DIARIO BERLINESE: SECONDA PARTE

Berlin. Alexander Platz

26 Settembre 2010.

Il ritorno a Berlino coincide questa volta con il primo giorno di scuola. Mi sono iscritto a un corso di tedesco. Arrivato ieri mi ritrovo oggi catapultato in un’aula insieme ad altri e altre giovani, ben più giovani di me. Infatti mi guardano con curiosità. Proprio durante la prima mattina ho avuto l’ennesima conferma che Berlino è un luogo del tutto particolare anche per i tedeschi. La nostra insegnante, di Monaco di Baviera e assai severa in tema di regole sociali, almeno all’apparenza, ci ha raccontato un aneddoto molto comune i Germania. Quando in una famiglia ci sono un figlio o una figlia un po’ matti (verrükt), che non vuole dire semplicemente pazzerellone, ma qualcosa di più (in italiano potrebbe stare per trasgressivo, senza regole o anche matto), i genitori e specialmente le madri lo apostrofano così: “Figlio mio, tu sei pazzo, devi andare a Berlino.”

In effetti la città ha goduto di privilegi assai significativi, specialmente per la popolazione giovane e che hanno contribuito ad attirare verso di essa, uomini e donne ribelli. Una misura per tutte: chi si trasferiva a Berlino era esentato dal servizio militare. Berlino era una città assediata anche dopo la fine del blocco sovietico: il suo ripopolamento però era necessario per cui occorreva incentivarlo con misure e bonus di varia natura. Questo favorì il trasferimento nella città di oppositori trasgressivi di ogni tipo. Le occupazioni dei centri sociali erano più che tollerate e costituivano una sorta di welfare aggiuntivo per chi arrivava in città. Tutto questo rese appetibile Berlino anche per molti giovani europei e questo ne faceva una città che agli occhi di molti tedeschi appariva senza regole.

7 Ottobre

Ieri sera il canale di storia ha mandato in onda un lunghissimo servizio unico nel suo genere e che finora non avevo visto neppure qui. Si tratta di una ricostruzione degli ultimi mesi di Guerra, dal febbraio del ‘45 fino al 9 maggio, data in cui l’Ammiraglio Donetz firmò la capitolazione della Germania senza condizioni. Niente di strano fin qui, solo che la ricostruzione storica era giorno per giorno! Il materiale cinematografico, in larga parte di fonte americana, era basato sia su documentazioni giornalistiche di inviati al fronte al seguito delle truppe, sia da filmati di cine operatori improvvisati, soldati stessi incaricati dagli ufficiali. Un materiale dunque diversificato: a volte s’intuiva una totale assenza di regia, in altri casi il contrario, una regia molto sorvegliata che aveva lavorato di tagli e montaggio in modo assai raffinato. L’accompagnamento di voce, sempre in tedesco, faceva pensare a un lavoro d’equipe successivo, anche se ogni tanto il commento fuori campo era in inglese e poi veniva tradotto. Se ne deduceva in generale che la parte tedesca avesse accettato del tutto tale documentazione ritenendola fedele in linea di massima ai fatti. Il mio giudizio di spettatore è assai problematico. Difficile valutare la natura dei tagli: non tanto perché la regia edulcori la guerra dal momento che ne mostra tutti gli orrori seppure senza indulgere in immagini che oggi definiremmo pulp, se non in rarissimi casi. Non trascura di mostrare atti di violenza gratuita da parte delle truppe alleate, anche verso soldati che si erano già arresi. L’effetto generale però appare sconcertante perché filmare ogni giorno di guerra dal febbraio rivela anche un atteggiamento un po’ maniacale. Tre particolari mi hanno colpito e in attesa di vedere le prossime puntate nelle prossime sere. L’assenza di scene di massa all’arrivo delle truppe americane come invece avveniva in Italia, il profluvio di bandiere bianche in segno di resa, sventolate non solo dalle truppe che si arrendevano, ma anche dalla popolazione civile; infine le poche immagini di campi di concentramento. Una sola scena inquadrava i morti accatastati e magrissimi che ci siamo abituati a vedere in altre immagini della Shoah. Naturalmente può essere che trattandosi di materiali mostrati molti anni dopo, la selezione abbia tenuto conto di molti altri documentari, ma se rimaniamo al discorso della presa diretta, si rimane lo stesso perplessi; ma per dare un giudizio definitivo su questo aspetto, attendo che il filmato arrivi a Buchenwald, il solo campo collocato nella parte ovest della Germania,

8 Ottobre.

L’uso della bandiera bianca in segno di resa da parte della popolazione civile, continua a sconcertarmi. Difficile da interpretare. Da un lato potrebbe significare che nell’avanzata delle truppe città per città e con i combattimenti strada per strada era difficile distinguere fra soldati e civili asserragliati nelle case, per cui tutti dovevano considerarsi in qualche modo belligeranti e quindi bersagli potenziali. Questo però contrasta con un altro particolare. L’avanzata delle truppe anglo-americane in territorio tedesco, pur lentissima, non sembra essere stata contrastata più di tanto dopo il fallimento della controffensiva tedesca a ridosso dei confini con Belgio e Olanda. Le scene mostravano interi plotoni che si arrendevano, quelle che hanno filmato veri e propri combattimenti sono poche. O i tagli sono stai fatti in modo tale da non riprendere la resistenza dell’esercito tedesco ai fini di mostrane la rotta più di quanto non fosse, oppure le cose sono andate davvero così, la tenuta della Wehrmacht fu poca cosa; ma questo non spiega (da un punto di vista militare), la lentezza dell’avanzata in territorio tedesco. L’unica supposizione è che ci fosse un accordo con l’Unione Sovietica per cui le truppe anglo americane non dovessero superare certi confini e specialmente lasciare alle truppe sovietiche il compito di entrare a Berlino. Yalta c’era già stata e la famosa mappa consegnata da Churchill a Stalin, con i confini d´Europa già tracciati e definiti quanto a sfere di influenza, era stata vistata dal leder sovietico con un certo entusiasmo, anche se poi – alla richiesta del leader britannico di esserne lui il custode – l’astuto georgiano aveva opposto un cortese rifiuto.   

9 Ottobre.

Oppure la spiegazione è un’altra e cioè che quella porzione di popolo tedesco mostrata dai vincitori, doveva apparire sconfitto come i soldati: in altre parole, i tedeschi tutti erano schierati con il regime e dunque alzavano la bandiera bianca in segno di resa perché si sentivano soldati come chi effettivamente combatteva. In effetti, i volti dolenti e sconfitti della popolazione avevano la stessa espressione delle truppe in divisa che tenevano le mani alzate. Un popolo dunque compatto che si sente partecipe della stessa sconfitta? Solo in una scena si vedono tre donne sorridenti che sventolano la bandiera bianca e che sono del tutto felici di vedere apparire le truppe alleate. Se tagli ci sono stati, eliminando del tutto le scene di entusiasmo così comuni in Italia è evidente che le ragioni andranno cercate non nella Guerra in corso, ma nel disegno del dopo. Accreditare del tutto l’asservimento del popolo italiano al Fascismo era impossibile perché la Resistenza era stata troppo forte per permetterlo: gran parte delle città erano state liberate prima dell’arrivo dei liberatori. In Germania le cose andarono diversamente ma oggi sappiamo anche che ci sono forti indizi che andarono così anche perché fu cancellata la memoria della resistenza tedesca, che pure vi fu, sebbene minoritaria in Germania ma niente affatto residuale nel resto d’Europa. 2000 disertori tedeschi hanno combattuto nella Guerra di Spagna e altri combatterono nelle resistenze europee e anche in Italia e in Unione Sovietica. Per accreditare il mantra della colpa collettiva del popolo tedesco bisognava mostrane il volto dimesso della sconfitta, le bandiere bianche in mano alla popolazione civile, significavano anche questo. Il resto fu cancellato in fretta e su di esso fu imposto il silenzio. Che Buchenwald fosse stato liberato dalla popolazione locale e dagli insorti del campo stesso è stato cancellato per decenni dalla storia tedesca, mentre è stata accreditata e alquanto sopravvalutata una presunta resistenza di settori cattolici e alto borghesi (Stauffenberg, la Rosa Bianca), perché si doveva occultare che c’era stata in Germania anche una attiva resistenza comunista che non aveva mai smesso di agire. In sostanza gli anglo americani, mentre stavano finendo di combattere una guerra ne avevano già iniziata un’altra. Al comune di Buchenwald, che aveva già eletto i propri rappresentanti dopo l’insurrezione, i liberatori americani imposero come borgomastro un vecchio rottame conservatore, cancellando manu militari la decisioni popolari e così avvenne da altre parti. Anche in Italia, peraltro, le trame atlantiche cominciano nel ‘44, quando si capì che la Guerra con il nazifascismo era ormai vinta e si trattava solo di una questione di tempo.   

12 Febbraio 2011.

Va in onda in prima serata un programma dal titolo Nicht alles war schlecht. Il canale Phoenix si occupa di grandi inchieste e il titolo m’incuriosisce: si potrebbe tradurre con non tutto andava male oppure anche con non tutto era cattivo. Quando le prime immagini e le fogge dei vestiti mi riportano agli anni ’70 e le riprese inquadrano Berlino intorno ad Alexander Platz, comprendo subito, prima ancora che si cominci a parlare, che l’oggetto dell’inchiesta è l’ex DDR. I servizi sulla Repubblica Democratica tedesca si sono intensificati negli ultimi anni, ne ho visti diversi, però capisco che questo reportage avrà dei toni e degli accenti differenti dal solito e infatti sarà così. Peraltro, un titolo così esplicito e senza punto interrogativo lo faceva presupporre. Il taglio della ricostruzione era l’immersione nella vita quotidiana, per poi da lì risalire all’economia, alla politica, alla struttura dello stato e alla sua ideologia. Come sempre avviene in questi programmi, il reportage s’interrompeva per far parlare alcuni protagonisti che esprimevano opinioni contrastanti: seguivano poi i commenti da studio, affidati a due diversi storici con approcci differenti. Infine, l’inchiesta si avvaleva di veri e propri momenti di sceneggiatura teatrale, dove venivano messi in scena simulazioni di situazioni in cui la vita comune delle persone entrava in conflitto con l’ideologia ufficiale. In una, per esempio, uno studente delle superiori viene trattenuto alla fine delle lezioni dall’insegnante che lo redarguisce aspramente per la foggia dei suoi vestiti e i capelli lunghi e le scarpe troppo occidentali. Mi stupisco, perché nelle scene precedenti, le immagini di concerti rock a Berlino est inquadravano masse urlanti di giovani niente affatto diverse da quelle delle piazze occidentali degli stessi anni; anzi, veniva sottolineato come l’idea che il rock fosse bandito negli stati socialisti era più il frutto di propaganda che non di realtà. Seguendo il colloquio, capivo che il problema era in effetti un altro e cioè che lo stesso abbigliamento non poteva essere adoperato a scuola e in un concerto; un problema di decoro e di rispetto per lo studio e la funzione della scuola. In sé, la cosa poteva pure avere un senso, se non fosse che la minaccia esplicita che si intuiva durante la sceneggiatura, era quella di sanzioni talmente pesanti e non solo di natura amministrativa, da rendere il tutto quantomeno assurdo. Tornando al titolo: che cosa non era tutto da buttare? Qui l’inchiesta si affidava molto di più alle testimonianze e allora anche le più critiche insistevano su fattori che erano stati ricordati più volte e che da noi venivano presi per semplice propaganda mentre era anche di sostanza: la sanità gratuita, l’accesso allo sport e allo studio, una certa libertà nell’uso del proprio corpo che sfociava nel nudismo come pratica quasi abituale. Un pugile, in particolare, sottolineava fortemente questi aspetti, che non erano negati neppure dai più critici, senza trascurare peraltro la grande questione del doping di massa, spacciato per medicina sportiva. Niente di nuovo sotto questo aspetto, nel senso che il lavoro garantito (anche quando non serviva a nulla) e servizi sociali efficienti, erano gli aspetti del capitalismo di stato comuni a tutti i paesi del socialismo reale, con maggiore o minore efficacia sociale e certamente quelli della ex DDR efficienti lo erano, tanto che ancora oggi nelle parti più orientali di Berlino, per esempio, alcune di quelle istituzioni sono rimaste in piedi e continuano ad essere elementi di aggregazione e di resistenza al degrado. L’inchiesta, a questo quadro sociale che in alcuni momenti appariva (se riportato alle immagini di vita quotidiana), di una decorosa esistenza, un po’ grigia ma non diversa da quella delle società occidentali degli anni ’50, giustapponeva l’altro aspetto, quella della mancanza di libertà, di tutta una serie di restrizioni – alcune delle quali assurde – e per ultima, ma non all’ultimo posto, la presenza abnorme e ingombrante del muro. Fra questi due aspetti, anche in questa inchiesta, c’era un gap, un vuoto nel mezzo che non può essere colmato da un servizio giornalistico per quanto accurato e serio. Il vuoto cui alludo è quello di una riflessione più profonda e che faccia un bilancio non solo politico di quelle società ma anche antropologico e anche teorico, partendo anche da una domanda molto semplice: ma era proprio necessario tutto quell’apparato poliziesco per arrivare a quello che le socialdemocrazie nordiche avevano realizzato a partire dagli anni ’30, senza pagare gli stessi prezzi? La risposta a questa semplice domanda non è naturalmente semplice ma occorre affrontarla se si vuole rimettere al centro la proposta politica una società diversa da quella esistente, patriarcale e capitalistica, ma lontana (seppure in modi diversi), sia dal socialismo reale sia delle socialdemocrazie nordiche che hanno finito il loro ciclo propulsivo sia al loro interno, sia come eventuale modello di riferimento.

6 Ottobre.

I modi in cui la televisione e la stampa tedesca riferiscono delle vicende di Berlusconi, è emblematico per capire la mentalità diversa dei due popoli e delle due culture, ma è anche un indice del fatto che i tedeschi hanno verso di noi un atteggiamento di interesse continuo, che li affascina al di là della facile ironia cui a volte sui abbandonano. Era già accaduto con la bocciatura della proposta Augello che aveva fatto scrivere nei titoli dei telegiornale: Italienisch Senat wählt die Ausschluss von Berlusconi. Letteralmente: il senato italiano vota l’espulsione di Berlusconi. Lo stesso schema linguistico si è ripetuto alcuni giorni dopo con il voto della giunta. Berlusconi verliest Senats mandat: Berlusconi perde il mandato di Senatore. Entrambi i titoli sono basati sul concetto di conseguenza logica derivante da un atto già compiuto. Se la giunta del Senato ha tolto il mandato se ne deduce che Berlusconi è decaduto da Senatore. Il problema è che il concetto di conseguenza logica e della sua stringente consequenzialità viene esteso a una materia per sua natura controversa. In politica esiste la conseguenza logica stringente? Non sempre, neppure per loro e infatti dall’esito elettorale alla formazione del governo, i tempi si allungano anche qui. L’argomentazione che questo avviene perché la Merkel non ha la maggioranza assoluta, come viene scritto dai giornali italiani, è però una obiezione tipicamente italiana, che solitamente qui non ha alcun corso, dal momento che nessuno contesta la sua legittimità a governare. In altri momenti meno delicati di questo, il governo sarebbe probabilmente già nato. Rimane però  un fatto indubitabile. Anche per le caratteristiche della lingua tedesca, il concetto di conseguenza logica è fondamentale e discriminante rispetto alle altre culture e lingue europee.

2 Dicembre.

La morte di Christa Wolf sta passando in un silenzio piuttosto greve qui in Germania. La televisione le aveva dedicato un servizio tre settimane fa. Il mio tedesco non mi permette di capire se fosse un coccodrillo anticipato, la sensazione è che si trattasse di un reportage normale. Pochi i commenti alla notizia della morte e anche girando in rete fra quelli italiani prevale, tranne che in alcuni interventi (primo fra tutto quello di Rossana Rossanda sul Manifesto), una certa acidità. Tutti a ricordare la storia che è poi un falso: quella dei suoi rapporti con la Stasi. Christa Wolf ha ricostruito più volte come sono andate le cose. Non ha negato di essere stata contattata dal servizio, ma a fronte della sua reticenza è stata oggetto lei stessa di attenzioni e spiata. Ci sono personaggi ben più imbarazzanti nella ex DDR, che hanno saputo abilmente riciclarsi. La colpa di Christa Wolf è un’altra: non avere abiurato l’idea comunista pur prendendo tutte le distanze del caso (ma con le armi della critica e della riflessione e non con quelle della rimozione), dalla storia dei regimi orientali. Rossana Rossanda, sul Manifesto, aggiunge altre considerazioni assai acute. Su Wolf ha pesato anche il fatto di non essere amata dalle femministe, proprio perché s’era impicciata di cose come il comunismo. La sua mancata abiura, e la sua tranquilla resistenza, permettono di scoprire molti altarini. È stato divertente in questi giorni leggere che proprio coloro che parlano a proposito e a sproposito di autonomia dell’arte e dell’artista da ogni pensiero, ideologica ecc. rivendicando che solo l’opera fa testo, parlando di Wolf si siano completamente dimenticati dell’opera e abbiano criticato le sue scelte politiche. La Wolf scrittrice avrà tutto il tempo che vuole per tornare a imporsi. Ha saputo risalire alla mitologia greca in un modo originalissimo, lontana sia dai cliché della parodia sia della rivisitazione del mito in chiave postmodernista. Ha certamente attualizzato il mito, ma anche questa parola non le rende giustizia: può renderla a Dürremmatt e a Borges, ma non del tutto a lei. Credo che Wolf abbia cercato nel mito arcaico le radici di una possibile utopia e dunque lo ha proiettato nel futuro, facendone una fonte dinamica d’ispirazione non soltanto letteraria. È questo che rende diverse le sue Cassandra e Medea da altre. Lei interroga questi miti nelle loro parti opache, a volte come in Medea li riscrive completamente, presupponendo tutta un’altra storia che sottostà a quella conosciuta; ma non lo fa sempre, come se seguisse un programma di riscrittura dell’intera storia occidentale al femminile. Altre volte li interroga in modo riflessivo, senza approdare a un’ipotesi necessariamente alternativa. Bisognerà certo ritornare con altri e più affilati strumenti a ripercorrere la sua opera, ma non riesco a sottrarmi, anche in questo caso, dallo scriverne a caldo, in diretta con gli eventi, spettatore partecipe. Anche per il solo fatto di trovarmi qui a Berlino, la sua morte è un altro di quei segni che tirano la riga su un’epoca. Con lei muore una seconda volta la Germania Orientale e forse sono destinate finalmente a morire anche le polemiche, dopo questi brevi fuochi residuali. Il mondo del capitalismo reale nel quale viviamo ci trascinerà in nuove tragedie, ma il passato non ci serve a nulla in questo momento, anche perché a differenza di quello che ha fatto lei, molti altri hanno semplicemente abdicato e rimosso. La sua opera di grande scrittrice del secondo ‘900 potrà invece vivere più liberamente.   

DIARIO BERLINESE: PRIMA PARTE

Spandau promenade

Introduzione

Berlino è stata per alcuni anni una città che ho abitato e non semplicemente visitato: precisamente dal 2007 al 2019. La pandemia Covid 19 ha chiuso una fase della vita, ponendo fine fra l’altro anche alla frequentazione abituale della città. Ci ritornerò? Non lo so, la questione  è assai complessa. I luoghi, con l’età che avanza, tendono a diventare definitivi nel ricordo e si ha quasi paura di turbarli di nuovo con la nostra presenza: poi però ci sono le relazioni e a Berlino ne ho stabilite poche ma di grande valore e intensità e con alcuni è difficile vedersi altrove. In attesa di trovare una soluzione al dilemma ho riletto il diario che ho tenuto in quegli anni e ho deciso di pubblicarlo qui a puntate.    

29 Ottobre 2007.

Abitare una città e non visitarla da turista diventa percepibile quando alcuni luoghi che pure si sono frequentati volentieri durante i primi momenti, escono quasi dalla vita quotidiana, sostituiti da altri più legati al quartiere in cui si vive, al supermercato dove si va sempre perché solo lì si trova il vino che ci piace, oppure l’internet point e il bar dove capita di scambiare qualche parola con i gestori turchi del medesimo.  Questa sensazione si è consolidata proprio in questi giorni.

30 Ottobre.

I luoghi influiscono sul modo di scrivere. È banale dirlo, ma quello che è difficile è mettere a fuoco il perché. Mi capita spesso di pensarlo qui a Berlino. Forse perché il mio tedesco è ancora misero e claudicante, scrivere a Berlino significa chiudersi dentro la propria lingua, attorniato da suoni che soltanto raramente diventano senso. A volte sono semplici parole, la cui frequente ripetizione suggerisce di colpo il significato e allora si forma come un atollo di significati che mi strappa alla lingua mia e mi riporta all’altra: da questa sorta di connubio dialettico sembra nascere qualcosa. Per il resto Berlino è una città che permette di rifarsi una verginità della vista, bombardati come siamo da immagini triviali; in questo anche Roma offre altrettanta e differente ricchezza. Perciò mi piace sempre di più scrivere in queste due città: forse vi è davvero un rapporto inverso fra comunicazione e scrittura. Mi ricordo anche di una recente intervista a uno scrittore ceco – Topol – il quale dice di venire a Berlino a scrivere proprio perché non sa il tedesco e può allora chiudersi in un silenzio che non è quello dell’assenza di parole, ma proprio la possibilità di essere immerso in una realtà potendo conservare la propria distanza. Berlino è avvolgente nel silenzio e questo accende altre parole… E poi la luce del nord, il suo estremismo che ha il proprio contraltare nel buio invernale altrettanto estremo.

6 gennaio 2008.

Forse la caratteristica saliente delle città tedesche è la presenza ancora oggi di un robusto apparato industriale all’interno del perimetro urbano; caso unico in Europa. Andando verso Amburgo con il bus lo si coglie bene. A parte le strutture del porto, tutta l’estrema periferia ovest della città è piena di ciminiere in azione, fabbriche, capannoni. Anche in zone più vicine al centro la presenza di industrie, in qualche caso dismesse, è altrettanto vistosa, tanto che in alcuni punti la città sembra un museo di archeologia industriale a cielo aperto. Alcune aree vengono destinate ad altri usi, ma lasciate nella loro integrità architettonica. A Milano tutto questo non esiste più da 50 anni ormai: l’ultima rovina industriale che ricordo è la stazione fatiscente della Bovisa, prima della bonifica. Nella parte est di Berlino la presenza industriale è ancora più evidente, a volte è difficile capire subito se una fabbrica sia ancora in funzione oppure sia una rovina. Poi si arriva ad Amburgo, un caso a parte: la ricostruzione del porto è qualcosa di spettacolare, uno degli esempi di architettura contemporanea più funzionali e belli da vedere, un mix di rispetto per la storia e di ardite soluzioni.

20 gennaio.

La visita al Museo ebraico di Berlino era in programma da tempo, ma non mi decidevo ad andarci, anche perché va detto che nella capitale tedesca i monumenti, i musei, le iniziative estemporanee che ricordano la Shoah sono tante; tuttavia quando si dice Museo ebraico si pensa a questo di Linden strasse, perché è di tutti il più completo e originale, anche come concezione architettonica. Esso è costruito intorno a quattro linee di forza che s’incrociano: la storia degli Ebrei in Germania da Costantino in poi, la storia delle persecuzioni, e delle conseguenti emigrazioni, la Shoah e infine il ritorno degli Ebrei nella Germania liberata e ancor più dopo la fine dell’Unione Sovietica. Progetto ambizioso, non sempre facile da seguire ma tuttavia esauriente. Le diverse linee che s’incrociano finiscono in tre casi in altrettanti vicoli ciechi. Il senso di essere immersi in un passato che non passa è assai forte, nonostante lo sforzo di avviare un discorso che sia anche di riconciliazione; ancora una volta mi ritrovo a pensare che l’orrore non sia rappresentabile e che solo i Greci si sono avvicinati a poterlo fare con una delle funzioni della tragedia: la catarsi, il rivivere insieme e collettivamente il dramma che permette di compatire, cioè patire insieme.

16 Febbraio.

Il paradosso berlinese quanto è destinato a durare? Difficile dirlo, ma l’insofferenza degli altri tedeschi cresce. A Berlino si vive troppo bene con poco e non è soltanto il frutto di una certa attitudine spartana, ma anche dei cospicui finanziamenti pubblici, riversati sulla città da tutta Europa. Berlino doveva essere risarcita in qualche modo dal fatto di essere stata la città di frontiera per eccellenza, di avere sopportato il peso della guerra fredda come nessun’altra città europea ha dovuto sopportare. Sono passati più di vent’anni, però, la memoria è corta. E poi a est rimpiangono addirittura il muro talvolta, sono molti a parlare di annessione, non di riunificazione e questo genera sentimenti ambivalenti: per l’uomo medio tedesco poco interessato alla politica, i berlinesi dell’est sono ingrati se rimpiangono il passato, mentre il cittadino dell’est, anche quello che aveva seguito le manifestazioni che portarono alla caduta della DDR, oggi, si rende conto di essere stato trattato come un tedesco di serie B. 

20 Febbraio.

Della detenzione dei gerarchi nazisti nel carcere interno alla cittadella di Spandau, non rimane quasi nulla. I tedeschi ricordano in molti modi la terribile avventura nazista, lo fanno con scrupolo e metodo e lo fanno da tempo, dal 1968 in poi, con grande determinazione. Però, hanno voluto ridare all’affascinante complesso di palazzi e cortili della Cittadella di Spandau, il volto di un centro culturale, dove avvengono mostre concerti e altro: hanno fatto bene. Spandau è una cittadina deliziosa, come Potsdam peraltro, circondata dalle acque come sempre, ed è difficile capire se si tratta di uno dei tanti rami e canali della Spree o di che altro, bisognerà restarci un bel po’ in questa città per orientarsi davvero nel suo labirinto di acque e di boschi!

10 Marzo.

A cena con amici italiani che vivono qui a Berlino da tempo.

“Pare siano 800.000 gli invisibili in città mi dice Stefano e Corinne conferma.

“Forse sono un po’ tanti” ribatto io, “e mi è pure difficile pensare che siano proprio invisibili, forse sono tollerati, lo sanno ma finché non diventa un problema, non intervengono …”

Difficile dirlo, ma il problema rimane, il flusso migratorio di giovani verso Berlino è continuo e rilevante e ne conveniamo tutti. Potrà continuare?  Si finisce sempre con questa domanda e la risposta è la recita di un mantra cui siamo tutti abituati: se l’Europa va in pezzi la Germania sarà l’ultima ad andarci e Berlino è l’ultimo posto a cadere. Rassicurati come sempre dopo ogni replica del copione, ci dedichiamo più volentieri al minestrone alla milanese che ho preparato cui segue un agnello sardo con patate e a cui seguirà il panettone – sì proprio lui – acquistato al Mittemeer e cioè alla catena di supermercati che vendono prodotti di pregio dei paesi del Mediterraneo: hanno confuso la Pasqua con il Natale ma la cosa ci mette ancora più allegria. I vini sono del Salento e di Spagna, abbiamo avuto le stesse idee in proposito, ma bevendo l’iberico mi rendo conto che anche loro hanno imparato a fare i rossi.

16 Marzo.

Capitato quasi per sbaglio alla Ostbanhof, cerco di capire cosa ci si possa fare. Ci sono le file di autobus in attesa di partire per i quartieri ancora più esterni di questa città che non finisce mai. Ripercorro allora la galleria da cui si sale ai binari dei treni ed esco dall’altra parte. A distanza vedo delle insegne di negozi. Esco, alla fine della breve scalinata che porta in strada staziona un gruppo di punk con accanto i cani di ordinanza e le bottiglie di birra nel mezzo del cerchio. Mi era già capitato di soffermarmi sulla differenza fra punk milanesi e berlinesi e questo gruppo me le richiama alla mente. Non parlo della foggia degli abiti, largamente comune e neppure del colore dei capelli o delle creste, di ordinanza come i cani, ma dell’atteggiamento. Il punk milanese maschio o femmina che sia è tendenzialmente aggressivo, la sua diversità è esibita: vuole essere notato, salvo poi mandarti al diavolo se gli fai qualche osservazione o anche semplicemente cerchi di parlarci. Spesso l’abito casual nasconde il griffato trash e alternativo, costoso, tanto da far pensare che dietro molti di loro ci siano famiglie non proprio indigenti. Sempre in movimento e petulanti nel chiedere, i punk milanesi, specialmente in certe zone della città, sembrano caricare all’eccesso il piacere di violare le regole; ma poiché nessuna comunità può vivere del tutto senza di esse, ecco che è sul cane che si riversa tale necessità. Mediamente meglio tenuti e puliti dell’animale umano cui si accompagnano, gli esemplari canini del punk milanese ostentano un portamento severo insieme a un distacco aristocratico: si muovono poco, osservano il mondo con l’occhio che oscilla fra un atteggiamento di indifferenza oppure uno sguardo del tipo “ma guarda cosa mi è capitato”; ma è solo un attimo, poi ritornano alla loro riservatezza fin troppo umana. Si spostano poco e solo se strettamente necessario e mai per attirare l´attenzione: sono loro alla fine che s’impongono nella coppia simbiotica, come portatori di una superiore dignità e allora può essere che anche il passante meno predisposto si lasci scivolare una moneta dalle mani, pensando al loro destino.

Il punk berlinese è del tutto diverso: più vicino al cliché nostrano del barbone di città il suo sguardo è rassegnato ma lui o lei sono educatissimi del comportamento. Il punk berlinese chiede con l’aria di chi sa già che non riceverà nulla, specialmente se si trova in metropolitana, ma non manca mai di ringraziare e augurare buona giornata all’interlocutore. Sa già che la sua diversità ha travalicato i confini di una città peraltro accogliente, ma che non tollera chi si è posto troppo oltre le regole e non guarda in faccia nessuno: tutti i punk che ho incontrato sono tedeschi, non ne ho visti di stranieri. E il cane? Pulcioso e sporco come i nostri vecchi cani da pagliaio si ingegna al posto del padrone per procurarsi il cibo, del resto la sua attitudine raminga non gli deve dispiacere del tutto: nella coppia simbiotica è lui a trarre il maggior beneficio da un ritorno al suo stato almeno in parte selvatico, mai del tutto cancellato nella specie cane da appartamento che subisce tutte le nostre nevrosi e malattie. Appena mi vede infatti, è lui a corrermi appresso (sono pur sempre uno che ha invaso il suo territorio), mentre il gruppo dei punk non mi degna di uno sguardo, sia pure per chiedermi qualcosa: una volta che ha messo a fuoco il mio intento del tutto pacifico, mi lascia al mio destino ma mi tiene d’occhio e infatti, non appena ho finito di guardarmi la posta in un internet point, ecco che riappare subito, si avvicina, scodinzola allegramente e mi guarda. È a lui in definitiva che do la moneta, come accade anche a Milano per ragioni opposte. Dal gruppo umano neppure uno sguardo: tutti con gli occhi rivolti a terra, oppure a chi sta loro di fronte in quel momento, seduti in cerchio come una vecchia tribù indiana, indifferenti a tutto e a tutti.

30 Marzo.

Mi sono spinto per l’ennesima volta nell’estrema periferia di Berlino: un vero e proprio viaggio perché il tram ci mette più di mezzora per raggiungere il capolinea di Wittenberg a partire da Alexander Platz! Dopo i grandi viali a ridosso del centro si arriva in una specie di terra di nessuno: campi sterrati, edifici fatiscenti, dove di certo non è difficile nascondersi. Pochi in quest´area gli spazi abitati. Per l’ennesima volta Berlino mi si rivela non solo immensa ma anche molto vuota. Ci sono voragini di spazio nella sua area urbana, e del resto 5 milioni di abitanti in un territorio come questo sono davvero pochi: se fosse una metropoli asiatica o latino americana ci abiterebbero almeno 20 milioni di persone.

2 Aprile.

Sì le cose stanno già cambiando anche qui eccome! La notizia mi arriva proprio oggi. L’amministrazione ha sospeso le erogazioni dei sussidi ai provenienti dai paesi del sud dell’Europa. Ci saranno ricorsi e molti vinceranno anche perché  la norma pare retroattiva, ma il segnale è chiaro e molto forte: l’accoglienza indiscriminata che Berlino ha riservato a tutti e anche fornendo percorsi di integrazione guidati e sussidi economici, è finita. Durava dalla caduta del muro e si farà presto a dimenticare gli anni della generosità, ora che per l’ennesima volta i tedeschi danno la misura della loro capacità di decidere in fretta: in una notte hanno cambiato tutte le regole, cosa per noi difficilmente digeribile viste la propensione a non decidere o a decidere male e poi a fare peggio nel momento di applicare le decisioni.   

3 Aprile.

Il segnale di cambiamento è forte, ma cosa sta davvero a significare al di là delle conseguenze che avrà verso coloro che qui avevano già iniziato un percorso di inserimento? La risposta più ovvia sta nel dire che anche la Germania non poteva continuare a reggere un livello di investimento pubblico e quindi di spesa così elevato, come è avvenuto per vent’anni. Del resto i tagli alla spesa sono cominciati anche qui e ci sono state grandi manifestazioni e scioperi quando è stato investito il settore universitario. Eppure la Germania sembra ancora lontana dal subire una contrazione del livello di vita medio (le secche di povertà e precarietà esistono eccome anche qui ma sono ben mascherate proprio dagli ammortizzatori sociali ancora efficienti). I provvedimenti si prestano dunque a diverse spiegazioni e risposte. Programmazione lungimirante della crisi? Oppure vicolo cieco nel quali tutti i popoli e gli stati europei si sono cacciati e verso il quale vanno in ordine sparso a sbattere uno per uno in tempi diversi? Oppure altro ancora? Difficile dirlo, ma una sensazione mi accompagna in modo martellante: gli storici ricorderanno questi mesi o poco più come un tempo di tregua prima di una grande tempesta. 

Berlin Pankov

GRAND TOUR: TRA FALISCHI E CIVITONICI

Civita Castellana. Forte Sangallo

All’ingresso di Civita Castellana si rimane colpiti dalla sua toponomastica: un richiamo continuo alla lotta antifascista e alla Repubblica romana del 1849. Targhe, vie e piazze; ma colpisce anche la storica insegna di una delle prime sezioni del Partito Socialista Italiano. Sono simboli presenti anche in altre città e paesi, ma qui l’occhio li registra in continuazione, segno di una densità che da altre parti non appare così evidente e se alcune intitolazioni sono canoniche (via Antonio Gramsci, per esempio), altre lo sono assai meno: Via Don Minzoni, via Martiri delle Fosse Ardeatine, Via Ugo Bassi, Via Anita Garibaldi. Non si tratta però solo di un culto rétro della memoria storica perché due vie sono intitolate a Salvador Allende e a Peppino Impastato. Nonostante il buon numero di chiese e le usuali vie dedicate a santi famosi o locali, si percepisce un sottofondo anticlericale che si avverte anche nei Castelli Romani, a Rocca di Papa, per esempio. La Repubblica del ‘49 non riguardò solo Roma città ma coinvolse una parte del territorio laziale; a differenza di Viterbo, molto più papalina per evidenti ragioni storiche. Una seconda vistosa caratteristica è che la città è orientata secondo l’asse est ovest e questo significa che il sole e la luce la dominano in tutte le ore del giorno. Infine, non manca di monumentalità, grazie al Forte Sangallo, che contiene fra l’altro un bellissimo museo etrusco che – insieme  a quello di Nepi forma un complesso di grande pregio; infine il Palazzo Falisco, con i suoi arredi preziosi e cinquecenteschi, oggi sede alberghiera di pregio. Civita è piena di altre sorprese, legate all’artigianato e alla nascita delle prime fabbriche negli ultimi decenni del diciannovesimo secolo, tanto da costituire un piccolo ed eccellente polo industriale e artigianale che si è spento lentamente solo pochi decenni fa. A ricordare tutto questo c’è un museo fra i più sorprendenti e degni di grande attenzione. A un’attenta osservazione, sembra di poter dire che si sono confrontate qui, come in altre parti d’Italia, due utopie. La prima è quella rivoluzionaria operaia, nelle sue diverse declinazioni – e relative concordanze e discordanze – che ha percorso l’Europa intera dalla metà del 1800 in poi. In Italia – e non saprei dire se ciò è accaduto anche altrove – ne è esistita un’altra, un’utopia del capitale incarnata a volte da figure che sembrano scambiarsi i ruoli: per esempio Casimiro Marcantoni, socialista della prima ora, poi imprenditore, attento al sociale, fondatore di cooperative e ispiratore di un modello gestionale dell’impresa basato sulla partecipazione dei lavoratori, sia in qualità di soci dell’azienda sia in altre forme cooperativistiche. Il nome di Marcantoni non è noto come altri, ma egli fu fra i primi di una stirpe che ha incarnato l’utopia del capitale di dar vita a una società organica legata al valore della produzione, naturalmente rigidamente divisa in classi, che dovevano tuttavia trovarsi a contatto e a una distanza stabilita e non arbitrariamente proiettata verso una sguaiata enormità senza limiti, legata alla pulsione più distruttiva e all’avidità, come è oggi sotto gli occhi di tutti nell’epoca del turbo capitalismo post borghese e post proletario. Fu l’utopia di Crespi (coevo più o meno di Marcantoni) che è ben visibile ancora oggi nell’idea costruttiva del villaggio omonimo alle porte di Milano. Poi fu l’utopia di Luisa Sargentini Spagnoli, anche lei quasi coeva; poi di Adriano Olivetti, Giovanni Pirelli e Giuseppe Luraghi, l’ultimo degno rappresentante di questa stirpe di imprenditori e imprenditrici. Fu un’utopia guardata con sospetto e in questo ostracismo si ritrovano uniti sia i perenni rivoluzionari senza rivoluzione, perché naturalmente si tratta di un’utopia del capitale, sia gli attuali piloti automatici del capitale che nulla ne sanno né vogliono sapere. Ovvio, quasi banale che fosse un’utopia padronale; eppure fu un intellettuale critico e anomalo come Franco Fortini a ricordare a noi ragazzi delle scuole superiori l’importanza di Adriano Olivetti, senza che questo gli impedisse, un paio di anni dopo, di essere uno fra i pochi intellettuali militanti degni di questo nome che seppe capire l’importanza dei movimenti nati intorno al ’68 e a parteciparvi direttamente e non dalla sua scrivania; persino con una radicalità che molti ventenni non avevano.1

Mi avvio verso il centro e l’occhio corre di nuovo ai nomi delle strade. La storia qui non è semplicemente passata; no, questa città ne è stata protagonista per un arco di tempo assai lungo, alla fine del quale la memoria non è un culto astratto, ma un indice della cura con cui una comunità custodisce se stessa. Le stesse lapidi, i nomi delle vie, superata la sorpresa del primo giorno, si offrono al mio sguardo in modo diverso, a cominciare da quella celebrativa di un famoso discorso che Ugo Bassi tenne nel 1848 dal balcone dell’attuale piazza Matteotti. Bassi fu un protagonista della Repubblica Romana insieme a Garibaldi e fu fucilato dagli austriaci nel 1849; fino alla targa dedicata a Giuseppe Di Vittorio e voluta dai lavoratori e dalle lavoratrici della ceramica iscritti alla CGIL. La storia non è acqua per chi la sa conservare e la fama di questa piccola città italiana ne fece una meta obbligata del Grand Tour. Goethe la visitò nel 1786, Corot vi dipinse paesaggi maestosi, Mozart fu ospite nel 1770 e suonò per i civitesi.

Nepi

Alla città si arriva con un bus di linea che da Civita ci mette poco meno di mezzora e ciò che mi colpisce di più arrivando è il contrasto fra le piccole dimensioni dell’abitato e la sua monumentalità, peraltro conservata in modo egregio, tanto che il pensiero corre per un istante a Viterbo e al suo centro storico. Proseguendo nella visita però mi rendo conto che lo scenario è differente perché alla potenza severa di alcune costruzioni se ne aggiungono altre in cui prevale l’esibizione di una forza e anche di un certo sfarzo che rimandano piuttosto ai Castelli Romani. Nepi mi sembra stare nel mezzo, sospesa fra due tempi storici diversi, ma la direzione verso cui guarda è quella delle lotte rinascimentali fra diverse casate, dalle quali emergeranno un buon numero di Papi: Vico e Colonna, Orsini e infine Borgia, cui si deve la possente Rocca fondata nel 1499, opera disegnata da  Sangallo II il vecchio. Anche il Forte Sangallo di Civita fu fondato dal Borgia e allora si comprende che Viterbo è lontana, nonostante i pochi chilometri che la separano da qui. L’esorbitante numero di chiese in un territorio piccolo la distanzia da Civita, pur così vicina: è il paradosso della terra italiana, dove tutto si mescola caoticamente, dove le linee divisorie passano da sentieri impervi che rompono e ricreano il tessuto sociale per faglie, come se la geografica sismica di tutte queste terre appenniniche avesse un’influenza diretta sulla storia e le vicende umane.

Ritorno a Roma

Campagna romana by Thomas Cole

Il bus finalmente arriva, siamo in pochi a salirvi e questa è una buona notizia. Un’altra sorpresa è il percorso diverso da quello che mi aspettavo: attraversiamo nuovi piccoli paesi, fino a Campagnano, che già conoscevo perché Michele e Francesca hanno proprio lì una casa. La campagna romana finisce bruscamente più volte e più volte si ha la sensazione di essere finalmente arrivati a Roma, ma poi, svoltato un angolo, ecco che di nuovo ci si perde in mezzo a casolari e sterpaglie. Al nuovo addensarsi di case compare finalmente anche il cartello: Roma. C’ero già stato da queste parti durante una delle tante incursioni periferiche. Ora percorro la Cassia al contrario e la città fa tutto un altro effetto. Roma è una metropoli continuamente interrotta da larghi spazi verdi, a volte brulli a volte boscosi: terre di nessuno che hanno una somiglianza con gli spazi vuoti di Berlino … Berlino e Roma: le due città sono gemellate. È normale che due capitali così importanti lo siano, ma la combinazione non è affatto scontata anche perché nell’esperienza europea dei gemellaggi, l’enfasi è solitamente posta sulle problematiche comuni, siano esse di carattere amministrativo e territoriale. La domanda, allora, si pone naturale: cosa possono avere in comune la metropoli più moderna d’Europa, dove l’edificio più antico risale alla metà del 1700, con la città eterna, la cui storia millenaria e stratificata si respira in ogni strada? Nulla sembrerebbe, a parte il fatto puramente formale di essere entrambe città che occupano un territorio vastissimo rispetto al numero di abitanti. A Roma la modernità – pure assai significativa – è tutta concentrata nelle geometrie dei palazzi dell’Eur, nell’ufficio della posta alla Piramide, nella ex Centrale Elettrica Montemartini, oggi trasformata in uno straordinario Museo e nel Gasometro. Se si vuole viaggiare molto indietro nel tempo, a Berlino, bisogna per forza varcare le porte di un Museo. Soltanto vivendole entrambe queste due metropoli, si arriva a comprendere, invece, che le ragioni del gemellaggio ci sono eccome, anche a prescindere dal loro essere due capitali! Provo a dirne alcune, naturalmente del tutto basate su un’esperienza puramente soggettiva, seppure fondata su una lunga frequentazione che anche il percorso del mio bus ripropone puntualmente. La prima. Nonostante la ricchezza di musei, teatri, auditorium, chiese, monumenti, offerta culturale di alto livello, Roma e Berlino vanno vissute open air. Passeggiare per le loro strade, scoprirne angoli, piazze, scorci di fiume e canali (Berlino ha più ponti di Venezia), è un’esperienza eccitante, anche quando può risultare estraniante: come, per esempio, quando capita di trovarsi, improvvisamente, in una periferia pasoliniana, oppure – a Berlino – nel mitico agglomerato urbano di Marzan, all’estrema periferia orientale dalla città. Diverse anche nel loro modo di essere estranianti, Roma e Berlino, tuttavia, si comprendono a distanza anche in questo.

Berlin. Treptower Park

La luce e il bosco. Ecco due altre affinità profonde e forse imprevedibili. In entrambe, i lampioni hanno qualcosa di antico e la luce che emanano è intima. A Berlino vi è una sola vistosa eccezione: la zona di K’Damm, dove prevale il gusto tutto statunitense del neon, uno sfavillio da luna park che contrasta con la luce soffusa di altre aree della città. K’Damm era la vetrina ricca e presuntuosa dell’Occidente durante la Guerra Fredda. Oggi è rimasto il neon, per il resto la via è costellata di negozi delle maggiori e più rinomate case di moda, design e altro: ma sono vuoti a tutte le ore! Quanto alla luce naturale, pur agli antipodi, ancora una volta Roma e Berlino si comprendono, perché entrambe le città sono luoghi di luce estrema, abbacinante. La controra romana, i riflessi di certi soli sui monumenti, il riverbero di luce su paesaggi che oscillano fra rovine e natura, come al Parco degli Acquedotti, con i suoi monoliti di pietra cariati dal tempo, sono esperienze uniche: ma lo sono pure la luce del nord che penetra dentro la notte in estate e sembra non finire mai, oppure il buio che scende presto di pomeriggio durante il lungo inverno: e, ancora, il chiarore di certe albe estive alle quattro del mattino, immerse nel silenzio del sonno in piena luce sono  un’esperienza altrettanto grandiosa, come pure passeggiare in riva della Spree alle 21 di una sera di luglio, con il sole ancora alto e caldissimo, come mi capitò spesso, durante l’indimenticabile estate del 2010. Il bosco, poi, non il giardino! Non mancano quelli classici all’italiana o alla francese, ma gli spazi verdi che affascinano maggiormente hanno, in entrambe le città, un elemento irriducibile di selvatico, di presenza di una natura non domata. A Roma, questa caratteristica si coniuga spesso con la rovina archeologica, oppure il bosco è popolato da grotte che sono la continuazione di costruzioni che continuano a decadere da secoli, ma che, tuttavia, rimangono sempre in piedi. Parchi come quello della Caffarella, oppure il già citato degli Acquedotti o Appio Claudio, che ne sono quasi la continuazione, occupano una parte consistente del territorio urbano, tanto che della città si perdono un po’ le tracce quando ci si trova proprio nel mezzo; lo stesso per quello dell’Appia Antica che occupa un territorio ben più grande di quello più conosciuto ai lati della strada consolare, ma si insinua nel cuore della città come un bosco fatto di sentieri bellissimi e rovine. Non è diversa l’esperienza quando ci si aggira nel Tiergarten o a Treptower Park. Ci sono le strade sterrate e i sentieri, ampi, dove si cammina benissimo; ma tutto intorno, la natura è lasciata a se stessa, al suo naturale ricambio e gli interventi umani sono pochi e manutentivi. L’acqua dei canali scorre lenta sotto alberi secolari e salici e gli animali, scoiattoli, in primo luogo, si sentono a casa loro. A Berlino manca la rovina come siamo abituati a vederla anche nei dipinti ottocenteschi, ma in alcuni casi, come nel parco di Treptow, essa assume sembianze moderne, imprevedibili e a volte estranianti. Dal carro armato sovietico a un vecchio parco giochi con strutture che sembrano resti di astronavi, fino alla grande spianata dedicata ai soldati russi che contribuirono alla liberazione della città dal nazismo.

Intanto ho raggiunto la grande stazione di Saxa Rubra e salgo rapidamente su un autobus diretto nel centro. La giornata è bellissima e il bus che mi sta riportando nel centro storico di Roma sfiora Villa Doria Pamphili, uno dei luoghi romani che preferisco. Scendo e mi avvio verso l’ingresso e in un certo senso mi ritrovo a Civita Castellana: anticlericalismo e repubblica romana scandiscono la visita. La prima via, infatti, è intitolata a Bartolomeo Rozat, svizzero combattente per la Repubblica romana.      


1 Un’ampia e dettagliata riflessione sul nesso fra cultura industria e movimento operaio nell’Italia del secondo dopoguerra, si trova nel blog alla Rubrica cento fiori. Il saggio è diviso in tre parti intitolate: Arti e lettere nel ‘900 italiano: fra rivoluzione e industria.     

DIARIO DEL NORD

Questo racconto di viaggio fu pubblicato sulla rivista Manocomete, l’anno è il 1993, successivo al colpo di stato che causò la fine di Gorbaciov e dell’Unione Sovietica: il nord cui si riferisce il titolo sono in realtà i confini fra Germania e Polonia.  

Angermunde è una cittadina anonima, a metà strada fra Berlino e il confine  polacco.   La  pensione Eschert  è  gestita  dalla  signora Eschert,  vedova.  

“Morgen  ich  gehe  zu  Sceczin”,  pronuncio alla  ‘polacca’. 

La  signora  mi  sta  facendo il  letto,  alza  il  capo bruscamente interrompendosi:  “Stettin,  Stettin, mi corregge alzando la  voce: 

“Stettin ist Deutschland, meine Mutter uber Oder” vive  di là, è nata di là anche lei e  “di  là…”

È  sabato pomeriggio, i giovani sono in giro: difficile capire  come sono fatti, ma non mi sembrano revanscisti  come la signora Eschert.

Schwedt  è  una  tipica   cittadina  dell’ex  DDR:  piste  ciclabili bellissime, ampi spazi verdi. Eppure l’immagine globale è dimessa e malinconica. Poi improvvisamente,  da  dietro  un angolo, sbuca la guglia di una cattedrale in stile lubecchese, in mattoni rosso scuro. L’unico segno di accoglienza, a parte gli uffici turistici chiusi è questo richiamo religioso.  Mi aggiro per  le stradine intorno alla chiesa finché  sbuco in una strada più larga; guardando  verso  sinistra mi sembra di scorgere  un  ponte … Mi  era rassegnato a non vederlo, poi  me  ne  ero  quasi dimenticato; l’Oder invece  passa  proprio ai limiti estremi di Schwedt.  Il fiume, come la Neisse che scorre più a sud o l’Elba, ha diviso  popoli  e  famiglie, lavato nell’acqua  strisce  dolorose  di sangue; scorre davanti  a  me  silenzioso,  avvolto  in  una  sottile nebbiolina.   Sul ponte passano molte automobili, povere e  scassate: sono i polacchi che vengono a lavorare in Germania. C’è qualcosa   di  cupo,  un’atmosfera  inquietante  che   mi   è emotivamente nota; è un’aria che  respiravo  da ragazzo, un misto di provincia nord milanese, primi anni 60 e dignitosa povertà.

Domani andrò a Stettino, nonostante le voci di veri e propri assalti ai treni per derubare chi viaggia. Il  treno  parte alle 8.20, arrivo in stazione alle 8, così  almeno credo; ma è  tornata  l’ora  solare,  sono  le  sette. Entro nello scomodissimo supermercato/bar.  Dentro, oltre alla commessa, ci  sono due uomini ed una donna  dallo  sguardo  vuoto  ed i vestiti dimessi; siedono  vicino alla finestra e si dividono una bottiglia  di  birra. Il cielo è grigissimo; la notte  ha  piovuto e a letto, al caldo, ho provato una sensazione piacevolissima da tempo dimenticata:  sentirsi protetti e al sicuro. Perché proprio qui? È un pensiero che si muove  come  un tarlo nella mente, accentuato dalla sosta forzata  e nonostante il disturbo dei  tre  che  si  fa  più pesante; sono già ubriachi. Sentirsi al sicuro in una casa tedesca dal tetto spiovente e dai balconi che sembrano uscire dall’illustrazione di una favola dei  Fratelli Grimm. Sarà la nostalgia di questa tana  calda a far sì che i tedeschi siano spesso così allarmati ed insicuri verso chi è fuori ed estraneo? Ma perché io straniero ho avvertito la stessa sensazione di calore  e  protezione?  Esiste  allora uno spirito del luogo che, come un fato antico, modella l’inconscio collettivo?

Mi aggiro per i vagoni e mi imbatto in un ragazzo alto e magro, dagli occhi gentili, biondo ma  non  tedesco.  È  polacco,  dico fra me e decido  subito di stare lì. 

“Es ist frei” mi dice indicando  cinque sedili vuoti. 

Se avesse gli  occhi  un  po’ più azzurri e spiritati assomiglierebbe  all’attore preferito da Waida.  Invece i  suoi  sono marrone chiaro, espressivi ma non  esagerati. 

“Ich arbeit in Berlin.”

 “Zurück?”

“Ya zurück meine familie ist in Polen”

“Stettin?”

“Nicht in  Sceczin” mi corregge con  un  sorriso  dolce  e senza acrimonia.

“Mein stadt”  e  poi  aggiunge  qualcosa che non  capisco.  

“Ich  gehe  zu Sceczin”  gli rispondo.

“Ich arbeit in Berlin.

“Keine arbeit in Polen?”

“Keine, keine” e scuote la testa  sconsolato  “Arbeit  problema  in  Polen “

“Arbeit problema in Italien “

“Bist du Italienisch?”

“Ya ich bin ein Italienisch”

Sono in  sei in famiglia e tre hanno  perso  il  lavoro. 

“In Berlin geld zwei monate”  mi fa il segno dei soldi con le dita “In Polen sechs monate”

“Was ist deine arbeit?” fa il verniciatore di auto in un garage ed è contento.  Abita a 500 chilometri da Stettino e torna per due  giorni in permesso.  La frontiera è  vicina, il ragazzo ha il passaporto in mano:  “Ich  bin 21” jungen mensch.

“Warum keine arbeit in Polen?”

“Lech  Walesa” mi dice decisissimo; è la  prima  volta  che  lo vedo animarsi nello sguardo e nella voce.  Io faccio segni di assenso con il capo “Walesa fahrt” continua lui “America, England, Geld Geld fur Polen, aber kein Geld fur Polen”

Penso fra me che non abbiamo ancora parlato del papa e lui 

“Papst  Polen  Papst” 

“Bist  du  Catolisch?” 

“Ya  ich bin Catolisch” 

“Walesa  ist Catolisch” butto lì  con  malignità e  lui scrolla le  spalle,  poi  mi  indica  la  penna  nel  taschino con il ritratto  di  Wojtila “Grosse, grosse” e si mette a ridere,  come  a dire “era solo un distintivo e basta”  Il viaggio è quasi finito, il treno è fermo, sta arrivando il controllo passaporti “Habst du  ein Polsch passeporte gesehen?”

“No.” 

Me lo mostra orgoglioso. Stettino Glowny, ciao amico.

La stazione è grigia e sporca; l’Odra le scorre davanti ed il mare è a poche miglia, ma il porto mi sembra inattivo. La ragazza dell’informazione turistica parla solo polacco, mi prende una piccola crisi di sconforto. Mi avvio all’edicola e compero una cartina  della città; lì ritrovo il mio amico. È disperato. Il treno era in ritardo e non ce  ne  eravamo  accorti; lui ha perso il suo.   

“Quando è il prossimo accidenti? 

Scuote il capo sconsolato e non mi risponde; forse non riuscirà nemmeno ad arrivare. 

“Wait, ich gehen zu wechsel und kommen zurüück.”

Torno, ma lui non c’è più e che altro avrei potuto dirgli e fare poi?

Una  tazza di te costa 7.500 sloti, il listino ufficiale però  porta scritto 5.000, mentre il nuovo prezzo è segnato a mano su un foglio. Mi  ricordo improvvisamente dell’ultima vacanza in Jugoslavia, quando i prezzi cambiavano  tutti  i  giorni  ma  le  correzioni sul listino ufficiale erano settimanali:due anni dopo la guerra.

Quella  del   cambiavalute   sembra   essere   l’attività  economica principale  della città, oltre al commercio minuto.  Ne  ho  contati sei nelle adiacenze dell’albergo.  Fuori hanno insegne luminosissime, molto  simili  ai  richiami  dei locali  porno.   Anche i  nomi  sono esotici: Kantor,  Lombard  e  solo  alcuni  portano  la  scritta più tradizionale   –  Wechsel  o  Change  –  in  piccolo.    Lombard   mi incuriosisce;  è  un  omaggio  agli   italiani,  primi  banchieri  e cambiavalute?  Anche nella City di Londra c’è una Lombard Street. ll gran numero di cambi indica che il commercio clandestino di valuta è stato  legalizzato. Quest’ovvia  considerazione, tuttavia, non esaurisce il problema.  Il primo dato che mi balza all’occhio è che sono sempre pieni di polacchi e non di turisti. Ne ho visti più di uno entrare, cambiare e poi recarsi subito nel negozio a fianco a fare la spesa. Era lo stipendio mensile dunque quello che finiva al cambiavalute e poi subito nelle tasche del dettagliante. Molti di questi  saranno  lavoratori  in  Germania  ma  il  numero  mi  sembra eccessivo;  avranno anche delle riserve di valuta pregiata ma non  mi è allora chiaro come se la siano procurata. Il giro d’affari è consistente e coloro che rastrellano la valuta non saranno,  nel giro di qualche anno, dei ricchi qualunque;  tutti insieme costituiranno una lobby potente, in grado di gestire capitali consistenti.  Per  farne che? E chi sono poi  questi  percettori  di valuta pregiata?  Nuovi ceti  rampanti polacchi in cerca di posizioni preminenti?  E quali conseguenze politiche avrà questo traffico?

Per cenare scelgo il King, un ristorante del centro. Il locale è discretamente affollato.   I  due  seduti  alla  mia  destra  parlano inglese  e vestono in modo simmetrico: uno indossa una camicia  color latte ed un paio di  pantaloni rosso/ciclamino,  mentre  il  secondo veste  gli  stessi  capi a colori  invertiti. Entrambi  portano  un foulard di seta nel collo della camicia. Le coppie irregolari  si  muovono  fuori  stagione,  seguono percorsi imprevedibili, s’aggirano raminghe per rotte periferiche, cercano nei luoghi  meno  romantici  la  libertà  del  loro anonimato  e di una silenziosa  ed  intima trasgressione.

La  birra che ieri costava 20.000 sloti questa sera ne costa  17.000; naturalmente il bar è lo stesso, però è cambiato il cameriere.

Non è tardi ma c’è poca gente in giro; intorno ai cambiavalute c’è un andirivieni continuo È un’atmosfera strana che non  mi  piace. Poi dal fondo  della  strada  vedo  sbucare  un  bassotto  seguito da quattro persone: padre, madre e due ragazzi dell’età dei miei figli. I cani ed i  loro  padroni  ispirano  ovunque  un  senso di fiducia e sicurezza.  Alzo la testa e ne vedo altri in giro, alcuni liberi altri al guinzaglio. È anche qui  l’ora dell’ultimo passeggio come qualcuno  starà  facendo  a Milano con  Laika. Padroni e cani si assomigliano ovunque e i primi  potrebbero capirsi a volo in qualunque lingua per il solo fatto di condividere questa esperienza. Chissà che alla fine  siano  i  padroni  di  cani  gli  unici  a capirsi e a dialogare, chissà che seguendo l’animale (perché è il padrone  che segue il suo cane) non diventi  trasparente la buffa comunanza che ci fa tutti uguali davanti al nostro cane.

Di  fianco all’albergo c’è un saldo. Mentre passo mi sento chiamare da una voce  femminile; penso alla solita commessa che invita i clienti a entrare, sorrido e scuoto la testa.  Lei però  continua, mi rivolge qualche  parola  in  polacco  e  il  tono della voce mi fa sobbalzare perché sembra un richiamo disperato.  Mi volto sorpreso. Non è una commessa. È una  ragazza  bionda,  appoggiata alla porta  del  negozio; a terra c’è il sacchetto della spesa. Ci guardiamo, lei continua a parlare, tento di rispondere in inglese, ma lei scuote il  capo “ne’, ne”.  Provo in tedesco; niente. In quel momento vedo le stampelle addossate al muro e comincio a capire. Mi avvicino e lei  sorride,  tira un sospiro di sollievo  “please,  please”  “Help” “Help, help” è quasi un  grido.   Vedo le sue gambe torte, il busto diritto, le ginocchia retroflesse il viso biondo e gentile, la parte bassa del suo corpo deturpata. Credo sia distrofica o peggio; vuole attraversare la strada. Le do il  braccio e ci avviamo fermando il traffico. Arriviamo di là ma non posso lasciarla perché cadrebbe. Dobbiamo raggiungere il muro e sono  altri  venti metri di strada, durante  i  quali  per la testa mi passa di tutto: perché  non  è assistita? Perché è uscita proprio lei a fare la spesa? Quanti anni ha, dove abita?  Cosa farà domani?  “Taxi” forse l’ho gridato per un desiderio di restare ancora un  poco con lei, sorride ma nega con il capo. 

“Ma non puoi andare così dove abiti, help polski help polski, mi guardo  attorno  ma  nessuno  mi  sembra  rassicurante…

“ne help polski, ne help polski, polski…” e qui si interrompe ma il gesto è inequivocabile; sputa per terra. I polacchi non ti aiutano e scuote la testa  sconsolatamente, continuando a ripetere  “ne help polski, ne help polski”. Arriviamo  al  muro, ci guardiamo, ha gli occhi  lucidi  ma sorride; è più tranquilla e mi indica  che posso andare.  Poi con la mano sulle labbra mi manda un piccolo bacio e cerca   di  stringermi  la  mano;  barcolla  di  nuovo e  mi  tocca sorreggerla. Poi l’accarezzo sul viso e mi volto di scatto. Vado via, mi è passata la voglia di fare qualsiasi cosa; entro in albergo ritiro il bagaglio e vado alla stazione.

Bad Saarow Pieskov, e’ una localita’ termale su un lago, un  gioiello dell’ex DDR, famoso dagli anni 20 e visitato da artisti e poeti; c’è la casa di Gorki che trascorse qui un lungo periodo di cura. Di  fianco all’ostello c’è una ex caserma sovietica in  disarmo. I bambini ci entrano per giocare, passando da un buco della rete metallica  e  mentre se ne stanno lì ecco che arriva  un  camion  di soldati, entra e  non  li  guarda  neppure.

La  stazione di Bad Saarov è surreale: un capanno di legno in aperta campagna, ermeticamente chiuso. Quando arrivo c’è un uomo con due borse. Fa freddo, cominciamo a guardarci, mi avvicino. Non mi  ero sbagliato: le borse sono piene di  funghi.  L’uomo comincia a parlare rapidamente, con brevi pause ogni tanto.  I temi sono i soliti:  non c’è  lavoro,  prima  non   potevamo   muoverci,  adesso  abbiamo  il

passaporto  ma ci mancano i soldi per andare dove vogliamo.  Esaurite le lamentele  comincia  la  seconda  parte  del  discorso: i polacchi stanno  peggio di noi, anche la lira non va bene, il marco invece  è  pesante.  Tira  fuori   di   tasca   alcune   monete   e  le  guarda orgogliosamente. Arriva davvero il  treno:  incredibile!  È  un convoglio pendolare, pieno di operai  e studenti.  Sulla mia carrozza c’è  una  colonia di bambini delle scuole elementari che  tornano  a Berlino dopo aver trascorso due  settimane  di  ‘scuola natura’ a Bad Saarov.   Cantano  a  squarciagola “Il gallo e’ morto”  in  tutte  le lingue, come si conviene.  Sono  incantato dalle pronunce esatte, da tono,  dall’entusiasmo  che  ci  mettono; i  passeggeri  sorridono  e sopportano benissimo il chiasso, le maestre non fanno una piega.

Eltsin bombarda il Parlamento, i  giornali  titolano  a nove colonne alla porta di Brandeburgo la gente discute animatamente.  Mi avvicino ed il ritornello dei discorsi è  martellante:  “I russi torneranno!”

Alla Marienkirche c’e’ una manifestazione di piazza; sono abitanti del Kreuzberg che protestano  contro  i  progetti speculativi a danno del  quartiere  un  tempo  gioiello di  Berlino  ovest,  regno  della trasgressione e delle libertà  occidentali:  case occupate, cultura, circoli,  una  vivacità  intellettuale  degna  della  Repubblica  di Weimar.  Signori si chiude! Il gioco è finito; caduto il muro la costosa vetrina è stata dismessa, i locali chiusi, le occupazioni smantellate, l’area ripulita dagli extracomunitari. Si è liberi in relazione ad una possibile alternativa, ma non nell’unicum esistente. Ritorno  all’ostello  di  Kluckstrasse, il  treno  parte  alle nove.

Rifaccio sull’autobus 129 il percorso che porta alla stazione dello zoo. Ku’Damm è piena di luce: domani è sabato.

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