Premessa
Alcuni dei racconti che seguono furono pubblicati nel 1995 per le edizioni ticinesi Il gatto dell’Ulivo con il titolo di Figure. Ne ripropongo alcuni nella rubrica Ricordare e raccontare, a cominciare da oggi.
I militi ammiccarono sorridendo. Era uscita dal vestibolo a passi lenti e mentre passava al loro fianco senza neppure guardarli aveva mormorato la solita frase:
“Se viene qualcuno sono alla locanda.”
Erano trascorsi due anni da quando l’ultimo postulante aveva varcato le porte dell’oracolo e da allora la Pizia aveva preso l’abitudine di uscire sempre più spesso.
Seduta al tavolo meditava sul fatto che ogni cosa in quel luogo andava lentamente verso una fine oscura …
Forse mi trattano sempre peggio per convincermi ad andarmene, anche loro non sapranno che fare, con la poca gente che passa i guadagni saranno diminuiti; se è in difficoltà l’oracolo figurarsi la locanda …
I sacerdoti mormoravano che lei, la Pizia, non voleva chiudere solo per comodo suo. Era stata più volte sul punto di farlo, ma nel momento di compiere il passo decisivo si era sempre tirata indietro, sfidando le chiacchiere che correvano su di lei; alle quali, per altro, opponeva un fiero silenzio e il rifiuto sdegnoso di dare spiegazioni. Non era lei la Pizia? Non era forse lei la custode di tutti i segreti? Non spettava dunque a lei dire l’ultima parola? Ma tale parola non risuonava mai chiara alle sue orecchie. Alle volte era un balbettio, altre volte un labirinto di parole in cui perdersi e lei, puntualmente, vi si perdeva. C’era in quel rifiuto a prendere atto della realtà qualcosa d’irragionevole; in fondo non era la prima volta che un oracolo chiudeva e ciò non aveva alcun significato particolare; forse i traffici avevano preso altre vie e Delfi non era più al centro del mondo come un tempo. Ammone, l’oracolo del grande Alessandro, non aveva forse chiuso? Ora toccava al suo, ma altri avrebbero preso il posto di Delfi; così va il mondo … o meglio: così va nei discorsi piani, quando i nodi sembrano sciogliersi da soli. Quel nodo, però, non si scioglieva proprio; anzi, si complicava sempre più e lei – testarda com’era – non voleva cedere agli umori, neppure ai suoi; figurarsi a quelli degli altri! Voleva trovare una soluzione che fosse semplice e chiara, cercava una spiegazione definitiva e sapeva che nessuno avrebbe potuto aiutarla. L’ultima volta era stata un sogno a fermarla dopo che aveva già radunato i sacerdoti, ma quando aveva cercato di raccontarlo non vi era riuscita e nessuno e aveva creduto.
“La Pizia gioca con noi”, mormoravano tutti; alla vicina locanda si rideva.
Era immersa in questi pensieri quando un rumore la distolse; una delle guardie era entrata correndo e si stava avvicinando al tavolo e quando le fu vicino:
“Presto, presto, venite Pizia, venite!”
I sacerdoti l’attendevano nella grande sala; li interrogò con lo sguardo e loro, senza dire una parola, le indicarono lo spioncino. Nella sala delle tavolette un giovane uomo era intento a scrivere qualcosa su una di esse.
“Chi è?” chiese la Pizia sottovoce.
“Un romano.” Risposero i sacerdoti.
“Un romano?” esclamò incredula e li guardò per sincerarsi che dicessero il vero.
Un romano, un romano … non viene nessuno per due anni e poi arriva addirittura un romano, con tutto quello che c’è a Roma! Mah …
Scuotendo la testa si avvicinò di nuovo allo spioncino. L’uomo, nonostante fosse molto giovane, incuteva rispetto e soggezione; il profilo era gentile, i lineamenti forti e delicati. La colpì il naso pronunciato, che dava al volto il profilo intenso di una vela trascinata verso una meta. La testa era alta sulle spalle, ritta, regale, ma non incuteva timore; il suo aspetto, piuttosto, rivelava l’ansia di guardare lontano, di esplorare il futuro. La barba era ancora corta, era quella di un ragazzo più che di un uomo e questo contrastava con la figura e dava al giovane un tocco di tenerezza che fece spuntare un sorriso sul volto della Pizia.
L’uomo, che sapeva di essere osservato ma non poteva vedere chi lo stesse guardando, cominciò a maneggiare la tavoletta e quando si voltò per posarla sul ripiano di pietra, la Pizia lo guardò, incantata dalla sua bellezza.
Si ricompose immediatamente e rivolse ai sacerdoti uno sguardo di sarcastica commiserazione:
“Un romano, un romano e voi lo chiamate un romano quello … ”
I sacerdoti si guardavano imbarazzati e lei continuava a ripetere quelle parole come parlando fra sé e sé, ma facendo in modo che anche loro sentissero e ad ogni pausa successiva alla parola li fulminava con i suoi occhietti pieni di ironia.
Chiese i paramenti e mise sul fuoco l’acqua per l’infuso di erbe, poi ordinò la vestizione e, man mano che la cerimonia procedeva, riacquistava tutta la sua autorità. Quando tutto fu pronto si avvicinò alla porta del trono, il sacerdote raccolse la tavoletta su cui il giovane aveva scritto e la porse alla Pizia, che si ritirò. Le sembrò che scottasse e avvertì un brivido di emozione posandola, ma decise di fare le cose con calma e di trattenere la curiosità. Bevve l’infuso e si sistemò bene sullo scranno, poi prese la tavoletta e la guardò. Non credé ai propri occhi; la voltò e la rivoltò da tutte le parti, ma vi era soltanto una frase scritta su di essa:
“Vaticinate per voi.”
Niente altro, non un interrogativo, una richiesta, nulla! Due anni di attesa e poi anche un matto mi doveva capitare … speriamo almeno che l’obolo sia congruo … Ma ripensandoci non riusciva a credere che quel giovane volesse prendersi gioco di lei. Vaticinate per voi, vaticinate per voi … Un brivido la scosse; l’infuso cominciava a fare il suo effetto, presto il delirio avrebbe raggiunto l’apice ed in quel momento avrebbe dovuto emettere il vaticinio. Sudava e aveva la sensazione che una forza la tendesse, quasi fosse un arco rivolto verso l’interno del suo corpo, pronto a scoccare la freccia verso un centro misterioso fatto di cerchi d’acqua che inghiottivano le sue viscere. Il volo, il volo, ecco che cosa aveva sognato! Era il sogno di un volo che l’aveva distolta dal chiudere l’oracolo; poi delle parole, un ordine che doveva eseguire o qualcosa che doveva dire; ma erano parole rovesciate, che non riusciva a leggere.
Il corpo sembrò ripiegarsi nello sforzo estremo della massima tensione, ma subito dopo avvertì un vuoto desolante, incolore, assoluto. In esso nuotava senza trovare appigli, abbandonata a se stessa. Solo allora si accorse che il giovane era entrato: seduto davanti a lei, la stava osservando. Cominciò a tremare e a oscillare avanti e indietro, finché le labbra non cominciarono a muoversi da sole, ma senza parlare. Il grido saliva dentro di lei, saliva sempre più, ma interno al suo cadere; così che sembrava allontanarsi dalle labbra, come se anch’esso fosse risucchiato dentro il vuoto. Poi, invece, la sua voce risuonò nella stanza, cristallina e limpidissima; mentre pronunciava le parole del vaticinio smise di cadere. Il sogno ritornò a lei nella stessa forma e la frase le apparve chiara e semplice.
Il giovane, nel frattempo, si era alzato e le stava sorridendo; lentamente si avviò verso la porta, ma prima di uscire le rivolse la parola:
“Vi sono grato, ho avuto da voi ciò che speravo e che a un grande uomo prima di me fu negato. Ora so che mi avete ceduto il futuro.”
Quella notte la Pizia dormì più profondamente del solito e si alzò il mattino dopo con la sensazione di avere fatto sogni piacevoli. Radunò i sacerdoti e li informò senza preamboli che l’oracolo avrebbe chiuso di lì a tre giorni. Si guardarono stupefatti: che il momento tanto atteso giungesse proprio il giorno successivo a una visita, parve loro una di quelle stranezze cui le Pizie erano solite abbandonarsi. Tuttavia, passato lo sconcerto, subentrò la rilassatezza e pesino la gioia; erano liberi, potevano pensare a se stessi.
Quanto a lei si guardò bene dal dire cosa fosse accaduto il giorno prima e quando qualche avventore curioso l’avvicinava nella locanda per domandarle del giovane e della difficoltà del vaticinio, rispondeva con calma e fermezza che si era trattato di un responso come tanti altri.
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