DIARIO ARGENTINO: SECONDA PARTE

IL MONDO VISTO DA QUI.

Un libro scritto da Augusto Zamora, nicaraguense che fu ambasciatore in Spagna e che insegna diritto all’Università di Madrid, mi ha costretto a tornare alla geopolitica. Il titolo dell’opera è Politica e geopolitica per ribelli irriverenti e scettici. Si potrebbe pensare, scorrendo la sua biografia, che il suo sia uno sguardo molto europeo e invece il libro è interessante proprio per la diversità dai nostri saggi di geopolitica, che si leggono sempre meno volentieri. Inoltre, e non è poco, specialmente nella prima parte più riflessiva e teorica, il suo linguaggio ironico riesce a rendere leggera una materia di per sé piuttosto pesante. Vista dall’altra parte dell’oceano, la sua geopolitica è prima di tutto un rovesciamento del mondo in senso proprio, visto che l’analisi parte addirittura dalla cartografia, assai poco neutrale: è la prima volta grazie a lui che mi ritrovo a pensarlo. Siamo così abituati a un’immagine del mondo che una semplice proposta di capovolgimento del globo risulta divertente, estraniante, ma piena di sollecitazioni nuove. I concetti di nord e sud, di est e ovest ne escono modificati da questa semplice mossa, che tuttavia chiama in causa un secondo fattore, il prefisso geo che precede la parola politica e che riacquista tutta la sua importanza, insieme allo spazio fisico. L’analisi di Zamora parte dalla geografia e dal concetto di isola e continente isola, che si sta affermando anche da noi come linea di riflessione e paradigma. Isole e continenti isole sono l’Inghilterra, il Giappone, gli Usa. Naturalmente il fattore geografico da solo non determina la potenze e le direttrici di una politica (le isole del Tonga non sono diventate una potenza mondiale), ma mentre l’acqua separa, la terra unisce: l’Europa in questo senso è solo continentale e a rischio d’invasione da sempre (anche le invasioni interne) perché la terra le favorisce, mentre il mare le scoraggia. Inoltre l’Europa non ha il fattore unificante della lingua che invece ha il continente latino-americano, un continente isola anch’esso come il grande moloch del nord. Da questo approccio l’Europa ne esce subito ridimensionata e si capisce assai in fretta che Zamora non scommetterebbe molto sulla sua durata come entità bizzarramente unitaria e la ragione mi sembra dalla sua parte, anche se poi i modi istituzionali o pseudo istituzionali per arrivare a questo possono essere diversi. Una volta delineato in questo modo lo spazio geopolitico mondiale, Zamora sorprende una seconda volta quando cambia discorso affrontando il discorso economico. Lo fa a partire dalla filosofia di Adam Smith, un approccio che mi convinceva da prima e che mi convince ancor più leggendo il suo libro. Proprio dalla filosofia occorre partire per distinguere bene gli elementi economici da quelli puramente ideologici e politici. La rilettura di Smith da parte di Zamora è particolarmente interessante perché il sostrato filosofo che sostiene il discorso economico porta a una forma ideologica anglo-americana originale: una sintesi, le cui radici, per Zamora, risalgono alla teologia medioevale e all’Apocalisse di Giovanni.

Molta geopolitica europea ha sempre l’antipatica tendenza a essere scritta in modo da guardare sempre dal di fuori, con il distacco salottiero dell’accademia. Zamora offre strumenti e nel fare questo è talvolta pedante e didascalico, specialmente nella seconda parte del libro quando dedica alcune rapide riflessioni su tutti gli scenari geopolitici aperti, corredando il tutto con dati e non solo con interpretazioni.

Il suo affondo politico nei riguardi dell’impero statunitense o statunitense-anglo se si preferisce, comincia da questa affermazione:  

Gli Stati Uniti d’America sono il solo stato in guerra permanente dalle sue origini.

Questa frase lapidaria s’impone nella sua veridicità storica, conosciuta anche da noi, ma non vissuta nello stesso modo. Come tutte le cose troppo evidenti, essa sfugge alla vista, ma la ricognizione storica è facile. Zamora indica proprio nello stato di guerra permanente la ragione di una debolezza intrinseca e di una decadenza che è quasi inscritta anche nei momenti alti della politica statunitense. Il suo sguardo sulla Seconda Guerra Mondiale diventa così cruciale, marcando una differenza rispetto al nostro sguardo. Per i latinoamericani essa non fu mondiale: lo era per noi che ci consideriamo il centro del mondo, non per loro anche se ci furono truppe di quei paesi che combatterono in Europa. Per noi rimane sempre sullo sfondo il fatto che gli Usa furono prima di tutto i liberatori dal nazismo: per Zamora la Seconda Guerra Mondiale è una delle tante guerre combattute dagli Usa per consolidare il proprio dominio mondiale. Da questo derivano due sensazioni nette leggendo il suo libro: che i latino americani del continente sud americano non hanno alcun timore reverenziale nei confronti degli Usa (i messicani ne sono prigionieri aldilà delle loro intenzioni) anche se ne sono dominati per ragioni che conosciamo e che il libro di Zamora si muove in uno scenario che definirei post imperiale nel vedere la loro crisi in modo assai più lucido che non da noi. In un certo senso per Zamora noi siamo già in un contesto multipolare in cui gli Usa hanno perso la loro egemonia e le convulsioni della loro politica ne risultano assai più chiare, prima di tutto perché Zamora non si lascia impigliare come noi, nella falsa scelta fra le diverse alternative che di volta in volta si contendono il potere negli Usa.

Classe media e terratenientes

Sulla classe media argentina c’è davvero tanto da dire a cominciare da come si è formata. Uno fra i primi presidenti amati e odiati, è un po’ la chiave di tutto. Sarmiento, letterato, massone e illuminista, impresse una svolta alla vita pubblica argentina fondando alcune istituzioni e abitudini che hanno resistito fino ad oggi: l’investimento convinto e lungimirante nella cultura, l’istruzione gratuita e per tutti fino all’università, che gratuita lo è ancora oggi e addirittura per chi viene anche dall’estero! Si capisce anche da questo perché gli argentini suscitano l’invidia degli altri popoli latino americani, che tuttavia poi trovano proprio in Buenos Aires, opportunità che nella loro terra d’origine non avrebbero. La cultura, da Sarmiento in poi, è un patrimonio inestimabile della società argentina e basta vedere il numero delle librerie di quartiere per rendersene conto: sono sempre piene e non falliscono come da noi. Sarmiento era un uomo di destra e di certo non pensava all’istruzione in termini democratici, la pensava per gli europei che erano emigrati lì, non certo per gli autoctoni, ma ebbe un grande vantaggio rispetto agli altri leader sudamericani. In Argentina l’elemento indio è per lo più assente sia perché non ce n’erano molti a differenza di Ecuador, Perù e Bolivia, Paraguay e Venezuela, per cui i pochi al nord e al confine con il Brasile furono eliminati o fuggirono; anche l’elemento nero e africano, massicciamente presente in Colombia è qui assente. Sarmiento era classista ma si trovò ad operare in una realtà che assomigliava alla Spagna europea piuttosto che a un paese latino americano: l’elemento italiano sarebbe venuto dopo a turbare un po’ gli equilibri, ma sarebbe stato presto assorbito. Per una sorta di eterogenesi dei fini, la politica culturale di Sarmiento sarebbe risultata nel tempo progressista per tutta l’America latina. Un merito però gli va di certo riconosciuto e cioè l’accesso all’istruzione alle donne fin dalla fine dell’800 in una misura sconosciuta altrove e nonostante il suo personale machismo. Gli argentini però non lo amano molto, tutti, peronisti e antiperonisti e non è facile capire perché. In sostanza però, grazie a lui, è cresciuta una classe media non necessariamente ricca ma molto colta fin dalle origini: una classe media urbana, che paradossalmente, pur con i grandi meriti intellettuali che ha, non sembra avere influito più di tanto sulla grande politica. Arriviamo con questo al punto forse nodale di tutta la faccenda. Nessuno degli interlocutori incontrati fino ad ora ha minimamente accennato ai terratenientes, eppure sono proprio loro il vero potere occulto argentino, anche se non è del tutto chiara la natura della proprietà: sono solo latifondi o altro? Il mistero si chiarirà un  po’ meglio quando Eva e di visiteremo finalmente una grande proprietà vinicola, ma prima di arrivarci bisogna fare un giro al largo ed entrare prima nella terra argentina per eccellenza e cioè la Pampa. Ci si rende conto, allora, che Buenos Aires è un mondo a sé, seppure non nello stesso modo per cui lo sono Londra per l’Inghilterra o Parigi per la Francia. Buenos Aires è profondamente argentina e basta leggere Borges per rendersene conto; ma per conoscere davvero il paese bisogna uscire da Buenos Aires e poi ritornarci. Tandil, 160.000 abitanti ai piedi della Sierra omonima, è a circa 300 chilometri da Buenos Aires, anche se capire ben dove finisce Buenos Aires è meno facile che dirlo. Più o meno è a una distanza che separa Milano da una località a caso compresa fra Bologna e Firenze. Fra la capitale e la cittadina di Tandil ci sono solo due o tre paesi degni di nota: Las Flores e il centro più importante di Ayacucho. Il resto sono rimessaggi di auto, capannoni e pompe di benzina, empori dove si riforniscono di sementi o strumenti di lavoro i terratenientes, gauchos e altri impiegati nelle grandi proprietà, che si spostano con gli elicotteri personali per cui non li vedi mai. Pampa vuol dire grandi campi, anzi enormi, di cui non si vede la fine. In alcuni casi si vedono gli steccati che dividono una proprietà terriera dall’altra, in qualche caso ci sono i nomi dei terratenientes. Si vedono solo animali e tanto meno si vedono le ville padronali collocate al centro delle proprietà, invisibili dalla strada. Sono proprietà enormi. In lontananza si vedono gruppi di alberi sotto i quali ci sono probabilmente anche le ville. Gli animali sono allevati a brado e questo lo si può constatare con la vista: il secondo dato che appare evidente al solo sguardo è che la popolazione animale in Argentina è superiore a quella degli umani: l’Argentina è poco popolata, è terra di spazi enormi, su 32 milioni di abitanti 13 vivono nella grande Buenos Aires.

Tornando a Buenos Aires e riprendendo in mano un libro di orientamento marxista leninista sulla guerriglia argentina degli anni ’70 mi sorprende leggere che viene data ai terratenientes una scarsa importanza nelle loro analisi se non per dire che costituiscono una borghesia compradora che è però interna alla finanza globale e cioè un modo di dire tutto per non dire nulla. Mi domando come sia possibile pensare a una trasformazione dell’Argentina senza tenere conto di grandi proprietari terrieri. Ne ricavo la sensazione che proprio loro sono una sorta di tabù su cui è difficile indagare. Tuttavia la domanda chiave è forse un’altra: perché in Argentina non esiste un movimento contadino come i Sem terra brasiliani, per esempio? Forse è la struttura della proprietà terriera il vero problema? Lo capiamo meglio proprio durante la visita all’azienda agricola Trapiche, vicino a Mar del Plata. Si tratta di un’azienda enorme con tanto di vigilantes all’ingresso, ma una volta dentro e durante  il giro con la guida si capisce subito che non si stratta di un’azienda unica, ma di un consorzio di aziende diverse sotto l’egida di una sola sigla. Si comincia così a capire che, pur avendo delle dimensioni enormi e da latifondo, in realtà le grandi proprietà agricole non sono veri latifondi, ma hanno una struttura proprietaria più complessa che spiega pure perché non esiste un proletariato agricolo in grado di costituire una massa critica. I vecchi proprietari hanno scelto con una certa intelligenza di dividere le proprietà, un po’ lasciandole in eredità ai diversi figli, un po’ assorbendo quelle piccole. In sostanza il regime latifondista è corretto dalla presenza al suo interno di una stratificazione di forme proprietarie minori che vengono governate dal terratiniente di turno, ma lasciate vivere. Questo crea di fatto una differenziazione di classe all’interno del regine proprietario latifondista: poi ci sono i gauchos, gli enologi, gli agronomi, gli amministratori e tutte le professioni necessarie a far vivere la proprietà, comprese le guide e i commessi addetti alla vendita diretta dei prodotti. Non è difficile capire che si tratterà di lavoratori e lavoratrici mediamente meglio pagati di chi svolge altre professioni e in mancanza di una struttura industriale degna di questo nome, si capisce meglio il motivo per cui   gli scontri politici in Argentina – a parte i momenti di particolare crisi che fanno muovere i militari – sono sempre delle risse interne a diversi settori delle classi medie: peronisti e macristi sono entrambi subalterni alle dinamiche internazionali e quanto alla divisione cosiddetta fra peronisti di destra e di sinistra si tratta di settori diversi della stessa classe media in lotta fra loro per raggiungere le posizioni socialmente più elevate, ma  dentro una medesima logica: tutto qui. Alle favelas non ci pensa proprio nessuno e da quanto ho letto non ci pensava nessuno anche negli anni ’70. Cristina Kirchner a dire il vero cercò di spingersi oltre il compromesso silente che governa l’Argentina da decenni, imponendo una tassazione ragionevole alle grandi proprietà e cercando di intaccare il loro potere di interdizione. Pur approfittando del momento favorevole seguito alla crisi del 2000, si trovò di fronte a un dilemma: appoggiare in modo radicale i movimenti delle fabricas tomadas e cercare un’alleanza con classe operaia, coinvolgendo i settori più emarginati delle favelas, o far marcia indietro nel timore di un colpo di stato militare: scelse la seconda strada ma, nonostante questo, il tentativo non le fu mai perdonato e tutti i processi farsa e persino il recente attentato contro di lei lo dimostrano.