Il viaggio verso Civita di Bagnoregio è una piccola odissea ed è proprio nel raggiungerla che è nata l’idea che io medesimo stessi facendo un viaggio nell’Italia del Grand Tour. Spostarsi nella campagna laziale se non si possiede un’automobile (la carrozza con cui Goethe si muoveva lungo la penisola), è impresa assai ardua e se si vuole farlo di domenica quasi impossibile: persino un viaggio Roma Viterbo in un giorno di festa è soggetto a molte limitazioni, mentre se si vuole raggiungere un piccolo paese da un altro bisogna andare a piedi o affidarsi all’autostop, un modo di muovermi che per età è finito fuori tempo massimo. Già, andare a piedi… quando ne parlai a Berlino con Franco Sepe, di questa mia avventura, fu lui ad esortarmi a lasciar perdere il grande Goethe e rivolgermi piuttosto a un altro viaggiatore meno noto del poeta, che – appunto – affermava già allora che per capire l’Italia era meglio affidarsi alle gambe che ad altri mezzi di trasposto: il suo nome è J.G. Seume, il titolo in tedesco del suo libro Spaziergang nach Syrakus, un titolo intrigante e che sembrerebbe corrispondere a un certo modo di viaggiare. Passeggiata verso Siracusa suona infatti nella nostra lingua, con un intento probabilmente anche ironico. Non so se l’idea di viaggiare a piedi o con mezzi rudimentali gli venne solo per felice intuizione e vezzo, oppure perché si era convinto che quello fosse il solo modo di entrare in contatto con il paese reale. Fatto sta che mentre mi avvio con largo anticipo (forse un felice presentimento) alla fermata dell’autobus che mi è stata indicata niente meno che dall’ufficio del turismo, scopro che da lì non raggiungerò mai Civita di Bagnoregio. Mi aggiro con una certa ansia, chiedo ma ricevo risposte stranite, come se stessi domandando come si raggiunge New York e invece Civita è a meno di trenta chilometri. Alla fine mi ricordo che la signora che gestisce il bed and breakfast dove alloggerò mi aveva detto di lavorare a Viterbo e allora la chiamo e mi faccio guidare da lei alla fermata giusta. Tiro un respiro di sollievo e mentre attendo come tutti che il mezzo si materializzi finalmente dalla curva, arriva una signora e chiede un’informazione ai presenti. Le risponde sollecitamente un extracomunitario: preciso e calmo le dà tutte le indicazioni con chiarezza e dovizia di particolari. Che sciocco sono stato! penso fra me. Era a loro che avrei dovuto chiedere e non a occasionali passanti italiani. Abituati ad arrangiarsi, a correre da un luogo all’altro a tutte le ore, giostrandosi fra un lavoro e un altro, non possono di certo permettersi sbavature e ritardi perché potrebbero costare loro molto cari. E poi come tutti i popoli giovani e fuggiti da terre invase dalle nostre truppe o da noi predate, hanno voglia di vivere e capacità d’iniziativa; altro che lo sguardo spento del giovane cui avevo chiesto informazione, tanto spento da farmi pensare che stessi parlando a uno straniero che avesse difficoltà con la lingua. Invece no, ma era come se lo fosse, straniero a casa sua, non perché qualcuno gli stava rubando qualcosa, ma perché si era perso da solo, nella sua rassegnazione e ignavia. Arrivo finalmente a Civita e l’accoglienza della signora fa dimenticare tutto, come doveva avvenire anche nei secoli passati: affabilità e gentilezza, calore umano semplice e diretto. È lei a dirmi che di domenica sarà impossibile spostarmi da lì. Mi rassegno anch’io, lo avevano fatto anche Goethe e Seume.
Una delle scoperte più belle fatte nella città storica di Civita è il Museo delle frane, che a prima vista non sembra contenere qualcosa di così prezioso: ricostruisce le vicissitudini della città nei secoli, la lotta incessante per preservarne l’esistenza in mezzo a terremoti, catastrofi atmosferiche e altre catastrofi. L’alternanza di fotografie in alta definizione e sobrie spiegazioni tecniche accessibili a tutti catturano sempre più l’attenzione, diventano una lezione sulla nostra terra, ma anche una testimonianza dell’amore con cui questa comunità sa essere attenta alla propria storia geologica, che viene pur sempre prima di ogni altra e determina ancora oggi i comportamenti umani come migliaia di anni fa; tanto più in una terra in cui gli insediamenti risalgono a epoche remotissime. Alla fine, un’ampia cartina mappamondo illustra le evoluzioni del globo. Si parte dalle prime fratture nella Pangea (100 milioni di anni fa), si risale pian piano fino a noi, dalla carta emergono lentamente le linee che conosciamo, scandite sempre dal tempo: 50 milioni, 10, ecc. È come assistere a una lunga nascita e arriviamo finalmente a noi, poi l’occhio mi corre più a destra, la simulazione non è finita, la didascalia recita: la terra fra 100 milioni di anni. L’inaspettata prosecuzione del percorso mi lascia senza fiato: guardo quella mappa, si fa fatica a riconoscere cosa sia accaduto. L’Italia non esiste più, rimangono solo due moncherini (forse la catena delle Alpi), che sembrano essersi mangiati non solo l’intera penisola ma anche una parte della Francia, che al tempo stesso è finita sulla Spagna dando vita a una informe e violenta sovrapposizione forzata. Il ventre dell’Africa non è più gravido di terra ma di acqua, l’Oceano ha ridotto tutto il centro del continente a un striscia sottile, non ricordo nulla delle Americhe, perché l’immagine di quell’Europa strana e sinistra ha assorbito tutta la mia attenzione. Non ci saremo più e il pensiero corre a quell’invettiva di Pasolini, dove il poeta augura all’Italia di sprofondare nel Mediterraneo e di farla finita con la sua storia e la sua antropologia devastata. Andrà proprio così secondo la simulazione: esco con un senso di smarrimento che la ragione non riesce ad attenuare.
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