DIARIO DEL NORD

Questo racconto di viaggio fu pubblicato sulla rivista Manocomete, l’anno è il 1993, successivo al colpo di stato che causò la fine di Gorbaciov e dell’Unione Sovietica: il nord cui si riferisce il titolo sono in realtà i confini fra Germania e Polonia.  

Angermunde è una cittadina anonima, a metà strada fra Berlino e il confine  polacco.   La  pensione Eschert  è  gestita  dalla  signora Eschert,  vedova.  

“Morgen  ich  gehe  zu  Sceczin”,  pronuncio alla  ‘polacca’. 

La  signora  mi  sta  facendo il  letto,  alza  il  capo bruscamente interrompendosi:  “Stettin,  Stettin, mi corregge alzando la  voce: 

“Stettin ist Deutschland, meine Mutter uber Oder” vive  di là, è nata di là anche lei e  “di  là…”

È  sabato pomeriggio, i giovani sono in giro: difficile capire  come sono fatti, ma non mi sembrano revanscisti  come la signora Eschert.

Schwedt  è  una  tipica   cittadina  dell’ex  DDR:  piste  ciclabili bellissime, ampi spazi verdi. Eppure l’immagine globale è dimessa e malinconica. Poi improvvisamente,  da  dietro  un angolo, sbuca la guglia di una cattedrale in stile lubecchese, in mattoni rosso scuro. L’unico segno di accoglienza, a parte gli uffici turistici chiusi è questo richiamo religioso.  Mi aggiro per  le stradine intorno alla chiesa finché  sbuco in una strada più larga; guardando  verso  sinistra mi sembra di scorgere  un  ponte … Mi  era rassegnato a non vederlo, poi  me  ne  ero  quasi dimenticato; l’Oder invece  passa  proprio ai limiti estremi di Schwedt.  Il fiume, come la Neisse che scorre più a sud o l’Elba, ha diviso  popoli  e  famiglie, lavato nell’acqua  strisce  dolorose  di sangue; scorre davanti  a  me  silenzioso,  avvolto  in  una  sottile nebbiolina.   Sul ponte passano molte automobili, povere e  scassate: sono i polacchi che vengono a lavorare in Germania. C’è qualcosa   di  cupo,  un’atmosfera  inquietante  che   mi   è emotivamente nota; è un’aria che  respiravo  da ragazzo, un misto di provincia nord milanese, primi anni 60 e dignitosa povertà.

Domani andrò a Stettino, nonostante le voci di veri e propri assalti ai treni per derubare chi viaggia. Il  treno  parte alle 8.20, arrivo in stazione alle 8, così  almeno credo; ma è  tornata  l’ora  solare,  sono  le  sette. Entro nello scomodissimo supermercato/bar.  Dentro, oltre alla commessa, ci  sono due uomini ed una donna  dallo  sguardo  vuoto  ed i vestiti dimessi; siedono  vicino alla finestra e si dividono una bottiglia  di  birra. Il cielo è grigissimo; la notte  ha  piovuto e a letto, al caldo, ho provato una sensazione piacevolissima da tempo dimenticata:  sentirsi protetti e al sicuro. Perché proprio qui? È un pensiero che si muove  come  un tarlo nella mente, accentuato dalla sosta forzata  e nonostante il disturbo dei  tre  che  si  fa  più pesante; sono già ubriachi. Sentirsi al sicuro in una casa tedesca dal tetto spiovente e dai balconi che sembrano uscire dall’illustrazione di una favola dei  Fratelli Grimm. Sarà la nostalgia di questa tana  calda a far sì che i tedeschi siano spesso così allarmati ed insicuri verso chi è fuori ed estraneo? Ma perché io straniero ho avvertito la stessa sensazione di calore  e  protezione?  Esiste  allora uno spirito del luogo che, come un fato antico, modella l’inconscio collettivo?

Mi aggiro per i vagoni e mi imbatto in un ragazzo alto e magro, dagli occhi gentili, biondo ma  non  tedesco.  È  polacco,  dico fra me e decido  subito di stare lì. 

“Es ist frei” mi dice indicando  cinque sedili vuoti. 

Se avesse gli  occhi  un  po’ più azzurri e spiritati assomiglierebbe  all’attore preferito da Waida.  Invece i  suoi  sono marrone chiaro, espressivi ma non  esagerati. 

“Ich arbeit in Berlin.”

 “Zurück?”

“Ya zurück meine familie ist in Polen”

“Stettin?”

“Nicht in  Sceczin” mi corregge con  un  sorriso  dolce  e senza acrimonia.

“Mein stadt”  e  poi  aggiunge  qualcosa che non  capisco.  

“Ich  gehe  zu Sceczin”  gli rispondo.

“Ich arbeit in Berlin.

“Keine arbeit in Polen?”

“Keine, keine” e scuote la testa  sconsolato  “Arbeit  problema  in  Polen “

“Arbeit problema in Italien “

“Bist du Italienisch?”

“Ya ich bin ein Italienisch”

Sono in  sei in famiglia e tre hanno  perso  il  lavoro. 

“In Berlin geld zwei monate”  mi fa il segno dei soldi con le dita “In Polen sechs monate”

“Was ist deine arbeit?” fa il verniciatore di auto in un garage ed è contento.  Abita a 500 chilometri da Stettino e torna per due  giorni in permesso.  La frontiera è  vicina, il ragazzo ha il passaporto in mano:  “Ich  bin 21” jungen mensch.

“Warum keine arbeit in Polen?”

“Lech  Walesa” mi dice decisissimo; è la  prima  volta  che  lo vedo animarsi nello sguardo e nella voce.  Io faccio segni di assenso con il capo “Walesa fahrt” continua lui “America, England, Geld Geld fur Polen, aber kein Geld fur Polen”

Penso fra me che non abbiamo ancora parlato del papa e lui 

“Papst  Polen  Papst” 

“Bist  du  Catolisch?” 

“Ya  ich bin Catolisch” 

“Walesa  ist Catolisch” butto lì  con  malignità e  lui scrolla le  spalle,  poi  mi  indica  la  penna  nel  taschino con il ritratto  di  Wojtila “Grosse, grosse” e si mette a ridere,  come  a dire “era solo un distintivo e basta”  Il viaggio è quasi finito, il treno è fermo, sta arrivando il controllo passaporti “Habst du  ein Polsch passeporte gesehen?”

“No.” 

Me lo mostra orgoglioso. Stettino Glowny, ciao amico.

La stazione è grigia e sporca; l’Odra le scorre davanti ed il mare è a poche miglia, ma il porto mi sembra inattivo. La ragazza dell’informazione turistica parla solo polacco, mi prende una piccola crisi di sconforto. Mi avvio all’edicola e compero una cartina  della città; lì ritrovo il mio amico. È disperato. Il treno era in ritardo e non ce  ne  eravamo  accorti; lui ha perso il suo.   

“Quando è il prossimo accidenti? 

Scuote il capo sconsolato e non mi risponde; forse non riuscirà nemmeno ad arrivare. 

“Wait, ich gehen zu wechsel und kommen zurüück.”

Torno, ma lui non c’è più e che altro avrei potuto dirgli e fare poi?

Una  tazza di te costa 7.500 sloti, il listino ufficiale però  porta scritto 5.000, mentre il nuovo prezzo è segnato a mano su un foglio. Mi  ricordo improvvisamente dell’ultima vacanza in Jugoslavia, quando i prezzi cambiavano  tutti  i  giorni  ma  le  correzioni sul listino ufficiale erano settimanali:due anni dopo la guerra.

Quella  del   cambiavalute   sembra   essere   l’attività  economica principale  della città, oltre al commercio minuto.  Ne  ho  contati sei nelle adiacenze dell’albergo.  Fuori hanno insegne luminosissime, molto  simili  ai  richiami  dei locali  porno.   Anche i  nomi  sono esotici: Kantor,  Lombard  e  solo  alcuni  portano  la  scritta più tradizionale   –  Wechsel  o  Change  –  in  piccolo.    Lombard   mi incuriosisce;  è  un  omaggio  agli   italiani,  primi  banchieri  e cambiavalute?  Anche nella City di Londra c’è una Lombard Street. ll gran numero di cambi indica che il commercio clandestino di valuta è stato  legalizzato. Quest’ovvia  considerazione, tuttavia, non esaurisce il problema.  Il primo dato che mi balza all’occhio è che sono sempre pieni di polacchi e non di turisti. Ne ho visti più di uno entrare, cambiare e poi recarsi subito nel negozio a fianco a fare la spesa. Era lo stipendio mensile dunque quello che finiva al cambiavalute e poi subito nelle tasche del dettagliante. Molti di questi  saranno  lavoratori  in  Germania  ma  il  numero  mi  sembra eccessivo;  avranno anche delle riserve di valuta pregiata ma non  mi è allora chiaro come se la siano procurata. Il giro d’affari è consistente e coloro che rastrellano la valuta non saranno,  nel giro di qualche anno, dei ricchi qualunque;  tutti insieme costituiranno una lobby potente, in grado di gestire capitali consistenti.  Per  farne che? E chi sono poi  questi  percettori  di valuta pregiata?  Nuovi ceti  rampanti polacchi in cerca di posizioni preminenti?  E quali conseguenze politiche avrà questo traffico?

Per cenare scelgo il King, un ristorante del centro. Il locale è discretamente affollato.   I  due  seduti  alla  mia  destra  parlano inglese  e vestono in modo simmetrico: uno indossa una camicia  color latte ed un paio di  pantaloni rosso/ciclamino,  mentre  il  secondo veste  gli  stessi  capi a colori  invertiti. Entrambi  portano  un foulard di seta nel collo della camicia. Le coppie irregolari  si  muovono  fuori  stagione,  seguono percorsi imprevedibili, s’aggirano raminghe per rotte periferiche, cercano nei luoghi  meno  romantici  la  libertà  del  loro anonimato  e di una silenziosa  ed  intima trasgressione.

La  birra che ieri costava 20.000 sloti questa sera ne costa  17.000; naturalmente il bar è lo stesso, però è cambiato il cameriere.

Non è tardi ma c’è poca gente in giro; intorno ai cambiavalute c’è un andirivieni continuo È un’atmosfera strana che non  mi  piace. Poi dal fondo  della  strada  vedo  sbucare  un  bassotto  seguito da quattro persone: padre, madre e due ragazzi dell’età dei miei figli. I cani ed i  loro  padroni  ispirano  ovunque  un  senso di fiducia e sicurezza.  Alzo la testa e ne vedo altri in giro, alcuni liberi altri al guinzaglio. È anche qui  l’ora dell’ultimo passeggio come qualcuno  starà  facendo  a Milano con  Laika. Padroni e cani si assomigliano ovunque e i primi  potrebbero capirsi a volo in qualunque lingua per il solo fatto di condividere questa esperienza. Chissà che alla fine  siano  i  padroni  di  cani  gli  unici  a capirsi e a dialogare, chissà che seguendo l’animale (perché è il padrone  che segue il suo cane) non diventi  trasparente la buffa comunanza che ci fa tutti uguali davanti al nostro cane.

Di  fianco all’albergo c’è un saldo. Mentre passo mi sento chiamare da una voce  femminile; penso alla solita commessa che invita i clienti a entrare, sorrido e scuoto la testa.  Lei però  continua, mi rivolge qualche  parola  in  polacco  e  il  tono della voce mi fa sobbalzare perché sembra un richiamo disperato.  Mi volto sorpreso. Non è una commessa. È una  ragazza  bionda,  appoggiata alla porta  del  negozio; a terra c’è il sacchetto della spesa. Ci guardiamo, lei continua a parlare, tento di rispondere in inglese, ma lei scuote il  capo “ne’, ne”.  Provo in tedesco; niente. In quel momento vedo le stampelle addossate al muro e comincio a capire. Mi avvicino e lei  sorride,  tira un sospiro di sollievo  “please,  please”  “Help” “Help, help” è quasi un  grido.   Vedo le sue gambe torte, il busto diritto, le ginocchia retroflesse il viso biondo e gentile, la parte bassa del suo corpo deturpata. Credo sia distrofica o peggio; vuole attraversare la strada. Le do il  braccio e ci avviamo fermando il traffico. Arriviamo di là ma non posso lasciarla perché cadrebbe. Dobbiamo raggiungere il muro e sono  altri  venti metri di strada, durante  i  quali  per la testa mi passa di tutto: perché  non  è assistita? Perché è uscita proprio lei a fare la spesa? Quanti anni ha, dove abita?  Cosa farà domani?  “Taxi” forse l’ho gridato per un desiderio di restare ancora un  poco con lei, sorride ma nega con il capo. 

“Ma non puoi andare così dove abiti, help polski help polski, mi guardo  attorno  ma  nessuno  mi  sembra  rassicurante…

“ne help polski, ne help polski, polski…” e qui si interrompe ma il gesto è inequivocabile; sputa per terra. I polacchi non ti aiutano e scuote la testa  sconsolatamente, continuando a ripetere  “ne help polski, ne help polski”. Arriviamo  al  muro, ci guardiamo, ha gli occhi  lucidi  ma sorride; è più tranquilla e mi indica  che posso andare.  Poi con la mano sulle labbra mi manda un piccolo bacio e cerca   di  stringermi  la  mano;  barcolla  di  nuovo e  mi  tocca sorreggerla. Poi l’accarezzo sul viso e mi volto di scatto. Vado via, mi è passata la voglia di fare qualsiasi cosa; entro in albergo ritiro il bagaglio e vado alla stazione.

Bad Saarow Pieskov, e’ una localita’ termale su un lago, un  gioiello dell’ex DDR, famoso dagli anni 20 e visitato da artisti e poeti; c’è la casa di Gorki che trascorse qui un lungo periodo di cura. Di  fianco all’ostello c’è una ex caserma sovietica in  disarmo. I bambini ci entrano per giocare, passando da un buco della rete metallica  e  mentre se ne stanno lì ecco che arriva  un  camion  di soldati, entra e  non  li  guarda  neppure.

La  stazione di Bad Saarov è surreale: un capanno di legno in aperta campagna, ermeticamente chiuso. Quando arrivo c’è un uomo con due borse. Fa freddo, cominciamo a guardarci, mi avvicino. Non mi  ero sbagliato: le borse sono piene di  funghi.  L’uomo comincia a parlare rapidamente, con brevi pause ogni tanto.  I temi sono i soliti:  non c’è  lavoro,  prima  non   potevamo   muoverci,  adesso  abbiamo  il

passaporto  ma ci mancano i soldi per andare dove vogliamo.  Esaurite le lamentele  comincia  la  seconda  parte  del  discorso: i polacchi stanno  peggio di noi, anche la lira non va bene, il marco invece  è  pesante.  Tira  fuori   di   tasca   alcune   monete   e  le  guarda orgogliosamente. Arriva davvero il  treno:  incredibile!  È  un convoglio pendolare, pieno di operai  e studenti.  Sulla mia carrozza c’è  una  colonia di bambini delle scuole elementari che  tornano  a Berlino dopo aver trascorso due  settimane  di  ‘scuola natura’ a Bad Saarov.   Cantano  a  squarciagola “Il gallo e’ morto”  in  tutte  le lingue, come si conviene.  Sono  incantato dalle pronunce esatte, da tono,  dall’entusiasmo  che  ci  mettono; i  passeggeri  sorridono  e sopportano benissimo il chiasso, le maestre non fanno una piega.

Eltsin bombarda il Parlamento, i  giornali  titolano  a nove colonne alla porta di Brandeburgo la gente discute animatamente.  Mi avvicino ed il ritornello dei discorsi è  martellante:  “I russi torneranno!”

Alla Marienkirche c’e’ una manifestazione di piazza; sono abitanti del Kreuzberg che protestano  contro  i  progetti speculativi a danno del  quartiere  un  tempo  gioiello di  Berlino  ovest,  regno  della trasgressione e delle libertà  occidentali:  case occupate, cultura, circoli,  una  vivacità  intellettuale  degna  della  Repubblica  di Weimar.  Signori si chiude! Il gioco è finito; caduto il muro la costosa vetrina è stata dismessa, i locali chiusi, le occupazioni smantellate, l’area ripulita dagli extracomunitari. Si è liberi in relazione ad una possibile alternativa, ma non nell’unicum esistente. Ritorno  all’ostello  di  Kluckstrasse, il  treno  parte  alle nove.

Rifaccio sull’autobus 129 il percorso che porta alla stazione dello zoo. Ku’Damm è piena di luce: domani è sabato.

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