GRAND TOUR: LUNGO IL TIRRENO

Bufali nel parco dell’Uccellina

Per il momentaneo ritorno a Milano scelgo il bus: è meglio del treno perché, pur facendo ricorso ad autostrade e superstrade, entra anche nei piccoli centri in cui sono scandite le tappe. Il viaggio è lungo, anzi lunghissimo e anche questo è un vantaggio: il tempo favorisce lo scorrere dei pensieri, la velocità non domina, i percorsi sono a volte bizzarri e questo mi è particolarmente caro perché attraversa luoghi che conosco a memoria ma che da lungo tempo sono usciti dalla mia vita. Dalla stazione romana della Tiburtina si giunge rapidamente all’Aurelia in direzione di Civitavecchia, sfiorando di nuovo la bassa Tuscia laziale. Attraversata la città, la strada svolta a destra e costeggia il mare, che ci accompagnerà a lungo, fino a quando il bus svolterà una seconda volta a destra per attraversare l’Appennino ligure-emiliano. La giornata è luminosa, i vetri schermati del bus attutiscono i colori quel tanto che basta per trasformare un paesaggio consueto in un teatro onirico.  

Il casello della dogana dello stato della Chiesa a Capalbio appare improvviso in fondo al rettilineo dell’Aurelia semi deserta. Era una vista consueta durante le escursioni verso Saturnia o Ansedonia e anche pretesto per rapide lezioni di storia ai figli:

“Vedete? qui c’era il confine con lo Stato della Chiesa, questo era il casello della frontiera e della dogana…”

“Come con la Svizzera?”

“Sì, come con la Svizzera, ma di qua non era Italia ma Granducato di Toscana…”  

Oggi la sua vista mi sorprende. Non è soltanto la distanza di tempo che mi divide dall’ultima volta che passai di qui, ma il cogliere in un lampo quello che anni fa non era mai balenato: l’incuria cui è lasciato, lo stato di abbandono. In fondo è un edificio storico, poteva diventare un museo, un pretesto nel senso più nobile del termine, adatto a custodire memorie storiche e culturali, ospitare convegni in uno scenario magnifico. Invece se ne sta lì come allora, su una via ormai dimenticata dal grande traffico, che ha a disposizione autostrade e superstrade l’una parallela all’altra come ferite inferte alla terra, ai campi. Il bus lo supera in fretta, il tempo corre con l’aiuto di un tranquillo dormiveglia, che finisce quando all’orizzonte vedo i Monti del parco naturale dell’Uccellina. Per anni sono stati un altro dei luoghi che più ho frequentato: d’estate si andava a Massa Marittima, d’inverno ci si tornava durante le vacanze di fine anno. I miei figli sono cresciuti in mezzo a quelle colline e a quei boschi. Per due anni di seguito ci spostammo di un poco e finimmo proprio ad Alberese, la porta d’ingresso del parco, ma quei monti bassi, che precipitavano su un mare che sembrava quasi un oceano davanti alla costa, li frequentavamo comunque, c’era sempre una gita in programma ad attenderci e una meta obbligata: le foci dell’Ombrone.

Il bus intanto è arrivato proprio in un punto che ricordavo benissimo: il lungo ponte che attraversa una larga porzione di campagna sottostante e il fiume, un rigagnolo che quasi non si vede; alla fine di esso si è quasi alle porte di Grosseto. Le foci dell’Ombrone avevano qualcosa di arcaico e di incontaminato, con il bosco retrostante e una lunga via che lo tagliava in due e finiva proprio in riva al mare dove un piccolo bar all’aperto con una semplice tettoia su una vista spettacolare, era la meta tardo pomeridiana di aficionados dell’aperitivo con tramonto. Era un rito che si è ripetuto molte volte nella mia vita di quegli anni. Il mare era proprio a ridosso, si mangiava la riva ogni giorno di più, ma il piccolo locale resisteva e ritrovarlo a sei mesi di distanza, seppure spostato di qualche metro, era un piccolo miracolo. Il bosco dietro di esso e da entrambi i lati della strada era fitto e con una varietà di vegetazione incredibile, i cinghiali, i bovini che pascolavano bradi e nei quali ogni tanto ci si imbatteva, i funghi autunnali. Poi la foce vera e propria, con il suo habitat fatto di uccelli migratori, acque che si mescolavano e quel sole rosso all’orizzonte.

Ho letto da qualche parte e poi confermato da amici che tutto questo non esiste più da tempo, il mare si è mangiato qualcosa come due o tre chilometri di costa. Del vecchio bar con tettoia non c’è più traccia da tempo, il bosco sommerso dalle acque si è ritirato e la foce stessa non può essere visitata come prima e ha perso molto del suo fascino. Mentre l’autobus entra in Grosseto – la Kansas City italiana secondo Luciano Bianciardi – il pensiero ritorna a Civita di Bagnoregio e alla simulazione vista al museo delle frane, a quell’Italia che non esisterà più fra 100 milioni di anni. In realtà, i mutamenti vistosi sono visibili e presenti anche oggi, ma a volte non li vediamo, a volte non vogliamo vederli, a volte escono dalle nostre vite quei luoghi che avevamo così tanto amato e poco importa che non esistano più nelle forme in cui li abbiamo conosciuti; anzi, è meglio così, perché possiamo ricordarli e farli rivivere come vogliamo. In fondo, le micro dimensioni sono governate dalle stesse leggi fisiche delle macro dimensioni, almeno questo sembrano dirci i fisici e la natura è sempre la Sfinge leopardiana che sappiamo. A ripensarci quella mappa adesso mi fa meno paura, possiamo vedere le trasformazioni anche giorno per giorno, ci accompagnano per quel tratto che ci compete e non saprei dire se una simulazione come quella vista che ci proietta in un futuro inimmaginabile serva davvero a qualcosa, a capire le micro modifiche, quelle su cui forse possiamo davvero ancora influire. Non lo so… ma intanto il bus ha raggiunto la stazione: è tempo di un caffè.

Foce dell’Ombrone

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