RENDEZ-VOUS.

UN ALTRO RACCONTO DAL LIBRO FIGURE.

Una donna e un uomo se ne stanno seduti sulla spiaggia di Ostia; in lontananza, Roma sta bruciando. Sordi scoppi e boati giungono, a intervalli regolari, dal centro della città; il fumo si eleva alto sopra le fiamme che di tanto in tanto, quasi fossero braccia protese al cielo, forano la densa nube.  

Lui, sdraiato sul fianco con il gomito appoggiato a terra il palmo della mano a sorreggere il viso, guarda distrattamente la scena. Il sole, nonostante il fumo incombente, è ancora alto in cielo, tanto da costringerlo a indossare un cappello da giocatore di baseball per proteggersi.

Lei, appoggiata a una piccola pietra e con le spalle rivolte alla città che brucia, è immersa nella lettura di un romanzo di Christa Wolf.

D’improvviso l’uomo si scuote, si alza, si stiracchia; poi si volta verso di lei:

“Vedi Cassandra, se tu allora fossi partita insieme a me, forse avremmo fondato una città diversa.”

Lei sembra non ascoltarlo, poi lentamente alza il capo e lo guarda con un sorriso di compatimento; infine, scuotendo la testa:

“Non dire sciocchezze Aeneas; come puoi pensarlo! Questi tuoi discendenti hanno causato danni mille volte più grandi di quelli per cui patimmo noi e tu mi vieni a dire che forse … No mio caro, avrei moltiplicato inutilmente le mie urla, inascoltata come sempre: ecco come sarebbe andata.”

“Ti sbagli, i miei discendenti – come li chiami tu – non sono i soli responsabili; furono quei due a raccontare la storia, marchiando le mie imprese future con il sigillo della vendetta; ma io, e tu lo sai, non ero partito con quell’intenzione. Cosa posso farci se un poetucolo di corte, per compiacere l’imperatore Augusto ha raccontato le cose come voleva lui, inventandosele di sana pianta! E gli hanno creduto anche! Avrei avuto bisogno di un altro narratore, anzi di una narratrice. Tu avresti dovuto raccontare quel che era accaduto e non lasciarlo fare soltanto a quelli! E poi, se sei così scettica, perché diavolo sei tornata proprio oggi?”

“Curiosità, dopo tanti anni qualche frivolezza me la posso anche concedere, no?”

Aeneas la guarda perplesso, poi comincia a radunare le sue cose, sparse per la spiaggia intorno a loro; le ripone tutte in uno zaino.

“Che farai ora?”

“Parto, me ne vado a Poona, in Nuova Zelanda e poi su qualche isola della Polinesia, gli atolli; mi hanno detto che sono luoghi tranquilli. Perché non vieni anche tu?”
“Come! Parti un’altra volta? Oh Aeneas, non cambi mai! No mio caro, io resto.”

“Un’altra volta?”

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IL SEGRETO DI LENIN

UN ALTRO RACCONTO DAL LIBRO FIGURE

Pochi conoscono un episodio minore di quella grande epopea che fu la Rivoluzione d’Ottobre, un evento ormai lontano nel tempo e che verrà presto del tutto dimenticato.   Vale la pena di riferirlo perché riguarda nientemeno che Vladimir Ilich Ulianov … Lenin insomma! La ricostruzione di questa vicenda si basa su diverse testimonianze,  di cui una è la più importante, in quanto si tratta di una fonte diretta. Fu raccolta  molti anni fa a Mosca da alcuni studenti universitari; si era al tempo del disgelo krusceviano, si tentavano nuovi metodi nel fare storia, fra cui quello di raccogliere le testimonianze orali di chi aveva partecipato ai fatti, oppure ne era stato coinvolto in qualche modo. Per dare al lettore maggiori possibilità di comprendere ci soffermeremo un poco sul contesto degli eventi.

La Russia era sconvolta dalla guerra civile. Le battaglie erano ovunque perché non esisteva un vero fronte di guerra. I luoghi nevralgici, tuttavia, erano concentrati nel bacino del Don, lungo la ferrovia Transiberiana e ad ovest di Pietrogrado. Fu proprio su  questo fronte che accaddero gli eventi che ci interessano. Agli inizi del 1919, la cittadina di Krasnoye Gorka fu assediata dalle truppe del Generale bianco Judenič.  Il pericolo era evidente perché da quella posizione era  possibile  sferrare  un attacco alla capitale baltica  e  addirittura  ricongiungersi con  le  truppe  dei generali Miller ed  Ironside,  di  stanza  ad Arcangelo.  La cittadina resistette per qualche mese ma fu poi costretta ad arrendersi. Vi  furono molti morti e molti prigionieri, quasi  tutti  condannati  alla pena capitale.  Fra  questi ultimi vi era una donna e quando  Lenin ne fu informato fece di tutto per salvarla, cercando persino un contatto con lo stato maggiore bianco, che  rifiutò. Poi le cose andarono diversamente da quanto sembrava ineluttabile. I  Bianchi, convinti come erano di  conquistare  Pietrogrado, rinviarono le esecuzioni. L’attacco alla città, però, fallì, la loro rotta  fu  completa;  tanto  che   il  Generale Judenič fu costretto a riparare all’estero.  Molti alti ufficiali bianchi furono invece catturati e rinchiusi nella Fortezza di Pietro Paolo,  prima  di essere fucilati.  Uno di loro  di  cui  la testimone non ricordava il nome, forse lo stesso aiutante di campo  del Generale, la sera precedente l’esecuzione chiese di parlare con Lenin.  Questi dapprima rifiutò, sospettando l’intenzione di una domanda di grazia; il generale, d’altro canto rinnovò la  richiesta  respingendo  sdegnosamente  il sospetto. Lenin, seppure riluttante, dovette allora accettare, ma chiese di essere  accompagnato da un testimone e  scelse  una giovane compagna.  Fu lei a  raccontare  agli studenti della Facoltà di  Storia  Moderna dell’Università di Mosca ciò che avvenne quella sera e nei mesi successivi.

Le guardie e il piantone ci guardarono esterrefatti. Non erano molte le donne che entravano nella fortezza e il fatto che accompagnassi lui poi, dovette sorprenderli ancora di più. Lenin riunì il corpo di guardia e spiegò brevemente la ragione della visita. Fummo portati in un lungo corridoio e camminammo per un po’, finché il piantono non si fermò davanti alla porta di una cella. L’alto ufficiale che vi era rinchiuso sapeva del nostro arrivo e anche della mia presenza e ci aspettava in piedi. Ci guardò portandosi una mano alla fronte e schermandosi il viso, tanto che il gesto ci sembrò una specie di saluto militare al quale Lenin rispose con fastidio. Il generale, allora, spostò, il lume e così capimmo che stava semplicemente cercando di vederci meglio: voleva sincerarsi che quell’uomo basso di statura e dimesso che gli stava danti fosse davvero il capo della rivoluzione. Lenin gli domandò in modo perentorio cosa diavolo volesse, se si trattava di qualcosa riguardante la famiglia

…”No, Vladimir Ilich Ulianov! È di voi che si tratta!”

Ricordo molto bene le parole del generale perché Lenin, udita la frase, si arrestò immobile come se fosse stato colpito da una frustata. Il generale lo fissò per un istante, poi visto che taceva, proseguì, fatemi ricordare bene le parole che disse:

“Perché insisteste così tanto e in modo così sconveniente per voi (disse proprio così sapete), nel chiedermi la grazia per quella donna?”

Io non sapevo a che cosa alludesse e mi voltai verso Lenin. Non so cosa gli passasse per la testa, ma la sua espressione cambiò almeno tre volte in un minuto. Entrambi continuavano a tacere e Lenin mi parve improvvisamente confuso. Si passò la mano sulla fronte, in quel suo modo così caratteristico, tenendo due dita alle tempie e massaggiandole, così che le altre dita della mano andavano avanti e indietro sulla testa. Si voltò verso di me e mi chiese di uscire, scusandosi che fosse proprio lui a domandarmelo, dopo che mi aveva voluto con sé come testimone.

Trovai del tutto naturale la richiesta, in fondo si trattava di un fatto personale, non politico. Una volta uscita, però, mi sentii inquieta e a disagio; mi sembrava di essere piombata di colpo in una zona d’ombra, pensavo alle spiegazioni che si sarebbero dovute dare una volta usciti. Pensai che in fondo non era affar mio, eppure mi sentivo toccata profondamente, tanto che non seppi resistere alla tentazione di origliare. Appoggiai la testa alla porta e attesi. Lenin aveva cominciato a parlare, ma non riuscivo ad afferrare le parole; mi colpì la sua voce, così diversa dal solito, meno decisa. Parlava con fatica, trascinando l’una dietro l’altra le parole.

Non ricordo quanto durò la conversazione; se conversazione fu! Perché non mi parve di udire la voce del generale.

Quando sentii bussare dall’interno chiamai il piantone e rientrai nella cella insieme a lui. Lenin ci volgeva le spalle, si voltò lentamente e uscì passandomi di fianco. Mi colpì l’espressione esterrefatta del generale, come se si fossero aperte per lui le porte su una realtà del tutto impensata. Fui così colpita da quello sguardo che il piantone dovette chiamarmi per farmi uscire. Percorremmo di nuovo senza parlare i corridoi della fortezza; Lenin camminava a testa bassa, non vedeva nulla, preso come era nei suoi pensieri, serrato in sé e impenetrabile.

Oltre un anno dopo, durante  i  primi mesi del 1921, quando ormai la Guerra Civile era stata vinta, la testimone s’imbatté in un corteo funebre e riconobbe subito molti compagni famosi, fra i quali alcuni e alcune che incontrava spesso alla scuola di formazione. Domandò chi fosse morto e seppe che si trattava di una compagna straniera che aveva condiviso con Lenin gli anni dell’esilio in Svizzera …

Dentro di me ebbi subito la certezza che quella donna fosse colei di cui aveva parlato il generale. Risalii il corteo e lo vidi in prima fila. Ricordo ancora oggi il suo volto, non lo dimenticherò mai. Vladimir Ilich camminava a stento, sorretto dalla Krupskaja e da un altro che non riconobbi; il berretto era calato sul volto, quasi a schiacciarlo, ma ciò che mi spaventò fu il suo pallore. Fu l’ultima volta che lo vidi; tre giorni dopo il funerale fu colpito dal suo male e la circostanza mi impressionò moltissimo. Domandai ad altri e così seppi che quella donna aveva avuto un ruolo importante nel viaggio di ritorno in Russia; nulla di preciso perché non aveva incarichi politici ufficiali, ma Lenin la stimava più di ogni altro compagno.

Non sapevo cosa pensare, mi sembrava tutto così strano. Era forse stata la sua amante? Continuai le mie indagini (orami avevo conoscenze fra molti compagni e compagne che occupavano ruoli importanti) e venni a conoscenza di particolari che ignoravo. Il viaggio di ritorno sul treno piombato era stato molto burrascoso; il segreto stava proprio in una conversazione che si svolse fra Lenin e la donna mentre il treno stava per arrivare alla stazione di Pietrogrado. Fu una compagna presente a riferirmelo, parola per parola, ma mi pregò sempre di non fare il suo nome.  Pare che il colloquio fosse stato concitato e che Lenin le chiedesse ripetutamente di rimanere con loro; le aveva proposto diversi incarichi ma lei rifiutava ostinatamente.

“Perché vuoi che rimanga? Sono malata e poi non sono adatta ai compiti che vi aspettano. Voglio sentirmi libera, guardarvi da lontano; non smetterò di aiutarvi e non farò nulla contro di voi, questo lo sai.”

Tutte le volte che Lenin parlava delle sue capacità lei si arrabbiava molto e Lenin ne rimaneva molto sorpreso ogni volta. Insistette anche quella volta e lei allora lo ascoltò di nuovo, quasi rassegnata.

“Tu ne possiedi molte di capacità, ma una in particolare che manca a tutti noi e quello che è accaduto questi giorni in treno mi ha aperto gli occhi. Sappiamo affrontare ogni situazione, anche le più dure, ma quando parli tu, tutti, me compreso, abbiamo la sensazione … Ti ricordi quando ti davo i miei appunti? Tu li annotavi, li cambiavi, acquistavano una forma diversa, sembravano gli stessi concetti e invece risultavano a tutti più chiari e convincenti e condivisi. Anche allora, ricordi, ti chiesi le stesse cose di oggi.”

“Avrai le stesse risposte; non posso.”

“Perché? Perché? Tu sei l’unica capace di risolvere i problemi facendoci rimanere tutti uniti.”

La compagna che aveva udito queste parole le ricordava con precisione, tale fu l’impressione che le fecero; non se le sarebbe mai aspettate da uno come lui! Pare che all’arrivo del treno Lenin non si curasse della concitazione che c’era, poi ne fu travolto e la perse di vista. Una volta sceso, vi ricorderete tutti quella fotografia di lui che si rivolgeva alle masse. I suoi occhi non smisero per qualche attimo ancora di cercarla tra la folla, ma lei se n’era già andata. Era scesa dal treno dalla parte opposta, quella dai scendono i macchinisti e aveva fatto perdere le sue tracce.

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LA BEFFA

Il terzo racconto tratto dal libro Figure.

Faust si avvicinò al bancone: aveva appena concluso il patto e si sentiva su di giri:

“Mi dia un Glenn Grant” gridò al cameriere.

Sorseggiando il suo whiskey pensava a Margherita. Al suo fianco, un uomo rideva e parlava fra sé dicendo frasi sconnesse. A prima vista Faust lo scambiò per un ubriaco, ma guardandolo bene in volto vide nei suoi occhi la luce di una felicità che sentiva essere molto simile alla sua. Gli sorrise e l’altro ricambiò:

“Non mi prenda per matto, sono soltanto felice; sto aspettando una dea.”

“Oh, ma se si tratta di questo la capisco benissimo; anch’io ho un appuntamento.”

“Davvero? Ma allora è una sera fortunata, perché non festeggiamo insieme?”

E in men che non si dica ordinarono altri due whiskey. Nella concitazione del momento dalla tasca dello sconosciuto cadde un foglio di carta, piegato a metà. Accortosene, Faust si chinò per raccoglierlo e vide che nel mezzo c’era una minuscola fotografia …

”Ma questa è Margherita!” esclamò con voce strozzata e tolta dalla sua tasca la stessa fotografia la mostrò all’altro.

“Ma io gli ho venduto l’anima a quel diavolo di un Mefistofele!”

“Se è per questo anch’io!” mormorò Faust con un filo di voce.

“Macché anima, avete perso solo un po’ di soldi.”

I due si voltarono esterrefatti verso l’uomo che aveva parlato, che continuò:

“Scusate la mia intromissione, ma urlavate tanto!..”

“Scusateci voi, ma come fate …” 

“Non vi ha forse detto che l’avrebbe portata qui in taxi? E non vi ha forse chiesto di

pagare in anticipo le spese di trasporto?”

“Sì” risposero i due, imbarazzati e confusi.

“Ma quello era Mefistofele, come potevamo sapere?”

“E quali credenziali vi ha dato? L’avete mai visto un diavolo? Che aspetto ha un demonio? Un  tempo riconoscerlo era facile, ma oggi, cari miei, più guardinghi bisogna essere! Occorre discernimento, sapere porre le domande appropriate e se non se ne è capaci …” e così dicendo scosse il capo ed allargò le braccia.

I due, imbarazzati e contrariati, non sapevano che dire; guardavano lo sconosciuto e ogni tanto si gettavano occhiate perplesse.

“Invece di inseguire dee e margherite, demoni e fantasmi, dovreste liberarvi dell’unico dio che avete: la solitudine! Guardatevi intorno, ci sono giovani donne, volti felici! E voi passate la sera a specchiarvi nei vostri bicchieri. Avanti, siate più attenti a ciò che esiste!”

I due si strinsero nelle spalle, rassegnati alla piega che aveva preso la loro avventura; poi si avvicinarono a un tavolo dove sedevano due giovani donne. Sorrisero un po’ impacciati, ma le due ricambiarono allegre; allora si fecero coraggio e le invitarono a ballare. Prima che musica iniziasse Faust cercò con lo sguardo lo sconosciuto con cui avevano parlato, ma non lo vide più. 

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LE ESTRANEITÀ ELETTIVE

Quelli che seguono sono altri due racconti della raccolta Figure.

LE ESTRANEITÀ ELETTIVE. PRIMA PARTE.

Charles Lutwidge Dodgson, alias Lewis Carroll, spedì ben 90.000 lettere alle amiche bambine ed intrattenne con la stessa Alice Liddell Heargraves una discreta corrispondenza, per altro ben nota. Recentemente, tuttavia, è stata ritrovata fra le carte del reverendo, una missiva indirizzata proprio ad Alice; tale lettera, che porta la data del 1 gennaio 1898, non fu mai spedita.

Alice carissima, ho davanti a me le fotografie che ti feci e ho qui alla mia destra il libro che porta il tuo nome: in quale di questi vi è più verità? Dimenticai per lungo tempo le fotografie in un cassetto e ritrovandole compresi che nascondevano un segreto. Io ti amavo, Alice, senza esserne consapevole. Ora lo sono, ma la mia vita ha raggiunto da tempo quel punto più alto da cui s’intravede soltanto la discesa e le mie stesse parole ed emozioni hanno assunto quelle forme consolidate e sicure che mi impediscono di parlarti come si conviene a una donna di cui si è innamorati. Fu soltanto un equivoco, dunque, a spingermi a scrivere i racconti che tu certo ricorderai, ma sapiente fu la mano che guidò la mia perché – se mi perdoni l’immodestia – il libro è degno dell’attenzione di cui comincia, finalmente, ad essere circondato.

Come sono ingenue, invece, queste fotografie! E quanto mi sbagliai pensando che in esse vi fosse dell’arte! Sono state scattate da un dilettante che ti costrinse ad assumere pose ridicole e un poco imbarazzanti, il cui significato recondito – peraltro – era allora ignoto a entrambi. Esse si sono vendicate di me a mia insaputa e ora mi stanno davanti come la prova ridicola di una colpa che non ebbi il tempo né la cognizione di commettere.

La vita mi ha lasciato, in cambio dell’auto inganno, agi e promesse di fama imperitura, seppure offuscata da sospetti infamanti; spero non abbia riservato a te l’altra metà dell’inganno ma che tu possa, invece, aver trovato quello che a me fu dato di scoprire troppo tardi.

Tuo affezionatissimo Charles Lutwidge Dodgson.

LE ESTRANEITÀ ELETTIVE: SECONDA PARTE.

Alice Liddell tenne un diario di cui solo recentemente si è venuti in possesso. Per gentile concessione dell’editore che ne sta curando la pubblicazione, anticipiamo una pagina di questo sorprendente documento.

10 Aprile 1902. Caro Lewis Carroll, dal giorno in cui lasciaste la nostra casa, ho pensato assiduamente a voi. Mia madre, allontanandovi da me, pensò di mettermi  al riparo da chissà quali abissi di perdizione. In realtà fece di voi un  gigante che crebbe tanto da occupare uno spazio considerevole nella mia vita interiore. Molto tempo è passato, ma soltanto ora (e me ne vergogno un po’), ho trovato la determinazione necessaria per rivolgermi a voi e svelarvi qualche segreto della mia vita.

Viaggio molto e sono diventata quella che agli occhi dei benpensanti pare una creatura inquietante e vagamente mostruosa: una donna emancipata. Mio marito non  ha retto e così sono stata costretta a lasciare la famiglia: non è stato facile per una donna di 50 anni ricominciare tutto daccapo! Dopo essermi dedicata allo studio della matematica la mia vita ha subito una svolta decisiva nel 1899. Da allora, infatti, seguo le teorie del Dott. Freud e dopo essere stata sua allieva, mi sono trasferita a Vienna dove ho iniziato a praticare io stessa la psicanalisi; disciplina che sono decisa ad introdurre anche nella nostra disgraziata Inghilterra. Dicono che abbia un talento particolare per questa professione; un poco – credo – lo devo anche a voi. Foste per me un secondo padre e forse fu proprio per avere sopportato un peso doppio rispetto alla generalità degli esseri umani, che si sviluppò in me una capacità quasi istintiva di penetrare i segreti pensieri e le angosce altrui. Tuttavia, ora che la mia vita volge verso la seconda metà e avverto l’urgenza di fare qualche bilancio, esso mi soddisfa ben poco. La mia ricchezza ed i miei agi crescono insieme alla folla di coloro che mi sono grati, ma sul risvolto di questa pagina dorata vedo precipitare la mia vita nella solitudine e la capacità di comprendere me stessa decrescere proporzionalmente ai miei successi. E così il saldo finisce per essere un numero  negativo che si scompone in cifre sempre più piccole  come  se, un pezzo dopo l’altro, parti di me si staccassero dal mio stesso corpo disperdendosi sull’uno o l’altro dei miei pazienti. Sento dire in giro che la capacità di comprendere tutto degli altri e nulla di se stessi e di coloro che sono più vicini, sia la malattia professionale degli psicanalisti. Ho letto Alice nel paese delle meraviglie, ma non mi ha fatto una grande impressione; questo, però, è un segreto fra me ed il diario che non turberà la fama crescente di cui il libro è circondato. Sono troppo vivide in me le immagini di voi che inventavate e raccontavate quelle storie! Al confronto, il romanzo mi sembra una pallida e sfocata trasposizione; tuttavia, a mia figlia piacque molto.

Apprendo dai giornali che mi scattaste altre fotografie oltre a quelle che già possiedo. Francamente non le ricordo e mi sembra alquanto strano; perché mai me le avreste fatte, poi? Non sarà l’ennesima invenzione giornalistica?

Vostra aff.ma Alice

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IL SOGNO DELLA PIZIA

Premessa

Alcuni dei racconti che seguono furono pubblicati nel 1995 per le edizioni ticinesi Il gatto dell’Ulivo con il titolo di Figure. Ne ripropongo alcuni nella rubrica Ricordare e raccontare, a cominciare da oggi.

I militi ammiccarono sorridendo. Era uscita dal vestibolo a passi lenti e mentre passava al loro fianco senza neppure guardarli aveva mormorato la solita frase:

“Se viene qualcuno sono alla locanda.”

Erano trascorsi due anni da quando l’ultimo postulante aveva varcato le porte dell’oracolo e da allora la Pizia aveva preso l’abitudine di uscire sempre più spesso.

Seduta al tavolo meditava sul fatto che ogni cosa in quel luogo andava lentamente verso una fine oscura …

Forse mi trattano sempre peggio per convincermi ad andarmene, anche loro non sapranno che fare, con la poca gente che passa i guadagni saranno diminuiti; se è in difficoltà l’oracolo figurarsi la locanda …

I sacerdoti mormoravano che lei, la Pizia, non voleva chiudere solo per comodo suo. Era stata più volte sul punto di farlo, ma nel momento di compiere il passo decisivo si era sempre tirata indietro, sfidando le chiacchiere che correvano su di lei; alle quali, per altro, opponeva un fiero silenzio e il rifiuto sdegnoso di dare spiegazioni. Non era lei la Pizia? Non era forse lei la custode di tutti i segreti? Non spettava dunque a lei dire l’ultima parola? Ma tale parola non risuonava mai chiara alle sue orecchie. Alle volte era un balbettio, altre volte un labirinto di parole in cui perdersi e lei, puntualmente, vi si perdeva. C’era in quel rifiuto a prendere atto della realtà qualcosa d’irragionevole; in fondo non era la prima volta che un oracolo chiudeva e ciò non aveva alcun significato particolare; forse i traffici avevano preso altre vie e Delfi non era più al centro del mondo come un tempo. Ammone, l’oracolo del grande Alessandro, non aveva forse chiuso? Ora toccava al suo, ma altri avrebbero preso il posto di Delfi; così va il mondo … o meglio: così va nei discorsi piani, quando i nodi sembrano sciogliersi da soli. Quel nodo, però, non si scioglieva proprio; anzi, si complicava sempre più e lei – testarda com’era – non voleva cedere agli umori, neppure ai suoi; figurarsi a quelli degli altri! Voleva trovare una soluzione che fosse semplice e chiara, cercava una spiegazione definitiva e sapeva che nessuno avrebbe potuto aiutarla. L’ultima volta era stata un sogno a fermarla dopo che aveva già radunato i sacerdoti, ma quando aveva cercato di raccontarlo non vi era riuscita e nessuno e aveva creduto.

“La Pizia gioca con noi”, mormoravano tutti; alla vicina locanda si rideva.

Era immersa in questi pensieri quando un rumore la distolse; una delle guardie era entrata correndo e si stava avvicinando al tavolo e quando le fu vicino:

“Presto, presto, venite Pizia, venite!”

I sacerdoti l’attendevano nella grande sala; li interrogò con lo sguardo e loro, senza dire una parola, le indicarono lo spioncino. Nella sala delle tavolette un giovane uomo era intento a scrivere qualcosa su una di esse.

“Chi è?” chiese la Pizia sottovoce.

“Un romano.” Risposero i sacerdoti.

“Un romano?” esclamò incredula e li guardò per sincerarsi che dicessero il vero.

Un romano, un romano … non viene nessuno per due anni e poi arriva addirittura un romano, con tutto quello che c’è a Roma! Mah …

Scuotendo la testa si avvicinò di nuovo allo spioncino. L’uomo, nonostante fosse molto giovane, incuteva rispetto e soggezione; il profilo era gentile, i lineamenti forti e delicati. La colpì il naso pronunciato, che dava al volto il profilo intenso di una vela trascinata verso una meta. La testa era alta sulle spalle, ritta, regale, ma non incuteva timore; il suo aspetto, piuttosto, rivelava l’ansia di guardare lontano, di esplorare il futuro. La barba era ancora corta, era quella di un ragazzo più che di un uomo e questo contrastava con la figura e dava al giovane un tocco di tenerezza che fece spuntare un sorriso sul volto della Pizia.

L’uomo, che sapeva di essere osservato ma non poteva vedere chi lo stesse guardando, cominciò a maneggiare la tavoletta e quando si voltò per posarla sul ripiano di pietra, la Pizia lo guardò, incantata dalla sua bellezza.

Si ricompose immediatamente e rivolse ai sacerdoti uno sguardo di sarcastica commiserazione:

 “Un romano, un romano e voi lo chiamate un romano quello … ” 

I sacerdoti si guardavano imbarazzati e lei continuava a ripetere quelle parole come parlando fra sé e sé, ma facendo in modo che anche loro sentissero e ad ogni pausa successiva alla parola li fulminava con i suoi occhietti pieni di ironia.

Chiese i paramenti e mise sul fuoco l’acqua per l’infuso di erbe, poi ordinò la vestizione e, man mano che la cerimonia procedeva, riacquistava tutta la sua autorità. Quando tutto fu pronto si avvicinò alla porta del trono, il sacerdote raccolse la tavoletta su cui il giovane aveva scritto e la porse alla Pizia, che si ritirò. Le sembrò che scottasse e avvertì un brivido di emozione posandola, ma decise di fare le cose con calma e di trattenere la curiosità. Bevve l’infuso e si sistemò bene sullo scranno, poi prese la tavoletta e la guardò. Non credé ai propri occhi; la voltò e la rivoltò da tutte le parti, ma vi era soltanto una frase scritta su di essa:

 “Vaticinate per voi.”

Niente altro, non un interrogativo, una richiesta, nulla! Due anni di attesa e poi anche un matto mi doveva capitare … speriamo almeno che l’obolo sia congruo … Ma ripensandoci non riusciva a credere che quel giovane volesse prendersi gioco di lei. Vaticinate per voi, vaticinate per voi … Un brivido la scosse; l’infuso cominciava a fare il suo effetto, presto il delirio avrebbe raggiunto l’apice ed in quel momento avrebbe dovuto emettere il vaticinio. Sudava e aveva la sensazione che una forza la tendesse, quasi fosse un arco rivolto verso l’interno del suo corpo, pronto a scoccare la freccia verso un centro misterioso fatto di cerchi d’acqua che inghiottivano le sue viscere. Il volo, il volo, ecco che cosa aveva sognato! Era il sogno di un volo che l’aveva distolta dal chiudere l’oracolo; poi delle parole, un ordine che doveva eseguire o qualcosa che doveva dire; ma erano parole rovesciate, che non riusciva a leggere.

Il corpo sembrò ripiegarsi nello sforzo estremo della massima tensione, ma subito dopo avvertì un vuoto desolante, incolore, assoluto. In esso nuotava senza trovare appigli, abbandonata a se stessa. Solo allora si accorse che il giovane era entrato: seduto davanti a lei, la stava osservando. Cominciò a tremare e a oscillare avanti e indietro, finché le labbra non cominciarono a muoversi da sole, ma senza parlare. Il grido saliva dentro di lei, saliva sempre più, ma interno al suo cadere; così che sembrava allontanarsi dalle labbra, come se anch’esso fosse risucchiato dentro il vuoto. Poi, invece, la sua voce risuonò nella stanza, cristallina e limpidissima; mentre pronunciava le parole del vaticinio smise di cadere. Il sogno ritornò a lei nella stessa forma e la frase le apparve chiara e semplice.

Il giovane, nel frattempo, si era alzato e le stava sorridendo; lentamente si avviò verso la porta, ma prima di uscire le rivolse la parola:

“Vi sono grato, ho avuto da voi ciò che speravo e che a un grande uomo prima di me fu negato. Ora so che mi avete ceduto il futuro.”

Quella notte la Pizia dormì più profondamente del solito e si alzò il mattino dopo con la sensazione di avere fatto sogni piacevoli. Radunò i sacerdoti e li informò senza preamboli che l’oracolo avrebbe chiuso di lì a tre giorni. Si guardarono stupefatti: che il momento tanto atteso giungesse proprio il giorno successivo a una visita, parve loro una di quelle stranezze cui le Pizie erano solite abbandonarsi. Tuttavia, passato lo sconcerto, subentrò la rilassatezza e pesino la gioia; erano liberi, potevano pensare a se stessi.

Quanto a lei si guardò bene dal dire cosa fosse accaduto il giorno prima e quando qualche avventore curioso l’avvicinava nella locanda per domandarle del giovane e della difficoltà del vaticinio, rispondeva con calma e fermezza che si era trattato di un responso come tanti altri. 

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DIARIO ARGENTINO: SECONDA PARTE

IL MONDO VISTO DA QUI.

Un libro scritto da Augusto Zamora, nicaraguense che fu ambasciatore in Spagna e che insegna diritto all’Università di Madrid, mi ha costretto a tornare alla geopolitica. Il titolo dell’opera è Politica e geopolitica per ribelli irriverenti e scettici. Si potrebbe pensare, scorrendo la sua biografia, che il suo sia uno sguardo molto europeo e invece il libro è interessante proprio per la diversità dai nostri saggi di geopolitica, che si leggono sempre meno volentieri. Inoltre, e non è poco, specialmente nella prima parte più riflessiva e teorica, il suo linguaggio ironico riesce a rendere leggera una materia di per sé piuttosto pesante. Vista dall’altra parte dell’oceano, la sua geopolitica è prima di tutto un rovesciamento del mondo in senso proprio, visto che l’analisi parte addirittura dalla cartografia, assai poco neutrale: è la prima volta grazie a lui che mi ritrovo a pensarlo. Siamo così abituati a un’immagine del mondo che una semplice proposta di capovolgimento del globo risulta divertente, estraniante, ma piena di sollecitazioni nuove. I concetti di nord e sud, di est e ovest ne escono modificati da questa semplice mossa, che tuttavia chiama in causa un secondo fattore, il prefisso geo che precede la parola politica e che riacquista tutta la sua importanza, insieme allo spazio fisico. L’analisi di Zamora parte dalla geografia e dal concetto di isola e continente isola, che si sta affermando anche da noi come linea di riflessione e paradigma. Isole e continenti isole sono l’Inghilterra, il Giappone, gli Usa. Naturalmente il fattore geografico da solo non determina la potenze e le direttrici di una politica (le isole del Tonga non sono diventate una potenza mondiale), ma mentre l’acqua separa, la terra unisce: l’Europa in questo senso è solo continentale e a rischio d’invasione da sempre (anche le invasioni interne) perché la terra le favorisce, mentre il mare le scoraggia. Inoltre l’Europa non ha il fattore unificante della lingua che invece ha il continente latino-americano, un continente isola anch’esso come il grande moloch del nord. Da questo approccio l’Europa ne esce subito ridimensionata e si capisce assai in fretta che Zamora non scommetterebbe molto sulla sua durata come entità bizzarramente unitaria e la ragione mi sembra dalla sua parte, anche se poi i modi istituzionali o pseudo istituzionali per arrivare a questo possono essere diversi. Una volta delineato in questo modo lo spazio geopolitico mondiale, Zamora sorprende una seconda volta quando cambia discorso affrontando il discorso economico. Lo fa a partire dalla filosofia di Adam Smith, un approccio che mi convinceva da prima e che mi convince ancor più leggendo il suo libro. Proprio dalla filosofia occorre partire per distinguere bene gli elementi economici da quelli puramente ideologici e politici. La rilettura di Smith da parte di Zamora è particolarmente interessante perché il sostrato filosofo che sostiene il discorso economico porta a una forma ideologica anglo-americana originale: una sintesi, le cui radici, per Zamora, risalgono alla teologia medioevale e all’Apocalisse di Giovanni.

Molta geopolitica europea ha sempre l’antipatica tendenza a essere scritta in modo da guardare sempre dal di fuori, con il distacco salottiero dell’accademia. Zamora offre strumenti e nel fare questo è talvolta pedante e didascalico, specialmente nella seconda parte del libro quando dedica alcune rapide riflessioni su tutti gli scenari geopolitici aperti, corredando il tutto con dati e non solo con interpretazioni.

Il suo affondo politico nei riguardi dell’impero statunitense o statunitense-anglo se si preferisce, comincia da questa affermazione:  

Gli Stati Uniti d’America sono il solo stato in guerra permanente dalle sue origini.

Questa frase lapidaria s’impone nella sua veridicità storica, conosciuta anche da noi, ma non vissuta nello stesso modo. Come tutte le cose troppo evidenti, essa sfugge alla vista, ma la ricognizione storica è facile. Zamora indica proprio nello stato di guerra permanente la ragione di una debolezza intrinseca e di una decadenza che è quasi inscritta anche nei momenti alti della politica statunitense. Il suo sguardo sulla Seconda Guerra Mondiale diventa così cruciale, marcando una differenza rispetto al nostro sguardo. Per i latinoamericani essa non fu mondiale: lo era per noi che ci consideriamo il centro del mondo, non per loro anche se ci furono truppe di quei paesi che combatterono in Europa. Per noi rimane sempre sullo sfondo il fatto che gli Usa furono prima di tutto i liberatori dal nazismo: per Zamora la Seconda Guerra Mondiale è una delle tante guerre combattute dagli Usa per consolidare il proprio dominio mondiale. Da questo derivano due sensazioni nette leggendo il suo libro: che i latino americani del continente sud americano non hanno alcun timore reverenziale nei confronti degli Usa (i messicani ne sono prigionieri aldilà delle loro intenzioni) anche se ne sono dominati per ragioni che conosciamo e che il libro di Zamora si muove in uno scenario che definirei post imperiale nel vedere la loro crisi in modo assai più lucido che non da noi. In un certo senso per Zamora noi siamo già in un contesto multipolare in cui gli Usa hanno perso la loro egemonia e le convulsioni della loro politica ne risultano assai più chiare, prima di tutto perché Zamora non si lascia impigliare come noi, nella falsa scelta fra le diverse alternative che di volta in volta si contendono il potere negli Usa.

Classe media e terratenientes

Sulla classe media argentina c’è davvero tanto da dire a cominciare da come si è formata. Uno fra i primi presidenti amati e odiati, è un po’ la chiave di tutto. Sarmiento, letterato, massone e illuminista, impresse una svolta alla vita pubblica argentina fondando alcune istituzioni e abitudini che hanno resistito fino ad oggi: l’investimento convinto e lungimirante nella cultura, l’istruzione gratuita e per tutti fino all’università, che gratuita lo è ancora oggi e addirittura per chi viene anche dall’estero! Si capisce anche da questo perché gli argentini suscitano l’invidia degli altri popoli latino americani, che tuttavia poi trovano proprio in Buenos Aires, opportunità che nella loro terra d’origine non avrebbero. La cultura, da Sarmiento in poi, è un patrimonio inestimabile della società argentina e basta vedere il numero delle librerie di quartiere per rendersene conto: sono sempre piene e non falliscono come da noi. Sarmiento era un uomo di destra e di certo non pensava all’istruzione in termini democratici, la pensava per gli europei che erano emigrati lì, non certo per gli autoctoni, ma ebbe un grande vantaggio rispetto agli altri leader sudamericani. In Argentina l’elemento indio è per lo più assente sia perché non ce n’erano molti a differenza di Ecuador, Perù e Bolivia, Paraguay e Venezuela, per cui i pochi al nord e al confine con il Brasile furono eliminati o fuggirono; anche l’elemento nero e africano, massicciamente presente in Colombia è qui assente. Sarmiento era classista ma si trovò ad operare in una realtà che assomigliava alla Spagna europea piuttosto che a un paese latino americano: l’elemento italiano sarebbe venuto dopo a turbare un po’ gli equilibri, ma sarebbe stato presto assorbito. Per una sorta di eterogenesi dei fini, la politica culturale di Sarmiento sarebbe risultata nel tempo progressista per tutta l’America latina. Un merito però gli va di certo riconosciuto e cioè l’accesso all’istruzione alle donne fin dalla fine dell’800 in una misura sconosciuta altrove e nonostante il suo personale machismo. Gli argentini però non lo amano molto, tutti, peronisti e antiperonisti e non è facile capire perché. In sostanza però, grazie a lui, è cresciuta una classe media non necessariamente ricca ma molto colta fin dalle origini: una classe media urbana, che paradossalmente, pur con i grandi meriti intellettuali che ha, non sembra avere influito più di tanto sulla grande politica. Arriviamo con questo al punto forse nodale di tutta la faccenda. Nessuno degli interlocutori incontrati fino ad ora ha minimamente accennato ai terratenientes, eppure sono proprio loro il vero potere occulto argentino, anche se non è del tutto chiara la natura della proprietà: sono solo latifondi o altro? Il mistero si chiarirà un  po’ meglio quando Eva e di visiteremo finalmente una grande proprietà vinicola, ma prima di arrivarci bisogna fare un giro al largo ed entrare prima nella terra argentina per eccellenza e cioè la Pampa. Ci si rende conto, allora, che Buenos Aires è un mondo a sé, seppure non nello stesso modo per cui lo sono Londra per l’Inghilterra o Parigi per la Francia. Buenos Aires è profondamente argentina e basta leggere Borges per rendersene conto; ma per conoscere davvero il paese bisogna uscire da Buenos Aires e poi ritornarci. Tandil, 160.000 abitanti ai piedi della Sierra omonima, è a circa 300 chilometri da Buenos Aires, anche se capire ben dove finisce Buenos Aires è meno facile che dirlo. Più o meno è a una distanza che separa Milano da una località a caso compresa fra Bologna e Firenze. Fra la capitale e la cittadina di Tandil ci sono solo due o tre paesi degni di nota: Las Flores e il centro più importante di Ayacucho. Il resto sono rimessaggi di auto, capannoni e pompe di benzina, empori dove si riforniscono di sementi o strumenti di lavoro i terratenientes, gauchos e altri impiegati nelle grandi proprietà, che si spostano con gli elicotteri personali per cui non li vedi mai. Pampa vuol dire grandi campi, anzi enormi, di cui non si vede la fine. In alcuni casi si vedono gli steccati che dividono una proprietà terriera dall’altra, in qualche caso ci sono i nomi dei terratenientes. Si vedono solo animali e tanto meno si vedono le ville padronali collocate al centro delle proprietà, invisibili dalla strada. Sono proprietà enormi. In lontananza si vedono gruppi di alberi sotto i quali ci sono probabilmente anche le ville. Gli animali sono allevati a brado e questo lo si può constatare con la vista: il secondo dato che appare evidente al solo sguardo è che la popolazione animale in Argentina è superiore a quella degli umani: l’Argentina è poco popolata, è terra di spazi enormi, su 32 milioni di abitanti 13 vivono nella grande Buenos Aires.

Tornando a Buenos Aires e riprendendo in mano un libro di orientamento marxista leninista sulla guerriglia argentina degli anni ’70 mi sorprende leggere che viene data ai terratenientes una scarsa importanza nelle loro analisi se non per dire che costituiscono una borghesia compradora che è però interna alla finanza globale e cioè un modo di dire tutto per non dire nulla. Mi domando come sia possibile pensare a una trasformazione dell’Argentina senza tenere conto di grandi proprietari terrieri. Ne ricavo la sensazione che proprio loro sono una sorta di tabù su cui è difficile indagare. Tuttavia la domanda chiave è forse un’altra: perché in Argentina non esiste un movimento contadino come i Sem terra brasiliani, per esempio? Forse è la struttura della proprietà terriera il vero problema? Lo capiamo meglio proprio durante la visita all’azienda agricola Trapiche, vicino a Mar del Plata. Si tratta di un’azienda enorme con tanto di vigilantes all’ingresso, ma una volta dentro e durante  il giro con la guida si capisce subito che non si stratta di un’azienda unica, ma di un consorzio di aziende diverse sotto l’egida di una sola sigla. Si comincia così a capire che, pur avendo delle dimensioni enormi e da latifondo, in realtà le grandi proprietà agricole non sono veri latifondi, ma hanno una struttura proprietaria più complessa che spiega pure perché non esiste un proletariato agricolo in grado di costituire una massa critica. I vecchi proprietari hanno scelto con una certa intelligenza di dividere le proprietà, un po’ lasciandole in eredità ai diversi figli, un po’ assorbendo quelle piccole. In sostanza il regime latifondista è corretto dalla presenza al suo interno di una stratificazione di forme proprietarie minori che vengono governate dal terratiniente di turno, ma lasciate vivere. Questo crea di fatto una differenziazione di classe all’interno del regine proprietario latifondista: poi ci sono i gauchos, gli enologi, gli agronomi, gli amministratori e tutte le professioni necessarie a far vivere la proprietà, comprese le guide e i commessi addetti alla vendita diretta dei prodotti. Non è difficile capire che si tratterà di lavoratori e lavoratrici mediamente meglio pagati di chi svolge altre professioni e in mancanza di una struttura industriale degna di questo nome, si capisce meglio il motivo per cui   gli scontri politici in Argentina – a parte i momenti di particolare crisi che fanno muovere i militari – sono sempre delle risse interne a diversi settori delle classi medie: peronisti e macristi sono entrambi subalterni alle dinamiche internazionali e quanto alla divisione cosiddetta fra peronisti di destra e di sinistra si tratta di settori diversi della stessa classe media in lotta fra loro per raggiungere le posizioni socialmente più elevate, ma  dentro una medesima logica: tutto qui. Alle favelas non ci pensa proprio nessuno e da quanto ho letto non ci pensava nessuno anche negli anni ’70. Cristina Kirchner a dire il vero cercò di spingersi oltre il compromesso silente che governa l’Argentina da decenni, imponendo una tassazione ragionevole alle grandi proprietà e cercando di intaccare il loro potere di interdizione. Pur approfittando del momento favorevole seguito alla crisi del 2000, si trovò di fronte a un dilemma: appoggiare in modo radicale i movimenti delle fabricas tomadas e cercare un’alleanza con classe operaia, coinvolgendo i settori più emarginati delle favelas, o far marcia indietro nel timore di un colpo di stato militare: scelse la seconda strada ma, nonostante questo, il tentativo non le fu mai perdonato e tutti i processi farsa e persino il recente attentato contro di lei lo dimostrano.    

DIARIO ARGENTINO: PRIMA PARTE

5 aprile

Non ero più abituato alle frontiere: quando mi risveglio mentre l’aereo è già sopra l’aeroporto di Buenos Aires, Eva mi porge la scheda da compilare. Un attimo di smarrimento, erano anni che non capitava. Scrivo diligentemente il numero di passaporto e rispondo alle poche domande ovvie e spesso un po’ sciocche, ma di certo come per entrare negli Stati Uniti dove ti chiedono se sei comunista e appartieni a organizzazioni terroristiche. Tutto è andato via liscio, a parte la coda, ma tutto sommato leggera anche quella. La mancanza di una vera frontiera sarebbe la sola ragione che ancora mi tiene aggrappato al progetto dell’Europa comune. Troppo poco, ormai, anche perché quell’Europa ha smarrito del tutto il peraltro tenue entusiasmo dei suoi inizi. Per tutti gli altri, infine, i nostri confini sono diventati spazi di morte e di soprusi. Qui la frontiera c’è, ma l’Argentina è pur sempre un luogo in cui l’italianità è parte costituente dell’identità nazionale: “Benvenuto professore” mi accoglie in perfetto italiano l’agente che controlla il passaporto.

Buenos Aires

Se si guarda alle persone che circolano per le strade di Alto Palermo, Belgrano o Recoleta, sembra di essere in una città europea e non latino americana. La stessa sensazione la si prova osservando i palazzi: l’architettura di quelli più antichi è in stile Tudor (retaggio della dominazione inglese) o neoclassico, in quelli più moderni prevale l’influenza della Bauhaus e a Porto Madero il ponte di Calatrava ne ricorda un altro che si trova a Berlino. Berlinese è pure la presenza della vegetazione all’interno del tessuto urbano in una misura assai notevole. Non solo parchi grandissimi, ma alberi in tutte le strade: a Buenos Aires si è sempre all’ombra, la città è pur sempre nel mezzo della Pampa. Le dimensioni sono più grandi di quelle berlinesi, gli alberi possono arrivare anche fino all’ottavo piano delle case, le grandi Avenidas sono larghissime, la 9 de Julio è addirittura a dodici carreggiate. Se ci si allontana un po’ dal quartiere e si va verso la periferia ecco un’architettura che si può definire coloniale, ma le piccole case a un piano richiamano pure lo stile della villetta inglese con tanto di piccolo giardino; ancor più fuori le favelas s’intravedono solo dai mezzi di trasporto.

Il confronto con la cultura europea è certo uno dei tratti dell’Argentina e anche uno dei motivi di risentimento da parte delle altri paesi latino americani; infine manca un vero elemento indigeno autoctono (molti indios sono immigrati dai paesi limitrofi) e manca quasi del tutto l’influenza africana che è tanta parte, per esempio, di Brasile e Colombia. Tornando alla cultura in senso lato l’elemento francese predomina in molti campi a cominciare dalla psicoanalisi, la cultura italiana è largamente presente negli stili di vita e nella letteratura, mentre la finanza è ispanica o statunitense. Esiste però qualche elemento che sia inconfondibilmente argentino? Bisogna arrivarci pian piano per scoprirlo, passo dopo passo.

Siamo invitati fuori città in una zona periferica ricchissima di verde dove si trova un country, cioè un luogo attrezzato con piscina, giochi per bambini, uno spazio abitativo con venti posti letto e un quincho, cioè un locale all’aperto con una tettoia, un’ampia tavolata e un grande griglia dove si cucina l’asado. Ci accompagna in auto una coppia di giovani amici di Eva. Uscire da Buenos Aires non è come dire, ma a un certo punto arriviamo all’autostrada.

Es la Panamericana mi dice il giovane alla guida:

?Y donde vas? chiedo a mia volta.

Se puede llegar hasta a la Alaska.

La frase mi lascia senza fiato: l’idea di un’autostrada che arrivi fino all’estremo nord degli Usa, mi fa capire che siamo davvero in un altro spazio geografico. Sommando i vari pezzi di autostrade anche da noi si può arrivare fino a Kiruna e al circolo polare artico, ma a nessun europeo verrebbe in mente di dire – trovandosi in auto sulla Brennero Monaco di Baviera – che quella strada porta in Finlandia: basterebbe questo per dire che la frontiera come entità psicologica, e barriera interna esiste eccome, anche se formalmente le frontiere europee non esistono più. La frase del nostro accompagnatore invece, mi ha dischiuso un mondo, di cui avrei poi trovato conferme più volte. Geograficamente e in senso fisico c’è un sentimento diffuso d’appartenenza alle due Americhe, ovunque ci si trovi: poi esistono i nazionalismi, i contrasti con gli Usa, ma terra e natura sono comuni e non hanno confini. Le Americhe sono continenti di grandi spazi e popolazione umana rarefatta rispetto agli standard europei: la stessa sensazione l’avrei provata un anno dopo anche in Colombia.   

Il country è stato affittato da una giovane coppia con figlia di nome Amanda che compie un anno proprio quel giorno. Quando arriviamo mi sembra davvero di essere a Berlino: costruirsi la casa di campagna lungo i rami della Spree o dell’Havel è una consuetudine cui i berlinesi tengono molto. Sono luoghi rustici dove vanno a trascorrere il fine settimana. Ciò che colpisce qui sono ancora una volta le dimensioni di questo spazio. Piove e finiamo presto sotto il quincho, dove il padrone di casa Mattia, padre di Amanda e marito di Laura, sta già preparando un enorme asado; nell’attesa si fa una picada – quello che noi diremmo spuntino, oppure stuzzichini: affettati di varie genere formaggi e insalate in stile italiano a parte il salamin de Tandil e quello di Santa Fe. Sono di origine piemontese ed è l’anziano padre di Mattia  a raccontare la storia della famiglia, emigrata in Argentina a fine ottocento. Ci fu un’emigrazione italiana dal nord che riguarda un po’ tutti e che forse è meno conosciuta: liguri  e piemontesi, lombardi e veneti. La festa, i volti delle persone, il gusto semplice di una convivialità intorno al mangiare insieme sono molto italiani, tuttavia tenendo conto che le persone che vedo qui fanno parte di una classe media delle professioni, mi colpisce il tono informale, anche un po’ spartano: il quincho stesso richiama qualcosa del mondo dei rancheros, dove infondo tutti devono mettere le mani nella terra. I modi sono semplici, non hanno nulla della raffinatezza troppo esibita di un pranzo borghese di città: infine, per preparare un asado bisogna sudare e rimboccarsi le maniche. Il vino è argentino, le combinazioni sono strane, viene dalla zona di Mendoza, la regione del vino per eccellenza. Un tipo di Malbec – la marca più prestigiosa – vinse lo scorso anno un premio mondiale della vinificazioni; perché stupirsene peraltro? Il vino è una tradizione sia italiana sia spagnola, anche se quello che bevo non sempre mi convince. Ci sono molti bambini piccoli, qualche neonato e a occuparsene sono sia le giovani madri sia i padri con naturalezza, una naturalezza che ricorda anche le nostre giovani generazioni. Torneremo a Buenos Aires in auto con una giovane donna con figlio ancora in fase di allattamento: si è fatta i suoi 50 chilometri da sola, con il bambino nel seggiolino posteriore e senza grandi patemi d’animo nonostante i pianti.

Dove sta allora l’identità argentina? Esiste? Durante il pomeriggio si aprono alcune finestre: la prima è legata a un incontro. Mi avvicina un giovane uomo biondissimo, che potrebbe venire addirittura dal profondo nord europeo e invece è di origine italiana e si è avvicinato a me per questo. Comincia a raccontarmi la storia della sua famiglia, passo dopo passo capisco che si sta commuovendo. Faccio poche domande e ascolto: non è solo la sua storia, quella che prende vita nella sue parole e nel suo ricordo è una vera e proprio epopea dell’emigrazione, ma anche una forma del tutto particolare di identità. Ogni argentino potrebbe raccontare storie simili, anche Eva mi ha parlato più volte delle sue due famiglie i Gerace e i Gemelli, che si inseguono fra Calabria e Argentina, in un gioco di rimandi continui. Un paese dove l’emigrazione è identità di narrazioni, diverse ma tutte con qualche particolare che le accomuna. Forse in un certo senso avrei dovuto saperlo anche prima, tuttavia l’impatto con tale realtà è molto forte e segna un’identità nomade, sempre alla ricerca di radici, perché in tutte quelle storie c’è sempre anche qualcosa che manca: una zia con cui si era partiti insieme e che poi si è persa, un altro che improvvisamente ritorna. Si dice che l’Argentina sia il luogo dove è più facile mimetizzarsi e scomparire e forse è proprio così. Poi, insieme a tutto questo ci sono anche la hyerba mate, il tango e il calcio.

I desaparecidos, l’Argentina e noi

In Plaza de Mayo ci arriviamo il terzo giorno di permanenza: ci sono lavori di ampliamento e restauro un po’ ovunque e questo la rende un luogo estraniante, quasi anonimo in mezzo a ponteggi, gru, scavi: solo dalle fotografie è possibile apprezzare la fisonomia originale di questo luogo storico per le iniziative coraggiose e vincenti delle Madres de plaza de Mayo: sullo sfondo l’uno di fronte all’altro il Cabildo e la Casa Rosada, i simboli del potere e dell’indipendenza del paese insieme alla bandiera.  Il luogo non suscita particolari emozioni a differenza di altri due spazi che visitiamo il giorno successivo: la ex Esma e il Parque de la Memoria. Esma fu una caserma e un luogo di tortura: molti desaparecidos sono passati da qui per essere poi uccisi in diversi modi. Ora è la sede di un centro culturale intitolato a Heraldo Conti, giornalista e scrittore arrestato e scomparso a sua volta. Le iniziative che si tengono al Conti sono diverse e denotano tutte una grande ricchezza, in particolare i festival e la proposta cinematografica.

Il Parque de la memoria, invece, è uno spazio molto grande e aperto, a ridosso della città universitaria. L’iscrizione che si legge all’ingresso suona così: Parque de la memoria por las victimas del terrorismo de estado. Tale titolazione mi sorprende: che i famigliari delle vittime siano riusciti a imporre una dizione così esplicita e la formula terrorismo di stato, dovrebbe essere motivo di orgoglio per tutti gli argentini e anche per tutti noi: nella sua semplicità è un discorso sulla verità di quanto accaduto, quello che manca in Italia sulle stragi di stato che hanno costellato la vita sociale e politica italiana da Portella della Ginestra fino a quelle del 1992-3. I monumenti che contiene il Parque sono austeri e molto semplici: il museo, alcune sculture all’aperto e una serie di muri che si affacciano da uno spazio erboso leggermente rialzato, sul Rio de La Plata, in uno dei suoi punti più larghi, tanto che non si vede la riva opposta. Su di essi sono scritti i nomi degli assassinati e dei desaparecidos durante la dittatura militare (1976-1982), ma il tragico elenco comincia da prima perché gli squadroni della morte erano attivi anche nel periodo immediatamente precedente il colpo di stato. Sulla punta estrema del complesso monumentale e a ridosso della riva si può vedere, nelle acque del fiume il monumento al bambino desaparecido. Entriamo nel Museo, dove insieme alla memoria degli scomparsi c’è una sezione video dove dei bambini scampati all’eccidio si rivolgono ai loro genitori o fratelli, oppure amici e amiche desaparecidos con lettere che leggono con una dignità e un’asciuttezza di toni incredibili. È un programma che fa parte di una strategia di ricostruzione della propria personalità e di metabolizzazione del dolore proprio attraverso l’uso attivo della parola e della memoria. Proprio l’assenza di retorica fa risaltare ancora di più la forza della parola e del dolore, i loro volti, che non cedono alla tentazione della commozione, moltiplicano la nostra. Usciamo e ci dirigiamo verso i muri e la solare collina verdissima che li ospita. Sono cognomi italiani e ispanici, ebraici e in qualche caso tedeschi: c’è un mondo intero e ci sono tutte le età. Fra loro ho contato anche otto Romano e quattro Roman: non avevo mai pensato che il mio cognome potesse trovarsi fra quelle vittime.

La visita ai due musei mi ha riproposto una domanda che mi sono fatto più volte e in momenti diversi: perché non capimmo, nel 1976, che quanto stava accadendo in Argentina era la stessa cosa che era accaduta in Cile nel 1973? Perché non ci furono manifestazioni, appelli, scontri, come ci furono in occasione del colpo di stato cileno? Perché tanta cecità, che si sciolse solo sul lungo tempo e solo grazie alle coraggiose iniziative delle Madres de Plaza de Mayo? Provo a rispondere portandomi dietro un vissuto di dolore che rende ancor più urgente la domanda. La sconfitta cilena fu vissuta inconsciamente come un cambiamento di fase che ci lasciò senza fiato. Da un lato suonava come la riconferma che fosse impossibile, per le forze operaie e rivoluzionarie, raggiungere il potere politico in libere elezioni e questo ci poneva di fronte a un dilemma che si sarebbe risolto in modo drammatico nel giro di poco tempo. C’era però anche dell’altro. Durante la guerra del Vietnam, avevamo sentito e intuito che le nostre manifestazioni in Europa e negli Usa erano state un fattore decisivo nella vittoria dei vietnamiti. Di fronte al colpo di stato in Cile misuravamo invece che tutta la solidarietà che avevamo espresso anche prima in forme simboliche e concrete, non era stata in grado di influire prima e tanto meno a colpo di stato avvenuto. Era una duplice sconfitta, là e qui. Quello che era successo in Cile aveva il marchio di una chiarezza che tutti percepivano: capitalismo e democrazia sono incompatibili. Lo sapevamo e lo dicevamo negli slogan e ora lo toccavamo con mano. Oggi sappiamo dalla desecretazione di molti documenti che la preoccupazione di Nixon e di tutta la Trilateral era che l’esempio cileno potesse influenzare la scena politica italiana. In sostanza, gli avvenimenti cileni crearono una miscela di frustrazione e ripiegamento, da un lato, di fuga verso la lotta armata dall’altro. Tutto questo però non basta ancora. Che ci fosse uno scontro in Argentina fra gruppi armati lo sapevamo, i dubbi sulla lotta armata riguardavano la sua fattibilità in occidente: perché dunque non ci si mosse, rispetto a uno scenario che rimaneva diverso dal nostro e in cui l’esempio cubano era ancora vivo? Forse un’altra causa fu che l’immagine che avevamo delle forze guerrigliere argentine (PRT, ERP, Montoneros) era per noi più opaca di quanto non fosse stato lo schieramento cileno; poi c’era il problema del peronismo, che confonde assai anche gli argentini e che tanto più confondeva e confonde noi. Campora fu vissuto in Italia come un uomo potenzialmente di sinistra e forse la stessa cosa avvenne in Argentina. Infine, a ridosso del 1976, il movimento del ’77, caso unico in tutta Europa per ampiezza e creatività, ci riportò alle nostre questioni interne. Il ’77 fu diverso dal ’68 per molte cose, una su tutte: non ebbe uno sguardo internazionalista, un elemento invece essenziale nel ’68. Il ’77 fu un fenomeno che richiudeva il nostro discorso in una dimensione tutta italiana. L’America latina e non solo, diventavano improvvisamente lontane, anche se erano passati soltanto quattro anni. Quando l’Argentina emerse dolorosamente nel 1982 dalla dittatura, da noi c’era stato il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro. Nell’’80 la marcia del 40.000 della Fiat aveva chiuso un ciclo di lotte che era iniziato nel 1962. Eravamo in un altro mondo e quando cominciavamo ad apprendere di desaparecidos e altro, da noi era tutto finito. Il femminismo, inoltre, aveva infranto molti tabù, ma anche demolito convinzioni che avevano alimentato la sinistra extra parlamentare. L’Argentina fu presa nel mezzo, in un momento di cerniera fra due fasi che erano in realtà due continenti che si stavano separando: cominciava a finire il ‘900 e l’Argentina fu una delle faglie su cui questo terremoto, ebbe gli effetti più devastanti, mentre da noi cominciavano anni di riflusso, di riflessioni, di ripiegamenti non tutti negativi. L’89 pose fine al socialismo reale e per molti fu il segnale definitivo di una libera uscita che avrebbe portato per esempio il maggior partito comunista dell’occidente, quello italiano, a correre a vele spiegate verso l’americanismo e il neoliberismo.

Da tutto questo cominciammo a riemergere nel 1994 quando, sull’onda della rivolta zapatista in Messico, ci ritrovammo a Madrid, molto bastonati e un po’ nuovi, a un incontro internazionale dal titolo Il cerchio dei popoli. Nel ’96 sarei ritornato insieme a mio figlio in Messico presso le comunità zapatiste e ci ritrovammo per la prima volta insieme alle organizzazione che più tardi si sarebbero definite con la sigla LGBT. L’aria che si respirava a Madrid, poi nel Chiapas era fresca e un po’ ingenua:  non c’era più il soggetto rivoluzionario ma c’erano molti soggetti. Si ricominciava davvero daccapo ed era veramente così: ma questa è un’altra storia da raccontare.  

Il treno

Lo scompartimento si sta lentamente riempiendo. Il convoglio è un po’ vecchiotto e calure di origini diverse si sovrappongono le une alle altre, mescolandosi. Le campate in ferro e vetro della Stazione Centrale di Milano rilasciano un umidore dall’inconfondibile olezzo metallico, che sommato alla cappa che grava sulla città, produce un impasto dolciastro e fumigante… poi ci sono i treni che arrivano e rilasciano calore senza vapore. Infine, i corpi sudati …

La giovane donna in divisa da ferroviere alza il braccio e fischia, il treno si muove cigolando e mentre sta per uscire del tutto dalle campate, si ode un avviso emesso dal centro messaggi della stazione …

A causa di un convoglio guasto, fermo sulla linea, i treni in direzione di …

La lontananza dalla fonte emittente rende confusa l’ultima parte del messaggio, nessuno ha udito bene e nello scompartimento c’è un attimo di sospensione, gli sguardi cercano quelli altrui.

Entra una giovane donna: porta sulle spalle uno zainetto, ha un’aria decisa e borbotta:

“I ritardi possono essere fino a un’ora, non ci posso credere, non ci posso credere!”, continua a ripetere…

“Ho un concerto alle 21 …”

Gli altri passeggeri seguono il suo sfogo senza intervenire, lei si accascia sul sedile, arrivano altri che s’erano sbagliati carrozza e raggiungono finalmente i loro posti, sbuffando. Intanto il treno ha superato di slancio Lambrate e si sta avvicinando alla stazione di Rogoredo.

Salgono in tanti e tutti chiedono ai nuovi venuti se ci sono notizie fresche.

“I problemi sono sulla linea di Torino”.

“E anche su questa a Lodi”.

Il treno riparte e l’altoparlante di bordo comincia a gracchiare.

“Ecco, adesso ci dicono qualcosa”.

Macché! La comunicazione riguarda bevande e merendine che transiteranno con il carrellino. Tutti ritornano alle loro occupazioni, un uomo seduto al finestrino scuote la testa e ridacchia.

“Mai che avvisino di qualcosa, inutile sperarlo.”

“Ma se il ritardo è su Torino perché mai dovrebbero avvisarci?”

“È vera la notizia del guasto a Lodi? “

“Sembra di sì, un comunicato della stazione diceva questo.”

“Cosa esattamente?”

“Beh, non so di preciso, me lo hanno riferito”.

Qualcuno afferra il telefonino sospirando e comincia ad annunciare il presumibile ritardo. L’uomo al finestrino si rivolge alla ragazza:

“Perché non va a chiederlo direttamente al capotreno?”

Lei lo guarda sorpresa, poi assente decisa.

“Ma sì, ci vado, almeno faccio qualcosa di utile per tutti.”

Nel silenzio che segue gli sguardi si piegano verso la campagna assolata e immobile, che contrasta con il rumore di ferraglia, amplificato dai finestrini tutti aperti. Capannoni e campi coltivati, gente per le strade o intenta ai lavori agricoli. Quando la ragazza rientra gli sguardi sono puntati su di lei.

“Non ne sa nulla.”

L’uomo al finestrino scuote la testa e ride.

“È la solita Italia di sempre, se neppure il capotreno sa cosa sta succedendo.”

“Mi ha detto che abbiamo un ritardo di cinque minuti per via di un passaggio a livello incustodito.”

Detto ciò, la ragazza si rimette gli auricolari, ma poi ci ripensa:

“È un uomo strano il capotreno.”

“Cosa intende?”

“Ma, non so, qualcosa di indefinibile nello sguardo.”

“O dio, non saremo guidati da un matto!” esclama una signora.

“No, un matto no.”

Lodi è prossima: nessun rallentamento, poi ecco la stazione e nello scompartimento si diffonde sui volti una ventata di ottimismo. Sono in tanti sul marciapiede in attesa, ma quando il serpentone si ferma, c’è smarrimento sulla banchina, alcuni formano crocchio, c’è una grande incertezza e sono in pochi a salire.

“Il treno viene dirottato su Voghera e poi su Genova.”

“Come?”

“Sì, lo hanno appena detto.”

“Ma siete sicuri?”

L’altoparlante della stazione toglie ogni dubbio. Dopo la deviazione si proseguirà fino a Livorno e da lì ripartirà per Firenze riprendendo poi il percorso verso sud.

“Sapete se ferma anche a Levanto?” chiede un uomo con apprensione, mentre un altro comincia a dare in escandescenze.

“Ma io devo andare a Bologna.”

“Vado a chiederlo al capotreno”.

“E io come faccio!, che devo essere a Bologna, devo raggiungere la mia fidanzata… ci sposiamo proprio domani pomeriggio.”

“Oh congratulazioni!” esclamano tutti.

“Chiedo anche per quello, ma non ci dovrebbero essere problemi; da Firenze lei prende un treno per Bologna e in un’ora e mezza ci arriva.”

“Sì, ma meglio chiedere.”

Quando la ragazza esce, gli altri si rivolgo al futuro sposo, mentre la voce del matrimonio si diffonde in tutta la carrozza.

La campagna fra Lodi e Voghera mette allegria, con tutti quei campi ben squadrati e coltivati, immagine di un ordine che è lavoro e amore per la terra.

La ragazza ritorna dopo una decina di minuti.

“Lei è fortunato”, dice rivolta all’uomo che vuole scendere a Levanto e prosegue rivolta allo sposo: “per Bologna bisogna domandare più tardi, ci potrebbero essere dei ritardi anche sulla tratta inversa da Firenze, ma non è certo.”

“Ma mi tolga una curiosità.” dice poi un altro rivolto all’uomo che deve scendere a Levanto.

“Prego” ribatte lui.

“Come mai è salito su questo treno se doveva andare in Liguria visto che in teoria dovremmo essere sulla linea per Roma e Napoli?”

Gli altri, intanto, sono tutti affaccendati: chi ad avvisare ancora, chi ad agitarsi per cercare di avere ulteriori informazioni.

L’uomo si stringe nelle spalle e tergiversa, tanto che, chi ha posto la domanda, sente il bisogno di scusarsi; poi l’annuncio di una donna a voce alta distoglie l’attenzione di entrambi.

“Ecco Voghera, forse ci diranno qualcosa di più!”

Lo sposo sta telefonando, un po’ preoccupato.

“E il capotreno che impressione le ha fatto questa volta?”

“Si è voltato verso di me per parlarmi, mentre prima non lo aveva fatto; è un uomo molto anziano, mi ha sorpreso che ci fossero macchinisti della sua età, oppure non so, li porta male.”

La signora la guarda diffidente quanto mai e allora la giovane donna prosegue:

“Non si preoccupi, è un uomo per bene, con gli occhi dolci, pieni di malinconia.”

“La sua è un descrizione molto romantica, non mi dica che ci ha fatto un pensierino.”

Scoppiano tutti in una sonora risata. Poi è l’altoparlante della stazione ad azzittire  tutti.

A causa dei noti inconvenienti e al fine di alleviare il disagio dei passeggeri, la direzione delle ferrovie ha deciso di aggiungere a questo treno un vagone ristorante che entrerà in funzione fra poco.

La notizia è accolta con un giubilo che corre lungo tutto il treno, come un’iniezione di energia elettrica.

“Offro un brindisi” comunica lo sposo che ha riacquistato il proprio buon umore dopo la telefonata.

“Evviva lo sposo!” 

Intanto, il treno ha ripreso la sua corsa verso Genova: Arquata Scrivia, Ronco, le montagne e le valli ancora assolate, il treno lento da una galleria all’altra.

La ragazza del concerto chiama l’amica e le comunica che non arriverà, poi decide di proseguire il viaggio.

“Che ci vado a fare e poi le ho tutte qui le sue canzoni, ho i suoi Cd, preferisco rimanere con voi fino alla fine di questa avventura.”

“Ma di quale concerto stiamo parlando.”

“Vecchioni e De Andrè insieme.”

“Che strano, non ne ho mai sentito parlare.”

“Per il brindisi aspettiamo di vedere il mare, che ne dite?”

“Ma dove sarà diretto poi il treno? Riprenderà il suo tragitto normale e poi? Dopo tutto questo tempo?”

“Già, ma non si era detto Livorno?”

“Sì, ma poi di nuovo a Firenze sulla tratta originaria.”

“Non avvisano mai, la conosco questa storia; non avvisano mai, arriva quando arriva” ripete sconsolatamente l’uomo al finestrino.

Intanto, il treno si è infilato nella galleria che porta alla stazione di Porta Principe.

Sono in molti a salire e pochissimi a scendere, ma anche chi riparte si concede una sigaretta sui marciapiedi.

“Per il brindisi aspettiamo di vedere il mare, che ne dite?”

“Ma certo!” ribadisce lo sposo.

A Brignole salgono pochi altri.

La ragazza ha di nuovo raggiunto il capotreno e subito dopo informa tutti i presenti, come se parlasse a un comizio.

“La corsa proseguirà fino a Roma di certo, ma la meta definitiva non è ancora chiara.”

Ecco il mare, è il momento del brindisi.

Le spiagge si stanno svuotando e la fila di ombrelloni mossi dal vento nasconde il vuoto. Tutto sembra scivolare lentamente verso l’immobilità, ma le voci nella carrozza ristorante si fanno sempre più allegre.

“Si è informata se stiamo recuperando il ritardo?” chiede ancora l’uomo che deve scendere a Levanto.

“Pare di sì, vedrà che alla fine sarà solo un quarto d’ora. Non si unisce a noi?”

L’uomo, finalmente tranquillizzato, accetta volentieri, mentre un altro lo guarda perplesso.

“La vedo in apprensione.”

“Beh, un po’ sì, sono atteso e non mi piace arrivare in ritardo.”

“Forse c’è dell’altro. ”

L’uomo si schernisce un poco e arrossisce:

“Sì, sono atteso da una donna.”

“Si vede caro amico, si vede.”         

Lo sposo sta parlando con una signora anziana.

“Mi maritai sessant’anni fa, proprio in questi giorni, lei mi ha fatto tornare con la memoria a quel momento e le sono grato, anche se mio marito mi ha lasciato da tempo. Sto andando da lui, a Pompei, è sepolto là; lei me lo ha un po’ restituito. ”

Lo sposo le accarezza la spalla con un gesto affettuoso, poi la guarda: gli occhi tristi e lucenti al tempo stesso, sembrano persi in una lontananza senza fine. Lo sposo l’osserva irretito, poi la donna si rivolge di nuovo a lui con un sospiro e un sorriso.

“Ma ora alzo il bicchiere, non voglio tediarla con la mia tristezza.”

Intanto, si sta per arrivare a Chiavari. In città regna un silenzio irreale, le figure che transitano sotto i portici prospicienti la stazione sono ripiegate su di sé, raccolte, indifferenti agli altri. La spiaggia è completamente deserta.

Dentro il vagone ristorante, invece, la musica, le chiacchiere, il clima conviviale che sta contagiando sempre di più tutti i viaggiatori.

La notizia dello sposo a bordo si è diffusa per tutto il treno ed è un continuo andirivieni nel ristorante, dove i brindisi si susseguono interrotti ogni tanto dalla richiesta di informazioni, cui si presta volentieri la giovane donna. 

“Neppure il capotreno sa precisamente dove siamo diretti, dopo Napoli tutto diventa confuso.” ribadisce lei e prosegue: “Però secondo me lui non mi ha detto tutto, mi ha guardato con occhi paterni, rassicuranti, come a dire di non preoccuparmi.”

“Ma come, non si era detto Roma?” chiede un altro perplesso, ma la sua domanda cade nel vuoto.

“Lo vada a trovare ogni tanto, mi sembra che con lei parli questo benedetto uomo.”

“Tutto avviene per caso e all’improvviso, come sempre. La conosco molto bene questa linea, chi sale su questo treno, non sa bene dove va a finire. ”

L’uomo che ha parlato è comparso da poco nel vagone ristorante.

“Lei dove va?”

“Io? Non ho meta, viaggio da tempo durante la notte. Non ho più casa e non posso permettermi di pagare un affitto e allora ho fatto un abbonamento annuale notturno con le ferrovie. Dormo sui treni e scendo il mattino dove capita; in questo modo, con la pensione che mi ritrovo, riesco a vivere.”

“Ma non è dignitoso che un uomo anziano venga trattato così, è indegno di un paese civile!” sbotta una signora che ha orecchiato la conversazione. Il tono alto della voce attira altri e altre nel crocchio che si è formato intorno all’uomo, elegantemente vestito, che racconta.

“Questo abito me lo tengo da conto, ne ho solo un altro che è appeso nel vagone destinato ai controllori, ormai mi conoscono tutti.”

“Sì, la nostra è una società che tratta gli anziani come ferri vecchi.”

“Con i giovani fa anche di peggio.” s’inserisce un altro.

“Vedo che avete ancora voglia di indignarvi, io l’ho persa da tempo questa volontà e poi, tutto sommato, sono contento della vita che faccio. In treno mi rispettano tutti, a volte incontro le stesse persone un anno dopo e anche più, le loro vite entrano nella mia: è bello condividere le vite altrui, dare qualche buon consiglio se richiesto, è come leggere un romanzo che non finisce mai.”

“Sa che forse un po’ la invidio? Ma che fa poi di giorno?”

“Aspetto la sera, là dove mi trovo, a volte è un po’ faticoso, durante l’inverno, ma cerco di andare sempre verso sud quando fa molto freddo: di solito, leggo nei bar e scrivo, qualche volta vado al cinema o a teatro.”

“Ne avrà incontrata di gente e anche qualche avventura, sia sincero!”

L’uomo sorride tristemente a quelle parole, perso in chissà quali ricordi.

“Perché non ci racconta qualcosa.”

Lui si schermisce: “Mah, non so raccontare è difficile non sono così bravo.”

“Ma sì che può farlo, tutti siamo un po’ narratori, la vita è un romanzo per tutti, non solo per i personaggi che poi finiscono nei libri, non crede?”

La giovane donna che ha parlato è appena entrata nello scompartimento e si sta godendo il suo bicchiere di vino. Lo alza in direzione dell’uomo.

“Ma, se proprio volete.”

Fu uno dei primi che incontrai: da poco più di un mese avevo sottoscritto l’abbonamento. Lui salì per ultimo alla stazione di Como. Non mi capitava spesso di raggiungere quella città perché si trova  a ridosso della Svizzera e da lì si può solo tornare indietro; poi a me le città di lago non piacciono, mettono tristezza. Lui salì e chiese se fosse libero il posto di fronte al mio e quando si sedette notai anche il suo bagaglio, un borsa piccola che conteneva un album di fotografie. Il treno arrivava a Milano intorno alle undici, poi io avrei preso quello notturno per Roma, che viaggia tutta la notte facendo proprio questa linea; sarei arrivato al mattino presto alla stazione Ostiense. Lui invece proseguiva per Mantova. Aprì subito l’album e si mise a sfogliarlo; intravedevo qualcuna di quelle fotografia lui ogni tanto alzava lo sguardo e mi sorrideva malinconicamente. Non resistetti alla tentazione e gli chiesi dove stesse andando. Lui mi rispose subito, capii che aveva voglia di parlare. Mi spiegò che prendeva tutte le sere quel treno a quell’ora perché molti anni prima aveva incontrato, proprio nello stesso scompartimento dove siamo seduti insieme (Carrozza 6  sei posto 42 mi precisò con meticolosità), una donna che faceva quel percorso in senso inverso rispetto a lui, allora. Lei si recava a lavorare –  così mi disse l’uomo – a Milano, senza specificare niente altro, lui tornava a casa a Milano, alla fine di una giornata in ufficio. Non mi disse altro per il momento e  continuò a sfogliare il suo album. Mi passarono molti pensieri per la testa, ma rimasi in silenzio. Fu lui a riprendere il discorso. È la sola che ho in cui siamo insieme e mi mostra una fotografia di loro due abbracciati, proprio nello stesso scompartimento in cui ci troviamo ora. Lei indossa una minigonna di plastica rossa e calze nere a rete, molto vistose. “è un angelo” mi disse l’uomo e io non gli risposi nulla…       

Intanto nello scompartimento è entrata altra gente, il narratore s’interrompe per fare posto, ma quando s’accinge a continuare ecco che l’altoparlante comincia di nuovo a gracchiare.

“Vede che avevo ragione? Meno di un quarto d’ora di ritardo. Allora  è proprio deciso a lasciarci?”

L’uomo diretto a Levanto sorride felice e alza il calice per un nuovo brindisi, mentre il narratore ha ripreso il suo racconto.

“Mi ripromisi di cercarla sempre, quel viaggio fu indimenticabile per me; niente è più vero di ciò che si incontra per caso, perciò viaggio sempre su questo treno.”

Io lo osservavo perplesso, ma gli occhi di quell’uomo erano velati e caldi, la sua era una malinconia che chiedeva silenzio e un’accettazione religiosa.”

Il crocchio intorno al narratore si è fatto ancora più grande e non tutti riescono a sentire.

“Vado a cercare un microfono, lei aspetti a continuare” dice la ragazza che era appena entrata.

“Mah lei cosa ne pensa del racconto, a me sembra assai strano, ma quella ragazza….”

“Sì capisco cosa lei vuole dire, ma sa le storie d’amore sono tutte un po’ strane.”

“Beh ma qui l’amore sembra c’entri poco, incontrare una prostituta che ritorna dal suo lavoro in treno non è poi un incontro così originale.”

“Ma forse non è quello il senso del racconto” s’intromette uno degli ultimi arrivati.

“Mi sono perso la prima parte…”

“O ci vuole poco a riassumerla. Un uomo che se ne torna a casa incontra questa signora e si innamora di lei, tanto che la cerca tutte le sere sullo stesso treno.”

“Ma il narratore non ha detto che si era innamorato di lei.”

“Ma era implicito nel suo racconto.”

“Lei dice?”

“Ma certo! Forse il messaggio è proprio quello: l’amore è imprevedibile, ci si può anche innamorare di una prostituta che si è vista su un treno.”

“Sì ma poi non la vede più.”

“Beh aspettiamo la conclusione per dirlo.”

“Ecco il microfono.”

La ragazza, aiutata da un uomo, piazza l’aggeggio su un tavolino del vagone ristorante, il narratore si siede e ricomincia a raccontare.

Ero molto incerto: come potevo entrare nel mistero di quell’uomo e interrogarlo, senza violarne il bisogno di silenzio? Lui continuava a guardare la fotografia, io sbirciavo per coglierne altri particolari. Lui sospirò a lungo, ripose tutto e si rivolse a me con un sorriso triste.

“Il destino, il destino” mormorò sottovoce, poi si avviò verso la porta. Eravamo giunti a Milano, infatti, non vi era più tempo. Lui mi guardò e allora mi decisi a parlare:

“Domani sarà ancora su questo treno?”  

“Sì certo e lei?”

Rimasi un momento interdetto poi mi lasciai sfuggire che ci sarei tornato. Pensavo dentro di me che fosse tutto assurdo, ma ormai lo avevo detto. Sarei tornato a Como per ritrovarlo la sera dopo, e la cosa sul momento m’inquietò. Tornavo in un luogo in cui mi ripromettevo ogni volta di non tornare più; quel lago che ogni tanto tracima, quelle montagne basse e incombenti, mi trasmettevano in senso di paura. Ma ormai mi sembrava di essere legato a quello strano passeggero da un destino comune che pure non sapevo decifrare. Forse è proprio questa la magia: a volte il racconto di una vita altrui è più affascinante persino della propria di ciò che si può ancora farne e volerne fare. Ma ora scusatemi, vi prego, ho sonno, sono molto stanco, se volete possiamo continuare domani.

La fine momentanea del racconto fu accolta da tutti con un senso di meraviglia e sgomento, da altri con stizza o una punta di delusione.

L’altoparlante annunciò proprio in quel mentre che si stava per entrare nella stazione di Levanto e tutti si rivolsero all’uomo che stava per scendere. Egli però era rimasto seduto e immobile al suo posto, il solo movimento visibile sul suo corpo erano le lacrime che scendevano sul volto, pian piano. Il treno si ferma, ma egli non accenna a scendere e allora tutti si rivolgono verso di lui, trattenendo il fiato.

“No, non ne sono più convinto di scendere, anzi non lo sono affatto, resto con voi.”

Poi, quasi a scusarsi, abbassa lo sguardo e si schernisce dietro il fazzoletto: allora è la giovane donna, che lo sta osservando con un sorriso malinconico, a iniziare un applauso che diviene un vero e proprio scroscio di palmi che si battono a un ritmo sempre più accelerato. L’uomo allora ride a singhiozzi e ringrazia. 

Il treno è ora fermo sul binario più lontano e in molti s’avvicinano al finestrino e guardano fuori.

Dietro la stazione, verso l’interno, il bosco immerso nel buio del crepuscolo, è forato dalle luci dei pochi casolari.

“Mi è sempre piaciuta quella valle, i suoi silenzi, la sua asprezza che si apre improvvisa su paesaggi immensi, il vento, ma è tardi, è tardi” poi si rivolge agli altri con un sorriso.

Nessuno sale, le porte si chiudono rapidamente, con un rumore che non ammette repliche.

“Ecco un altro che sente ancora fortemente il richiamo della vita.”

“Già, è molto poetico quello che ha detto.”

“Sì, per i poeti che ci stanno oggi era poetico, certo!”

La prima stella in cielo e sul mare sempre più scuro, spalanca la notte, ma nel vagone ristorante nessuno sembra accorgersene: si continua a bere e a chiacchierare.

“Ma perché non ci dice di più di questo capotreno signorina? Ormai è diventato un personaggio, un po’ come questa donna misteriosa del racconto.”

“È un uomo molto anziano, ma i suoi occhi sembrano quelli di un ventenne, neri e bellissimi, emanano una grande forza.”

“Si direbbe che lei se ne stia invaghendo.”

“Le donne giovani come lei sono sempre un po’ alla ricerca di un padre….”

“A dire il vero potrebbe essere mio nonno.”

“Addirittura!”

“Sì è un uomo che sembra provenire da un altro tempo.”

La nuova galleria, distoglie per un momento l’attenzione, mentre l’ennesima bottiglia di spumante fa il suo ingresso in scena con il botto. Si entra nella stazione di La Spezia, proprio sull’ultimo binario, il più lontano dall’edifico, che s’intravede appena sullo sfondo. 

Il treno prosegue veloce verso la Versilia mentre l’altoparlante ricomincia a gracchiare. Tutti trattengono il fiato in attesa del messaggio.

Si informano i passeggeri che il treno, dopo Firenze, proseguirà fino a Napoli dove verrà presa la decisione definitiva sulla sua destinazione ultima. Per chi volesse recarsi a Bologna ci sono invece delle difficoltà perché la tratta appenninica è interrotta nei due sensi.

“Oh Dio!, e adesso che faccio? Devo avvisare subito la mia Giulia!”

“Giulia? Un nome nobile e antico.”

“È un professoressa di paleontologia.”

“Nomen homen…”

“Mulier, se mai”

“Perché non le dice di raggiungerci Firenze? Se lei venisse sul treno.”

“Già ma poi dove ci sposiamo?”

“Qui, fra noi, il capotreno è un ufficiale giudiziario in determinate circostanze, come il capitano di una nave: mi sembra che l’emergenza giustifichi questa prassi inusuale.”

“Mah, non so che dire, ma poi noi, noi vogliamo sposarci anche in chiesa!”

“Ma ci sarà pure un sacerdote in mezzo a tutta questa gente!”

“Lei pensa davvero che si possa fare?”

“Ma certo! Signorina, visto che ormai ci è abituata: può recarsi un’altra volta dal capotreno e chiedere tutto a lui?”

La ragazza, felice di potere ancora una volta rendersi utile, esce frettolosamente; intanto lo sposo telefona a Giulia. Nella carrozza ristorante la ressa si è fatta ancora più fitta, insieme a una frenesia contagiosa e sono tutti in attesa della ragazza. Lei entra di corsa nella con un sorriso raggiante, preceduta solo per un attimo dall’altoparlante: è il capotreno a parlare, richiamando l’attenzione di tutti e allora lei, che ha sulla punta delle labbra la buona notizia, si zittisce, lasciando all’uomo al comando di chiedere tramite la radio che un prete lo raggiunga nel locomotore per comunicazioni importanti.

Un evviva corale accoglie la notizia e subito lo sposo lo comunica a Giulia. Sarà lei a raggiungerli in auto sul convoglio, prima di Livorno.

Non è lunga l’attesa, fra un brindisi e l’altro e le voci che ormai si stanno alzando di tono, ecco un pretino fare il suo ingresso nella carrozza: giovane e impacciato come tutti i giovani, visibilmente a mal partito, avanza lentamente cercando con gli occhi chi sia lo sposo; ma è la signora anziana a intervenire e a toglierlo dagli impacci.

“Venga, venga padre e non abbia paura, potrei essere sua nonna sa! Li mi ricorda tanto mio nipote.”

Il sacerdote si profonde in un inchino e si schernisce un poco “era missionario in Africa!” prosegue imperterrita l’anziana signora, mentre il giovane prete si accomoda a un tavolo dove si siede anche lo sposo che gli tende la mano.

“Sono io la causa del suo disturbo padre; io e la mia Giulia e futura moglie. Crede si possa fare questo matrimonio?”

La battuta solleva la risata di qualcuno, lo sconcerto di altri, il silenzio dei più. Anche il pretino sempre più impacciato nel rispondere, incerto forse se cogliere l’implicita ironia della citazione, forse neppure voluta, oppure di passarci sopra.

“Io sono qui e se posso esser utile, ma devo chiedere l’autorizzazione al mio Vescovo”. 

“Oh, le hanno sempre trovate le soluzioni, per qualsiasi cosa, vuole che non la trovino proprio ora? Non ci credo. Può farlo subito per cortesia?”

“Ma quando la futura sposa ci raggiungere?”

“Fra non molto è per questo che le chiedevo se può sentire il Vescovo al più presto.”

Il pretino, superato il momento d’imbarazzo, si apparta con il proprio cellulare.

“E così suo nipote era un missionario in Africa?”

La signora guarda l’uomo che le sta di fronte, l’altro allora le tende la mano e si presenta. “Mi scuso per essermi intromesso, ma sono sempre curioso dell’Africa ci andai anch’io per diversi anni: mi chiamo Spartaco.”

“Missionario anche lei?” chiede un po’ incerta la signora.

“No, no, non proprio almeno.”

La signora scuote il capo, poi riprende dopo avere sorseggiato il vino: “Era in Mozambico, in una missione sulla costa.”

“Oh conosco quel paese, pensi che collaborai con il primo governo, li aiutavo a costruire la ferrovia, sono ingegnere.”

“E rivoluzionario.” aggiunge la signora con un sorriso beffardo.

“Sì, diciamo che a quei tempi lo ero o se preferisce ero convinto di esserlo.”

“Già, anche mio nipote era convinto di fare del bene allora.”

“Perché”, ma non c’è tempo di continuare perché il pretino fattosi improvvisamente disinvolto se ne esce con un sonoro: “Sì, si può fare, ho l’autorizzazione del Vescovo.”

L’annuncio è accolto da applausi e altre grida di evviva, mentre lo sposo si è ritirato in un luogo più silenzioso per telefonare a Giulia. Torna poco dopo.

“Mi richiama fra qualche minuto, speriamo che possa raggiungerci.”

“Vedrà che andrà tutto bene.”

Gli altri s’interrogano con lo sguardo, ma poi le attenzioni sono tutte rivolte di nuovo al prete, che discute amabilmente con tutti

Squilla di nuovo il telefono e lo sposo si allontana leggermente per parlare con più calma.

“La mia Giulia ci sta raggiungendo, sarà qui al massimo fra un’ora!”

“Evviva la sposa!”

Al suo arrivo la carrozza è in piena festa, il prete attende un po’ imbarazzato che la cerimonia possa avere inizio.

“I testimoni, ci vogliono i testimoni.”

Si offrono in tanti e si arriva in fretta a una soluzione.

Al termine un nuovo evviva corale accoglie il fatidico bacio fra i due sposi, sotto gli occhi imbarazzati del pretino che si sta togliendo i paramenti.

“Rimanga con noi padre”, ma lui si schernisce.

“Vi lascio alla vostra festa, preferisco coricarmi” e s’allontana rapidamente. 

L’accavallarsi delle voci, dei brindisi, l’allegria più semplice, tutto quello che ci si può immaginare stava dentro quella carrozza che diventava sempre più grande, con i suoi ospiti che continuavano ad arrivare da ogni parte.

“Ma qui manca la musica, come si può festeggiare senza musica!”

“E senza ballare” aggiunge una signora. Tutti gli occhi sono di nuovo rivolti alla ragazza.

“Ma lei non doveva andare a un concerto questa sera? E non ha forse detto che ha della musica con sé”

“Certo.”

Senza dire altro la ragazza, prende un computer dal suo zainetto, inserisce il cd e la musica inizia come uno scoppio fragoroso, a un ritmo cui i corpi rispondono subito, a ondate successive.

Ridere, ridere, ridere ancora,

ora la guerra paura non fa,

brucian le divise nel fuoco la sera,

brucia nella gola vino alla sazietà,

musica di tamburelli fino all’aurora,

il soldato che tutta la notte ballò

vide fra la folla quella nera signora,

vide che cercava lui, e si spaventò

Dal fondo della sala qualcuno invoca che si alzi il volume, mentre altri hanno rimediato degli altoparlanti di fortuna che piazzano agli angoli della carrozza.

Il ritmo diviene sempre più frenetico, i corpi sobbalzano e danzano come un’onda di piena.

La danza prosegue incessante al ritmo della canzone che viene continuamente riproposta, finché i corpi esausti cominciano a sciogliersi l’uno dopo l’altro dal gruppo. È notte tarda quando il vagone ristorante si svuota quasi completamente. Gli sposi si sono ritirati in uno scompartimento preparato per loro, solo il viaggiatore notturno, la giovane donna, l’uomo che doveva scendere a Levanto e quello seduto  al finestrino indugiano ancora. Poco dopo anche l’anziana signora si aggiunge alla compagnia.


“Alla mia età si dorme poco, ormai, il tempo è tutto contratto, si rinsecchisce come una ruga sul volte e poi mi piace vegliare.”

“Io sono fortunato invece, il sonno mi prende sempre ed è profondo, mi sveglio quando il treno sta per arrivare e così durante il giorno posso andarmene in giro senza problemi.”

“Già per lei sarebbe davvero un guaio l’insonnia, ma vedo che questa sera lei fa un’eccezione.”

La ragazza ha tolto dalla sua borsa alcuni cd e li fa scorrere fra le mani.

“Perché non mette qualcosa?”

“Già buona idea”, ribadisce l’uomo del finestrino.

“Mi raccomando, scelga qualcosa di adatto, non così ritmato.”

Lei armeggia e poi si indirizza decisa su un disco che tiene appena fra due dita.

“È un De Andrè molto particolare, vi piacerà …”

Tutti tacciono in attesa ma il cd tarda a partire.

L’uomo che doveva scendere a Levanto scuote il capo tristemente, fra gli altri solo la signora anziana annuisce; poi è il suono a estendersi per tutto lo scompartimento. I camerieri si fermano, ascoltano come tutti, mentre i bicchieri rimangono sospesi a mezz’aria.

Se dalla carne mia già corrosa

dove il mio cuore ha battuto il tempo

dovesse nascere un giorno una rosa

la do alla donna che mi offrì il suo pianto

per ogni palpito del suo cuore

le rendo un petalo rosso d’amore

 per ogni palpito del suo cuore

le rendo un petalo rosso d’amore

Tutti seguono in silenzio le note, senza dirselo hanno formato un cerchio e si tengono tutti per mano.

Quando è di nuovo silenzio si accorgono che il treno sta di nuovo rallentando e allora tutti si accalcano al finestrino. Roma è vicina.

La città è immersa in un sonno profondo, le poche automobili sul tratto di Tiburtina che corre di fianco alla ferrovia sono immobili, pur trovandosi al centro della carreggiata.

Le rotaie divelte e i cantieri, sembrano voragini, squarci nella terra rivoltata e lasciata a mucchi di fianco a macchine utensili e gru che sembrano mostri antidiluviani, nel buio. La stazione è deserta e non appena il treno la supera, vira verso Ostiense e Città del Vaticano. In prossimità del Tevere il convoglio rallenta di nuovo. Il fiume s’intravvede appena, come un nero fondale, un abisso scuro e tranquillo. Superato il ponte ecco profilarsi sullo sfondo la cupola di san Pietro, ricoperta da un fogliame che da lontano sembra una decorazione barocca. La luna incombente e chiarissima illumina a giorno il colonnato della piazza. Su ognuna delle colonne i viluppi di edere e altri rampicanti costruiscono bizzarri disegni che da lontano sembrano corpi travolti in un amplesso senza fine.   

“Nessuno ci è più venuto da quando se ne sono andati da qui.”

“Già, tutto lasciato com’era.”

“Quelli di prima si stanno riprendendo il luogo pian piano.”

“Già.”  

Il sonno, uno dopo l’altro se li porta via tutti: chi abbandonato sul sedile, i piedi distesi alti o il capo appoggiato al braccio disteso sul piccolo tavolo.

Il primo a risvegliarsi è il viaggiatore. Si guarda intorno e sorride con tenerezza agli altri che stanno ancora dormendo. Il sole è appena spuntato da una collina a sinistra del treno che attraversa una campagna silenziosa; poi curva verso sinistra e infondo alla piana si intravede il mare. L’uomo che doveva scendere a Levanto si avvicina a lui, i due si guardano senza parlare gli occhi puntati in direzione del mare.

“Siamo vicini.”

Intanto il treno si è inoltrato in un piccolo bosco di alberi e cespugli, in mezzo al quale si delinea il profilo di un antico tempio classico. In lontananza e dai quattro punti cardinali si vedono altri convogli, scivolare l’uno accanto sui binari che si moltiplicano con l’avvicinarsi dell’ultimo tratto di corsa in direzione dei templi e del mare. Finalmente le porte della città sono vicine e tutti si accalcano ai finestrini in religioso silenzio. Lo sposo abbraccia Giulia alle spalle e lei si abbandona a lui. La vecchia indica un punto lontano e si asciuga una lacrima; è il cimitero, pensa fra sé lo sposo, ricordando il dialogo fra loro due avvenute tanto, tanto tempo fa.

Le labbra si muovono per dire qualcosa ma il suono della voce è atono, distante. Il treno è ormai vicino all’ingresso e i primi rumori della città vengono accolti con stupore. Il convoglio rallenta ancora e la porta d’ingresso appare ora in tutta la sua grandezza e quando il locomotore è giunto alla soglia il treno si arresta. C’è una fila di convogli all’ingresso, ma l’attesa è breve. Si odono le porte della prima carrozza aprirsi, è il capotreno a scendere per primo, al suo cenno tutti lo seguono dalle diverse carrozze si avviano lentamente con i loro bagagli. Alla porta d’ingresso la Gradiva  e un giovane che indossa dei calzari alati salutano chi arriva con un largo sorriso, i bagagli vengono ammassati lì fuori appena prima dell’ingresso.

Si entra e la casa di  Meleagro non è lontana. La superano insieme agli altri e arrivano in una larga spianata proprio in riva al mare. La folla è enorme, silenziosa, ognuno cerca un luogo dove mettersi in attesa. In fondo, proprio a ridosso della battigia, una specie di duna di sabbia più alta si sta riempiendo. Nel silenzio sono in molti ad accennare con la mano a questo o a quella che si stanno portando sulla piccola altura in quel momento.

Ora sono tutti fermi e anche la piccola collina è quasi piena, ma nessuno ancora dice qualcosa. Poi, una figura claudicante dai lunghi capelli castani venati dal bianco e una lunga veste si avvicina, sale con fatica, sedendosi a un lato estremo del medesimo. Allora, proprio al centro si alza una di loro e si rivolge alla folla:

“Venga avanti il primo!”

Annali

Questo racconto lo scrissi nel 2007  fu pubblicato nel 2009 nell’Antologia Milano per le strade a cura dell’Editore Azimut di Roma. 

ANNALI.

Protocollo 16.200IIICI: testimonianza 2017.

Non me n’accorsi subito caro Esteban. Sai, io non amo il buio e lascio sempre una luce accesa da qualche parte, la notte … Anche ora che sono un anziano con i suoi acciacchi, non ho tende alle finestre e il mattino il sole o la pioggia mi entrano in casa senza filtri, come invasori spietati.

Tuttavia non me n’accorsi subito. Ero abituato al chiarore che diventa sempre più netto: prima l’aurora, poi l’alba, infine i rumori del traffico e … lì finiva la magia, il lento risveglio sfociava nel caos della giornata. Si ritorna verticali, tutto ricomincia a correre e io non so mai se sono gazzella o leone, come dice quel proverbio africano, e così mi metto a correre anch’io.

Quella mattina no; perché poco prima che si udissero i rumori della città mi accorsi che il cielo era completamente giallo. Aprii subito la finestra e il vento di scirocco mi colpì a ondate. È facile riconoscerlo; la mia casa in Via Meda è orientata secondo l’asse est ovest e così è un gioco da ragazzi mettere fuori la testa e sentire la rasoiata che arriva da sud o da sud ovest: il vento che viene da quella direzione, a dire il vero, è più frastagliato perché deve superare il Turchino e non arriva compatto come da sud. Era scirocco quel mattino e, portata dal vento, arrivava la sabbia del deserto: il colore giallo del cielo era un tappeto di pulviscolo disteso sopra l’azzurro e lo copriva tutto, non c’era angolo che riuscisse a scampare e in lontananza la coltre s’abbassava ancora di più sopra le case, le chiese, i capannoni; tutto, ma proprio tutto, ingialliva.

Mi attardai incantato alla finestra, incredulo, poi mi accorsi che altri erano stupefatti come me. Fu del tutto naturale guardarsi e sorridersi a distanza, ma ancora più stupefacente fu riconoscersi in strada e nei negozi ore dopo. Il cielo era sempre giallo, anzi, con il sole alto, la declinazione opaca del colore si era trasformata, impregnandosi di luce: Milano era diventata un immenso Van Gogh.

Due giorni dopo tutto era ancora più giallo e agli angoli delle strade, specialmente in corrispondenza del semaforo all’incrocio fra via Meda e Viale Tibaldi, crocchi di uomini di provenienza magrebina si radunavano in un numero maggiore del solito e nelle lavanderie a gettone non si parlava d’altro; il deserto stava risalendo verso di noi, quelle nubi di polvere e sabbia erano un annuncio.

Durò una settimana, poi la città ritornò normale, lo scirocco si calmò, il cielo quello di sempre; a volte azzurro, altre più numerose volte bianchiccio e slavato come un malato terminale. Tuttavia quelle nubi di sabbia non erano passate invano, avevano lasciato tracce evidenti, la città non era più la stessa; ogni mattina tutti guardavano il cielo in modo diverso da prima, come se stessero attendendo un presagio.

Nessuno si stupì quando, annunciato da alcune folate d’avvertimento, lo scirocco ricominciò a soffiare più impetuoso che mai. Il cielo era percorso da ondate di sabbia, dune che si trasformavano in cammelli, oppure assumevano le forme più strane, diverse dalle nuvole lombardi. Ricominciammo a sorriderci dai balconi, da un palazzo all’altro; gli stessi della prima volta e altri e … altre.

Fu così che conobbi tua nonna, caro Esteban; alla finestra come avveniva secoli prima nei cortili. A quel tempo, molti giovani si fidanzavano già al video telefono, per posta elettronica, scambiandosi fotografie che correvano su fibre ottiche, o semplicemente con un sms. Ti verrà da sorridere leggendo queste mie parole: tu ormai a tutto questo ci sei abituato, ma per noi non era proprio così, eravamo nel mezzo, un po’ d’antico e un po’ di moderno. Noi, la nonna e io intendo, abbiamo fatto tutto all’antica, comprese le rose che le portai la sera stessa del nostro primo incontro. Così cominciò tutto; dopo due anni nacque tuo padre e dopo tanto tempo sei arrivato anche tu. Che il tuo dio sia con te e con i tuoi sedici anni! Ti abbraccio mio caro Esteban. Tuo nonno Achille.

Protocollo 16201IIICI: Testimonianza 2018.

Non so proprio cosa diavolo stia succedendo a questa benedetta città. Si alzano tutti il mattino prima del solito e spiano il cielo in attesa di chissà che cosa. Nei blog non si parla d’altro, nei siti dedicati alle questioni scientifiche pure; ora, anche all’università, siamo invasi da ogni genere di sciocchezze e adesso ti ci metti anche tu a chiedermi cosa sta succedendo! Ma nulla, semplicemente da tre giorni c’è lo scirocco, cosa vuoi che sia! Sì, il cielo è giallo, è sabbia del deserto. Certo! Che arrivi fino a Milano in quantità così elevata è anomalo; ma da qui a tutto l’allarmismo che c’è in giro ce ne corre. Casa vuoi che c’entri tutto questo con il dibattito scientifico sul clima! È che ormai tutti discutono di tutto, come se fossero al bar. Che si parli di fisica nucleare o di calcio non cambia nulla … Ieri sera sai cosa mi ha chiesto mia figlia? Mamma! È vero che questa sabbia viene soffiata dagli arabi con grandi turbine per spaventarci e poi invaderci? Sono letteralmente allibita! Come si fa a rispondere a una domanda del genere? Chi mette in giro queste bufale? Persino per confutarla, una domanda così, sei costretta a prenderla in qualche modo sul serio e io vedo in ciò una corruzione ben più seria che non quella provocata dalla sabbia che s’infila dappertutto! Di quella prima o poi ci libereremo, di queste sciocchezze mai e mi preoccupa che anche nei nostri ambienti si parli di questo fenomeno con superficialità salottiera e anche un po’ razzista. La sabbia nelle nostre teste mi fa paura, il tarlo che corrode giorno dopo giorno, il lento scivolare dei modi di pensare e di agire. È tutto assurdo mia cara, c’è qualcosa di diabolico in questo e noi che crediamo ancora nella possibilità di ragionare (ma ci crediamo ancora?) sembriamo ormai una specie in via di estinzione. Scusami il tono allarmato, ma non pensavo davvero che lo scirocco spaventasse anche te. Cerchiamo di dormire e di pensare al nostro convegno di domani; a proposito, ci vediamo lì un quarto d’ora prima per un caffè? Alessadra.

Protocollo 16202: testimonianza 2019.

Caro Alberto, la tua mail mi ha sorpreso: ma davvero il telegiornale spagnolo ha dedicato un servizio di tre minuti allo scirocco che soffia su Milano da quattro giorni? Lì per lì ho pensato che mi stessi prendendo in giro ma poi navigando un po’ in rete ho visto che avevi ragione. Che dire? Sì la città è diventata tutta gialla, non è più soltanto il cielo, la sabbia s’incista ovunque, crea delle nicchie, aprire le finestre è diventato un problema; però noi dovremmo sapere che si tratta di un fenomeno previsto. Che il deserto si stia espandendo verso nord, dopo la quasi completa distruzione della foresta amazzonica, è una conseguenza ovvia. Sta accadendo, tutto qui; in compenso la foresta africana avanza verso sud ricreando in quel contesto ciò che è stato perduto. Tutto ciò mi fa sorridere, con tenerezza. Abbiamo ancora la capacità di stupirci, nonostante l’esattezza delle nostre previsioni e questo è un bene! Vuol dire che infondo non siamo vittime della tecnologia più di tanto, come troppo spesso si dice in modo assai superficiale: continuiamo a dire cose assurde e romantiche del tipo il sole tramonta e altre sciocchezze del genere … e va bene! Vuol dire che continuiamo a essere umani nonostante tutto! Al contempo però pensiamo di essere più forti della natura organica e abbiamo paura che i nostri comportamenti possano sconvolgerla in modo irreversibile. E ci sbagliamo su questo! Forse non crediamo del tutto alle previsioni e quando l’effetto di una causa si manifesta davvero cadiamo ancora dalle nuvole: vedrai che qualcuno tirerà fuori la fine del mondo! Invece, dovremmo convincerci, una volta per tutte, che la natura ritrova sempre il suo equilibrio globale, attraverso catastrofi e aggiustamenti che possono anche farci del male, ma certo! Alla fine, tuttavia, tutto ritrova il suo assetto, perché, come diceva il buon Leopardi tre secoli fa, la natura di noi se ne impipa, non sa che farsene e perciò non la disturbiamo neppure più di tanto. Il deserto, così come la giungla, si sta spostando. L’Antartide, poi, chi l’avrebbe mai detto? Tutti, anche noi scienziati, talvolta, c’eravamo dimenticati che si tratta di un continente rivestito dai ghiacci. Ebbene, lentamente, si sta spogliando dei suoi abiti, mostra le sue forme sinuose appena uscite da un letargo millenario, come se sotto il sudario vivessero in attesa del sole una magnifica giovane donna e un Apollo greco improvvisamente rinati, che ci mostrano ora tutto un rigoglio fatto di foreste, grotte sinuose, tundra, picchi montuosi e massicci che sembrano ciclopi di roccia!

Milano diventerà tutta gialla? E allora? Dove sta il problema? Farà più caldo? Probabilmente sì, anzi caldissimo. A me non dispiace; pensa che ormai le nuove case vengono costruite senza apparecchi di riscaldamento e in quelle vecchie si accende un mese all’anno, non di più. Pensa a quanto risparmio di soldi e al minore inquinamento. Si respira più di prima a Milano. Mio caro tutto muta perché tutto si conservi, soltanto si sposta un po’ per il mondo, come gli esseri umani. Siamo tutti un po’ nomadi; anche la sabbia del deserto che è fatta di granelli di polvere, individui come noi. Corriamo tutti, trascinati sui binari paralleli del vento e della storia. Abbiamo accolto i lanzichenecchi, Napoleone e anche i leghisti a Milano! Accoglieremo anche lui, il deserto! E gli daremo il benvenuto! Franco.

Chan Hue Liang finì di leggere e si stirò, allungando le gambe sotto la sedia. Poi s’alzò a s’avvicinò alla grande vetrata. Dall’alto del ventesimo piano del grattacielo rotante dove si trovava il suo ufficio, poteva dominare la città intera: sotto di lui, dove un tempo si trovava la stazione di Porta Garibaldi, correva la ferrovia sopraelevata in direzione del nord Europa. Sorrise fra sé e tornò al computer: 2019 testimonianze potevano bastare. In quanto addetto culturale dell’Impero Indo-Cinese accreditato nella capitale della Padania, aveva ricevuto l’incarico di raccogliere testimonianze sulla desertificazione della penisola italica, un lungo processo che, a ondate successive, si era protratto per circa un trentennio: finalmente aveva concluso il lavoro. La mole imponente di quegli scritti riversati in minuscoli microchips, era a sua volta un fenomeno del tutto particolare che era stato bene documentare. Infatti, all’inizio del secondo millennio, si era diffusa in quella che allora era ancora l’Italia, la passione per la cosiddetta microstoria; nascevano gruppi spontanei che si dedicavano alla scrittura delle proprie biografie, veniva riscoperta l’importanza della testimonianza orale, del valore dell’esperienza delle persone comuni. Dopo un centinaio d’anni anche quel fervore era passato di moda, ma per una di quelle coincidenze del destino, proprio l’esistenza di queste biografie, o semplici messaggi di posta elettronica, avevano permesso di ricostruire non solo da un punto di vista strettamente scientifico, le prime avvisaglie della desertificazione. Si era divertito a leggere tutto, ma ora i suoi superiori gli facevano fretta: doveva chiudere il dossier.

Mise tutto in una piccola borsa che portava al collo e uscì in fretta; doveva sbrigarsi se voleva concedersi una cenetta al ristorantino milanese poco lontano dall’ufficio, in Via Carlo Farini, prima di raggiungere l’aeroporto; ma lo attendeva una sorpresa poco gradita. Il suo amato locale aveva cambiato gestione, le lanterne rosse esposte sopra la porta d’ingresso non lasciavano dubbi in proposito. Chan sospirò e si convinse dopo una breve esitazione, a chiamare un taxi. Niente risotto allo zafferano, niente rustin negà e rane come l’ultima volta disse fra sé sconsolato; ma che poteva farci? Poi ebbe un sussulto, aggrottò la fronte e si ricordò: non era a Milano quando aveva cenato l’ultima volta alla meneghina! Era successo a Canton, la sera prima di partire per l’Europa.