la loro espansione è indefinita e se avessimo strumenti di misurazione potremmo verificarlo, ma anche senza di essi sappiamo intuitivamente che così è. La concretezza e la materialità di quel gesto iniziale produce un’espansione che diviene rarefatta. Mutatis mutandis, la forza della similitudine porta con sé le sottigliezze della metafora, ma le porta non astrattamente ma concretamente in sé. La rarefazione non nasce dal nulla o da un puro volo della fantasia, ma ha un ancoraggio preciso che mai viene meno e dunque non perde la sua incarnazione.

A partire da:

/I said to my soul…/

(/Dissi alla mia anima…/)

la sezione riprende il tono solenne dei primi nove versi, ma vi è anche un cambio di scena suggerito da Eliot stesso con la metafora del teatro. L’Io che viene messo in scena qui è paradossalmente impersonale. Eliot non usa noi oppure un altro pronome personale di cui la lingua inglese solitamente si serve per il pronome impersonale perché in questo caso l’io sta proprio per l’umanità intera ridotta alla sua piccolezza. Le similitudini che seguono, piuttosto elementari, si addicono proprio alle dimensioni di questo io-noi. Siamo piccoli in preda a piccoli espedienti di suggestione: siamo sgomenti persino a teatro quando cambia scena, perché avevamo sospeso il giudizio e creduto a quei colli di cartone che vedevamo; così come è sufficiente un treno fermo fra due stazioni della metropolitana per gettarci nel panico. Torniamo ora a quel distico che ci siamo lasciati alle spalle: il nono e il decimo, che chiude la sfilata delle ombre in questo modo:

/And we all go with them, into the silent funeral,/ Nobody’s funeral, for there is no one to bury./ 15

(/E tutti andiamo con loro, nel funerale silenzioso/Il funerale di nessuno, perché nessuno è da seppellire./)

Esso fa da cerniera fra i primi nove e il nuovo attacco che abbiamo già visto. È veramente necessario tale stacco da un punto di vista poetico, oppure abbassa il tono senza aggiungere altro al senso profondo di questa sezione? L’immagine del funerale silenzioso era già implicita e concretissima nella sfilata. Eliot pensa alla resurrezione nel verso finale?

La quarta sezione di East Cocker riporta al centro la figura del Cristo come chirurgo e la terra ritorna ad essere la valle di lacrime. Non sono però due Eliot; ancora una volta si ripropone qui il suo solito dilemma. Il poeta vede certamente nella conversione il modo di resistere agli aspetti deteriori della modernità, ma il ricorso al mito cristiano come elemento portante della tradizione occidentale appare a volte come una sovrapposizione alla sua poesia, altre volte come un dei tanti elementi; un mito, appunto, una narrazione non diversa da altri miti. È per questo, in definitiva, che la sua poesia è intrisa di elementi esoterici, spazia indefinitamente anche oltre la simbologia biblica.  

La quinta sezione può essere considerata una dichiarazione di poetica in versi. L’inizio è un richiamo esplicito alla Commedia

So here I am, in the middle way, having had twenty years,/Twenty years largely wasted, the years of entre deux guerres,

(/Così qui mi trovo, nel mezzo della vita, avendo avuto/ vent’anni – /vent’anni in gran parte sciupati, gli anni dell’entre deux guerres – /)

La consapevolezza della crisi in cui il poeta si trova e che richiama la crisi personale di Dante medesimo, assume qui degli accenti drammatici che hanno perso ogni orpello collusivo, ancora presente in Waste land, dove il sentimento della crisi non si è ancora confrontato con la seconda tragedia secolare: non bisogna mai dimenticare che questa parte dei Quartetti fu scritta nel 1942. Lo sgomento e lo smarrimento sono espressi in versi che sembrano azzerare la sezione precedente dove il chirurgo e cioè Cristo, sembrava ancora poter risanare le ferite della storia. Invece ora sperimenta:

Is a wholly new start, and a different kind of failure,/Because one has only learnt to get the better o f the words/For the thing on no longer has to say,  or the way in which one is no longer disposed to say it. And so each venture/Is a new beginning, a raid on the inarticulate/With shabby equipment always deteriorating…/ In a general mess f imprecision of feeling/Undisciplined squash  of emotions.

(/… una nuova e completa partenza, un genere diverso di /sconfitta,/perché uno ha imparato soltanto le più esatte parole/per la cosa che ormai non ha da dire, e nel modo nel quale /a dirla non è più disposto. E così ogni avventura/è un nuovo principio, un irrompere inarticolato/un equipaggiamento lacero e sempre alterato,/nel generale disordine dell’impreciso sentire,/schiere indisciplinate di emozione …/)

Il ritmo distorto, jazzistico fino all’esasperazione, fatto di cesure che si sforzano di aderire al caos che sta rappresentando sono un’irruzione che disarticola ogni parola possibile.16 Che fare allora? Nell’ultima parte, più pacata, il poeta ritrova il linguaggio solenne dell’Ecclesiaste:

There is a time for the evening under starlight A time for the evening under lamplight

(/C’è un tempo per la sera sotto al luce stellare,/un tempo per la sera sotto la lampada accesa/)

Nella chiusa si compie la metamorfosi dall’uomo che ha attraversato mille esperienze al vecchio:

Old men ought to be explorers/Here and there does not matter/We must still and still moving/Into another intensity/For a further union, a deeper communion,/Through the dark cold and the empty desolation,/The wave cry, the wind cry,  the vast waters/of the petrel and the porpoise. In my end is my beginning.

(/I vecchi dovrebbero esplorare/ non importa qua o là/noi dobbiamo esser quieti e quieti muovere in un’altra intensità/per una più intima unione, per una comunione più profonda/attraverso il rigore tenebroso e la vuota desolazione,/Nell’onda che grida, nel vento che urla, nelle acque immense/dell’Orca e della Procellaria. Nella mia fine è il mio principio.) 17

L’irruzione della storia e di un presente drammatico, si chiude a questi punto con un ritorno circolare su se stessa. Sarà nell’ultimo dei Quartetti che Eliot compirà un passo successivo e in qualche modo definitivo.

Funzionari

7 Da La terra desolata e Quattro Quartetti. Traduzione e cura di Angelo Tonelli, introduzione di Milosz, Feltrinelli 2000 pag. 11.  I saggi introduttivi alle sue opere sono tutti assai interessanti. A parte quelli già citati e che lo saranno nel prosieguo, importanti sono quelli scritti da Roberto Sanesi.

8 Op. cit. pag. 11.

9 Op. cit. pag. 12-13

10 T.S. Eliot, Il bosco sacro, Saggi sulla poesia e la critica, traduzione di V. Di Giuro e A. Orbetello, Bompiani 2016.

11 T.S. Eliot, Quattro Quartetti, Burnt Norton seconda sezione.

12 Ivi.

13 Ivi.

14 Ivi.

15 Ivi.

16 Attilio Brilli, è forse il critico italiano che ha più evidenziato che i Quartetti hanno una struttura sia concettuale sia musicale. In alcuni casi il primo tempo presenta due temi contrastanti eppure connessi tra loro. Rimando all’analisi da lui compiuta per approfondire tale tematica sebbene a me sembri che la variazione jazzistica, più che non il riferimento alla partitura di una sinfonia, sia l’elemento musicale più presente nella sua opera. Eliot è un modernista convinto anche quando critica la modernità e non mi sembra un caso, peraltro, che l’ultimo dei Quartetti – Little Gidding – sia stato musicato da Stravinskij e da Sofia Gubaidulina, esponenti dell’avanguardia musicale novecentesca. 

17 T.S. Eliot. Quattro quartetti, Traduzione di Roberto Sanesi, Book editore ed eredi Sanesi, Milano 2002, pag.46.

MITI

“Siamo qui.”

Si voltò e vide una bambina; si avvicinò e lei lo prese per mano.

“Ti stavamo aspettando Amleto.”

“Scusate il ritardo, ma, non sapevo, non so cosa fare.”

Un altro che portava sul capo un elmo a due punte, si portò al loro fianco; insieme a lui vi era un cane bellissimo, dal pelo folto e dallo sguardo quasi umano.

“Vieni fratello.”

Andarono sopra un’altura dalla quale si poteva dominare una vasta distesa pianeggiante. Dapprima gli sembrò uniforme ma poi, guardando bene, scorse due luoghi distinti, separati da una sottile striscia di nebbia e in ognuno di essi gli sembrò che qualcuno si stesse muovendo. A lato di entrambi quegli spazi, scorse qualcosa, ma la poca luce impediva di vedere bene. Si voltò perplesso e un altro, che nel frattempo si era avvicinato, si rivolse a lui:

“Sono esseri umani, se guardi attentamente, là in fondo, vedrai un re che dovresti conoscere molto bene e il vecchio cieco, appoggiato a quel masso, fu un famoso re di Tebe.”

“E quella sono io”, ma osservando nella direzione indicata dalla bambina, vide una vecchia.

“Non mi riconosci?”

Risero tutti e fu allora che Amleto si accorse di loro.

“Sono confuso; perché noi ci troviamo in mezzo a loro? E io … qual è il mio posto?”

“Non in mezzo a loro, ma più in alto e più lontano, ma non tanto da non riuscire a vederli e non così in alto da sembrare dei, come volli diventare io.”, aggiunse parlando fra sé quello che gli aveva indicato il re di Tebe.

Amleto li osservò uno ad uno, poi, parlando fra sé:

“Ma voi non avete vissuto, mentre io …” ma non continuò la frase e allora un altro si rivolse a lui:

“Attribuisci troppo valore a quello che gli uomini chiamano storia. Prendi il mio caso; la figura che vedi là nell’angolo, vicina al re di Tebe, porta il mio stesso nome, Enea. Compì grandi imprese, fondò una città famosa (almeno così si dice); eppure nessuno può affermare con certezza chi di noi due sia il più vivo e il più vero nel ricordo degli umani.”
“Pensa a quel re di Tebe che sta laggiù” gli fece eco un altro dagli occhi incavati, accalorandosi come non mai! E continuò dicendo:

“O se preferisci pensa al principe Hamlet! Che hanno fatto d’importante tutti questi uomini? Del primo si sa che regnò, quanto al secondo non vi è certezza neppure di questo.”

Poi si voltò, indicando un’ombra dietro di lui e proseguì:

“Guarda costui che sempre mi segue e che forse tu riconoscerai; credi che preferisca essere ricordato come il conte di Southampton, oppure come il Bardo?”

Amleto lo guardò turbato, poi chinò il capo e aggiunse sotto voce:

“Dici bene, come se fosse facile.”

L’ombra, che fino a quel momento non aveva mostrato alcun segno d’interesse per loro, alzò il capo e guardò Amleto negli occhi, poi in tono mesto disse:

“Accade talvolta a chi scrive, che una voce rifiutata nel testo ci prenda per mano nelle nostre vite e ci guidi come un demone cieco, trascinandoci nelle tragedie di un testo immaginario. Il pianto, allora, invece di liberarsi in parole, imprigiona i nostri gesti quotidiani, diventa rabbia, si dirige su chi ci è più vicino, colpisce e divide come una spada, spesso ci annienta. Altre volte sono i gesti, le risa, il pianto a muoversi da soli, senza che noi stessi sappiamo dove andranno infine a depositarsi.”

Così detto chinò il capo. Amleto, che lo aveva ascoltato piangendo, si rivolse a lui:

“Sei stato tu a crearmi, oppure è a quel re che sta laggiù, fra gli umani, a cui mi devo rivolgere? Di chi sono figlio? Chi di voi due può sciogliere il mio enigma?”

L’ombra non rispose e gli altri si avvicinarono e lo portarono via di lì; poi uno di loro gli cinse le spalle con il braccio:

“Furono pur sempre esseri umani a crearci, siamo schiavi di condizioni umane, viviamo in eterno, sia pure, ma solo passando fugacemente, generazione dopo generazione, nelle menti dei pochi che ci accolgono, sempre in balìa del caso, fino a che la stoltezza dei molti non porrà fine a tutto quanto.”

“Questo varrà per voi, ma non per me! Io, Cassandra, non fu mai accolta, mai! In nessuna epoca e da nessuno!”

“Ma perché tutti insieme?” chiese Amleto dopo averle rivolto uno sguardo distratto; poi continuò:

“Cosa ci si aspetta da noi? Ditemi almeno questo se volete che io scelga.”

Nessuno gli rispose, sebbene la frase li avesse colpiti. Anche Amleto tacque; si guardò intorno e si avvide che si trovavano più in basso di prima e che l’altura su cui erano saliti si trovava alla loro sinistra.  Vide muoversi qualcuno a pochi passi da loro e pensò si trattasse delle schiere degli umani, poi presto si avvide che non era così; notò infatti che i loro corpi erano diversi da quelli degli altri,  perché una parte di essi era oscurata. Fu Cassandra ad avvicinarsi a lui:

“Sono gli utopisti, i riformatori sociali e i rivoluzionari; di loro possiamo vedere solo la parte che assomiglia a noi, mentre gli umani – che da qui non riesci a scorgere – possono vedere la parte che a loro assomiglia. Potranno scegliere con chi stare ma dovranno rinunciare a una parte di sé; solo allora potranno mostrarsi con l’intero corpo a coloro che avranno scelto.”

Amleto l’ascoltò in silenzio, poi volse di nuovo lo sguardo verso quegli strani individui. Uno di essi, in particolare, l’attirò; di lui si vedevano soltanto gli occhi socchiusi e sottilissimi. Il suo sguardo era di straordinaria acutezza e da quelle piccole aperture sembravano uscir fuori tanti piccoli raggi di luce che finivano per catturare l’attenzione di ognuno. Tutta l’energia di quel corpo si era trasferita in essi e Amleto vi sentì vibrare una gamma così vasta di sentimenti che ne fu colpito. Poi vide un altro avvicinarsi a lui. Aveva soltanto il volto; un volto da ragazzo, quasi un bambino sorridente e aperto. I suoi occhi, però, erano fissi, come se qualcosa avesse spezzato il suo sguardo in tenera età.  Quando però incontrò gli occhi dell’altro  si animò, mentre il primo dei due – dal canto suo – trovò in essi sollievo alla propria inquietudine.

“Sono arrivati da poco” disse Cassandra e aggiunse: “si cercano sempre; se vuoi, avvicinandoti, udrai la loro storia; forse ti potrà servire.”

Amleto si avvicinò ai due, voltandosi ogni tanto per vedere se Cassandra lo stesse seguendo; ma lei preferiva tenersi a distanza. Si sedette quando gli parve di essere abbastanza vicino, senza che i due si accorgessero della sua presenza. Dopo essersi abbracciati, almeno così gli sembrò dal movimento di entrambi, cominciarono a parlare.

“Ti ho atteso fratello mio e ora che sei qui potrò finalmente udire dalla tua voce cosa è successo dopo che i miei occhi furono spenti proprio quando vedevo davanti a me la luce di una speranza futura.”

“Lo so, lo so Saša carissimo, fui io a dire a nostra madre che ti avevano impiccato, anch’io vidi la tua stessa luce, ho proseguito il cammino  e credevo così di avere emendato il tuo errore e il mio errore anche.”

“Avrai tempo per raccontarmi di nuovo anche questo, la tua fama mi ha già raggiunto, so cosa hai fatto, è altro che vorrei spere; ero ansioso di rivederti, certo, eppure non ti aspettavo così presto.”

“E non sai invece quanto volte mi sono augurato di raggiungerti prima! Volevo andarmene, ma il peso che avevo reso sulle spalle fu condiviso da milioni di umani che videro come noi quella luce e così invece di schiacciarmi, esso mi buttava continuamente in alto nonostante il mio corpo si trascinasse come uno straccio zuppo di sofferenza. Non mi lasciavano andare via; poi, quando finalmente il mio corpo si è fermato mi hanno rinchiuso per settant’anni in uno stupido mausoleo sulla Piazza Rossa e come se non bastasse uno scienziato indegno di questo nome si è tenuto il mio cervello; voleva scoprire, pensa un po’, come è fatta la mente di un genio! Come se in quell’ammasso di fili consumati, ci potesse essere qualcosa di più dei segni della mia malattia.”

“Perché dici questo? Volevi venire prima? Non riesco a capire, avevi appena raggiunto la soglia del mondo che sognavamo. Ho cercato spesso di vedere con i tuoi occhi; non appena arrivato qui, capii il mio errore ma ero certo che tu saresti andato più in là.”

“E così avvenne, ma anch’io fui spezzato come te, ma la mano che lo fece era più sottile di quella del boia, assomigliava alle nostre Saša, era fatta come le nostre. Spostava la luce che vedevamo allontanandola sempre di più e chiedendoci di seguirla  e mentre noi eseguivamo i suoi ordini la mano colpiva spietatamente alle nostre spalle.”

“Un tradimento allora!”

“E così non c’era luce dietro di noi, ma soltanto un’ombra che cresceva sempre di più; quando me ne avvidi era troppo tardi. Mi ritrovai solo ai margini di un labirinto.”

“Fosti tradito allora!”

“No, non fu così.”

“Un altro errore allora …”

“Mi sono ingannato. Ho creduto che le mie opere nascessero dalla volontà e dalla comprensione di quello che tu chiami ancora il tuo errore. Pensai così che fosse la passione da lasciare da parte e la mia mente agì con la freddezza necessaria per lasciarla fuori di me. In  realtà a spingermi su quella strada fu un sentimento per me impronunciabile quando ero in vita. Cercavo di restituirti qualcosa che ti era stato tolto; ed eri stato proprio tu a farmi vedere per primo quella luce. Pensai che fosse stata la tua generosità ad averti tradito. E invece agivo io stesso in nome di un impulso generoso  che non volevo riconoscere come mio.”

“E quando te ne accorgesti?”

“Poco dopo aver varcato la soglia. Avevo sognato quel momento; il mio libro più bello, sai, lo scrissi allora, a cose fatte ne 1919. Fu una liberazione e quando di notte, alla luce del lume, le parole sembravano uscire dalla mia mano come schiere trionfanti, mi accorsi che accanto ad esse c’era anche la tua Sasha, la tua mano anarchica e di ragazzo, la tua mano con tutta la tua passione e la tua giovinezza impiccata. E le parole volavano, volavano fuori, sembrava non avessero confini, salivano sulla fortezza di Pietro Paolo che intravedevo dalla finestra e sembravano sgretolarla un poco ogni notte. E scrivendolo sentivo che in quelle parole tornava a risplendere la luce, come l’avevamo vista la prima volta!”

“E poi che accadde?”

“Durante il giorno quelle parole le dimenticavo; non me ne accorsi subito. Esse si allontanavano dalle mie opere diurne e queste crescevano senz’anima. Di notte erano le mie parole a crescere e sgretolavano fortezze, ma erano fortezze immaginarie; dalla finestra la intravedevo nell’ombra, la fortezza di Pietro Paolo era sempre là ed ora vi erano rinchiusi i tuoi aguzzini, ma era nera e minacciosa come quando vi fosti impiccato tu.”

“Replicasti il mio errore dunque, sognasti troppo e troppo in fretta.”

“No Saša, perché capivo ogni giorno di più che senza le parole del libro che stavamo scrivendo insieme, era la luce ad andarsene. Ma il giorno successivo la mano continuava a distruggere quanto era stato scritto la notte, ma essa era del tutto simile alla mia, era la mia Saša! E così ricominciavo daccapo la notte successiva e le altre ancora ed ogni giorno ed ogni notte misuravo ciò che era rimasto come saldo. Finché non crollai io stesso e tutto cominciò a dissolversi; ti allontanasti di nuovo nelle tenebre e la mia mente si consumò, le lacrime che mai volli  mostrare divennero un acido che cominciò a scavare e a corrodere dentro di me e allora decisi di andarmene.”
“Eppure incontrarti mi ha fatto tornare la speranza e quando ti guardo quella luce io continuo a vederla.”

“Anch’io la vedo e mi tormenta, sapessi almeno perché mai continuiamo a vederla!”
“Forse perché c’è un’altra soglia che dovremo attraversare, ma dovremo farlo insieme.”

I due tacquero di colpo e gli occhi del primo cominciarono a rivolgersi di nuovo in tutte le direzioni, mentre il volto dell’altro tornava alla sua fissità.

Amleto allora ritornò verso Cassandra, che l’attendeva.

“Perché hanno taciuto così bruscamente?”

“Perché non capiscono che manca loro qualcosa. Anche insieme non troveranno la soglia che cercano e così ogni volta sono costretti a ripetere daccapo la loro storia e dovranno farlo molte altre volte e non solo qui fra noi; ma capiranno prima o poi, non essere così triste.”

Anche gli altri si erano avvicinati e tutti insieme si diressero di nuovo verso l’altura, in cima alla quale li attendeva il cane, insieme ad una figura che prima non aveva visto. La luce era cambiata e le schiere degli umani erano ora ben visibili. La striscia di nebbia che li separava, si assottigliava talmente in alcuni punti, che le due colonne si sfioravano senza tuttavia vedersi e neppure immaginare la presenza dell’altra. E mentre una schiera si trascinava un fardello di atroci sofferenze, l’altra – con gli occhi rivolti verso l’alto – si trascinava il fardello altrettanto pesante di una felicità ebete e incantata. Amleto scosse il capo e osservando lo spazio ai lati delle due schiere, vide agitarsi altre figure.

“Chi sono quelli?”

“Sono i personaggi minori, oppure molto recenti o appartenenti a opere di scarso valore; attendono che noi li chiamiamo, ma non possiamo. Continueranno a oscillare sulle loro piccole barche in attesa che qualcuno più grande di loro li traghetti da qualche parte.”

“E non potrebbero proprio loro mostrarci che viviamo un’attesa? Un tempo risparmiato e tenuto in serbo per qualcosa che non sappiamo?”

“Non è un tempo, fratelli e sorelle, ma una scelta, sta a noi prendere nelle nostre mani il nostro destino; a noi che vediamo quello di cui gli umani vedono soltanto un lato perché da tempo hanno distolto lo sguardo dalla sola parte di loro che vive.”

Si voltarono tutti.

“Non è forse questa la promessa che fece sperare le genti nel corso dei millenni? Se liberi finalmente, dai nostri creatori, fossimo proprio noi, i personaggi che essi hanno creato a far vivere le nostre storie e dunque anche la parte migliore di loro? Smettetela di guardarli e di cercare nelle loro imprese tutte le risposte e tu Amleto, rimani con noi, non tornare nel mezzo di altri principi e re.”

Si avvicinarono e si sedettero in cerchio accanto a lei.

“E da che cosa cominceresti regina e da quando?”

Allora Sherazade si sedette, incrociò le gambe e parlò.

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