NARRAZIONI FRA STORIA E MEMORIA: IL DONO DI MARIA TERESA CIAMMARUCONI

Via Cristoforo Colombo a Roma

I fuochi propulsori da cui prende vita e corpo il romanzo Il Dono, pubblicato per le edizioni Croce, sono un evento planetario – la pandemia di Covid – e un protagonista maschile – Renato – che si trova a vivere una condizione rovesciata rispetto a quella che è capitata a tutti noi durante il confinamento e il coprifuoco. Egli non può aderire a quel motto un po’ sinistro, che – specialmente nel web – era scritto tutto di seguito come se fosse una sola parola, iorestoacasa. Renato, infatti, è un senza tetto che vive in strada da vent’anni con uno zainetto nel quale, fra le altre cose, tiene un libro con le vite dei santi.

Il terzo elemento costitutivo della tessitura narrativa è la presenza di una narratrice onnisciente che non teme di esserlo. La combinazione di questi tre elementi si snoda per queste intense e ricche 281 pagine, in cui ogni capitolo è contrassegnato dalla data del giorno e da altri particolari che vedremo meglio successivamente. Il tutto è corredato da fotografie in bianco e nero, suggestive ed essenziali al tempo stesso. Più leggevo, tuttavia, più una domanda continuava a tornare: cosa viene davvero narrato in questo romanzo? Da un lato, la storia di Renato è quella di tanti che si sono persi nella grande città, la vita di strada è ormai un modo di condurre la propria esistenza in tutte le metropoli a ogni latitudine. Chi fa volontariato lo sa e proprio i componenti della comunità di sant’Egidio faranno presto la loro comparsa in questa narrazione, come comprimari e in qualche caso protagonisti essi stessi: la volontaria Teresa in particolare. Saranno loro a rendere meno sinistro il motto iorestoacasa, grazie alla presenza costante sul territorio.

Per un altro aspetto, la vicenda umana di Renato sta dentro una storia più grande: quella dei decenni trascorsi, quanto mai tumultuosi, sia dal punto di vista politico e sociale, sia personale: fra matrimoni falliti e divorzi, la ribellione di una generazione intera alle convenzioni sociali in una società in rapida trasformazione. Infine il quartiere. Chi vive in strada in teoria può andare ovunque ma è sempre nelle nicchie del proprio luogo di nascita o della porzione di città che meglio conosce dove trova il proprio rifugio naturale e trascorre gran parte del suo tempo; tanto più se si tratta di un quartiere che ha una lunga storia: il Tor Marancio, un tempo Shangai, immortalato anche in un passaggio di Ragazzi di vita di Pasolini e dal cinema.

Allo snodarsi di questi intrecci fra presente e memoria, fanno da contrappunto i dialoghi, fitti e densi a loro volta. Per non togliere a chi legge il gusto di assaporare il testo, ho scelto alcuni prelievi emblematici per questa riflessione critica, avvertendo però che questo romanzo può essere percorso in vari modi e lo si potrebbe leggere persino come un omaggio proprio al quartiere in cui è ambientato – dove pure la narratrice vive prevalentemente – nonché  alla ricchezza della sua storia e dei suoi tanti luoghi e anfratti.  

Il primo prelievo è dal capitolo 25/3/2020 Pasta e fagioli. I titoli, tranne il primo, sono scanditi da tre elementi portanti: la data, il menu che la comunità di sant’Egidio prepara quotidianamente e il santo del giorno. Quanto a Renato, che all’inizio stentava a rendersi conto di che cosa stesse davvero succedendo nella città improvvisamente vuota, ha ormai imparato a giostrarsi nel tempo della pandemia: è passato quasi un mese dall’inizio del confinamento e molte cose sono già successe. Però questo giorno è particolare perché gli manca il supporto del santo:

 … Ma oggi, mercoledì 25, nessuno è scritto nel neretto che promette una storia edificante  da scoprire, nessun palpito che impregni la giornata di virtù illuminanti. Bisogna aspettare il 30 marzo per incontrare san Zosimo, il guardiano delle tombe. …

Per di più si sta avvicinando un’altra data importante, il 2 aprile quando Renato compirà sessant’anni. Il ricordo di quel passaggio della sua vita e la mancanza delle parole di un santo come si deve, genera in lui riflessioni sempre più sgomente, il peso del passato lo spinge a tentare di liberarsene definitivamente, ma pensare al futuro in un momento come quello che la città e il mondo intero stanno vivendo è un’impresa che mette paura. Inizia allora una passeggiata lungo la Cristoforo Colombo, quell’arteria interminabile che chilometro dopo chilometro porta finalmente al mare: nel mezzo ci sta l’Eur con i suoi palazzi simbolo della modernità architettonica romana, l’obelisco e altro. La passeggiata solitaria e nel silenzio della città innesca un viaggio immaginario della mente, nel quale si mescolano allucinazioni e progetti:

… Il futuro è dietro l’angolo. Forse dopo l’incrocio con via Laurentina o con viale Marconi … o piazza delle Nazioni  Unite.. Certo, la piazza con l’Obelisco di Marconi potrebbe essere quella giusta per l’atterraggio di un corpo estraneo alle logiche comuni: un’astronave … Un’astronave a Roma caput mundi, cuore del pianeta e della pandemia. E lui il cieco dalla nascita cui è concessa la vista. Potrebbe essere una svolta per tutti.

La passeggiata continua e proprio all’Obelisco vuole arrivare Renato, che gli ricorda le Olimpiadi di Roma nell’anno in cui anche lui è nato. Il tempo attuale si sovrappone a quello passato, generando un vortice. Il ricordo della prima nascita porterà a una seconda? Renato lo pensa:

… Tutto coincide. Certamente è questo il luogo dove l’astronave prenderà terra.

Alla fine, stanco, si addormenta sull’erba con le sue visioni, ma quando si risveglia ritrova la quotidianità prosaica di sempre.

La notte magica, però, ha lasciato segni: Renato ritorna dai volontari e da Teresa con un piglio diverso. Per la prima volta dopo tanto tempo non pensa più solo al passato, il tempo corre più velocemente e arriva finalmente anche il 30 marzo e con esso l’ultimo santo censito dal libro che porta nello zaino. Zosimo piace molto a Renato, perché s’identifica con lui. Uomo semplice, apparentemente senza qualità, messo alla prova rivela doti e saggezza da vendere. Renato, sulla scia della notte magica, pensa che sia arrivato anche il suo momento.

I dialoghi

Ci sono due diverse tipologie di dialogo nel romanzo, improntate a stili e registri linguistici differenti di cui dirò meglio nelle conclusioni. La prima tipologia è costituita da flash di conversazioni che rimandano al passato del protagonista. Emergono improvvisi alla sua memoria: sono dialoghi con il padre, o la moglie Ada, la sorella Adele o la madre. Spesso questi frammenti diventano il tramite per ricostruire pezzi della propria vita, la storia del quartiere, oppure il difficile  rapporto della sorella con la scuola

La seconda tipologia di dialoghi è invece in presa diretta con il presente e la pandemia. Avvengono nei luoghi canonici che un senza tetto frequenta: i bar anche se sono chiusi spesso, i cortili di un condominio dove c’è sempre qualcuno che gli allunga una sigaretta o altro, la comunità di sant’Egidio.

È la mattina del 26 marzo quando Renato, risvegliatosi dopo la notte magica si reca dai volontari e trova Teresa:

Teresa, ho bisogno di vestiti puliti

Io ti ho portato gli occhiali.

Sono contento, ma intanto … oggi mi faccio la doccia

Incredibile! Forse è la festa del santo della pulizia. Sotto il capannone trovi un bell’assortimento. E poi oggi alla distribuzione ci sono nuove volontarie che non vedono l’ora di compiere una buona azione.

Non potresti scegliere tu? Dai mi fido. Chi distribuisce cibo conosce i bisogni del corpo … un po’ di biancheria, un paio di pantaloni servono urgenti, possibilmente con tante tasche.

E va bene, intanto vai ai bagni. Ci dovessi ripensare. Ti lascio qualcosa sullo sgabello dell’ultima doccia.

La cura di sé è un’arte difficile per un senza tetto, ma la notte magica ha davvero lasciato segni importanti. Renato si riconcilia con l’acqua, sente il suo corpo come non avveniva da tempo. Alla fine, rimesso a nuovo, torna da Teresa ed è persino tempo di qualche confidenza:

Hai scelto proprio bene Teresa. Con questa camicia a righe mi sento un ragazzo in vacanza … Il miracolo oggi lo hai fatto tu. Profumo come un diciottenne alla festa delle debuttanti.

Ti vedo esperto in fatto di feste.

Figurati … mi ricordo solo qualche pagina di Harmony. Roba di mia sorella Adele.

La svolta di Renato però non si ferma qui perché l’uscita da uno stato d’immobilità apre a scenari nuovi e nuovi incontri: la Donna con il Fazzoletto per esempio, una figura misteriosa e inquietante. Poi è tempo di una nuova escursione serale fuori dal perimetro stretto di Tor Marancia. Renato s’incammina per via Ostiense e la vista del gasometro innesca una nuova ondata di memoria: ci lavorava suo nonno in quel luogo e, a cascata, quel ricordo ne innesca altri, mentre le sue gambe lo portano sempre più lontano, verso una casa occupata ed è lì che Renato entra in contatto con una Roma che non conosce, fatta di immigrati dalle lingue diverse che lo guardano con sospetto perché il nuovo arrivato può turbare il loro difficile equilibrio. Tutto finisce bene, anche se:

 ..Renato è ancora troppo fragile per diventare cittadino del mondo. Non è questa la sua Nuova Casa.

Il ritorno a Tor Marancio però non è una sconfitta; anzi. Una seconda metamorfosi è alle porte: Renato comincia a vedere il quartiere come mai lo aveva visto da tempo. Luoghi che attraversava ogni giorno senza farci caso, ora gli appaiono nitidi per quello che sono, fra cui la vecchia scuola media Locatelli, frequentata da lui e anche dalla sorella. Ridotta a un rudere gli sembra però un luogo dove rifugiarsi sempre, una vera Nuova Casa. La vista di questa scuola e dei ricordi che suscita è l’ultima delle sue metamorfosi: Renato decide che quello sarà il luogo dove vivere d’ora in poi.

Sul linguaggio e la strategia narrativa

All’inizio di questa riflessione affermavo che Teresa Ciammaruconi è una narratrice onnisciente che non teme di esserlo. L’intreccio e la trama narrativa sono vistosamente presenti in questo romanzo e per quanto mi riguarda è una buona notizia. Nel caso specifico, proprio la necessità di coniugare storia e memoria, rende inevitabile l’intreccio, che l’autrice governa molto bene perché esso è in realtà stratificato su tre diversi livelli, anche dal punto di vista del tempo e del linguaggio. Lo scorrere dei giorni e dei santi segna il perimetro della contemporaneità e del Grande Male che la pandemia è stata: è il tempo di una quotidianità precaria, governata dall’abitudine che è il solo modo per sopravvivere nei tempi difficili. Il risveglio al mattino, procurasi il cibo, far passare il tempo che è lineare e segregato al tempo stesso: le ritualità permettono di non naufragare del tutto. Renato lo vive in termini rovesciati, ma le abitudini sono comuni a quelle di tutti gli altri: i soli che possono introdurre una paradossale varietà nelle loro esistenze sono i volontari della comunità di sant’Egidio, che per via della funzione che svolgono godono pure di un pizzico di libertà in più. I dialoghi in presa diretta sul presente semplici e lineari come si è già visto, vertono per forza di cose intorno al tema della sopravvivenza, sono governati dalla gentilezza di Teresa che cerca di vincere la diffidenza che un senza tetto si porta addosso per forza, ma anche di vincere la propria paura di fronte a un uomo di cui non sa nulla: è un registro linguistico semplice e diretto, ma che – specialmente per la sagacia di Teresa – sa trovare anche i guizzi che pure nella quotidianità più prosaica esistono:

La seconda tipologia è assai più complessa. I ricordi, le reminiscenze dei dialoghi fra Renato e i suoi famigliari irrompono improvvisi ed è spesso un’immagine a innescarli: presente e passato allora si fondono e creano una  sovrapposizione di tempi che offrono una ricostruzione della storia del protagonista di cui però, anche alla fine, avremo solo frammenti: è un flusso stratificato e dai registri linguistici diversi. La relazione intensa fra immagine e memoria ha effetti che passano attraverso il linguaggio del cinema e la sua metabolizzazione nella narrazione. Un capitolo è assai esemplificativo di questa commistione fra parola e immagine, 20/3/2020, Caffè e ciambellone:

… I giorni scorrevano a strattoni, schiacciati sotto il peso crescente dell’inadeguatezza.

Intanto le donne della sua vita si allontanavano per strade diverse: la madre Assunta, accucciata nella sua vecchiaia,la sorella Adele, risucchiata nel vortice di emozioni incontrollabili, sua moglie Ada ripiegata nella banalità delle piccole garanzie.

E lui nel mezzo, incapace di atterrare e di volare,

Da solo a vagare per via Cristoforo Colombo.

La Grande Storia

Lascio per ultimo questo tema perché se da un lato la storia del quartiere e il contrasto con l’attualità – Tor Marancia non è più da tempo la Shangai immortalata anche da Pasolini – emergono fra le righe della narrazione lineare, lo sfondo e lo spessore storico sono affidati a ricordi frammentari. Renato è un uomo semplice, dalla consapevolezza altalenante anche quando tenta di ricostruire il proprio passato personale. La storia più grande lui non la padroneggia, fuoriesce da qualche rapida notazione. Colpisce per esempio il ricordo della ribellione della sorella e dei suoi amori che la porteranno a una fine tragica e questo non è un caso perché il protagonismo femminile è stato un segno distintivo del cambiamento dagli anni ‘70 e forse nel caso di Renato non è estraneo al fallimento del suo matrimonio.

Tale frammentarietà, che è un tratto ineludibile della personalità di Renato, permette però alla narratrice di essere sì onnisciente ma di conservare una nube d’indeterminatezza che le consente di tenersi a distanza dalla trappola delle sintesi onnicomprensive.

La riflessione più ampia e profonda sulla Storia, tuttavia, c’è in questo romanzo, ma è affidata ai soli momenti in cui la narratrice dismette il suo ruolo onnisciente ed entra  a sua volta in scena. Lo fa però con incursioni rapide, talvolta aforistiche, che iniziano dal dopoguerra e arrivano fino a noi. Ne indico alcune, contrassegnate in qualche caso da un’amara ironia, che diviene tagliente. Questi assaggi sono distribuiti sull’intero libro e segnano dei passaggi decisivi nel processo di trasformazione sociale dell’Italia, a cominciare dall’immediato dopoguerra:

… A raccontare tutto ‘sto circo ci pensavano i nuovi cantori con la cinematografia. Sfruttando le astuzie della macchina da presa hanno piantato un’aureola sulla testa della miseria  e un firmamento di stelle nel cielo di un’Italia frantumata. Così è stato più facile – per i sopravvissuti – dimenticare la luce sinistra dei bengala e contemporaneamente far impallidire gli splendori di Hollywood, dando pure una lezione a quei simpaticoni degli americani che comunque ancora ci stavano sfamando.

… Gran cosa il volontariato, ormai è quotato pure in borsa. E soprattutto fa sentire gli adepti importanti e contemporaneamente a posto con la coscienza.

Il mistico del quartiere scomparve quando i lampioni al neon misero in fuga le ombre che la notte circolavano ai margini della strada e si inoltravano nel verde. Niente zanzare, niente mistico, niente pecore, niente prato rasato per i picnic. E scomparvero anche le automobili che di notte si inguattavano tra le piccole dune della terra, rifugio sicuro per coppiette irregolari.

All’Anziana Signora pareva un sessantottino sfuggito alle maglie della storia, un sopravvissuto alle cesoie del politically correct. E siccome lei era arrivata troppo tardi per le barricate e troppo presto per la rivoluzione sessuale, con la vecchiaia cercava simulacri che la confortassero e dessero un senso al non vissuto. Cercava appigli nel presente per dimenticare che cinquant’anni prima, mentre alla sede del partito urlava rivendicazioni, pensava al marito che a casa brontolava per la cena che tardava.

La capitale sopravvive a ogni distorsione. La lupa offre le tette alla fame e all’infamia.

Per concludere

Il Dono, nonostante il finale sia più sottilmente aperto di quanto non sembri a prima vista, è un’opera che non ci riconcilia con il presente storico e il titolo stesso lascia un retrogusto di amarezza. Il protagonista Renato ha assaporato nel tempo breve di poco più di un mese la possibilità di una rinascita che è avvenuta, ma pur sempre in modo rocambolesco e incompiuto. Quanto alla nostra contemporaneità, nonostante gli esempi di solidarietà attiva, la presenza discreta e corale di un tessuto sociale che resiste alla durezza dei tempi, nessuna palingenesi ci aspetta. Concludo allora con un’ultima citazione, alla fine della notte magica, quando Renato si risveglia al mattino dal suo sogno ad occhi aperti:

… Non c’è traccia di astronave, il futuro gli ha strizzato l’occhio e se ne è fuggito. Si è beffato di lui perché il futuro è una carogna bugiarda. Lontani gli orologi di piazzale Tosti scandiscono il tempo per chissà chi …

VITE IMMAGINARIE E ALTRE VITE

Premessa

Questo saggio è la rielaborazione di un precedente scritto pubblicato anni fa sulla rivista Il Cavallo di Cavalcanti. Lo spunto da cui nacque fu la lettura di due libri di un autore a me allora del tutto sconosciuto: Marcel Schwob. Li lessi in pochi giorni e il fascino che esercitarono su di me non è venuto meno nel tempo. La lettura mi aveva pure un poco sconcertato perché mi trovai nel mezzo di sollecitazioni molteplici: il richiamo ai classici da un lato e una poetica del tutto avulsa dai canoni che si stavano affermando nell’Europa del tempo. C’era poi qualcosa in lui che mi rimandava a Cesare Pavese: entrambi avevano a che fare con il mito e in un primo tempo i loro percorsi mi sembrarono simili. Successivamente e grazie anche alla lettura delle opere di Furio Jesi, mi sono reso conto delle differenze fra i due approcci, che mi inducono oggi a modificare in parte il saggio di allora.

***

Mimare la vita

Ci sono opere letterarie e autori che creano personaggi memorabili, tanto che spesso sono ricordati più di loro stessi: Macondo e Mauricio Babilonia, per esempio, sono stati nell’immaginario collettivo, più importanti di Garcia Marquez, almeno per alcuni anni. Vi sono invece opere e personaggi che agiscono in profondo, influenzano altri narratori, tanto da divenire un’onda lunga e carsica che ogni tanto risorge, anche se al momento della loro nascita sembrano del tutto fuori tempo e fuori luogo.

Le vite immaginarie di Marcel Schwob, fanno parte di quest’ultima categoria. L’opera fu scritta a fine ‘800, quando cominciava a profilarsi la crisi profonda della nostra civiltà che sarebbe culminata nella Prima Guerra Mondiale e sarebbe continuata, di disastro in disastro, per tutto il secolo scorso.

Le vite immaginarie sono un’opera con lo sguardo proiettato nel futuro, dal momento che ispireranno molta narrativa novecentesca europea e non; tuttavia le sue radici profonde affondano nella classicità. Nel titolo riecheggiano le Vite Parallele di Plutarco, sebbene si discostino da loro in modo radicale, come afferma Schwob nella sua prefazione all’opera:

… Il genio di Plutarco, in qualche brano, ha fatto di lui un artista; ma non riuscì a capire l’essenza della sua arte, perché immaginò dei “paralleli” – come se due uomini ben descritti in ogni dettaglio potessero assomigliarsi1

Allo stesso modo I mimi, una seconda importante opera meno celebre della prima, non si rivolgono alle figure chiave dell’antichità classica, ma a personaggi intermedi, ambivalenti, perlopiù inventati, che tuttavia potrebbero stare benissimo nel Pantheon maggiore. Con quest’opera, in cui il gusto del dettaglio e la pura invenzione s’inseguono in ogni riga, Schwob apre le porte a due diversi generi che sembrano lontani fra loro (e lo saranno nei loro sviluppi successivi), ma che lo scrittore francese è capace di tenere uniti nel suo piccolo e prezioso arabesco: il racconto fantastico e quello iperrealista.

La vita di Marcel Schwob, invece, sembra riflettere drammaticamente quella dei personaggi della sua opera maggiore. Chi è infatti lo scrittore? Un raffinato letterato che s’inventa narratore? Oppure il contrario e cioè il giornalista scrupoloso e quasi pedante del Mercure de France con l’hobby della letteratura? Il viaggiatore virtuale che forse avrebbe voluto essere, oppure l’uomo malato che decide di partire (su consiglio del suo medico!) per un viaggio diretto a Samoa dal quale tornerà deluso e senza avere raggiunto la meta che lo aveva spinto ad intraprenderlo: rendere un devoto omaggio alla tomba di Stevenson?

Marcel Schwob nasce in una famiglia rabbini e di medici il 25 agosto del 1867: la madre è una Cahun, la cui discendenza annovera, fra gli antenati, Caym de Sainte-Menehoul, che prese parte alla seconda Crociata. Il bambino Marcel cresce in un ambiente cosmopolita, contornato da governanti inglesi e precettori tedeschi. Di suo ci mette un talento straordinario e una volontà di apprendere che ne farà un erudito precocissimo e di rango assoluto; con la differenza, però, rispetto ad altri eruditi, di essere scrittore vero. Eccelle negli studi e si dedica alla traduzione; ma ciò che cambia la sua vita e inaugura la sua stagione più creativa è l’incontro con l’opera di Robert Luis Stevenson, ma anche questo in fondo fa parte delle sue stranezze perché il modo in cui Stevenson lo ha ispirato sfugge alla comprensione immediata.  Ci vorrà ancora qualche tempo, infatti, prima che tale incontro produca i suoi frutti. Nel mezzo, un’altra scelta bizzarra e sbagliata, come gli è capitato diverse volte nella vita: sceglie, in anticipo rispetto all’età, il servizio militare. Niente più della carriera militare poteva essere lontana da Schwob, a parte la sua ricerca di una vita avventurosa. Tormentato fin da bambino da una generica febbre cerebrale di natura sconosciuta per la medicina di allora, vive in un continuo stato di malattia, accentuato anche dagli aspetti ipocondriaci della sua personalità, che contribuiranno non poco ad accentuare la sua precaria salute, che lo porterà a una morte precoce.

La sua poetica può essere definita lapidariamente da questo concetto: la verità di una vita sta nel suo diventare immaginaria. A questo compito si dedicherà con scrupolo e pazienza da certosino, lavorando sempre sulle fonti storiche dei suoi personaggi e operando quei piccoli scarti che permettono di arrivare a una verità nascosta. Il tutto però, tratteggiato con estrema esattezza, con una scrittura limpida e trasparente, inseguendo quel tratto capace di rendere unico un ritratto: la sua ammirazione per Hokusai lo testimonia. Del grande pittore giapponese egli amava proprio la ricerca del segno perfetto, la nitidezza dei contorni che permette all’artista di arrivare:

al punto di rendere individuale ciò che c’è di più generale2..

Affermazione sorprendente, perché sembra procedere nella direzione opposta di quello che di solito viene attribuito all’arte: ricercare l’universalità. In realtà la contraddizione è solo apparente: ciò che si affaccia in questo libro è una visione divergente del rapporto fra individuo, società e tempo, rispetto al senso comune di allora. Con l’avvento della società di massa, che tende a ridurre l’individuo a semplice anello di una catena, la ricerca di ciò che rende unica una vita non si pone nel solco dell’esaltazione dell’individualismo narcisistico, ma come difesa della varietà.

Canone e anticanone

Qualcosa d’analogo accade anche ne I dialoghi con Leucò di Cesare Pavese, l’opera più enigmatica dello scrittore delle Langhe.

I personaggi di questi tre libri, distanti fra loro dal tempo che separa quasi due generazioni (Pavese nasce nel 1908, tre anni dopo la morte di Schwob), sono una piccola schiera minore (quantitativamente parlando), rispetto a quella degli scrittori più celebrati del ‘900.

Il canone del romanzo novecentesco ruota intorno alla crisi di quello ottocentesco, legato alla convenzione del narratore onnisciente, improntato al realismo e alla verosimiglianza, per dirla con Manzoni. Tale modello poteva contare su una sostanziale coincidenza di sentimenti e valori fra gli scrittori e il pubblico dei lettori, entrambi appartenenti alla borghesia urbana industriale o ai ceti intellettuali rurali. Quando tali valori comuni cominciano a scricchiolare sotto l’urto di fenomeni sociali dirompenti o di rivoluzioni nel campo scientifico e del pensiero (si pensi soltanto alla questione sociale, com’era definita allora, o all’irruzione prossima della psicanalisi), anche il romanzo ottocentesco entra in crisi.

Il primo pilastro a cadere sotto le critiche perplesse e poi irridenti di studiosi e narratori è la cosiddetta trama, o il plot. L’intreccio avventuroso cede il passo a un collage di frammenti, oppure si sgretola al proprio interno come accade nei romanzi di Henry James. Non mancavano, nei secoli precedenti, esempi di narrazioni frammentarie che hanno anticipato questi esiti (si pensi al Tom Jones di Fielding e ancora di più al Viaggio sentimentale di Lawrence Sterne); si trattava, però, di casi isolati, considerati quasi delle bizzarrie letterarie, che non davano corpo a una poetica consapevole. Saranno le avanguardie, con i loro Manifesti a fare ciò e con questo siamo già nel cuore della crisi e non più ai suoi prodromi.

Tornando un poco indietro, il secondo pilastro messo in discussione è lo statuto del personaggio-eroe, o eroina. Alle Anne Karenine e ai Jean Valjean subentrano figure più ambigue, fragili, fino alla irrisione: lo Zeno di Svevo, gli Andrea Sperelli, il Fu Mattia Pascal. Vi saranno in quegli anni di inizio ‘900 anche tentativi di sintesi fra tradizione e avanguardia, come testimonia il grande romanzo di Musil L’uomo senza qualità; oppure, come Deledda in Italia, si resterà nel solco del romanzo ottocentesco, seppure con poderosi innesti che venivano dalla cultura europea decadentista e simbolista. Infine la sperimentazione linguistica, l’uso spregiudicato della licenza poetica o narrativa, fino alla disarticolazione delle strutture sintattico grammaticali della lingua, come è nelle opere estreme di Joyce (Finnegans’ Wake), di Beckett e altri.

La narrativa di Schwob e quella di Pavese nei Dialoghi con Leucò, vanno in una direzione opposta a questa, che è senza dubbio la tendenza principale del secolo scorso. Prima di tutto i personaggi delle loro opere sono memorabili. La trama può sembrare assente, nel senso tradizionale del termine, ma se guardiano alla struttura profonda rispetto a quella apparente e superficiale, queste storie s’inseguono formando un mosaico di narrazioni che ricordano l’intreccio inestricabile della mitologica tela di Aracne. In secondo luogo i personaggi di questi romanzi o dialoghi nel caso di Pavese, non hanno nulla a che vedere con gli anti eroi novecenteschi, sebbene in modi fra loro diversi.

Per Schwob non si tratta di demistificare l’eroe e di ricondurlo alla comune piccolezza umana, oppure di irriderne le pretese, ma di considerare il lato eroico di ogni vita; specialmente di quelle più segnate dal vizio, oppure da una condizione di sofferenza. È così che la vita dell’anonima merlettaia di Parigi diventa decisiva come quella di Lucrezio o di Paolo Uccello; la penna dello scrittore tratteggia il loro destino necessario perché cerca nella loro esperienza ciò che li rende unici. Nel fare questo  Schwob allarga il campo di ciò che può essere considerato eroico. In fondo gli eroi antichi non sfuggono a un cliché che si ripete nei secoli con pochissime varianti: è la guerra che garantisce il loro statuto – se sono maschi – e il premio è la gloria. Se sono femmine è l’amore con le sue vicissitudini al centro, oppure con Cassandra e Ipazia, la saggezza mai riconosciuta. L’eroismo dei personaggi di Schwob abbraccia un’esperienza più vasta, coincide con la nuda vita, cui tutti sono esposti. Perciò la storia di Lucrezio che conosce l’amore e la morte in una sola sequenza temporale, che sembra scandita secondo i ritmi delle unità aristoteliche o di un karma, ci commuove come quella sconclusionata di Erostrato, o quella dello stuolo di pirati e assassini protagonisti della parte finale del libro, quella che più risente dell’influenza di Stevenson.

Il mito secondo Pavese

Pavese, d’altro canto, cerca, nelle pieghe del mito, le risposte al mistero della vita. Si pone la domanda che non ha mai fatto nessuno; oppure al contrario, l’interrogativo più ovvio che nessuno indagava più da tempo. È così, per esempio, nel caso di Orfeo. Pavese rifiuta il racconto in sé della vicenda e si chiede perentoriamente perché mai si sia voltato. È lo stesso interrogativo che aveva ossessionato Rilke, in tempi non troppo lontani da quelli in cui fu scritta l’opera pavesiana. Nel dialogo con Bacca, Orfeo racconta la sua versione dei fatti e scompagina le risposte precedenti; rivela tutta l’illusione che vi è nella pretesa di vincere il tempo e la morte e quando Bacca lo rimprovera dicendogli:

Chi non vorrebbe il passato? Euridice era quasi rinata, Orfeo gli risponde:

Per poi morire un’altra volta, Bacca. Per portarsi nel sangue l’orrore dell’Ade e tremare con me giorno e notte. Tu non sai cos’è il nulla. 3

Lo stile scelto è quello di una drammatizzazione essenziale e scarna, dominata fin dall’inizio da una perentorietà che ci fa presagire l’esito tragico:

È andata così. Salivamo il sentiero tra il bosco delle ombre4..

Bacca però insiste, ha le sue ragioni, l’antica fede che la discesa nell’Ade sia il passaggio necessario per una ricompensa ctonia è presente e viva in lui:

Ci fu un tempo che la festa ci rendeva immortali.

La risposta del moderno Orfeo ci fa rivivere tutta la tragicità della scena primaria:

o scenda una volta nel suo inferno. L’orgia del mio destino è finita nell’Ade, finita cantando secondo i miei modi la vita e la morte”5.. E voi godetevela la festa. Tutto è lecito a chi non sa ancora.

Nel dialogo con Bacca, l’Orfeo che parla è troppo moderno per essere vero e in buona sostanza ribadisce la necessità del suo gesto, che avrebbe impedito a Euridice di morire due volte. In Pavese, il tentativo di conciliare la modernità con il mito porteranno lo scrittore sempre più lontano dal mito inteso come rito epifanico collettivo – tenetevela voi la festa risponde Orfeo a Bacca –  per approdare all’interiorizzazione del mito da parte del poeta, che diventa così il solo depositario – nella modernità – di quello che un tempo era un sapere collettivo diffuso. La festa di cui parla Bacca nel dialogo allude a questo. Pavese invece si rifà al mito in senso ontologico, ma traduce l’impossibilità di una esperienza comunitaria nella modernità, nella ricerca interiore del proprio rapporto con il mito e con la natura, ma separato da tutto e da tutti.

Nel saggio su Pavese, Furio Jesi ingaggia con l’opera dello scrittore delle Langhe un corpo a corpo proprio intorno a tale tematica ma parte anche dal modo in cui Pavese concepisce la natura:

Pavese credeva nel valore dei miti come sistema di rapporti esistenti in natura … Pavese ha operato come se esistesse in natura un sistema oggettivo di rapporti fra immagini mitologiche che – e si vuole come diceva Hesse “interpretare la natura!” – bisogna rispettare.

Jesi rifiuta tale concetto e rimprovera a Pavese di leggere nella natura la presenza:

di un linguaggio mitologico immanente e oggettivo.6

Jesi vede nell’opera pavesiana un parallelismo fra il suo modo di concepire la natura e il funzionamento della macchina mitologica: il linguaggio immanente e oggettivo che Jesi attribuisce a Pavese equivale a ritenere che al centro della macchina mitologica si troverebbe il mito in senso ontologico. Jesi nega entrambe le cose: la natura è una sfinge leopardiana e al centro della macchina mitologica c’è un vuoto.

Il maestro e gli allievi

Schwob diventerà il maestro di una resistenza alla corrente principale del ‘900. Non mi riferisco alla stima di cui era circondato nel suo tempo, ma all’influenza che ha esercitato su molti altri venuti dopo di lui. Valga per tutti la testimonianza limpida e inequivocabile di Jorge Luis Borges:

Senza di lui la mia narrativa non esisterebbe.

Perfino un autore lontano dalle atmosfere francesi respirate da Schwob, come lo svedese Per Olav Enquist, nel suo recente romanzo Blanche e Marie, gli deve molto.

Non mi pare un caso che Schwob sia stato un maestro per molti anche fuori dall’Europa. Del mito inteso come narrazione fantastica o immaginaria come preferirebbe dire Schwob non si può fare a meno, ogni epoca produce le proprie narrazioni mitologiche e questo avviene anche nella modernità. Schwob nelle sue opere salvaguarda questo bene prezioso in un tempo che sembra non volerne più sapere, ma non cade nel tranello di recuperare il mito in senso ontologico. Il suo aspetto moderno, nonostante la sua sostanziale anti modernità, sta proprio nel riprendere i miti come puro oggetto di narrazione. In sostanza, per dirla con Furio Jesi, al centro di Schwob non c’è il Mito ma la macchina mitologica che continua a produrre le sue narrazioni. È quello che accade, infine, nell’opera forse più immaginaria della narrativa europea contemporanea: Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar. Belga, ma culturalmente francese e aristocratica come Schwob, nelle pagine del suo romanzo si respira la medesima aria, ci si sente a casa e al tempo stesso proiettati in un tempo e in luogo lontani eppure così attuali.

C’era un’altra strada possibile da percorrere, oltre a quella intrapresa da Schwob? C’era e c’è e la indica ancora una volta Jesi: la ricerca, nella modernità, di riti collettivi e festivi, che pur di carattere laico, conservano il senso di una ritualità collettiva. Nel finale del suo saggio Jesi si riferisce prima di tutto al movimento operaio, anche se si limita a poche pagine, ma possiamo già estendere ad altre manifestazioni la stessa caratteristica: dalle cerimonie collettive di commemorazione dei morti per aids, ai balli di massa dei movimenti femministi. Tale propensione, del tutto estranea a Schwob, avrebbe potuto forse riguardare Pavese se oltre al suo mondo contadino avesse guadato al movimento operaio come soggetto storico. Perché Pavese non lo fece nonostante la sua adesione al Partito Comunista? Il problema è che in Pavese non bisogna cercare una consapevolezza etnografica e antropologica che lo scrittore in definitiva non aveva. Il suo modo di sentirsi legato ai riti contadini della sua terra è in realtà assai semplice e anche ingenuo: è un attaccamento viscerale che ha più a che fare con il folklore e che convive però con un culto dell’americanismo altrettanto ingenuo. Pavese, a mio avviso, riuscirà a superare tali aspetti contraddittori solo in poche opere, una specialmente ne I mari del sud, dove la cifra epica del testo appare del tutto nuova.

Marcel Schwob

1 Marcel Schwob, Vite immaginare, Prefazione  di Cristiana Lardo, Adelphi, pag. 9.

2 Ivi, p.14

3 Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, introduzione di Sergio Givone, Einaudi, Torino 1999, p.78.

4 Ivi, p. 77

5 Ivi, p.79

6 122-23.


L’ANIMALE PERTURBANTE: UNA RIFLESSIONE SU TRA UOMINI E LUPI DI VINCENZO PARDINI.

Questo riflessione critica fu pubblicata anni fa sulla rivista Il Cavallo di Cavalcanti quando il libro era da poco uscito. Vicenzo Pardini continua a essere per me un autore importante nella narrativa italiana contemporanea.

Amare gli animali può fare soffrire. Persiste in loro quanto noi abbiamo perduto di sacro. Tanto più allorché si tratta di animali che ci sono alleati e che, insieme a noi, [1]hanno contribuito alla storia dell’umanità1.

È un mulo il protagonista di questo racconto, l’ultimo di un libro affascinante, con il quale Vincenzo Pardini si conferma autore forte e appartato, come appartati e forti sono i luoghi nei quali ambienta le sue opere: l’Appennino toscano dall’Abetone alla Garfagnana, una zona d’Italia che non fa notizia in senso mediatico.

I protagonisti sono pastori d’altura, greggi, cani di varia natura, lupi, contadini che sembrano venire da un tempo arcaico anche se possiedono il cellulare e sono pienamente immersi nel nostro presente, donne inquiete, ubriachi da vecchia osteria e balordi come il Nandaccio (protagonista del racconto omonimo), insieme a qualche extracomunitario dell’ultima ora.

Su tutto questo però dominano gli animali, sempre presenti anche quando non sono in primo piano.

In questo mondo di fatica e forti emozioni, Pardini mette in scena quello che definirei un teatro dell’analogia. I protagonisti che si muovono su questo ideale palcoscenico sono alcune specie viventi, fra cui quella umana, ma i racconti di Pardini non si ricollegano alle tradizioni illustri dei bestiari in narrativa o nella cinematografia: Esopo e La Fontaine sono lontani, e ancora di più lo è Walt Disney.

Gli animali di Pardini, infatti, non sono antropomorfi, non rappresentano per mimetismo i vizi umani, né vengono presi a prestito per intenti moraleggianti. In che cosa consiste allora la differenza e il fascino di questi racconti? Prima di tutto nel fatto che lo scrittore toscano sa cogliere come pochi la traccia animale, a volte inquietante a volte imbarazzante, a volte commovente, che ci fa, in alcuni momenti e per alcuni tratti, simili a loro. Il gioco messo in scena è dunque quello della somiglianza e del rispecchiamento, che tuttavia rimane parziale: loro non sono noi e noi non siamo loro, perché questi animali solo in alcuni casi sono davvero e completamente domestici. Tuttavia, appartenendo a un’unica natura, a volte accade che ci si sfiori e quando ciò avviene e riguarda un animale come il mulo, così fratello nella fatica che accompagna dal millenni l’agricoltore e la sua terra, ecco che sembra quasi di potersi scambiare i ruoli, di sentire fino in fondo la sofferenza dell’altro come nostra e di potere immaginare che accada la stessa cosa anche a lui. Oppure succede che ci si capisca o ci si scontri su questioni di vita quotidiana. È ciò che succede anche con il cane Lotar, in Ritratto di cane.

L’animale viene rimproverato dal padrone perché, pur essendo adulto, si comporta in modo strano: trancia il nailon che ricopre delle travi in cantina, oppure le funi. L’uomo attribuisce il comportamento alla solitudine, dal momento che la sua compagna Lusca è morta di vecchiaia da poco tempo. Solo dopo qualche giorno l’uomo si rende conto che i suoi gesti sono dovuti ad altro. In cantina, infatti, si sente un olezzo molto forte, proprio dietro le travi su cui Lotar richiamava l’attenzione proprio lacerando i rivestimenti che le ricoprono. Dopo una breve indagine salta  fuori la carogna di una gatta che era scomparsa da qualche tempo e che era andata proprio lì a nascondersi per morire.

Era andata a morire nella stanza di Lotar, a farsi vegliare e assistere da lui. Che adesso, venutomi accanto, m’interrogava e mi rimproverava con gli occhi: uno sguardo fermo e vivido che mi fissava incessante. Chi di noi – chiedeva – aveva ragione? Lo accarezzai, ma non scodinzolò. Aveva parlato e non voleva aggiungere spiegazioni. I veri duri non sono molto loquaci2.

In altri casi l’animale riacquista in pieno la sua valenza misteriosa e magica che aveva per gli antichi, incarnando il presagio di un destino di cui diviene messaggero. È così per Il ghigno della lupa.

Fin dall’inizio aleggia su questa storia un fato che incatena i personaggi, a cominciare da Ginesia, la figlia bellissima e inquieta di Ovidio Calmassi e della moglie Almira. La ragazza subisce tutti i richiami e le contraddizioni di una generazione di cui anche lei fa parte, nonostante l’isolamento delle montagne in cui vive; fa la pettinatrice in una cittadina della vallata, dove spesso pernotta presso Graziana, la quale a sua volta è pesantemente corteggiata da Alì, un marocchino che vende prodotti nella zona. I genitori di Ginesia, d’altro canto, soffrono delle stesse incertezze e sensi di colpa di quelli che abitano la grande città. Temono di non averla saputa educare, s’interrogano, ma lo fanno con amore, senza pregiudizio, capaci di accettare la vita raminga e assai trasgressiva di Ginesia che condivide con Graziana un rapporto che sconfina dalla semplice amicizia, per quanto intensa.

La vita della famiglia di pastori è stata difficile negli ultimi tempi, a causa delle continue aggressioni da parte dei lupi: i cani hanno il loro daffare a custodire le pecore e talvolta ne escono malconci. Un giorno si sono tutti allontanati, hanno fiutato il branco e così Ovidio li va a cercare. S’imbatte poco dopo nei lupi che hanno già fatto qualche preda e in particolare in una lupa con tre cuccioli, che non si accorge di lui finché non suona il cellulare dell’uomo: è la moglie Almira che lo avvisa che Ginesia è venuta a trovarli e che i cani sono tornati. Allo squillo, la lupa s’accorge dell’uomo e ghigna verso di lui in modo sinistro, senza tuttavia fare altro.

Ovidio ritorna e sollecitato dalla continue domande delle due donne racconta la sua avventura, nonostante non gli andasse di parlarne perché

L’incontro coi selvatici l’aveva lasciato di malumore 3.

Il racconto, sempre più incalzante, suscita un interesse crescente in Ginesia:

Quanti erano?” incalzò Ginesia.

Una lupa e tre cuccioli, disse sedendosi davanti il televisore.

E i cuccioli com’erano? chiese compiaciuta.

Erano animaletti di tre, quattro mesi non diversi dai piccoli di cane, spiegò lui.

Mi sarebbe piaciuto vederli, aggiunse, con tono fintamente turbato, la ragazza.

Gli si era seduta davanti. Indossava l’accappatoio, aveva le gambe nude e i capelli neri splendenti come la madre … Sembrava una pellerossa, con un che di misterioso e selvaggio, come quando sorrideva e mostrava i denti bianchi, tra labbra carnose e mascelle un poco pesanti … Chissà perché ebbe la sensazione che, fra lei e la lupa del Circasso, ci fosse qualche analogia4.

L’analogia si presenta a Ovidio come un lampo improvviso, il selvaggio ricompare inquietante in ciò che è umano e vicinissimo, una figlia addirittura: non la lupa di Verga, ma piuttosto il Perturbante, che era già comparso, tuttavia, nello sguardo ambiguo del padre sulla figlia.

La vita sembra proseguire normalmente finché una sera, mentre Ovidio è seduto davanti al televisore, sul quale scorrono le immagini dell’Italia di oggi, la moglie è in cucina e Ginesia e Graziana se ne stanno in camera loro, l’ululato della lupa fa trasalire l’uomo un’altra volta; fuori però non vi è nulla ma la casa è come circondata dagli animali. Infatti, al risveglio avvertono un tramestio e trovano Graziana e Ginesia con un cucciolo di lupo trovato al bordo della strada, ferito. Le due donne decidono di tenerlo, nonostante la legge imponga di denunciarlo alla forestale, non intendono ragione. Ginesia reagisce con violenza alle rimostranze del padre, minacciandolo in modo molto grave:

In polizia ho un’amica molto intima. Se tu fai scappare il cucciolo, ti denuncio. Dico che hai abusato di me. Le donne, come saprai, in questo sono credute. Hai capito? 5

La frase della ragazza è del tutto sproporzionata, oppure apre uno scenario nuovo ambiguo, inquietante. Il padre Ovidio reagisce con disperazione all’accusa infamante ma non sa cosa fare; la sua debolezza di reazione, tuttavia, non sembra quella di un imbelle, ma piuttosto la resa a un destino immutabile, tragico nel senso greco del termine.

La vita sembra proseguire come sempre, con il suo tran tran quotidiano, ma la catena che stringe tutti i personaggi in un ingranaggio implacabile continua a muovere il suo ingranaggio: il corteggiamento sempre più insistente di Alì nei confronti di Graziana, l’attenzione che le due donne e in particolare Ginesia rivolgono al cucciolo di lupo, la presenza della lupa che ogni giorno viene a reclamare il suo cucciolo senza mai assumere però atteggiamenti aggressivi nei confronti di Ginesia, come se fra le due femmine si fosse instaurata una sorta di complicità sottile che esclude però tutti gli altri. L’improvvisa scomparsa di Graziana accelera fino al tragico epilogo il ritmo incalzante della vicenda, che si chiude con la liberazione del cucciolo e l’ennesimo ghigno della lupa, una specie di coro greco in forma animale che commenta i fatti accaduti senza alcun giudizio.

In Costagrande i protagonisti sono un gruppo di uomini e donne di paese, lo scenario d’apertura è un giorno di festa e di chiacchiere al bar. Gli animali entrano presto in scena sia nella conversazione degli uomini (un gallo da combattimento ferito), sia concretamente quando dalla strada arriva un mulo montato da Casimirro, che si trascina dietro un becco e cioè un caprone da monta di nome Costagrande, che segue e si trascina per la strada, abbacchiato come se fosse un prigioniero. Da un’osservazione ironica all’altra il discorso scivola sulle somiglianze fra esseri umani e animale. Al becco di Casimirro, oltre che possedere un istinto sessuale molto forte, piace lottare con gli uomini e li sfida. Un giorno il protagonista e narratore in prima persona del racconto, si batte con lui e lo atterra attirandosi la simpatia degli amici da bar con i quali va poi a brindare, scherzando insieme agli altri sulla somiglianza fra lui stesso e il caprone. L’uomo, però, si rende anche conto che l’odore forte dell’animale gli è rimasto addosso, anche sui vestiti. Cerca di lavarli in continuazione finché sembra essere scomparso, anche se:

L’odore scomparve in apparenza insinuandosi nel sottocute. Non sapevo più di pesce crudo e vivo, appena sventrato, bensì di sesso giovane e umido 6.

La vita dell’uomo e quella del caprone proseguono parallelamente: Costangrande, nonostante fosse stato portato alla monta delle capre in estro, è sempre più insofferente alle regole, cerca di scappare dai recinti per andarsene nel bosco e inseguirne altre, tanto che spesso il suo padrone o altri paesani devono intervenire per contenerlo e non suscitare l’ira di altri proprietari. Capita di nuovo anche a lui di doverlo fare, uscendone questa volta sconfitto e atterrato dall’animale; e a ogni nuova lotta di nuovo l’odore gli si attaccava addosso.

Una sera in cui s’incontra con una giovane ragazza che da tempo corteggia inutilmente, l’uomo si rende conto che qualcosa sta improvvisamente cambiando e che l’attrazione che da tempo prova per lei sta per essere ricambiata. S’allontanano in auto e fanno l’amore sul greto del fiume in modo selvaggio e a cose fatte lei si rivolge all’uomo con queste parole:

Quanto sei fico. E che buon odore ha la tua pelle!7

L’uomo trasale perché comprende che l’odore non può che essere quello del becco, ma non se ne sente turbato più di tanto. I loro incontri proseguono anche se la donna sta per sposarsi con un altro, ma ciò che accade a loro due non è altro che il prodromo a una serie di altri corteggiamenti amorosi. In una girandola quasi shakespeariana che ricorda i giochi e gli equivoci divertenti e imbarazzanti del Sogno di una notte di mezza restate, la girandola di walzer amorosi coinvolge molti altri in paese:

Fu un’estate insolita. In fatto di sesso, esseri  umani e capre sembravano contagiarsi a vicenda8.

La girandola di relazioni clandestine crea risse tragicomiche, addirittura il ricorso ai carabinieri. Quanto al becco, aveva ripreso le sue scorrerie nei boschi, lottando con gli altri maschi per inseguire le capre selvatiche, dandosi sempre più alla macchia fino alla scomparsa. Casimirro e altri uomini, fra cui il protagonista-narratore decidono, fucile in spalla e insieme ai cani, di andarlo a cercare. Guardinghi per non farsi trovare armati dalla guardie forestali, ingannavano il tempo con il racconto di eventi trascorsi: primo fra tutti il ricordo del colera del 1854, che aveva funestato quelle terre, fino al lucchese. Finalmente scorgono il becco in lontananza, il muso fra due rocce; decidono che non è il caso di abbatterlo, né di cercare di raggiungerlo. Con l’inverno di lui si perdono le tracce, Casimirro pensa che con le prime nevi se ne tornerà all’ovile e invece non accade e tutti lo danno per morto. Invece l’animale si fa vedere sempre in lontananza, irraggiungibile; ritorna persino all’ovile ma non vi entra, con il suo belato particolare che assomiglia a un flauto, attira le capre che gli vanno incontro e fugge di nuovo nella macchia. Tutto il paese ne parla e sul caprone cominciano a fiorire le leggende, nutrite anche dai racconti di qualcuno che sa leggere i classici antichi e ricorda che i caproni possono essere la reincarnazione di un dio pagano … Passa un’altra estate e i pastori che tengono i greggi solo in altura si rendono conto che le loro capre danno alla luce cuccioli ben più resistenti, che assomigliano a Costagrande. Il povero Casimirro, che aveva comperato l’animale per migliorare la sua razza di capre, scopre così di avere lavorato per il re di Prussia; è il becco a guidare il gioco misterioso e a prendersi gioco degli uomini e al tempo stesso attirandoli a sé come fa con le capre. Finché un giorno d’estate il narratore s’imbatte improvvisamente in lui che se ne sta tranquillamente pascolando. Lo chiama e il caprone lo guarda e si lascia avvicinare; è ormai abbastanza vecchio e dal belato che cerca di emettere l’uomo si rende conto che anche per lui il tempo sta passando. Tuttavia si muove e l’uomo decide di seguirlo:

Zoppicando si volse e, con la leggerezza di un’ombra, s’inerpicò nell’erta di sassi e sterpi. Lo tallonai fino alla cima, ossia al valico del più impraticabile degli scoscendimenti rupestri che mi sia mai capitato di vedere. Un precipizio. Lo discese candeggiando fra rocce avvolte d’azzurro. Tornai indietro spaventato. M’era parso d’avere attraversato il confine di un sogno 9.

Lupi tibetani

[1]


1              Vincenzo Pardini, Tra uomini e lupi, peQuod, Ancona 2005, pag.174.

2              Op. cit. pag.131.

3              Op. cit. pag. 54.

4              Op. cit. pag. 54.

5              Op. cit. pag. 61.

6              Op. cit. pag.156.

7              Op. cit. pag.159

8              Op cit. pag. 160.

9              Op. cit. Pag. 169.

INTERVISTA A VINCENZO CONSOLO

A cura di Franco Romanò

Premessa

Questa intervista fu pubblicata sulla rivista Il Cavallo di Cavalcanti nel 2008: ad essa seguirono altri incontro pubblici cui partecipò lo stesso Consolo allo Spazio Coop di via Arona. La ripropongo oggi nel blog per la sua ricchezza e attualità, con due precisazioni. Nella mia introduzione di allora notavo che molti dei suoi libri erano introvabili: per fortuna oggi la situazione è cambiata e questa è una buona notizia. La seconda precisazione. Nella parte finale, pur senza citarlo Consolo mette in evidenza i cambiamenti negativi indotti dal governo Berlusconi. Nel contesto di allora la sua frase era chiarissima, oggi è forse bene ricordarlo in modo esplicito.

——-

Mi accingo a incontrare Vincenzo Consolo con due pensieri in testa: prima di tutto che i suoi libri sono quasi introvabili, a parte quello d’esordio – La ferita dell’aprile – ristampato di recente da Mondatori. Per fortuna li avevo quasi tutti, e per qualcuno sono ricorso ad amici, ma mi sembra un cattivo segno dei tempi che si faccia fatica a trovare in libreria un autore che ha dato così tanto alla narrativa italiana. Il secondo pensiero riguarda la lingua. Nel prepararmi a intervistarlo mi sono ricordato di un saggio che T.S.Eliot dedicò in anni lontani alla poesia di Marianne Moore: in esso il grande poeta anglo statunitense afferma, fra l’altro (ricordo a memoria), che un poeta va prima di tutto valutato rispetto a quello che ha dato alla lingua d’appartenenza. Penso che questo sia estendibile anche ai narratori e nel caso di Vincenzo Consolo il giudizio di Eliot è quanto mai calzante e di bruciante attualità. Il poeta, infatti, avvertiva già in quegli anni lontani, che l’inglese correva il pericolo di un impoverimento dovuto alla sua estensione planetaria come lingua veicolare, sottoposta quindi a un processo di semplificazione e di impoverimento. Per ragioni diverse anche le altre lingue – e quella italiana in particolare – sono oggi minacciate (sebbene da altri e ben più distruttivi fattori) e questo sarà proprio uno dei temi dell’intervista.

Lo scrittore mi riceve nella sua bella casa milanese; l’ampio salone è pieno di libri e al tempo stesso molto luminoso, due caratteristiche che non sempre vanno a braccetto quando si entra nello studio di un artista della parola; chissà che la solarità della sua terra non abbia a che fare con questo! Entriamo subito in argomento e gli ricordo una frase contenuta in Fuga dall’Etna:

Franco Romanò:

Vorrei partire da questa sua affermazione: “Mi sono sempre sforzato, di sfuggire, nella vita, nell’opera, ai miti. La letteratura per me, ripeto ancora, è il romanzo storico-metaforico. E poiché la storia è ideologia, come insegna il Carr, credo nel romanzo storico ideologico,… cioè nel romanzo critico.” È una dichiarazione del ’93: ha qualcosa da aggiungere, o da modificare, a tale affermazione?

Vincenzo Consolo:

No, sono convinto di questa mia idea del romanzo storico metaforico, critico e nel momento stesso anche ideologico. Quanto alla parola romanzo, però, credo che oggi questo genere letterario non si possa più praticare; io parlo di narrazione piuttosto. Credo che il romanzo d’intreccio, oggi, non sia più possibile perché una volta l’autore aveva presente qual era il suo interlocutore. Si facevano persino delle indagini e si chiedeva agli scrittori a quale tipo di lettore pensavano. Una volta Calvino rispose alla domanda dicendo che pensava a un lettore che la sapesse più lunga di lui ed era assai difficile saperla più lunga di Calvino! Comunque c’era un lettore cui lo scrittore poteva pensare. Oggi in questa nostra società non è possibile pensare a un lettore e allora occorre spostarsi verso la narrazione…

FR:

E come si potrebbe definire la narrazione?

VC:

La narrazione scaturisce da qualcuno che ha fatto un’esperienza, ritorna e la racconta, come ha scritto Walter Benjamin in Angelus Novus. Il fatto di raccontare, di narrare, lo porta a un ritmo che sposta la prosa verso la forma poetica. È quello che ho cercato di fare nei miei libri, dove non c’è mai l’arresto, la riflessione, l’irruzione di quello che si chiama spirito socratico e cioè la filosofia, come era nella tragedia moderna di Euripide. Oggi questo non è possibile perché l’autore non sa più a chi rivolgersi. Io dico sempre che la cavea è vuota. Sulla scena non arriva più l’anghelos, il messaggero, che raccontava al pubblico presente ciò che era successo in un altro luogo e in un altro tempo. Così aveva inizio la tragedia. L’anghelos per me è lo scrittore che non può più apparire sulla scena e la narrazione è relegata al coro, che commenta e lamenta ciò che è avvenuto. Sono quindi per la narrazione e non più per il romanzo, tutti i miei libri di narrativa sono contrassegnati da questa prosa ritmica, a volte con il ricorso spesso alla rima e all’assonanza; questo è stato notato da diversi critici.

FR:

Andare verso la prosa lirica e la narrazione non è forse andare anche verso l’oralità, verso un senso arcaico della narrazione?

VC:

Sì, è anche tipico del mondo mediterraneo. Ce lo hanno insegnato gli aedi, Omero o chi è stato identificato come tale. Fra l’altro gli aedi erano ciechi perché avevano lo sguardo interno. Òmeros, in greco antico, significa ostaggio e ci si domanda ostaggio di chi? Io credo ostaggio della memoria, perché c’era la tradizione del racconto orale. In questo nostro tempo la memoria è minacciata dai mezzi di comunicazione di massa, dal potere economico e politico. L’interesse di questi poteri è di farci vivere in un infinito presente, per cui non sappiamo più da dove veniamo e non riusciamo a immaginare dove vogliamo andare. Quindi io credo che oggi più che mai il poeta, lo scrittore debbano conservare la memoria per cercare di salvarla. Sembra uno sguardo all’indietro ma credo che sia necessario essere ostaggi della memoria e perciò pratico il romanzo storico metaforico. Ho immaginato la trilogia a partire dal 1860 fino ai giorni nostri, ma la metafora era sul tempo storico che stavamo vivendo.

FR:

Quest’idea di romanzo si è affermata subito in lei o si è modificata nel tempo? Nel romanzo d’esordio La ferita dell’aprile, prevale ancora una narrazione più realistica. Gli stessi eventi storici entrano nel libro in modo diverso da come accadrà per esempio nel romanzo successivo Il sorriso dell’ignoto marinaio, che ha pure una forte carattere visionario.

VC:

Sì la visionarietà è una forma di fantasia…

FR:

Qualcuno ha parlato anche di incrocio fra memoria e profezia.

VC:

Sì. Per quanto riguarda il romanzo d’esordio, naturalmente era un libro di ricordi, il tono era ironico e talvolta sarcastico, era una ribellione ai padri e a tutto ciò in cui loro avevano mancato; ma dal primo, uscito nel ’63, al secondo sono passati tredici anni. Il mio silenzio era dovuto al fatto che stavo riflettendo su quella prima esperienza di restituzione dei ricordi personali e anche su quello che sarebbe stato il mio futuro letterario. A cavallo degli anni ’60 Pasolini ci disse cos’era successo in Italia, io avevo studiato molto e quindi ho intrapreso la strada del romanzo storico metaforico dopo la restituzione dei miei ricordi di adolescenza.

FR:

Lei è uno scrittore che ha dato molto alla lingua italiana. Cosa ci può dire su questo, specialmente sulla mescolanza fra l’italiano e i dialetti; cosa questa che mi è sempre apparsa molto interessante.

VC:

Sì, le dicevo che in quegli anni di silenzio avevo riflettuto molto sul momento storico che stavamo vivendo e anche sulla trasformazione della società italiana, quella che Pasolini chiamava la mutazione antropologica, che era anche e soprattutto una mutazione linguistica. La lingua italiana stava diventando orizzontale e anch’io ho sentito l’assillo che hanno tutti gli scrittori da Dante in poi… È sempre l’assillo delle lingua. Anch’io mi sono domandato in quale lingua scrivevo e ritornando in Sicilia con la mia memoria ho capito che lì – un po’ in tutta Italia, ma in Sicilia soprattutto perché c’è stata una stratificazione di civilizzazioni (io non le chiamo dominazioni) – c’erano dei giacimenti linguistici importanti. Ho pensato che andasse recuperata anche la memoria linguistica e quindi anche dei vocaboli che esistono nel dialetto siciliano, ma senza scadere nella regressione dialettale, secondo l’esempio che ci avevano dato il plurilinguismo gaddiano, oppure il romanesco pasoliniano. Io ho pensato che andassero recuperati vocaboli provenienti dall’arabo, dal greco dallo spagnolo e di italianizzarli, farli emergere ma innestandoli sempre nella lingua centrale. Oltre che della mia memoria linguistica mi sono servito dei vocabolari siciliani dei termini arabi nel dialetto siciliano. C’è per esempio un dizionario prezioso di padre Gabriele da Aleppo, sulle parole arabe presenti nel dialetto siciliano. Proprio per un’esigenza di memoria e anche di memoria linguistica, dal momento che questa nostra lingua, a causa della mutazione antropologica, stava perdendo purtroppo quella che Leopardi chiamava l’infinito che aveva in sé. Ecco io credo che sia un dovere dello scrittore, del poeta di recuperare anche la memoria linguistica.

FR:

Infatti leggere un romanzo come Retablo, per esempio, è anche un po’ immergersi in una storia della lingua. Sempre a questo proposito cosa ne pensa dei manifesti in difesa della lingua che periodicamente sono stilati?

VC:

Il manifesto serve come allarme, ma è un po’ una lotta con i mulini a vento. Questa nostra lingua è stata distrutta dai mass media; inoltre l’italiano, diversamente dal francese o dallo spagnolo che hanno dei bacini di parlanti molto vasti, è parlato solo in questa nostra stretta penisola. Siamo invasi continuamente dall’americanismo. Credo che lo scrittore abbia il dovere, al di là dei manifesti, di difendere questa nostra memoria linguistica e sapere cosa ci sta dietro. Una cosa che cerco di fare è anche operare una scrittura palinsestica – così la chiamo – e cioè una scrittura su altre scritture. Nella mia scrittura ci sono sempre citazioni e recuperi di altri scrittori o poeti, a volte più esplicite a volte meno.

Mi ricordo, a questo proposito, la polemica fra Leopardi e Niccolò Tommaseo – che non amava Leopardi – e definì la sua poesia un palinsesto mal cancellato. Il povero Leopardi si offese terribilmente e scrisse un saggio contro Tommaseo; ma la scrittura deve essere palinsestisca!

FR:

Rimanendo alla lingua, anche per lei si può parlare di plurilinguismo…

VC:

Sì qualcuno ha parlato, nel mio caso, anche di plurivocità, nel senso che riporto nella narrazione anche altre lingue. In Sicilia, per esempio, ci sono sette isole linguistiche. Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio ne riporto una che ancora esiste: il gallo italico o medio latino. Si tratta di una lingua che hanno portato i Normanni con le truppe mercenarie raccolte nella pianura padana: finita la riconquista, come accade agli immigrati, si sono chiusi nella loro comunità e hanno conservato la lingua. Ne parla anche Vittorini in Conversazione in Sicilia, precisamente del gran lumbardo che parlava con la ü francese. Nel finale del libro (Il sorriso dell’ignoto marinaio, ndr.) quando riporto le scritte sul muro dei carcerati, quelli sono esempi nella lingua gallo italica.

FR:
Un programma linguistico più dantesco che manzoniano…

VC:

Certo, certo. Dante parla delle due lingue: quella di primo grado che impariamo in casa e la seconda che lui definisce grammaticale. Lui dice però con un bel ossimoro che la più nobile è la lingua volgare, che era nata in Sicilia.

FR:

Retablo Mi porta a un’altra considerazione. In alcuni momenti mi ha ricordato Fiori blu di Queneau, con una differenza fondamentale però: la qualità pittorica del testo, assente invece in Queneau. Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio, i protagonisti sono tanti, ma anche in quel caso si parte da Antonello da Messina e dal suo quadro. Ecco, cosa rappresenta per lei la pittura?

VC:

Per me è un’esigenza di equilibrio fra svolgimento nel tempo e lo spazio. Per me la parola, come la musica, si svolge nel tempo, quindi ho bisogno di riferimenti iconografici e pittorici per equilibrare il tempo e lo spazio. Per me l’ispirazione della pittura è costante: a volte esplicita come è nei due romanzi che lei ha ricordato, a volte nascosta. C’è Guttuso e finanche pittori moderni come Ruggero Savinio, il figlio di Alberto. In Nottetempo, casa per casa, c’è tutto un brano in cui io leggo la pittura di Savinio in forma lirica. Sono delle figure che emergono dalle profondità delle spazio, come affreschi appena dissepolti. Mi interessano finanche pittori contemporanei; per esempio, uno che mi ha ispirato un’immagine è Mario Merz. Una volta vidi un quadro proprio in casa editrice Einaudi di cui ero collaboratore: in un suo quadro veniva raffigurata una lumaca che disegnava un tracciato che era una spirale e da lì sono partito.”Vidi una volta una lumaca…”

FR:

Milano e Palermo, Sicilia e Lombardia. C’è una continua tensione fra queste polarità e la sensazione che siano come due patrie dalle quali però lei si sente sempre anche un po’ esule.

VC:

Sì è proprio così, anzi più che esiliato mi sento estraneo negli anni. Ho fatto i miei studi a Milano e poi sono tornato in Sicilia perché avevo già concepito l’idea di diventare scrittore, dopo aver fatto il servizio militare. Avevo una laurea in legge, ma mi sono rifiutato di fare l’avvocato e ho insegnato diritto ed educazione civica nelle scuole agrarie. Ho insegnato per cinque anni e poi, riflettendo, ho pensato che quei ragazzi che si sarebbero diplomati in agraria sarebbero stati costretti a emigrare come i loro padri. Le racconto un episodio che non posso più dimenticare. Insegnavo nei monti Nebrodi, a Mistretta e Caronìa, che era poi l’antica Calacte… Mi colpì a Caronìa il numero di suicidi di donne che si era verificato in questo piccolo paese. Erano donne il cui marito era emigrato: la solitudine, lo sconforto le aveva portate a quel gesto. Riflettendo sulla loro vicenda anche la scuola mi sembrò una finzione. Consigliai molti di andare nelle scuole alberghiere, dove almeno avevano uno sbocco e non erano costretti a emigrare; alcuni l’hanno fatto. Poi però dopo cinque anni sono stato io a fare le valigie e a emigrare. Mi consigliai con due persone: Leonardo Sciascia e Lucio Piccolo. Quando ero libero andavo a Caltanissetta a trovare Sciascia e stavo lì dei giorni. Con Piccolo, invece, l’accordo era che andavo a trovarlo tre volte la settimana. Per me sono stati due riferimenti importanti. Ho anche fatto in modo di farli incontrare perché entrambi mi dicevano sempre di salutare l’altro. Sciascia una volta ha dichiarato che le due persone che più l’avevano colpito, fra le molte incontrate, erano Borges e Lucio Piccolo. Piccolo aveva una cultura sterminata. Mi diceva venga venga Consolo, che facciamo conversazione: la conversazione era che parlava sempre lui e io ascoltavo.

Lucio Piccolo e Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

Ho imparato molto. Insomma mi consigliai con loro e Piccolo mi disse no, no, non vada via perché quando si è lontani dai centri si ha più fascino. Lui parlava da barone che viveva isolato nella sua villa di campagna. Sciascia invece mi disse che se fosse stato giovane come me e non avesse avuto la famiglia, se ne sarebbe andato anche lui perché – mi disse – “qui non c’è più speranza.” Per me l’unica città possibile era Milano, ma quando tornai non la riconoscevo più. C’era stato il miracolo economico e ora c’era il ’68 e quindi molti fermenti. Si parva licet, ho avuto nei confronti di Milano lo stesso atteggiamento che ebbe Verga quando si trovò a Milano nel 1872, nel momento della prima rivoluzione industriale. Verga rimase spiazzato perché era un mondo che non conosceva e di cui gli mancava memoria e lingua. Però da quell’esperienza nacque la grande conversione verghiana. Anch’io rimasi spiazzato e quindi ho riflettuto su questa realtà milanese e su quello che stava accadendo. Da tutto questo nacque Il sorriso dell’ignoto marinaio, a tredici anni dal primo libro. Non sono tornato fisicamente in Sicilia come Verga, ma con la memoria sì.

FR:

Il Risorgimento è molto presente nei suoi libri e anche nelle opere di molti scrittori siciliani. Mi ha colpito molto il bassissimo profilo delle commemorazioni garibaldine.

VC:

C’è questa regressione verso i localismi e l’individualismo. Le racconto un episodio successo a Capo d’Orlando. Durante una manifestazione pubblica il sindaco ha fatto togliere da una piazzetta del paese la targa con il nome di Garibaldi, intitolandola poi al 4 di luglio. La data si riferisce a una battaglia navale che ci fu nelle acque di Capo d’Orlando fra arabi e normanni. L’anti italianismo è ormai dilagante. Il signor Lombardo, attuale Presidente della Regione Sicilia, ha chiamato Autonomia siciliana il suo movimento; ma la Sicilia è già una regione autonoma, lui intendeva un’altra autonomia e infatti ha fatto riferimento anche alla Lumbardia di Bossi. Siamo alla regressione, alla stupidità e all’ignoranza. Non capire cosa è stato questo evento memorabile che fu l’unificazione d’Italia, per cui morirono eroi e persone degnissime è molto grave. Garibaldi riuscì davvero a compiere il miracolo di unire questo paese campanilistico; che era poi il sogno dei grandi italiani da Virgilio a Dante a Machiavelli. Questa regressione localistica è tipica dei momenti bui della storia. Il Risorgimento aveva acceso molte speranza. Garibaldi era un socialista mazziniano, poi capì che l’unità era più importante, ma comprese che le cose non erano andate secondo le speranze e lui prese la via dell’esilio. Da quello scaturirono anche le rivolte, le vendette nei confronti di quelli che erano stati gli oppressori, i famosi gattopardi, i proprietari terrieri… La prima rivolta fu quella di Alcara di cui parlo nel mio romanzo. Non lo dico nel libro ma risulta che dopo avere domato la ribellione di Alcara gli emissari si spostarono a Bronte.

FR:

Infatti gli episodi sono molto simili.

VC:

Sì, sì, tutta la letteratura siciliana poi ha affrontato questo tema perché è un nodo cruciale. Da Verga a De Roberto. Con I vicerè De Roberto ci ha fatto capire cosa sia il trasformismo, fino a Pirandello e al nostro Lampedusa. Tutti hanno affrontato questo momento importante della storia nazionale .

FR:

Sciascia è stato per lei un punto di riferimento, ma nella sua narrativa e anche nella sua prosa, che non è mai del tutto disgiunta dalla narrazione, io trovo un riferimento anche alla tradizione europea del romanzo saggio e non solo a Sciascia.

VC:
Sì, il romanzo saggio; forse questo c’è di più in L’olivo e l’olivastro, la cui matrice, tuttavia, si trova nel nostos, il viaggio di ritorno, che è assolutamente antico. Colui che l’ha riproposto e insegnato di nuovo è stato Vittorini con Conversazione in Sicilia, che è un viaggio nella terra delle madri e della memoria, anche se poi se ne allontana di nuovo, sollecitato anche dalla madre stessa che lo esorta a fare il suo mestiere di tipografo e compositore di parole, cioè il suo dovere di intellettuale. Pensi che nel 1941 sono usciti contemporaneamente Conversazione in Sicilia e Don Giovanni in Sicilia di Brancati, che sono di segno opposto. In Vittorini c’è la rivisitazione del profondo della memoria e poi il ritorno ai suoi doveri di intellettuale. In Brancati c’è la regressione. Quando Giovanni Percolla ritorna dalla madre e dalle sorelle, mangia e poi si mette a letto a un certo punto afferma: “Un’ora di sonno è stata come un’ora di morte.” Il personaggio di Brancati rimane di nuovo prigioniero delle viscere materne.

FR:

Beh ci sta dietro il mito della grande madre mediterranea…

VC:

È curioso come tutta la nostra narrativa, a parte i grandi poemi come L’orlando Furioso e altri che hanno una geografia straordinaria, il romanzo dell’800 da Manzoni in poi, si svolge sempre in piccoli centri, nella piccola città, quel ramo del lago di Como, piuttosto che Vizzini o Acitrezza. Chi inaugura per la prima volta il movimento è proprio Vittorini e questo scaturiva anche dal rapporto che lui aveva con la letteratura americana. La letteratura inglese e americana è contrassegnata dal viaggio, dal movimento.

FR:

Lei è considerato un autore dal forte impegno civile; tuttavia, seguendola in alcune presentazioni mi ricordo anche il suo fastidio costante rispetto a una retorica dell’impegno. Cosa pensa dello scrittore che si impegna direttamente in politica, pensando anche all’esperienza di Sciascia stesso.

VC:

Mi sembrò allora a quel tempo da parte di Sciascia fosse doveroso accettare l’invito. Lui mi raccontò che dopo la sua elezione al Comune di Palermo, insieme a Guttuso e poi dopo le dimissioni, tutti lo invitarono a entrare nei rispettivi partiti. Lui accettò il radicale e mi disse che lo aveva fatto perché era il meno partito di tutti. Anch’io ebbi un invito in anni lontani a presentarmi al Senato per il PCI. Il segretario del partito mi telefonò dicendomi “ti devi presentare” e al mio rifiuto motivato con il fatto che dovevo lavorare mi disse “è un  tuo dovere”; ma io risposi che il mio dovere era quello di scrivere. Tuttavia penso che lo scrittore, come dice Roland Barthes, ha a disposizione anche la scrittura d’intervento, sui giornali, per esempio. Tutti i grandi l’hanno fatto: da Zola, che è stato il maestro con l’Affaire Dreyfus, a Pasolini, Moravia e Sciascia ecc. Io ho sempre praticato la scrittura d’intervento, ho scritto per L’ora di Palermo, l’ Unità, per Il Corriere della sera. Però la spettacolarizzazione mi disturba molto. Anche la manifestazione di Piazza Navona del giugno scorso, non mi è piaciuta, siamo all’indecenza. Gli intellettuali sono diventati i comici, oppure gli scrittori che fanno spettacolo. Purtroppo, se vivessero oggi, Pasolini, Sciascia, Moravia, non avrebbero più lo stesso impatto. I giornali sono in crisi , le case editrici sono in crisi, il nostro è un popolo che non legge più. Io ho definito quello italiano un popolo telestupefatto… È un’espressione che hanno ripreso in Francia: lo ha fatto Christian Salmon nella sua rubrica su Le Monde. Questo dei mass media e della televisione in particolare è stato una specie di tsunami provocato da questo signore che oggi è il capo del Governo. Anche il suo consenso è dovuto a questo mezzo di distruzione di massa che è la televisione, che è quanto di più volgare, stupido e ignorante che si possa immaginare.

FR:

Cosa c’è nei suoi programmi futuri?

VC:

È difficile parlare di programmi futuri. Sono tanti anni che taccio e non pubblico, scrivo di nascosto e nascondo. Ho un progetto di romanzo storico-metaforico che riguarda una storia di Inquisizione. Ho trovato dei documenti presso la biblioteca di Simancas in Spagna; naturalmente si svolge sempre in Sicilia e mi sembra che in questo momento di fondamentalismi religiosi di ogni tipo che rischiano di diventare teocrazie, che sono momenti terribili della storia umana, mi sembra che sia una storia da raccontare. Quando la smetterò di fuggire mi devo sedere a tavolino a scrivere questo libro.

MITI

“Siamo qui.”

Si voltò e vide una bambina; si avvicinò e lei lo prese per mano.

“Ti stavamo aspettando Amleto.”

“Scusate il ritardo, ma, non sapevo, non so cosa fare.”

Un altro che portava sul capo un elmo a due punte, si portò al loro fianco; insieme a lui vi era un cane bellissimo, dal pelo folto e dallo sguardo quasi umano.

“Vieni fratello.”

Andarono sopra un’altura dalla quale si poteva dominare una vasta distesa pianeggiante. Dapprima gli sembrò uniforme ma poi, guardando bene, scorse due luoghi distinti, separati da una sottile striscia di nebbia e in ognuno di essi gli sembrò che qualcuno si stesse muovendo. A lato di entrambi quegli spazi, scorse qualcosa, ma la poca luce impediva di vedere bene. Si voltò perplesso e un altro, che nel frattempo si era avvicinato, si rivolse a lui:

“Sono esseri umani, se guardi attentamente, là in fondo, vedrai un re che dovresti conoscere molto bene e il vecchio cieco, appoggiato a quel masso, fu un famoso re di Tebe.”

“E quella sono io”, ma osservando nella direzione indicata dalla bambina, vide una vecchia.

“Non mi riconosci?”

Risero tutti e fu allora che Amleto si accorse di loro.

“Sono confuso; perché noi ci troviamo in mezzo a loro? E io … qual è il mio posto?”

“Non in mezzo a loro, ma più in alto e più lontano, ma non tanto da non riuscire a vederli e non così in alto da sembrare dei, come volli diventare io.”, aggiunse parlando fra sé quello che gli aveva indicato il re di Tebe.

Amleto li osservò uno ad uno, poi, parlando fra sé:

“Ma voi non avete vissuto, mentre io …” ma non continuò la frase e allora un altro si rivolse a lui:

“Attribuisci troppo valore a quello che gli uomini chiamano storia. Prendi il mio caso; la figura che vedi là nell’angolo, vicina al re di Tebe, porta il mio stesso nome, Enea. Compì grandi imprese, fondò una città famosa (almeno così si dice); eppure nessuno può affermare con certezza chi di noi due sia il più vivo e il più vero nel ricordo degli umani.”
“Pensa a quel re di Tebe che sta laggiù” gli fece eco un altro dagli occhi incavati, accalorandosi come non mai! E continuò dicendo:

“O se preferisci pensa al principe Hamlet! Che hanno fatto d’importante tutti questi uomini? Del primo si sa che regnò, quanto al secondo non vi è certezza neppure di questo.”

Poi si voltò, indicando un’ombra dietro di lui e proseguì:

“Guarda costui che sempre mi segue e che forse tu riconoscerai; credi che preferisca essere ricordato come il conte di Southampton, oppure come il Bardo?”

Amleto lo guardò turbato, poi chinò il capo e aggiunse sotto voce:

“Dici bene, come se fosse facile.”

L’ombra, che fino a quel momento non aveva mostrato alcun segno d’interesse per loro, alzò il capo e guardò Amleto negli occhi, poi in tono mesto disse:

“Accade talvolta a chi scrive, che una voce rifiutata nel testo ci prenda per mano nelle nostre vite e ci guidi come un demone cieco, trascinandoci nelle tragedie di un testo immaginario. Il pianto, allora, invece di liberarsi in parole, imprigiona i nostri gesti quotidiani, diventa rabbia, si dirige su chi ci è più vicino, colpisce e divide come una spada, spesso ci annienta. Altre volte sono i gesti, le risa, il pianto a muoversi da soli, senza che noi stessi sappiamo dove andranno infine a depositarsi.”

Così detto chinò il capo. Amleto, che lo aveva ascoltato piangendo, si rivolse a lui:

“Sei stato tu a crearmi, oppure è a quel re che sta laggiù, fra gli umani, a cui mi devo rivolgere? Di chi sono figlio? Chi di voi due può sciogliere il mio enigma?”

L’ombra non rispose e gli altri si avvicinarono e lo portarono via di lì; poi uno di loro gli cinse le spalle con il braccio:

“Furono pur sempre esseri umani a crearci, siamo schiavi di condizioni umane, viviamo in eterno, sia pure, ma solo passando fugacemente, generazione dopo generazione, nelle menti dei pochi che ci accolgono, sempre in balìa del caso, fino a che la stoltezza dei molti non porrà fine a tutto quanto.”

“Questo varrà per voi, ma non per me! Io, Cassandra, non fu mai accolta, mai! In nessuna epoca e da nessuno!”

“Ma perché tutti insieme?” chiese Amleto dopo averle rivolto uno sguardo distratto; poi continuò:

“Cosa ci si aspetta da noi? Ditemi almeno questo se volete che io scelga.”

Nessuno gli rispose, sebbene la frase li avesse colpiti. Anche Amleto tacque; si guardò intorno e si avvide che si trovavano più in basso di prima e che l’altura su cui erano saliti si trovava alla loro sinistra.  Vide muoversi qualcuno a pochi passi da loro e pensò si trattasse delle schiere degli umani, poi presto si avvide che non era così; notò infatti che i loro corpi erano diversi da quelli degli altri,  perché una parte di essi era oscurata. Fu Cassandra ad avvicinarsi a lui:

“Sono gli utopisti, i riformatori sociali e i rivoluzionari; di loro possiamo vedere solo la parte che assomiglia a noi, mentre gli umani – che da qui non riesci a scorgere – possono vedere la parte che a loro assomiglia. Potranno scegliere con chi stare ma dovranno rinunciare a una parte di sé; solo allora potranno mostrarsi con l’intero corpo a coloro che avranno scelto.”

Amleto l’ascoltò in silenzio, poi volse di nuovo lo sguardo verso quegli strani individui. Uno di essi, in particolare, l’attirò; di lui si vedevano soltanto gli occhi socchiusi e sottilissimi. Il suo sguardo era di straordinaria acutezza e da quelle piccole aperture sembravano uscir fuori tanti piccoli raggi di luce che finivano per catturare l’attenzione di ognuno. Tutta l’energia di quel corpo si era trasferita in essi e Amleto vi sentì vibrare una gamma così vasta di sentimenti che ne fu colpito. Poi vide un altro avvicinarsi a lui. Aveva soltanto il volto; un volto da ragazzo, quasi un bambino sorridente e aperto. I suoi occhi, però, erano fissi, come se qualcosa avesse spezzato il suo sguardo in tenera età.  Quando però incontrò gli occhi dell’altro  si animò, mentre il primo dei due – dal canto suo – trovò in essi sollievo alla propria inquietudine.

“Sono arrivati da poco” disse Cassandra e aggiunse: “si cercano sempre; se vuoi, avvicinandoti, udrai la loro storia; forse ti potrà servire.”

Amleto si avvicinò ai due, voltandosi ogni tanto per vedere se Cassandra lo stesse seguendo; ma lei preferiva tenersi a distanza. Si sedette quando gli parve di essere abbastanza vicino, senza che i due si accorgessero della sua presenza. Dopo essersi abbracciati, almeno così gli sembrò dal movimento di entrambi, cominciarono a parlare.

“Ti ho atteso fratello mio e ora che sei qui potrò finalmente udire dalla tua voce cosa è successo dopo che i miei occhi furono spenti proprio quando vedevo davanti a me la luce di una speranza futura.”

“Lo so, lo so Saša carissimo, fui io a dire a nostra madre che ti avevano impiccato, anch’io vidi la tua stessa luce, ho proseguito il cammino  e credevo così di avere emendato il tuo errore e il mio errore anche.”

“Avrai tempo per raccontarmi di nuovo anche questo, la tua fama mi ha già raggiunto, so cosa hai fatto, è altro che vorrei spere; ero ansioso di rivederti, certo, eppure non ti aspettavo così presto.”

“E non sai invece quanto volte mi sono augurato di raggiungerti prima! Volevo andarmene, ma il peso che avevo reso sulle spalle fu condiviso da milioni di umani che videro come noi quella luce e così invece di schiacciarmi, esso mi buttava continuamente in alto nonostante il mio corpo si trascinasse come uno straccio zuppo di sofferenza. Non mi lasciavano andare via; poi, quando finalmente il mio corpo si è fermato mi hanno rinchiuso per settant’anni in uno stupido mausoleo sulla Piazza Rossa e come se non bastasse uno scienziato indegno di questo nome si è tenuto il mio cervello; voleva scoprire, pensa un po’, come è fatta la mente di un genio! Come se in quell’ammasso di fili consumati, ci potesse essere qualcosa di più dei segni della mia malattia.”

“Perché dici questo? Volevi venire prima? Non riesco a capire, avevi appena raggiunto la soglia del mondo che sognavamo. Ho cercato spesso di vedere con i tuoi occhi; non appena arrivato qui, capii il mio errore ma ero certo che tu saresti andato più in là.”

“E così avvenne, ma anch’io fui spezzato come te, ma la mano che lo fece era più sottile di quella del boia, assomigliava alle nostre Saša, era fatta come le nostre. Spostava la luce che vedevamo allontanandola sempre di più e chiedendoci di seguirla  e mentre noi eseguivamo i suoi ordini la mano colpiva spietatamente alle nostre spalle.”

“Un tradimento allora!”

“E così non c’era luce dietro di noi, ma soltanto un’ombra che cresceva sempre di più; quando me ne avvidi era troppo tardi. Mi ritrovai solo ai margini di un labirinto.”

“Fosti tradito allora!”

“No, non fu così.”

“Un altro errore allora …”

“Mi sono ingannato. Ho creduto che le mie opere nascessero dalla volontà e dalla comprensione di quello che tu chiami ancora il tuo errore. Pensai così che fosse la passione da lasciare da parte e la mia mente agì con la freddezza necessaria per lasciarla fuori di me. In  realtà a spingermi su quella strada fu un sentimento per me impronunciabile quando ero in vita. Cercavo di restituirti qualcosa che ti era stato tolto; ed eri stato proprio tu a farmi vedere per primo quella luce. Pensai che fosse stata la tua generosità ad averti tradito. E invece agivo io stesso in nome di un impulso generoso  che non volevo riconoscere come mio.”

“E quando te ne accorgesti?”

“Poco dopo aver varcato la soglia. Avevo sognato quel momento; il mio libro più bello, sai, lo scrissi allora, a cose fatte ne 1919. Fu una liberazione e quando di notte, alla luce del lume, le parole sembravano uscire dalla mia mano come schiere trionfanti, mi accorsi che accanto ad esse c’era anche la tua Sasha, la tua mano anarchica e di ragazzo, la tua mano con tutta la tua passione e la tua giovinezza impiccata. E le parole volavano, volavano fuori, sembrava non avessero confini, salivano sulla fortezza di Pietro Paolo che intravedevo dalla finestra e sembravano sgretolarla un poco ogni notte. E scrivendolo sentivo che in quelle parole tornava a risplendere la luce, come l’avevamo vista la prima volta!”

“E poi che accadde?”

“Durante il giorno quelle parole le dimenticavo; non me ne accorsi subito. Esse si allontanavano dalle mie opere diurne e queste crescevano senz’anima. Di notte erano le mie parole a crescere e sgretolavano fortezze, ma erano fortezze immaginarie; dalla finestra la intravedevo nell’ombra, la fortezza di Pietro Paolo era sempre là ed ora vi erano rinchiusi i tuoi aguzzini, ma era nera e minacciosa come quando vi fosti impiccato tu.”

“Replicasti il mio errore dunque, sognasti troppo e troppo in fretta.”

“No Saša, perché capivo ogni giorno di più che senza le parole del libro che stavamo scrivendo insieme, era la luce ad andarsene. Ma il giorno successivo la mano continuava a distruggere quanto era stato scritto la notte, ma essa era del tutto simile alla mia, era la mia Saša! E così ricominciavo daccapo la notte successiva e le altre ancora ed ogni giorno ed ogni notte misuravo ciò che era rimasto come saldo. Finché non crollai io stesso e tutto cominciò a dissolversi; ti allontanasti di nuovo nelle tenebre e la mia mente si consumò, le lacrime che mai volli  mostrare divennero un acido che cominciò a scavare e a corrodere dentro di me e allora decisi di andarmene.”
“Eppure incontrarti mi ha fatto tornare la speranza e quando ti guardo quella luce io continuo a vederla.”

“Anch’io la vedo e mi tormenta, sapessi almeno perché mai continuiamo a vederla!”
“Forse perché c’è un’altra soglia che dovremo attraversare, ma dovremo farlo insieme.”

I due tacquero di colpo e gli occhi del primo cominciarono a rivolgersi di nuovo in tutte le direzioni, mentre il volto dell’altro tornava alla sua fissità.

Amleto allora ritornò verso Cassandra, che l’attendeva.

“Perché hanno taciuto così bruscamente?”

“Perché non capiscono che manca loro qualcosa. Anche insieme non troveranno la soglia che cercano e così ogni volta sono costretti a ripetere daccapo la loro storia e dovranno farlo molte altre volte e non solo qui fra noi; ma capiranno prima o poi, non essere così triste.”

Anche gli altri si erano avvicinati e tutti insieme si diressero di nuovo verso l’altura, in cima alla quale li attendeva il cane, insieme ad una figura che prima non aveva visto. La luce era cambiata e le schiere degli umani erano ora ben visibili. La striscia di nebbia che li separava, si assottigliava talmente in alcuni punti, che le due colonne si sfioravano senza tuttavia vedersi e neppure immaginare la presenza dell’altra. E mentre una schiera si trascinava un fardello di atroci sofferenze, l’altra – con gli occhi rivolti verso l’alto – si trascinava il fardello altrettanto pesante di una felicità ebete e incantata. Amleto scosse il capo e osservando lo spazio ai lati delle due schiere, vide agitarsi altre figure.

“Chi sono quelli?”

“Sono i personaggi minori, oppure molto recenti o appartenenti a opere di scarso valore; attendono che noi li chiamiamo, ma non possiamo. Continueranno a oscillare sulle loro piccole barche in attesa che qualcuno più grande di loro li traghetti da qualche parte.”

“E non potrebbero proprio loro mostrarci che viviamo un’attesa? Un tempo risparmiato e tenuto in serbo per qualcosa che non sappiamo?”

“Non è un tempo, fratelli e sorelle, ma una scelta, sta a noi prendere nelle nostre mani il nostro destino; a noi che vediamo quello di cui gli umani vedono soltanto un lato perché da tempo hanno distolto lo sguardo dalla sola parte di loro che vive.”

Si voltarono tutti.

“Non è forse questa la promessa che fece sperare le genti nel corso dei millenni? Se liberi finalmente, dai nostri creatori, fossimo proprio noi, i personaggi che essi hanno creato a far vivere le nostre storie e dunque anche la parte migliore di loro? Smettetela di guardarli e di cercare nelle loro imprese tutte le risposte e tu Amleto, rimani con noi, non tornare nel mezzo di altri principi e re.”

Si avvicinarono e si sedettero in cerchio accanto a lei.

“E da che cosa cominceresti regina e da quando?”

Allora Sherazade si sedette, incrociò le gambe e parlò.

I TESTI PUBBLICATI IN QUESTO BLOG SONO DI MIA PROPRIETA’: CONSENTO LA LORO STAMPA IN FORMA CARTACEA PER SOLA LETTURA E LA CITAZIONE DEL MIO NOME IN CASO DI UTILIZZO IN VOSTRI SCRITTI.

RENDEZ-VOUS.

UN ALTRO RACCONTO DAL LIBRO FIGURE.

Una donna e un uomo se ne stanno seduti sulla spiaggia di Ostia; in lontananza, Roma sta bruciando. Sordi scoppi e boati giungono, a intervalli regolari, dal centro della città; il fumo si eleva alto sopra le fiamme che di tanto in tanto, quasi fossero braccia protese al cielo, forano la densa nube.  

Lui, sdraiato sul fianco con il gomito appoggiato a terra il palmo della mano a sorreggere il viso, guarda distrattamente la scena. Il sole, nonostante il fumo incombente, è ancora alto in cielo, tanto da costringerlo a indossare un cappello da giocatore di baseball per proteggersi.

Lei, appoggiata a una piccola pietra e con le spalle rivolte alla città che brucia, è immersa nella lettura di un romanzo di Christa Wolf.

D’improvviso l’uomo si scuote, si alza, si stiracchia; poi si volta verso di lei:

“Vedi Cassandra, se tu allora fossi partita insieme a me, forse avremmo fondato una città diversa.”

Lei sembra non ascoltarlo, poi lentamente alza il capo e lo guarda con un sorriso di compatimento; infine, scuotendo la testa:

“Non dire sciocchezze Aeneas; come puoi pensarlo! Questi tuoi discendenti hanno causato danni mille volte più grandi di quelli per cui patimmo noi e tu mi vieni a dire che forse … No mio caro, avrei moltiplicato inutilmente le mie urla, inascoltata come sempre: ecco come sarebbe andata.”

“Ti sbagli, i miei discendenti – come li chiami tu – non sono i soli responsabili; furono quei due a raccontare la storia, marchiando le mie imprese future con il sigillo della vendetta; ma io, e tu lo sai, non ero partito con quell’intenzione. Cosa posso farci se un poetucolo di corte, per compiacere l’imperatore Augusto ha raccontato le cose come voleva lui, inventandosele di sana pianta! E gli hanno creduto anche! Avrei avuto bisogno di un altro narratore, anzi di una narratrice. Tu avresti dovuto raccontare quel che era accaduto e non lasciarlo fare soltanto a quelli! E poi, se sei così scettica, perché diavolo sei tornata proprio oggi?”

“Curiosità, dopo tanti anni qualche frivolezza me la posso anche concedere, no?”

Aeneas la guarda perplesso, poi comincia a radunare le sue cose, sparse per la spiaggia intorno a loro; le ripone tutte in uno zaino.

“Che farai ora?”

“Parto, me ne vado a Poona, in Nuova Zelanda e poi su qualche isola della Polinesia, gli atolli; mi hanno detto che sono luoghi tranquilli. Perché non vieni anche tu?”
“Come! Parti un’altra volta? Oh Aeneas, non cambi mai! No mio caro, io resto.”

“Un’altra volta?”

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OLTRE IL NULLA, VIVERE POSTUMI! CATASTROFE E DESIDERIO IN CORMAC McCARTHY. Prima parte

Premessa

IN MEMORIA DI CORMAC MCCARTHY

La sintassi cinematografica come stile

Nella Trilogia della FrontieraOltre il confine, Cavalli selvaggi, Città della pianura –  McCarthy inizia il suo corpo a corpo con la cinematografia e lo fa rendendo feroce e prosaica l’epopea del West, attaccando dunque la rappresentazione edulcorata fornita dal cinema hollywoodiano, con una parola che descrive fino al dettaglio più crudo, come avviene in questo passaggio tratto da Meridiano di sangue:

A ciascuna di quelle piccole vittime, sette anzi otto, era stato fatto un buco nella mandibola ed erano stati appesi per la gola ai rami spezzati di un mesquite. Fissavano senza occhi il cielo nudo. Calvi e pallidi e gonfi, come larve di un essere inimmaginabile…”. 1

Vi è un personaggio chiave che riassume in sé tutti gli altri della trilogia: quello del giudice, sempre in Meridiano di sangue.

Egli è un uomo che può infarcire i suoi discorsi di citazioni letterarie, addirittura tratte dai Vangeli o dalla Bibbia e che guarda il mondo degli umani dall’alto, come un eroe tragico dell’antichità. In realtà, è un capobanda che raduna intorno a sé, sbandati di ogni genere. Ambientato nella seconda metà dell’800, nella zona di confine fra Usa e Messico, il romanzo si basa su un ampio corredo di documenti ufficiali. Le azioni compiute della banda non servono alcuna causa, sono semplicemente l’espressione di una crudeltà che non ha scopi e non ne vuole avere, se non quello del proprio potere sadico sugli altri e del bottino. La conquista della frontiera diviene qui un puro avanzare e saturare lo spazio, occupare il territorio, distruggerne ogni cultura precedente, a cominciare da quella dei nativi, fondarvi una legge che coincide e s’esaurisce soltanto nella quantità di violenza e di terrore che è in grado di sprigionare 2

Vi è un secondo modo altrettanto importante di rapportarsi al cinema: la scelta stilistica di asciugare il più possibile il linguaggio, depurandolo da ogni effetto speciale per raggiungere un registro anti eroico, ma diversamente epico. Il brano che segue è tratto dal primo dei suoi romanzi, Il buio fuori:

Ormai intorno al carro si accalcavano diverse centinaia di persone, e tutti parlavano in un brusio crescente. Il sole era esattamente sopra di loro. Sembrava appeso lassù in un’abbagliante immobilità, come se si fosse fermato, forse sorpreso di vedere ancora sulla terra quei pupazzi di fango che ci erano stati messi tanto tempo prima. Gli uomini sulla passerella avevano cominciato a sfilare davanti alla porta, qualcuno in punta di piedi, per andare a vedere i resti nel cassone del carro.”3

In questa scena, una prima protagonista è la folla di uomini e di donne che s’avvicina a un carro, sul quale è successo qualcosa; è la situazione tipica che si crea dopo un incidente, oppure sulla scena di un delitto. Il secondo protagonista è il sole. Esso è appeso, abbagliante, immobile, sorpreso. Ognuno di questi aggettivi, anche i due più apparentemente ovvi come il secondo e il terzo, non lo sono affatto se consideriamo l’intera sequenza. L’ultimo, inoltre, accoppiato al primo, fa scattare una dilatazione di senso. Il sole può essere appeso e sorpreso soltanto se diventa metafora e questo si chiarisce meglio nel prosieguo del brano, laddove prende vita una doppia metamorfosi. La prima è quella di cui è oggetto, implicitamente, il sole stesso, la seconda riguarda le centinaia di persone. Questa doppia trasformazione, da sole a dio e da persone a pupazzi di fango, crea un corto circuito. Il sole, scrive McCarthy, era esattamente sopra di loro. Questa ulteriore descrizione chiarisce meglio perché esso è appeso. Chi può vedere in questo modo e da dove si può vedere in questo modo? L’esperienza di essere esattamente sopra gli altri, a meno di non ritenersi dio stesso, presuppone che esistano, le alte torri, i grattacieli e le macchine da presa appese al loro cavalletto. Il sole-dio, in realtà, è dunque un sole-dio-torre-macchina da presa; quest’ultima riprende dall’alto tutta la scena, come avviene in un set cinematografico. La moltitudine che s’avvicina al carro, invece, è fatta di uomini-pupazzi di fango.

L’asimmetria accentua l’ironia, implicita nel designare la specie umana con un’espressione che ci riporta al testo biblico. Se, infatti, natura (il sole) e tecnica (la macchina da presa come espressione moderna della capacità umana di costruire protesi e utensili) possono mutare e mostrarsi sempre in ogni tempo storico con eguale potenza e come sfingi indecifrabili che osservano dall’alto – al pari di dio – le vicende umane, cioè i pupazzi di fango rimangono quelli che sono ed erano. L’unica differenza percepibile fra natura e sviluppo della tecnica (dalle torri alla macchina da presa), è l’immutabilità dei processi che le riguardano, prerogativa quest’ultima che entrambe spartiscono con la divinità.

Cosa vogliono rappresentare queste poche righe così intense e dense? Un dio stanco degli esseri umani o una semplice trasposizione della finzione letteraria del narratore onnisciente ottocentesco nei nuovi abiti di una macchina da presa totalizzante? Fatto sta che questo brano così apparentemente semplice ci svela da subito (siamo all’inizio del suo percorso letterario), uno degli elementi costitutivi della cifra stilistica di Cormac McCarthy: il suo particolare rapporto con l’immagine e con il cinema.

Naturalmente ci sono altri aspetti decisivi, qui già in atto, che il romanziere riprenderà in ogni sua opera: la reciproca indifferenza fra natura e storia, dove la prima è una sfinge (il richiamo a Leopardi è d’obbligo), risplende spesso di una bellezza abbacinante e vive di una vita propria di cui anche gli esseri umani fanno parte, ma – si direbbe – non più in una posizione privilegiata.

Nello stesso romanzo, alcune pagine più avanti abbiamo una seconda modalità stilistica che si richiama al cinema:

Prenditi un sedia, la invitò una donna.

Grazie.

L’altra era presso la stufa, e attizzava il fuoco rivoltando le ceneri grigie e smorte. Non sei sposata? Chiese.

No signora.

…………..

Dov’è tuo figlio?

Come?

Ho detto dov’è tuo figlio.

Non ne ho.

Il bambino, il bambino cantilenò la vecchia.

Non c’è nessun bambino.4

Le peculiari caratteristiche di questo dialogo balzano subito all’occhio: mancano le virgolette che solitamente delimitano un dialogo dall’altro. Le parole delle due donne scorrono in contemporanea alle azioni compiute dalla terza donna che si trova nella stanza. Movimento e parola non possono essere scisse l’una dall’altra, la loro mescolanza e la contemporanea eliminazione di quasi tutti gli accorgimenti più propriamente specifici della scrittura narrativa, alludono ancora una volta al cinema e anche, nel caso specifico in modo più evidente, trattandosi di una scena che avviene in un interno, al teatro rappresentato sul palcoscenico.

Se la scrittura narrativa di McCarthy è fin dalle origini impregnata di teatralità e di suggestioni cinematografiche, corre subito l’obbligo di dire in che modo lo sia, tema assai rilevante dal momento che anche molta narrativa contemporanea, specialmente italiana, s’ispira abbondantemente alla tecnica cinematografica5.

Come abbiamo visto McCarthy inizia il suo percorso ripensando al mito della frontiera, sfidando perciò il cinema statunitense proprio sul genere western, il più hollywoodiano per definizione, ancorato inoltre a quel segmento della storia degli Usa che affonda le sue radici in un mito tipicamente moderno.

In secondo luogo McCarthy accoglie della grammatica e della sintassi del cinema tutto ciò che può rendere ancora più essenziale la scrittura, togliendole ogni orpello non necessario o di gratuito ammiccamento al lettore.

Basta questo per indicare la differenza che separa il suo modo di accostarsi al cinema rispetto alla deriva contemporanea, dove si cerca d’imitarne gli effetti speciali.6 La Trilogia trova in due altre opere un completamento e uno spostamento al tempo stesso. La prima, Sunset limited, è più o meno contemporanea a La strada (mi riferisco alla stesura non alla data di pubblicazione in Italia delle due opere). La seconda, ma in realtà precedente, è Suttrie, del 1979.

Sunset limited è un’opera teatrale che ha come protagonisti un bianco (nichilista) e un nero, che lo ha appena salvato da un tentativo di suicidio sotto il treno Tramonto limitato, traduzione letterale e quanto mai significativa del titolo inglese.

Suttrie, invece, è il nome di un uomo che, dopo avere abbandonato una vita borghese di agi e anche i suoi tormenti religiosi, decide di vivere in riva a un fiume, in una capanna abbandonata. La sua compagnia sono gli animali che abitano il corso d’acqua e i suoi dintorni; non quelli più domestici, bensì i più primitivi: insieme a loro una pletora di sbandati di ogni tipo, compreso il buffo, paradossale e strampalato Harrogate, una figura a metà strada fra animalità selvaggia e umanità, che riecheggia nel nome la parola Arrogance. Nel fiume, nei suoi detriti, in coloro che ne abitano le sponde, sembra riversarsi, come in un grande lavacro, tutta l’epopea americana. Alle origini della narrativa statunitense troviamo infatti un fiume, Il Mississipi quello su cui Hukleberry Finn compie le sue avventure e diventa adulto. Huck Finn è il romanzo di formazione per eccellenza dei coloni bianchi ed è certamente un romanzo solare e aperto, sul futuro positivo, di chi ha un mondo davanti a sé da esplorare. Da questo mondo erano naturalmente esclusi i neri e i nativi. In Suttrie sembra compiersi un destino: il fiume non è più fonte di vitalità ma piuttosto un rifugio e  una discarica.

Sunset limited

Con i romanzi Questo non è un paese per vecchi e successivamente con La strada  McCarthy abbandona il West e compie un balzo temporale di duecento anni. Il primo dei due, tuttavia, non riesce a mio avviso nell’intento perché troppo didascalico: la trasposizione del paradigma della crudeltà dalla conquista dell’ovest all’America contemporanea risulta un po’ forzata, espressione di una tesi troppo precostituita, anche se plausibile da un punto di vista sociale.


1 Cormac McCarthy Meridiano di sangue, traduzione di Einaudi, Torino

2 Con il giudice, lo scrittore crea con lui un personaggio anti eroico, ma individuando una strada radicalmente diversa da quella seguita da larga parte della narrativa novecentesca europea. Quest’ultima, infatti, ha cercato fino all’estenuazione l’irrisione e la parodia: ha sì smitizzato l’eroe, ma ha finito per rinchiudersi nella dimensione di un disperato nichilismo, a volte sarcastico, più spesso semplicemente irridente.

3 Cormac McCarthy, Il buio fuori, traduzione  di Raul Montanari, Einaudi, Torino 1999, pp. 73-4

4 Op. cit.pag.96.

5 Per un lungo periodo di tempo dopo la sua nascita, la settima arte ha saccheggiato la letteratura, facendo di alcuni grandi romanzi, il soggetto ideale per sceneggiature e film. Per alcuni di essi si è trattato di una vera e propria apoteosi: sono diciannove (otto delle quali in Italia), le pellicole che hanno per soggetto I miserabili di Victor Hugo, per non parlare di Guerra e pace, di Anna Karenina, dei Promessi sposi. La narrativa, maggiore o minore che fosse (pensiamo anche a I tre moschettieri, Il conte di Montecristo, La cittadella ecc. e così via), è stata un serbatoio inestinguibile.  La televisione, quella italiana con la gloriosa tradizione degli sceneggiati, curati da registi di prim’ordine e attori altrettanto prestigiosi, fu in passato uno strumento d’indubbia promozione del gusto letterario, nutrendo una generazione intera e influendo anche sulla vendita dei libri. Era abbastanza normale, poi, per i registi, rivolgersi agli scrittori per le sceneggiature. Tutto questo fino alla fine degli anni ’60. Dal decennio successivo in poi si assiste a un movimento in senso contrario, che raggiunge in tempi recentissimi il suo culmine. È il romanzo a rifarsi sempre più spesso al cinema e sono sempre più rari invece i registi che collaborano con scrittori: le coppie Cerami-Benigni e Handke-Wenders sono eccezioni, quello di Cristina Comencini, scrittrice e regista, un altro caso a sé. Il primo in Italia a scrivere un romanzo con una tecnica molto vicina, forse troppo, alla sceneggiatura, fu Pasolini, con Teorema, nel 1969. Lo stesso Pasolini, con Petrolio, si accingeva ad approfondire quella strada con ben altra consapevolezza, purtroppo interrotta tragicamente dal suo assassinio. Anche il nouveau roman francese, tuttavia, in anni precedenti, si era avvicinato al cinema. L’ècole du regard si poneva, infatti, come una poetica capace d’influenzare sia la narrativa sia la tecnica filmica: Jean-Luc Godard fu al tempo stesso un convinto assertore di quella poetica, ma anche colui che la sviluppò portandola fino all’esasperazione. Anche certe descrizioni estranianti del primo Le Clézio risentono di tali influenze e lo stesso si può dire del Calvino di Palomar.  La narrativa di McCarthy rientra in questo percorso di avvicinamento al cinema, senza per questo ipotizzare un’influenza diretta da parte dell’ècole du regard o altri su di lui, anche perché i segni distintivi che lo rendono diverso sono troppo forti e decisivi.

6 Non parlo dei prodotti più dozzinali e di consumo che poco hanno a che vedere con la scrittura letteraria, mi riferisco, come esempio, a un solo romanzo altrettanto recente perché fra tutti è certamente il più dignitoso e il suo autore uno scrittore fra i migliori della sua generazione: il primo capitolo di Caos calmo di Sandro Veronesi. Il crescendo che lo contraddistingue sembra essere preso di sana pianta dalla sequenza di venti minuti del primo Indiana Jones (non ha alcun’importanza che i temi siano diversi, anzi è un’aggravante.) L’effetto di tale ritmo incalzante sul lettore è quello di togliergli sì il fiato, ma arrivati alla fine, l’insieme dei fatti narrati, la concatenazione degli stessi, assomiglia troppo al cliché del film d’azione e questo toglie tragicità alla morte di Lara, con cui il capitolo si conclude. Ne abbiamo viste a iosa di queste sequenze, ciò che conta è il paradigma. In Indiana Jones, dopo una serie di fughe, ammazzamenti, colpi di scena, acrobazie d’ogni genere, citazioni d’altri film, quando tutti sono finalmente sull’elicottero, accade che un finto serpente ricrei un momento di tensione ulteriore; si tratta, però, di uno scherzo (come se fosse normale scherzare in quel modo dopo una decina d’ammazzamenti e quant’altro), che getta una luce ironicamente retrospettiva su tutto ciò che è stato visto in precedenza. Era tutto uno scherzo, non soltanto quella parte finale, siamo dentro i recinti prestabiliti del genere avventuroso e con quella scena Spielberg ce lo ricorda; infatti, egli non vuole certamente proporci un film tragico. Veronesi, invece, lo vorrebbe, ma la sequenza è talmente sovraccarica di colpi di scena che essa alla fine risulta tragicamente falsa, un escamotage che serve a traghettare il lettore verso il secondo escamotage: la scelta di Paladini, che decide di vivere nella sua automobile parcheggiata davanti alla scuola della figlia Claudia. Da questo secondo escamotage, si approda al terzo, (l’incontro con la donna salvata in mare, con prevedibile scena di sesso in differita.) Nel mezzo si ha la sensazione che il romanzo proceda solo in attesa della scena madre successiva e che gli altri incontri, molti dei quali scontati peraltro, servano a riempire un vuoto.