REGISTI DA RISCOPRIRE: FRITZ LANG

Folla che si raduna in Wall Street a New York dopo il crollo alla fine di ottobre del 1929. (Foto AP)

Premessa

Fritz Lang è uno degli autori più grandi e celebrati del cinema espressionista, ma il destino dei registi e delle loro opere è assai più precario di quello di romanzieri e poeti: la carta tutto sommato resiste al tempo molto di più delle pellicole, per cui dimenticare un regista è più facile che non dimenticare un romanziere, anche perché la possibilità di rivedere certi film a decenni di distanza è legata a operazioni di restauro che non sempre riescono. Quando vidi la prima volta Il mostro di Düsseldorf qualche anno fa, il film mi pose gli stessi interrogativi che mi ero posto dopo la lettura di un libro appena pubblicato di Adriano Voltolin dal titolo Il rilievo e lo sfondo, dove l’autore riporta una frase di Hanna Segal, la quale si chiedeva come mai comportamenti individuali che, se messi in atto vengono immediatamente riconosciuti come indici di gravissime patologie, non vengono riconosciuti come tali quando se ne fanno portatori istituzioni o rappresentanti pubblici. La malattia del protagonista del film, come dirò più avanti, può essere considerata come un sintomo di quelle che Freud chiama le nevrosi della comunità, che esploderanno in Germania come un fiume in piena che travolgerà tutto due anni dopo l’uscita del film. 1

1931

La vicenda rappresentata è semplice da riassumere e il farlo non impedisce a chi non ha ancora visto il film di apprezzarlo, dal momento che la vicenda in sé è davvero solo un innesco. Un serial killer adesca e uccide ragazzine preadolescenti. La polizia brancola nel buio, facendo crescere senza volerlo la tensione, anche perché il sistema delle comunicazioni di massa era già sufficientemente sviluppato, tanto da amplificare le gesta dell’uomo, fino alla pubblicazione di una sua lettera da parte di un quotidiano. I delitti continuano finché la grande criminalità cittadina, disturbata dalle continue e cieche retate della polizia, decide di darsi da fare per catturarlo. Arruola i mendicanti della città per un piccolo compenso, assegnando a ciascuno di loro in modo capillare porzioni precise di territorio, dove dovranno tenere d’occhio chiunque avvicini delle bambine. Anche la polizia cerca il serial killer e individua la casa in cui l’uomo vive e da dove ha scritto la lettera inviata ai giornali. L’intelligenza investigativa, però, è lenta, mentre la criminalità, padrona del territorio, arriva prima e lo cattura dopo avere sventato l’ennesimo delitto che l’uomo stava per compiere. Lo portano in una distilleria abbandonata dove lo sottopongono a un singolare processo. Il clima è di linciaggio, nonostante che l’avvocato difensore perori la causa del suo cliente in modo assai intelligente, tanto che molti assentono anche fra la platea di mendicanti che funge da giuria popolare. Il pubblico ministero, cioè il capo dei capi delle organizzazioni criminali, volge però l’assemblea a suo favore, ma, proprio nel momento in cui sta per essere pronunciata la sentenza di morte, la polizia irrompe nell’aula del processo popolare e salva il criminale.

I finali di Fritz Lang sono sempre sorprendenti e problematici: il pensiero è corso subito a un altro suo film, che forse molti ricorderanno nella versione restaurata di alcuni fa. In Metropolis veniva auspicato un compromesso trasparente, seppure incoerente rispetto all’andamento del film: infatti, dopo avere mostrato l’impossibilità della conciliazione fra le classi sociali, il film si concludeva con un embrassons nous fra padroni e operai, mediato dal partito socialdemocratico: sappiamo come è andata finire pochi anni dopo.

Nel Mostro di Düsseldorf il primo elemento che colpisce è il blocco sociale estemporaneo che si forma per catturarlo, costituito dalla grande criminalità e dai mendicanti. I primi sono, secondo una definizione contemporanea applicata alle mafie italiane, l’anti stato oppure uno stato nello stato; i secondi sono la massa di manovra della grande criminalità, ne costituiscono l’esercito di riserva, cui si ricorre per piccoli servizi e manovalanza criminale generica. Insieme, si rivelano garantisti in una misura che parrebbe imprevedibile, ma si tratta di una sorpresa soltanto apparente. Anche la grande criminalità, come qualsiasi aggregato sociale, ha bisogno di regole e  ritualità: il processo che celebrano, infatti, ha formalmente tutti i crismi di un processo regolare. Del resto sono noti i rituali delle mafie, le procedure d’iniziazione, la cura a volte maniacale di questi dettagli. Per non parlare dei codici d’onore nelle carceri, della sanzione che i detenuti stessi riservano a chi ha commesso reati particolarmente odiosi. Il meccanismo psicologico che sottostà a tale procedure è semplice da capire: anche il peggiore dei criminali ha bisogno di credere che esiste qualcuno peggiore di lui.

Il secondo protagonista è il serial killer, il terzo è la società civile tedesca, che sembra essere del tutto assente come entità organizzata. C’è una battuta, pronunciata da una delle madri delle bambine, in conclusione del film, quasi un’invocazione che suona tuttavia come un segno di impotenza:

… Avremmo dovuto vigilare …

Non è ben chiaro cosa voglia dire la donna, ma proprio l’inquietante sospensione nell’aria di questa invocazione senza risposta e interlocutori, evoca sinistramente ciò che sarebbe accaduto da lì a due anni. 

Pubblico e privato

Quando lo vidi la prima volta, anni fa, considerai questo film una metafora lucidissima della dissoluzione della Repubblica di Weimar, ma lo presi per un film storico; rivedendolo oggi, a parte il bianco e nero e una recitazione teatrale formidabile e scevra da effetti speciali, mi sembrava di assistere a un’opera cinematografica che ci parla drammaticamente dei problemi odierni, ma vorrei subito dire che non mi riferisco all’ondata montante della destra in tutta Europa, perché, pur pericolosa, ritengo si tratti di un problema tutto sommato minore.

Torniamo di nuovo a Metropolis e confrontiamo i due finali.

In entrambi c’è qualcosa che li accomuna e che ha a che fare con un compromesso. Una differenza sostanziale, però, ci fa comprendere molto bene cos’era accaduto nei quattro anni che separano un film dall’altro (Metropolis è del 1927). In quest’ultimo, viene proposto un patto sociale fra capitale e lavoro: le lotte operaie del ‘19 e successivamente del ’23, pur concludendosi con la sconfitta del progetto insurrezionale della Lega Spartachista, cui seguì l’assassinio di Rosa Luxemburg e Karl Liebnecht, avevano comunque conservato intatto il potere e la forza della classe operaia tedesca. Discutibile o meno nella sua ingenuità, il film rappresentava due entità sociali fortemente strutturate, con le loro istituzioni, la capacità di governare, dirigere la società civile e controllare il territorio; entrambe erano portatrici di una visione del mondo e di un progetto di società.

Nel Mostro di Düsseldorf tutto questo non esiste più, in scena vediamo un individuo malato, mentre le madri delle bambine uccise sembrano essere completamente abbandonate a se stesse, così come è solo e atomizzato il killer nella sua follia. Quando le madri si aggregano con altri per protestare e reclamare giustizia, sono solo persone sconosciute le une alle altre, la psicosi cresce anche perché quello che sta loro a fianco non sanno più chi sia. Non esiste più alcun patto, la società civile si richiude in casa e il territorio è ormai diventato il terreno su cui si ritrovano masse impaurite e isteriche che si buttano sul primo che capita e ne fanno il classico capro espiatorio (come accade in una scena iniziale del film quando un uomo viene subito scambiato per il mostro soltanto perché ha risposto a una ragazzina che gli chiedeva l’ora), oppure viene lasciata alle scorribande della polizia e della grande criminalità; il finale, in fondo, vede proprio loro protagonisti della cattura, in una sorta di discordia necessariamente concorde, su cui sarà tuttavia necessario mantenere il silenzio. Il confitto sociale ha ceduto il passo alla guerra di tutti contro tutti. Due anni dopo saranno le milizie delle SA e delle SS a percorrere le stesse strade con altri intenti.

1929

Proprio nel mezzo fra il 1927 e il 1931, si colloca un anno chiave: il 1929, che si era abbattuto sulla società tedesca come un secondo uragano, sconosciuto ad altre società europee che, pur colpite dalla crisi, non ne subirono gli effetti con la stessa devastante violenza. Inflazione dell’ordine di un bilione, licenziamenti di massa, impoverimento verticale delle condizioni di vita, legame sociale dissolto. La classe operaia, che pure aveva resistito all’inflazione degli anni precedenti, espulsa dalle fabbriche e atomizzata, vedeva franare le sue istituzioni di controllo del territorio e della società civile. La voragine che si era aperta fu colmata in pochi mesi dal partito nazista.

La massa che noi vediamo nel Mostro di Düsseldorf è il precipitato sociale della crisi del ‘29: una società atomizzata e impaurita, in preda al panico, in fuga da se stessa, pronta a identificarsi con un capo, che la porti fuori da quella situazione in qualsiasi modo. Hitler e il partito nazionalsocialista seppero coagulare intorno a sé, lo spirito gregario successivo a quel sentimento di totale annientamento della personalità, conseguente la crisi del ’29: sarà tale spirito di massa che permetterà loro di trascinare il popolo tedesco alla guerra e poi alla rovina.

2024

Chiamare in causa la nostra contemporaneità implica subito un chiarimento preliminare: qui finiscono le analogie con il 1929, che riguardano solo il film di Lang e la situazione tedesca degli anni ’30. Diamo per scontato che in tutte le crisi esistono somiglianze e differenze, ma la nostra di oggi è ben più grave di quella del 1929 e stabilire una relazione troppo stringente fra essa e il consenso che la destra neofascista e neonazista ottiene un po’ in tutta Europa può essere addirittura una cortina fumogena che impedisce di vedere le differenze sostanziali.

Questo argomento, tuttavia, esula dagli intenti di questa riflessione che vuole richiamare l’attenzione di chi legge su un film e su un autore. Certo, il film di Lang pone dei problemi attualissimi, specialmente per quanto riguarda l’imbarbarimento in atto di tutti rapporti sociali: come tale è una premessa per ulteriori interventi più direttamente politici.

Fritz Lang

1 Ho messo fra virgolette ‘nevrosi della comunità’ perché la traduzione italiana corrente del termine tedesco usato da Freud è un’altra: “nevrosi collettive.” Non sono il primo a notare come tale traduzione corrente si presti a troppi equivoci. Per nevrosi collettive in italiano si può anche intendere le nevrosi più frequenti, quelle che il maggior numero di pazienti manifesta nel setting analitico. Inoltre si potrebbe aggiungere che il termine collettivo, rimanda a qualcosa che appartiene a tutti indistintamente, almeno in un certo ambito. Così facendo ci si preclude però la possibilità di cercare di comprendere comportamenti particolarmente pericolosi e inquietanti che non sono affatto quantitativamente rilevanti, ma lo sono da un punto di vista qualitativo, perché tramite loro è possibile intravedere lo sfondo più ampio e profondo dentro il quale tali comportamenti hanno le loro radici. Se un gruppo di adolescenti terrorizza compagni di classe e di quartiere, chiedendo loro denaro per avere protezione (come accaduto recentemente a Padova, e prima in altre località), non posso dedurne che tale comportamento sia collettivo. Un’affermazione del genere incontrerebbe e incontra subito la stessa smentita, ovvia, ma al tempo stesso pericolosa: si tratta di casi isolati. Sul piano del dato empirico questo è certamente vero, anche confrontando le statistiche sui crimini sull’arco di decenni. Se invece si considerano questi atti come emblematici di malesseri più profondi di cui essi sono la spia, la questione cambia. Nelle modalità in cui si sono dati questi fatti di cronaca, indicano per esempio, che il modello mafioso dell’estorsione in cambio di protezione, esercita un’attrazione su strati giovanili della società italiana (ma si potrebbero indicare altri tipi di comportamenti) e questo è certamente il sintomo di una malattia di cui la comunità italiana soffre da tempo e che peraltro trova prima di tutto riscontro nei comportamenti pubblici di istituzioni e cariche dello stato. Fino a poco tempo fa i modelli negativi a livello istituzionale, spingevano alla denuncia, a una politica di opposizione: oggi essi diventano, per alcuni, modelli da imitare. Il venir meno della figura del padre (Luigi Zoia e altri hanno parlato di ‘società senza padre), capace di indicare un modello di legge positiva, porta quasi naturalmente alla identificazione con altre figure che svolgono il ruolo di surrogati ma che, comunque, incarnano una legge pur che sia. Nel caso dei giovani estorsori di Padova si tratta di una legge criminale; in modo non molto diverso da quello che vediamo nel film Il mostro di Düsseldorf. Ebbene la definizione estensiva di ‘nevrosi della comunità’ (che va oltre l’aspetto puramente analitico e individuale del concetto di nevrosi), è molto più utile a una comprensione di questi fenomeni sociali, che non l’aggettivo ‘collettivo’, che in ultima analisi, esprime un dato quantitativo, seppure in termini assoluti.

PENOMBRA

Ho appena completato la lettura di Penombra, un romanzo di Uwe Timm pubblicato in Italia qualche anno fa. Di lui lessi un precedente dedicato alla prima vittima degli scontri sociali degli anni ´60 e ´70, lo studente universitario Benno Ohnesorg, ucciso dalla polizia durante una manifestazione Berlino in occasione della visita dello scià di Persia Reza Pahlevi.

Mi aveva colpito di quel romanzo la struttura ad affresco, che si compone sotto gli occhi del lettore poco per volta, attraverso una fitta rete di testimonianze incrociate. I personaggi di Timm vivono nelle parole degli altri, cioè della memoria storica di chi li ha conosciuti e la storia personale s’intreccia con quella più grande, quella tedesca in primo luogo, fino alla caduta del muro.

Lo spunto narrativo iniziale di Penombra  è tanto semplice quanto potentissimo. Il narratore, Timm stesso, che non si nasconde affatto, visita un camposanto accompagnato dalla guida e tutto avviene nell’arco di una giornata compresa negli orari canonici di apertura e di chiusura. Il cimitero non è uno qualsiasi, ma Die Invaliden e cioè il luogo dove stanno sepolti la maggior parte degli eroi, delle eroine ma anche dei dannati della storia tedesca. Generali di campo di Otto von Bismarck si alternano a capi della Gestapo come Heyindrich.

Il narratore e il custode, modernissime incarnazioni di Dante e Virgilio, si aggirano fra le tombe e i morti cominciano a parlare: non solo dialogano con i due visitatori, ma anche fra di loro e i due vivi a loro volta dialogano fra loro. Prende corpo una narrazione corale, dove la barriera fra vivi e morti diventa a ogni riga più labile. Il lettore non sempre capisce chi sta parlando a chi ma è la narrazione corale e frammentaria della storia tedesca ad avvolgerlo che viene ricostruita saltando da una tomba all’altra, da una voce all’altra.

Alcuni protagonisti, però, tornano più di altri, percorrono l’opera intera, scompaiono e ricompaiono: una fra tutte, Marga von Etzdorf, che fa parte di  quella schiera di donne temerarie, protagoniste dell’emancipazione femminile a cavallo fra ´800 e ´90: antropologhe, scrittrici viaggiatrici come Karen Blixen, esploratrici, scalatrici. Lei è un’aviatrice, fra le prime donne a sorvolare gli oceani e a saltare in aereo da un continente all’altro. Il volo aereo è  un altro dei temi che corrono nelle vene del romanzo: il volo fisico, quintessenza del futurismo, della potenza umana di divorare lo spazio. Marga fu la prima tedesca a sorvolare l’Atlantico e la sua fu una vita avventurosa e tormentata. Insieme a lei un altro protagonista Dahlem, ex pilota di caccia della Prima Guerra Mondiale. Si conoscono in Giappone dove lei è atterrata dopo un volo rocambolesco. Il loro è  uno strano rapporto. Dormono nella stessa stanza la sera stessa del loro primo incontro, ma separati da una tenda: si raccontano per una notte intera le loro vite.        

Da una tomba all’altra emerge un altro tema di fondo: il fascino che i tedeschi hanno per la cultura giapponese. È qualcosa che viene prima dell’alleanza fatale durante la seconda Guerra mondiale, affonda in un sentimento comune difficile da decifrare. Agli Invaliden sono sepolti anche dei giapponesi e a volte parlano, recitano degli aiku. Infine, la Shoa, il nazismo con tutto il suo carico di tragedia.

La narrazione, naturalmente – e non potrebbe essere diversamente da così in un romanzo come questo – non segue la lettera degli eventi, ma li mescola, salta temporalmente dalla Germania guglielmina alla DDR: dipende dalla tomba del momento. Romanzo polifonico che trova nella partitura musicale uno dei suoi modelli strutturali: sembra proprio di ascoltare una sinfonia. Il prologo, i temi annunciati per intero nelle prime 50 pagine del libro, vengono ripresi continuamente con continue variazioni, cambi di ritmo anche se il tono di fondo è dolente, mai retorico. Solo quando ricostruisce certe atmosfere militari, specialmente riguardanti la Prima Guerra Mondiale, il linguaggio si fa più aspro e amaro: quando per esempio descrive il riposo dei guerrieri fra bordelli e feste surreali, alcol e altro, prima del combattimento. Non mancano siparietti comici e grotteschi: la morte del conte Von Hüslen Haersilz aiutante generale dell’Imperatore, morto nel guardaroba della principessa di Fürstenberg!

E di nuovo Marga e Dahlem a inseguirsi fra un continente e l’altro senza che nulla accada fra di loro. Il volo del loro possibile amore sublimate in una frase che lei ripete sempre e cioè che:

… il volo vale la vita …

Se così è, Marga la perde nel modo peggiore anche se il motivo del suo suicidio rimane alla fine oscuro. Sono tre gli incidenti di volo nei quali si è imbattuta, uscendone sempre illesa sul piano fisico o quasi: l’ultimo le costa però l’ostracismo dell’ambiente: nessuno vuole più darle un aereo. Il tempo passa fra un incidente e l’altro e Marga poco prima del 1933 viene contattata dai nazisti; in lei vedono una grande risorsa.

Finora hai volato per te stessa… ora volerai per la Germania, per la riscossa del nostro popolo.

Lei aderisce, ma fino a che punto? Non si sa. Certo che loro ne sono convinti. Pare che Hitler, ormai assediato nel bunker, abbia persino detto:

Se i tedeschi fossero stati tutti come Marga i russi non sarebbero arrivati a Berlino.

Leggenda o meno, lei finisce prima della grande tragedia finale, in modo più prosaico. Commette quello che sembra essere il solo errore veramente imperdonabile per un pilota: atterrare con vento a favore. È questo atterraggio pericoloso che le costa lo sfascio del velivolo. Si salva, ma qualcosa dentro di lei si rompe oppure si era già di fronte al rifiuto di Dahlem di una relazione con lei, oppure a fronte della responsabilità troppo grave che i nazisti vogliono caricarle addosso. Si spara nella toilette dell’albergo dove era stata ricoverata dopo l’incidente e siamo proprio nel 1933. 

DIARIO DEL NORD

Questo racconto di viaggio fu pubblicato sulla rivista Manocomete, l’anno è il 1993, successivo al colpo di stato che causò la fine di Gorbaciov e dell’Unione Sovietica: il nord cui si riferisce il titolo sono in realtà i confini fra Germania e Polonia.  

Angermunde è una cittadina anonima, a metà strada fra Berlino e il confine  polacco.   La  pensione Eschert  è  gestita  dalla  signora Eschert,  vedova.  

“Morgen  ich  gehe  zu  Sceczin”,  pronuncio alla  ‘polacca’. 

La  signora  mi  sta  facendo il  letto,  alza  il  capo bruscamente interrompendosi:  “Stettin,  Stettin, mi corregge alzando la  voce: 

“Stettin ist Deutschland, meine Mutter uber Oder” vive  di là, è nata di là anche lei e  “di  là…”

È  sabato pomeriggio, i giovani sono in giro: difficile capire  come sono fatti, ma non mi sembrano revanscisti  come la signora Eschert.

Schwedt  è  una  tipica   cittadina  dell’ex  DDR:  piste  ciclabili bellissime, ampi spazi verdi. Eppure l’immagine globale è dimessa e malinconica. Poi improvvisamente,  da  dietro  un angolo, sbuca la guglia di una cattedrale in stile lubecchese, in mattoni rosso scuro. L’unico segno di accoglienza, a parte gli uffici turistici chiusi è questo richiamo religioso.  Mi aggiro per  le stradine intorno alla chiesa finché  sbuco in una strada più larga; guardando  verso  sinistra mi sembra di scorgere  un  ponte … Mi  era rassegnato a non vederlo, poi  me  ne  ero  quasi dimenticato; l’Oder invece  passa  proprio ai limiti estremi di Schwedt.  Il fiume, come la Neisse che scorre più a sud o l’Elba, ha diviso  popoli  e  famiglie, lavato nell’acqua  strisce  dolorose  di sangue; scorre davanti  a  me  silenzioso,  avvolto  in  una  sottile nebbiolina.   Sul ponte passano molte automobili, povere e  scassate: sono i polacchi che vengono a lavorare in Germania. C’è qualcosa   di  cupo,  un’atmosfera  inquietante  che   mi   è emotivamente nota; è un’aria che  respiravo  da ragazzo, un misto di provincia nord milanese, primi anni 60 e dignitosa povertà.

Domani andrò a Stettino, nonostante le voci di veri e propri assalti ai treni per derubare chi viaggia. Il  treno  parte alle 8.20, arrivo in stazione alle 8, così  almeno credo; ma è  tornata  l’ora  solare,  sono  le  sette. Entro nello scomodissimo supermercato/bar.  Dentro, oltre alla commessa, ci  sono due uomini ed una donna  dallo  sguardo  vuoto  ed i vestiti dimessi; siedono  vicino alla finestra e si dividono una bottiglia  di  birra. Il cielo è grigissimo; la notte  ha  piovuto e a letto, al caldo, ho provato una sensazione piacevolissima da tempo dimenticata:  sentirsi protetti e al sicuro. Perché proprio qui? È un pensiero che si muove  come  un tarlo nella mente, accentuato dalla sosta forzata  e nonostante il disturbo dei  tre  che  si  fa  più pesante; sono già ubriachi. Sentirsi al sicuro in una casa tedesca dal tetto spiovente e dai balconi che sembrano uscire dall’illustrazione di una favola dei  Fratelli Grimm. Sarà la nostalgia di questa tana  calda a far sì che i tedeschi siano spesso così allarmati ed insicuri verso chi è fuori ed estraneo? Ma perché io straniero ho avvertito la stessa sensazione di calore  e  protezione?  Esiste  allora uno spirito del luogo che, come un fato antico, modella l’inconscio collettivo?

Mi aggiro per i vagoni e mi imbatto in un ragazzo alto e magro, dagli occhi gentili, biondo ma  non  tedesco.  È  polacco,  dico fra me e decido  subito di stare lì. 

“Es ist frei” mi dice indicando  cinque sedili vuoti. 

Se avesse gli  occhi  un  po’ più azzurri e spiritati assomiglierebbe  all’attore preferito da Waida.  Invece i  suoi  sono marrone chiaro, espressivi ma non  esagerati. 

“Ich arbeit in Berlin.”

 “Zurück?”

“Ya zurück meine familie ist in Polen”

“Stettin?”

“Nicht in  Sceczin” mi corregge con  un  sorriso  dolce  e senza acrimonia.

“Mein stadt”  e  poi  aggiunge  qualcosa che non  capisco.  

“Ich  gehe  zu Sceczin”  gli rispondo.

“Ich arbeit in Berlin.

“Keine arbeit in Polen?”

“Keine, keine” e scuote la testa  sconsolato  “Arbeit  problema  in  Polen “

“Arbeit problema in Italien “

“Bist du Italienisch?”

“Ya ich bin ein Italienisch”

Sono in  sei in famiglia e tre hanno  perso  il  lavoro. 

“In Berlin geld zwei monate”  mi fa il segno dei soldi con le dita “In Polen sechs monate”

“Was ist deine arbeit?” fa il verniciatore di auto in un garage ed è contento.  Abita a 500 chilometri da Stettino e torna per due  giorni in permesso.  La frontiera è  vicina, il ragazzo ha il passaporto in mano:  “Ich  bin 21” jungen mensch.

“Warum keine arbeit in Polen?”

“Lech  Walesa” mi dice decisissimo; è la  prima  volta  che  lo vedo animarsi nello sguardo e nella voce.  Io faccio segni di assenso con il capo “Walesa fahrt” continua lui “America, England, Geld Geld fur Polen, aber kein Geld fur Polen”

Penso fra me che non abbiamo ancora parlato del papa e lui 

“Papst  Polen  Papst” 

“Bist  du  Catolisch?” 

“Ya  ich bin Catolisch” 

“Walesa  ist Catolisch” butto lì  con  malignità e  lui scrolla le  spalle,  poi  mi  indica  la  penna  nel  taschino con il ritratto  di  Wojtila “Grosse, grosse” e si mette a ridere,  come  a dire “era solo un distintivo e basta”  Il viaggio è quasi finito, il treno è fermo, sta arrivando il controllo passaporti “Habst du  ein Polsch passeporte gesehen?”

“No.” 

Me lo mostra orgoglioso. Stettino Glowny, ciao amico.

La stazione è grigia e sporca; l’Odra le scorre davanti ed il mare è a poche miglia, ma il porto mi sembra inattivo. La ragazza dell’informazione turistica parla solo polacco, mi prende una piccola crisi di sconforto. Mi avvio all’edicola e compero una cartina  della città; lì ritrovo il mio amico. È disperato. Il treno era in ritardo e non ce  ne  eravamo  accorti; lui ha perso il suo.   

“Quando è il prossimo accidenti? 

Scuote il capo sconsolato e non mi risponde; forse non riuscirà nemmeno ad arrivare. 

“Wait, ich gehen zu wechsel und kommen zurüück.”

Torno, ma lui non c’è più e che altro avrei potuto dirgli e fare poi?

Una  tazza di te costa 7.500 sloti, il listino ufficiale però  porta scritto 5.000, mentre il nuovo prezzo è segnato a mano su un foglio. Mi  ricordo improvvisamente dell’ultima vacanza in Jugoslavia, quando i prezzi cambiavano  tutti  i  giorni  ma  le  correzioni sul listino ufficiale erano settimanali:due anni dopo la guerra.

Quella  del   cambiavalute   sembra   essere   l’attività  economica principale  della città, oltre al commercio minuto.  Ne  ho  contati sei nelle adiacenze dell’albergo.  Fuori hanno insegne luminosissime, molto  simili  ai  richiami  dei locali  porno.   Anche i  nomi  sono esotici: Kantor,  Lombard  e  solo  alcuni  portano  la  scritta più tradizionale   –  Wechsel  o  Change  –  in  piccolo.    Lombard   mi incuriosisce;  è  un  omaggio  agli   italiani,  primi  banchieri  e cambiavalute?  Anche nella City di Londra c’è una Lombard Street. ll gran numero di cambi indica che il commercio clandestino di valuta è stato  legalizzato. Quest’ovvia  considerazione, tuttavia, non esaurisce il problema.  Il primo dato che mi balza all’occhio è che sono sempre pieni di polacchi e non di turisti. Ne ho visti più di uno entrare, cambiare e poi recarsi subito nel negozio a fianco a fare la spesa. Era lo stipendio mensile dunque quello che finiva al cambiavalute e poi subito nelle tasche del dettagliante. Molti di questi  saranno  lavoratori  in  Germania  ma  il  numero  mi  sembra eccessivo;  avranno anche delle riserve di valuta pregiata ma non  mi è allora chiaro come se la siano procurata. Il giro d’affari è consistente e coloro che rastrellano la valuta non saranno,  nel giro di qualche anno, dei ricchi qualunque;  tutti insieme costituiranno una lobby potente, in grado di gestire capitali consistenti.  Per  farne che? E chi sono poi  questi  percettori  di valuta pregiata?  Nuovi ceti  rampanti polacchi in cerca di posizioni preminenti?  E quali conseguenze politiche avrà questo traffico?

Per cenare scelgo il King, un ristorante del centro. Il locale è discretamente affollato.   I  due  seduti  alla  mia  destra  parlano inglese  e vestono in modo simmetrico: uno indossa una camicia  color latte ed un paio di  pantaloni rosso/ciclamino,  mentre  il  secondo veste  gli  stessi  capi a colori  invertiti. Entrambi  portano  un foulard di seta nel collo della camicia. Le coppie irregolari  si  muovono  fuori  stagione,  seguono percorsi imprevedibili, s’aggirano raminghe per rotte periferiche, cercano nei luoghi  meno  romantici  la  libertà  del  loro anonimato  e di una silenziosa  ed  intima trasgressione.

La  birra che ieri costava 20.000 sloti questa sera ne costa  17.000; naturalmente il bar è lo stesso, però è cambiato il cameriere.

Non è tardi ma c’è poca gente in giro; intorno ai cambiavalute c’è un andirivieni continuo È un’atmosfera strana che non  mi  piace. Poi dal fondo  della  strada  vedo  sbucare  un  bassotto  seguito da quattro persone: padre, madre e due ragazzi dell’età dei miei figli. I cani ed i  loro  padroni  ispirano  ovunque  un  senso di fiducia e sicurezza.  Alzo la testa e ne vedo altri in giro, alcuni liberi altri al guinzaglio. È anche qui  l’ora dell’ultimo passeggio come qualcuno  starà  facendo  a Milano con  Laika. Padroni e cani si assomigliano ovunque e i primi  potrebbero capirsi a volo in qualunque lingua per il solo fatto di condividere questa esperienza. Chissà che alla fine  siano  i  padroni  di  cani  gli  unici  a capirsi e a dialogare, chissà che seguendo l’animale (perché è il padrone  che segue il suo cane) non diventi  trasparente la buffa comunanza che ci fa tutti uguali davanti al nostro cane.

Di  fianco all’albergo c’è un saldo. Mentre passo mi sento chiamare da una voce  femminile; penso alla solita commessa che invita i clienti a entrare, sorrido e scuoto la testa.  Lei però  continua, mi rivolge qualche  parola  in  polacco  e  il  tono della voce mi fa sobbalzare perché sembra un richiamo disperato.  Mi volto sorpreso. Non è una commessa. È una  ragazza  bionda,  appoggiata alla porta  del  negozio; a terra c’è il sacchetto della spesa. Ci guardiamo, lei continua a parlare, tento di rispondere in inglese, ma lei scuote il  capo “ne’, ne”.  Provo in tedesco; niente. In quel momento vedo le stampelle addossate al muro e comincio a capire. Mi avvicino e lei  sorride,  tira un sospiro di sollievo  “please,  please”  “Help” “Help, help” è quasi un  grido.   Vedo le sue gambe torte, il busto diritto, le ginocchia retroflesse il viso biondo e gentile, la parte bassa del suo corpo deturpata. Credo sia distrofica o peggio; vuole attraversare la strada. Le do il  braccio e ci avviamo fermando il traffico. Arriviamo di là ma non posso lasciarla perché cadrebbe. Dobbiamo raggiungere il muro e sono  altri  venti metri di strada, durante  i  quali  per la testa mi passa di tutto: perché  non  è assistita? Perché è uscita proprio lei a fare la spesa? Quanti anni ha, dove abita?  Cosa farà domani?  “Taxi” forse l’ho gridato per un desiderio di restare ancora un  poco con lei, sorride ma nega con il capo. 

“Ma non puoi andare così dove abiti, help polski help polski, mi guardo  attorno  ma  nessuno  mi  sembra  rassicurante…

“ne help polski, ne help polski, polski…” e qui si interrompe ma il gesto è inequivocabile; sputa per terra. I polacchi non ti aiutano e scuote la testa  sconsolatamente, continuando a ripetere  “ne help polski, ne help polski”. Arriviamo  al  muro, ci guardiamo, ha gli occhi  lucidi  ma sorride; è più tranquilla e mi indica  che posso andare.  Poi con la mano sulle labbra mi manda un piccolo bacio e cerca   di  stringermi  la  mano;  barcolla  di  nuovo e  mi  tocca sorreggerla. Poi l’accarezzo sul viso e mi volto di scatto. Vado via, mi è passata la voglia di fare qualsiasi cosa; entro in albergo ritiro il bagaglio e vado alla stazione.

Bad Saarow Pieskov, e’ una localita’ termale su un lago, un  gioiello dell’ex DDR, famoso dagli anni 20 e visitato da artisti e poeti; c’è la casa di Gorki che trascorse qui un lungo periodo di cura. Di  fianco all’ostello c’è una ex caserma sovietica in  disarmo. I bambini ci entrano per giocare, passando da un buco della rete metallica  e  mentre se ne stanno lì ecco che arriva  un  camion  di soldati, entra e  non  li  guarda  neppure.

La  stazione di Bad Saarov è surreale: un capanno di legno in aperta campagna, ermeticamente chiuso. Quando arrivo c’è un uomo con due borse. Fa freddo, cominciamo a guardarci, mi avvicino. Non mi  ero sbagliato: le borse sono piene di  funghi.  L’uomo comincia a parlare rapidamente, con brevi pause ogni tanto.  I temi sono i soliti:  non c’è  lavoro,  prima  non   potevamo   muoverci,  adesso  abbiamo  il

passaporto  ma ci mancano i soldi per andare dove vogliamo.  Esaurite le lamentele  comincia  la  seconda  parte  del  discorso: i polacchi stanno  peggio di noi, anche la lira non va bene, il marco invece  è  pesante.  Tira  fuori   di   tasca   alcune   monete   e  le  guarda orgogliosamente. Arriva davvero il  treno:  incredibile!  È  un convoglio pendolare, pieno di operai  e studenti.  Sulla mia carrozza c’è  una  colonia di bambini delle scuole elementari che  tornano  a Berlino dopo aver trascorso due  settimane  di  ‘scuola natura’ a Bad Saarov.   Cantano  a  squarciagola “Il gallo e’ morto”  in  tutte  le lingue, come si conviene.  Sono  incantato dalle pronunce esatte, da tono,  dall’entusiasmo  che  ci  mettono; i  passeggeri  sorridono  e sopportano benissimo il chiasso, le maestre non fanno una piega.

Eltsin bombarda il Parlamento, i  giornali  titolano  a nove colonne alla porta di Brandeburgo la gente discute animatamente.  Mi avvicino ed il ritornello dei discorsi è  martellante:  “I russi torneranno!”

Alla Marienkirche c’e’ una manifestazione di piazza; sono abitanti del Kreuzberg che protestano  contro  i  progetti speculativi a danno del  quartiere  un  tempo  gioiello di  Berlino  ovest,  regno  della trasgressione e delle libertà  occidentali:  case occupate, cultura, circoli,  una  vivacità  intellettuale  degna  della  Repubblica  di Weimar.  Signori si chiude! Il gioco è finito; caduto il muro la costosa vetrina è stata dismessa, i locali chiusi, le occupazioni smantellate, l’area ripulita dagli extracomunitari. Si è liberi in relazione ad una possibile alternativa, ma non nell’unicum esistente. Ritorno  all’ostello  di  Kluckstrasse, il  treno  parte  alle nove.

Rifaccio sull’autobus 129 il percorso che porta alla stazione dello zoo. Ku’Damm è piena di luce: domani è sabato.

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