GRAND TOUR: DA SCILLA A REGGIO CALABRIA

Reggio calabria

L’autobus arriva prima del previsto, addirittura con un’ora e mezza di anticipo e io mi sono svegliato da poco. Scilla è alle nostre spalle, abbiamo appena superato Villa San Giovanni, ma la strada che ricordo era assai più impervia di questa. Nel dormiveglia prima e ora con il brusco risveglio registro solo lentamente che non siamo più sulla vecchia provinciale, perché il tratto autostradale Salerno Reggio Calabria è stato finalmente completato e il pullman corre velocemente. Entriamo in città dal lungomare, non c’è anima viva, poi al centro di una piccola pineta: vedo le bancarelle di un mercatino domenicale e molti volti magrebini e africani. A sinistra e perpendicolari al viale alberato, le strade vanno bruscamente in salita, ma qui e là compaiono anche ampie scalinate che portano alle vie di mezza collina: poi, addirittura, un lungo tapis roulant. Un’immagine di molti anni fa mi torna alla memoria; anzi più di una e sono tutte televisive, in bianco e nero. Rivedo in rapida sequenza i blindati schierati in fondo alle strade che dalla collina scendono verso il mare; poi le barricate, gli scontri. La rivolta di Reggio Calabria del 1975 mi sembra giungere da un tempo remotissimo alla memoria, ma le strade sono ancora quelle e insieme alle lontane immagini torna il ricordo di una canzone – i treni per Reggio Calabria – di Giovanna Marini. Infine l’attentato in prossimità di Gioia Tauro, la determinazione di chi ci andò a Reggio: non io quella volta e non ricordo più neppure il perché. Alla stazione mi attende Eva in auto: ci dirigiamo verso la città alta. Sono stanco ma il viaggio verso casa è breve. Come avevo pensato l’auto sale perpendicolarmente e a ogni crocevia un viale corre parallelo al lungomare, le scalinate sono ancora più numerose di quelle che mi era sembrato di vedere … ma sono a Reggio Calabria o a Trieste? La sovrapposizione fra le due urbanistiche è impressionante e si conferma a ogni crocevia. Il senso di momentaneo straniamento viene superato di slancio quando Eva mi conferma che non sono il primo a osservarlo, anche se – aggiunge sorridendo – secondo D’Annunzio il chilometro e mezzo del lungomare reggino è il più bello d’Italia. In attesa di andarci a passeggio sorrido celando il mio scetticismo. Il pomeriggio stesso però lo dedichiamo proprio a quello e in effetti bisogna convenire con il Vate e – caso non frequente – il lungomare è stato preservato in modo assai intelligente da scempi urbanistici e altri mostri, nonostante le modifiche introdotte. L’idea d’interrare la ferrovia in un lungo tunnel che tuttavia bene si armonizza all’architettura monumentale precedente, è un esempio di equilibrio riuscito fra esigenze di modernizzazione e paesaggio urbano. Il tunnel del resto è dotato di sistemi di insonorizzazione e dall’esterno non ci si rende quasi conto del passaggio dei treni. 

La visita al castello aragonese si porta via una buona parte del mattino successivo e alla fine metto la mia firma sul registro dei visitatori, constatando che sono davvero troppo pochi per quello che offre.  Risalgo verso i viali più alti e periferici e penso che Reggio è una città architettonicamente fascista. Ne parlo con Paolo Rabissi, che mi conferma lo strano rapporto fra queste due entità urbane agli antipodi dello stivale italico. Anche Trieste lo era, “forse la più fascista d’Italia” aggiunge Paolo ricordando una frase detta da Mussolini, il cui significato era più o meno quello. La città, come tutte quelle di frontiera, era quella in cui la rivendicazione di italianità si sposava perfettamente con l’ideologia del regime. A Reggio la questione è prima di tutto un’altra, lascio per il momento sullo sfondo il tema direttamente e strettamente politico. Quello che mi colpisce girando per le strade è l’architettura delle case, delle palazzine, dei palazzi del potere amministrativo e giudiziario, a parte il mastodontico e modernissimo tribunale: è in questo tratto che trovo lo stile tipicamente fascista, così vistoso perché accompagna il visitatore a ogni strada. Il razionalismo, il gusto per un neoclassicismo fatto di linee sobriamente tracciate si riflette nella costruzione di palazzine basse che raramente arrivano ai cinque piani, monotone ma edificate secondo uno stile nel quale si riflette l’idea corporativa. Man mano che si va verso l’alto o verso i quartieri più popolari, le case e le palazzine sono più spoglie rispetto all’eleganza, comunque non vistosa, del centro o delle vie a ridosso del lungomare, ma il pattern rimane il medesimo, per trasmettere il senso di una appartenenza alla medesima comunità, divisa in classi ma segnata da un tratto comune. Peraltro la non eccessiva altezza degli edifici ha una sua logica antisismica e questo mette in luce un aspetto non troppo conosciuto. Si parla sempre del terremoto di Messina, ma si dimentica spesso di dire che esso coinvolse entrambe le città sullo stretto e che Reggio pagò un prezzo addirittura superiore, una distruzione totale degli edifici storici, ben diversi da quelli che si vedono oggi. Rimangono solo due tracce evidenti dell’architettura urbana reggina precedente l’evento catastrofico del 1908: due palazzetti purtroppo lasciati in un desolante degrado. I loro tratti sono inconfondibilmente arabeggianti, con piccole vetrate che sembrano quelle di una  moschea, colonne di capitelli che riflettono un’eleganza del tutto diversa, un po’ barocca, sfiorati dall’arte della miniatura tipicamente bizantina. La Reggio orientale e urbana scomparve con il terremoto, così come scomparvero i suoi abitanti, sostituiti da genti che provenivano dalle montagne e dalle colline intorno alla città. Si ruppe così la storia millenaria di un insediamento urbano che contende a Damasco e ad altre città del Medio Oriente, il primato dell’antichità delle origini. Facendo un rapido conto degli anni e ricordando le lentezze della burocrazia italiana e l’atteggiamento sostanzialmente coloniale dei suoi governi e la complicità delle classi dirigenti locali meridionali, si può comprendere come il grosso dello sforzo ricostruttivo della città dovette durare assai a lungo, finendo di completarsi proprio negli anni venti e trenta e dunque in pieno regime fascista. Da questo trova la sua origine la compattezza dell’architettura urbana di Reggio. Solo nel corso centrale, quello per intenderci dello struscio serale e domenicale, la mescolanza di stili porta il marchio di una modernità cresciuta dopo, nel secondo dopoguerra e ancor più si vede nella zone urbane più periferiche che hanno tratti di degrado simili a quelle di città più grandi. Infine la grande Reggio, dove la modernità senza alcuno stile è il tratto distintivo, comune ad altre città. Solo l’altezza degli edifici non cambia, tanto che in modo semplice Reggio è forse una città dai criteri antisismici meglio curati che altrove.       

DAVANTI ALLA SICILIA

Passeggio di nuovo sul lungomare assolato con la Sicilia lì a portata di mano, il pensiero corre a Goethe, ma anche a un libro recente scritto a quattro mani da un autore tedesco e da uno italiano: Mario Fortunato, un germanista che vive e lavora a Berlino e  Jan Koneffke, scrittore e traduttore dall’italiano e dal rumeno. Il loro libro mi è molto caro sia perché mi riporta alle atmosfere del Gran Tour di Goethe, sia perché mi riporta a Berlino da cui ormai manco da troppo tempo e all’amicizia con Franco Sepe. Fu proprio lui a suggerirmi la lettura di questo testo del 2016 dedicato proprio all’incontro fra Roma e Berlino. Cosa c’è di meglio che rileggerne alcune parti proprio qui sul bar di una spiaggia assolata, proprio davanti alla Sicilia e all’Etna in lontananza. Il libro è la ricostruzione di percorso personale, una sorta di iniziazione che ha come protagonisti il poeta tedesco e un giovane nordico contemporaneo che arriva nella Calabria di alcuni anni fa: fra il viaggio di Goethe e quello del ragazzo nordico ci sono di mezzo i secoli, ma certe descrizioni sembrano potersi scambiare il tempo, seppure con qualche differenza non da poco. Il poeta tedesco aveva vinto strada facendo i suoi pregiudizi da protestante tedesco nei confronti del mondo mediterraneo e aveva pure incontrato Faustina. La storia d’amore fra il norvegese contemporaneo e il ragazzo calabrese è una storia omosessuale, felice come l’altra.

Il tempo scorre, la lettura piacevole mi accompagna, ma intanto i canadair continuano a volare e a raccogliere acqua, ogni cinque minuti: il rumore è assordante e tutti gli sguardi sono rivolti alle colline circostanti e alla Sicilia. Smetto di leggere e osservo: non riesco a provare una vera apprensione, però la frequenza dei voli suscita un certo allarme. Fumo ovunque, incendi ovunque che nascono in continuazione. Non sono il solo a levare lo sguardo al cielo, del resto è un evento – questo degli incendi – che accade puntualmente ogni anno, ma la sensazione è che l’anno 2017 sia del tutto particolare. Abbandono il libro e sfoglio alcuni quotidiani sui tavoli del bar. La statistica è impietosa, il fenomeno è troppo abnorme per essere associato alle consuetudini tristi dell’estate italiana. C’è qualcosa d’altro? E che cosa? I giornali locali insistono a loro volta sull’abnormità del fenomeno, le ipotesi si susseguono e sono le solite cui si pensa: constato, che a parte alcuni casi, nessuno crede davvero ai piromani. La mia attenzione però si concentra su un articolo in particolare, che mette in relazione gli incendi con l’aumento degli sbarchi di migranti, superiore anch’esso agli anni precedenti. Un uomo seduto al tavolo di fianco al mio mi osserva, ci sorridiamo e salutiamo.

“Lei non è di qui e si sta domandando cosa stia succedendo …”

“Sì, stavo cercando di capire questo articolo, il solo che metta in relazione incendi e sbarchi …”

“Chi controlla gli sbarchi è lo stesso che causa gli incendi …”

Decido di non dire nulla.

“Fra un paio di giorni sarà tutto finito, vedrà.”

Saluta e se ne va.

La sera stessa al telegiornale arriva la notizia che il ministro degli interni Minniti è corso in Libia per raggiungere un accordo sugli sbarchi. Ora sappiamo molto bene cosa stava scritto in quel patto scellerato: i centri di detenzione, la Libia dei torturatori considerata porto sicuro e tutto il resto, ma allora non si capiva bene. Due giorni dopo però, Minniti arrivò in Calabria a magnificare l’accordo appena raggiunto: il giorno dopo cessarono gli incendi. Tornai a quel bar, ma lo sconosciuto con cui avevo parlato non  lo rividi più.     

  

Scilla.

GRAND TOUR: CIVITA DI BAGNOREGIO

Civita di Bagnoregio

Il viaggio verso Civita di Bagnoregio è una piccola odissea ed è proprio nel raggiungerla che è nata l’idea che io medesimo stessi facendo un viaggio nell’Italia del Grand Tour. Spostarsi nella campagna laziale se non si possiede un’automobile (la carrozza con cui Goethe si muoveva lungo la penisola), è impresa assai ardua e se si vuole farlo di domenica quasi impossibile: persino un viaggio Roma Viterbo in un giorno di festa è soggetto a molte limitazioni, mentre se si vuole raggiungere un piccolo paese da un altro bisogna andare a piedi o affidarsi all’autostop, un modo di muovermi che per età è finito fuori tempo massimo. Già, andare a piedi… quando ne parlai a Berlino con Franco Sepe, di questa mia avventura, fu lui ad esortarmi a lasciar perdere il grande Goethe e rivolgermi piuttosto a un altro viaggiatore meno noto del poeta, che – appunto – affermava già allora che per capire l’Italia era meglio affidarsi alle gambe che ad altri mezzi di trasposto: il suo nome è  J.G. Seume, il titolo in tedesco del suo libro Spaziergang nach Syrakus, un titolo intrigante e che sembrerebbe corrispondere a un certo modo di viaggiare. Passeggiata verso Siracusa suona infatti nella nostra lingua, con un intento probabilmente anche ironico. Non so se l’idea di viaggiare a piedi o con mezzi rudimentali gli venne solo per felice intuizione e vezzo, oppure perché si era convinto che quello fosse il solo modo di entrare in contatto con il paese reale. Fatto sta che mentre mi avvio con largo anticipo (forse un felice presentimento) alla fermata dell’autobus che mi è stata indicata niente meno che dall’ufficio del turismo, scopro che da lì non raggiungerò mai Civita di Bagnoregio. Mi aggiro con una certa ansia, chiedo ma ricevo risposte stranite, come se stessi domandando come si raggiunge New York e invece Civita è a meno di trenta chilometri. Alla fine mi ricordo che la signora che gestisce il bed and breakfast dove alloggerò mi aveva detto di lavorare a Viterbo e allora la chiamo e mi faccio guidare da lei alla fermata giusta. Tiro un respiro di sollievo e mentre attendo come tutti che il mezzo si materializzi finalmente dalla curva, arriva una signora e chiede un’informazione ai presenti. Le risponde sollecitamente un extracomunitario: preciso e calmo le dà tutte le indicazioni con chiarezza e dovizia di particolari. Che sciocco sono stato! penso fra me. Era a loro che avrei dovuto chiedere e non a occasionali passanti italiani. Abituati ad arrangiarsi, a correre da un luogo all’altro a tutte le ore, giostrandosi fra un lavoro e un altro, non possono di certo permettersi sbavature e ritardi perché potrebbero costare loro molto cari. E poi come tutti i popoli giovani e fuggiti da terre invase dalle nostre truppe o da noi predate, hanno voglia di vivere e capacità d’iniziativa; altro che lo sguardo spento del giovane cui avevo chiesto informazione, tanto spento da farmi pensare che stessi parlando a uno straniero che avesse difficoltà con la lingua. Invece no, ma era come se lo fosse, straniero a casa sua, non perché qualcuno gli stava rubando qualcosa, ma perché si era perso da solo, nella sua rassegnazione e ignavia. Arrivo finalmente a Civita e l’accoglienza della signora fa dimenticare tutto, come doveva avvenire anche nei secoli passati: affabilità e gentilezza, calore umano semplice e diretto. È lei a dirmi che di domenica sarà impossibile spostarmi da lì. Mi rassegno anch’io, lo avevano fatto anche Goethe e Seume.

Una delle scoperte più belle fatte nella città storica di Civita è il Museo delle frane, che a prima vista non sembra contenere qualcosa di così prezioso: ricostruisce le vicissitudini della città nei secoli, la lotta incessante per preservarne l’esistenza in mezzo a terremoti, catastrofi atmosferiche e altre catastrofi. L’alternanza di fotografie in alta definizione e sobrie spiegazioni tecniche accessibili a tutti catturano sempre più l’attenzione, diventano una lezione sulla nostra terra, ma anche una testimonianza dell’amore con cui questa comunità sa essere attenta alla propria storia geologica, che viene pur sempre prima di ogni altra e determina ancora oggi i comportamenti umani come migliaia di anni fa; tanto più in una terra in cui gli insediamenti risalgono a epoche remotissime. Alla fine, un’ampia cartina mappamondo illustra le evoluzioni del globo. Si parte dalle prime fratture nella Pangea (100 milioni di anni fa), si risale pian piano fino a noi, dalla carta emergono lentamente le linee che conosciamo, scandite sempre dal tempo: 50 milioni, 10, ecc. È come assistere a una lunga nascita e arriviamo finalmente a noi, poi l’occhio mi corre più a destra, la simulazione non è finita, la didascalia recita: la terra fra 100 milioni di anni. L’inaspettata prosecuzione del percorso mi lascia senza fiato: guardo quella mappa, si fa fatica a riconoscere cosa sia accaduto. L’Italia non esiste più, rimangono solo due moncherini (forse la catena delle Alpi), che sembrano essersi mangiati non solo l’intera penisola ma anche una parte della Francia, che al tempo stesso è finita sulla Spagna dando vita a una informe e violenta sovrapposizione forzata.  Il ventre dell’Africa non è più gravido di terra ma di acqua, l’Oceano ha ridotto tutto il centro del continente a un striscia sottile, non ricordo nulla delle Americhe, perché l’immagine di quell’Europa strana e sinistra ha assorbito tutta la mia attenzione. Non ci saremo più e il pensiero corre a quell’invettiva di Pasolini, dove il poeta augura all’Italia di sprofondare nel Mediterraneo e di farla finita con la sua storia e la sua antropologia devastata. Andrà proprio così secondo la simulazione: esco con un senso di smarrimento che la ragione non riesce ad attenuare. 

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