PROMETEO FRA MITO E STORIA

Heinrich Friedrich Füger, Prometeo porta il fuoco all’umanità, 1817

Nel suo contesto mitologico Prometeo è una narrazione molto arcaica, appena successiva a quelle sulle origini del mondo. Figlio del Titano Giapeto e dell’Oceanina Climene, è facile notare come i genitori siano due forze della natura incontrollabili. Egli stesso viene rappresentato come un Titano, ma il personaggio appare ben più complesso perché il suo nome significa – nonostante che ciò sia probabilmente dovuto alla cattiva interpretazione di un termine, come sostiene Graves –1 colui che pensa prima di agire. Questo denota progettualità, un’attitudine che non appare consona a un Titano e che, falsa o meno che sia la sua origine, si manifesta però ampiamente nei suoi comportamenti. Tuttavia, come spesso accade con i miti, essi si ricordano solo per alcuni particolari che hanno colpito l’immaginazione, ma che rischiano anche di ridurre la portata dei personaggi e delle narrazioni. Prometeo, nella vulgata che tutti conoscono, è colui che ha rubato il fuoco agli dei per darlo agli uomini e per questo fu punito da Zeus. La storia è meno lineare, proprio a cominciare dalla sua relazione con Zeus; per questa ragione, in nota, riporto la narrazione intera del mito stesso con l’indicazione di tutte le fonti consultate al proposito.2 Prometeo è un rivoluzionario e questo spiega l’attrazione di Marx per il personaggio, ma anche tale definizione gli va stretta; oppure, dipende dall’estensione da attribuire al termine rivoluzionario. Egli sa tenere testa al potere supremo di Zeus, cerca pure di rovesciarlo, ma sa accettare anche il compromesso. Prometeo, specialmente in alcuni momenti, è la politica al livello massimo della sua nobiltà, ma il suo scontro con Zeus si conclude con un sostanziale pareggio: egli viene liberato, ma la vicenda non si conclude con il rovesciamento rivoluzionario delle gerarchie olimpiche e questo lascia a noi umani il compito di scegliere fra opzioni diverse rispetto alla questione del potere, che è un’altra delle problematiche che il mito solleva. Prometeo, dunque, non è solo la tecnologia, anche se questa è stata la valenza dominante e il modo in cui è stato recepito nella modernità; con il rischio però di considerarla tendenzialmente buona in sé o almeno neutra e neutrale. Rimane però il fatto che rubare il fuoco per darlo agli umani è prima di tutto un atto politico d’insubordinazione.

Ecco come Marx si occupa di lui nella sua tesi di laurea:

La confessione di Prometeo: (“francamente, io odio tutti gli dèi”) è la sua propria confessione, la sentenza sua propria contro tutte le divinità celesti e terrestri che non riconoscono come suprema divinità l’autocoscienza umana. Nessuno può starle a fianco. Alle tristi lepri marzoline, che gioiscono della apparentemente peggiorata condizione civile della filosofia, essa replica quanto Prometeo replica al servo degli dei Ermete:(“io, t’assicuro, non cambierei la mia misera sorte con la tua servitù. Molto meglio lo star qui ligio a questa rupe io stimo, che fedele messaggero esser di Giove”)3

Il modo in cui ne scrive parla da solo: Marx, coglie la determinazione rivoluzionaria di Prometeo, ignora il furto del fuoco e valorizza la sprezzatura nei confronti della divinità suprema e il valore civile della filosofia, che è prerogativa degli umani. Questo aspetto del mito verrà reiterato nei momenti in cui Prometeo si prenderà gioco di Zeus. Marx sembra dunque accogliere il mito, in primo luogo, per rivendicare la libertà dal vincolo religioso. La narrazione del mito, tuttavia, dice anche altro. Prometeo non riesce a rovesciare il potere supremo di Zeus, ma tutto quello che ha voluto fare per il genere umano è stato compiuto e i doni sono il fuoco, l’architettura e la lavorazione dei metalli e dunque non solo la tecnologia ma anche le scienze e in uno spettro molto ampio: l’architettura confina con l’arte. Tuttavia, a Marx sembra sfuggire la parte finale del mito e cioè l’assunzione di Prometeo fra gli immortali, atto che crea una connessione del tutto imprevedibile ma assai vistosa fra divinità e tecnologia: una conseguenza assai densa di futuro infausto per noi. Il riferimento a Prometeo manterrà nello sviluppo dell’opera marxiana, una forte dose di ambivalenza. La convinzione che lo sviluppo delle forze produttive avrebbe portato di per sé alla rottura dei rapporti di produzione si pone in termini deterministi e prometeici, mentre nel discorso sul general intellect, se lo s’intende dal punto di vista politico e cioè come telos rivolto all’autogestione da parte dei produttori e della società nel suo insieme (l’idea di una umanità socializzata evocata nella decima tesi su Feuerbach), il determinismo scompare, oppure è fortemente limitato e l’esaltazione della potenza lascia spazio invece alla cooperazione. Lasciamo a Marx le sue oscillazioni e domandiamoci: possiamo avere noi il medesimo atteggiamento di fronte ai disastri naturali e sociali causati dal sistema capitalistico, che vediamo ogni giorno? Non possiamo più e questo implica la rinuncia a qualsiasi forme di prometeismo intesa come lo è stata in passato, anche nell’esperienza storica del socialismo reale.

In che modo però Prometeo come mito e personaggio è stato accolto dalla cultura occidentale? In nota riassumo rapidamente i diversi modi in cui la sua azione è stata considerata, mentre prenderò in considerazione per esteso soltanto il Prometeo di Goethe, con una precisazione: la sola traduzione in italiano che io abbia trovato è quella di Baioni del 1967. 4 Sarebbe auspicabile che qualcun altro lo faccia. Il testo cui faccio riferimento è dunque quello facilmente reperibile anche in rete, spesso con l’originale in tedesco.

Copri il tuo cielo, Giove,

col vapor delle nubi!

E la tua forza esercita,

come il fanciullo che svetta i cardi,

sulle querce e sui monti!

 Ché nulla puoi tu

contro la mia terra, contro questa capanna,

che non costruisti,

contro il mio focolare,

per la cui fiamma tu

mi porti invidia.

Io non conosco al mondo

nulla di più meschino di voi, o dèi.

 Miseramente nutrite

d’oboli e preci

la vostra maestà

ed a stento vivreste,

se bimbi e mendichi

non fossero pieni

di stolta speranza.

Quando ero fanciullo

e mi sentivo perduto,

volgevo al sole gli occhi smarriti,

quasi vi fosse lassù

un orecchio che udisse il mio pianto,

un cuore come il mio

che avesse pietà dell’oppresso

Chi mi aiutò

contro la tracotanza dei Titani?

Chi mi salvò da morte,

da schiavitù?

Non hai tutto compiuto tu,

sacro ardente cuore?

E giovane e buono, ingannato,

il tuo fervore di gratitudine

rivolgevi a colui che dormiva lassù?

Io renderti onore? E perché?

Hai mai lenito i dolori di me ch’ero afflitto?

Hai mai calmato le lacrime di me ch’ero in angoscia?

Non mi fecero uomo

il tempo onnipotente

e l’eterno destino,

i miei e i tuoi padroni?

Credevi tu forse

che avrei odiato la vita,

che sarei fuggito nei deserti

perché non tutti i sogni

fiorirono della mia infanzia?

Io sto qui e creo uomini

a mia immagine e somiglianza,

una stirpe simile a me,

fatta per soffrire e per piangere,

per godere e gioire

e non curarsi di te,

come me.4

Il testo di Goethe è a mio avviso equamente distante da tutte le interpretazioni più canoniche del mito, citate nella nota precedente. Non so dire se i suoi versi in tedesco siano della stessa efficacia e bellezza di altre sue liriche e forse l’inesistenza di traduzioni recenti potrebbe far pensare che non si tratti dell’opera poetica più riuscita di Goethe; tuttavia, in questa mia riflessione vi è una oggettiva prevalenza del significato simbolico da attribuire alla sua figura mitologica e il testo di Goethe mi sembra a questo proposito sorprendente e anomalo. La prima scelta sorprendente è di far parlare Prometeo, perché in fondo ciò che colpisce nelle altre rappresentazioni è proprio il suo silenzio. Anche nei ritratti in cui è rappresentato dolorosamente angariato dall’aquila, Prometeo sembra quasi assente. Eroe o demone, oppure angelo ribelle a seconda delle interpretazioni, nonostante sia sempre presente in scena, tutto quello che possiamo dedurre del suo pensiero, lo si evince dai gesti e dai comportamenti: anche quando usa la parola – i suoi avvertimenti a Epimeteo per esempio – questa viene riportata da altri. Il tono della voce, nel testo di Goethe, oscilla fra indignazione e dolenza, dolore e invettiva. Il Prometeo di Goethe rifiuterebbe di essere accolto fra gli dei e infatti non vi è alcun cenno a questo nel testo. Vero uomo ma non vero dio, il Prometeo goethiano si distanzia dal tema eroico senza per questo diventare un antesignano degli anti eroi di cui sarà piena la letteratura novecentesca. Rimane un’ultima considerazione e cioè se l’invettiva che Goethe gli fa pronunciare sia nei confronti degli dei olimpici ma risparmi il dio cristiano. Il richiamo all’indifferenza rispetto alle sofferenze umane mi sembra del tutto riferibile anche a quest’ultimo. Goethe però non anticipa la morte di dio nietzschiana, mi sembra piuttosto che tutto il testo sia la dolente constatazione che lo spazio di dio è ormai uno spazio vuoto, che l’umanità se vuole salvarsi devo farlo da se stessa, senza bestemmiare la vita. Mi sembrano decisivi a questo proposito i versi finali che riporto di nuovo  qui di seguito:  

Credevi tu forse

che avrei odiato la vita,

che sarei fuggito nei deserti

perché non tutti i sogni

fiorirono della mia infanzia?

Io sto qui e creo uomini

a mia immagine e somiglianza,

una stirpe simile a me,

fatta per soffrire e per piangere,

per godere e gioire

e non curarsi di te,

come me.  

Joseph Karl Stieler, Ritratto di Johann Wolfgang Goethe, 1828

1 Robert Graves, Miti greci, alla voce Prometeo e Atlante: disponibile anche in rete in formato pdf.

2 Mi sono prioritariamente rifatto all’autorevolezza di Robert Graves, ma anche ad altre fonti, riportate nella Treccani, oppure da Graves medesimo nelle sue note. Come tutte le scelte è discutibile, la motivazione che mi spinge a ritenere la ricerca di Graves fondamentale, è il suo rigore da mitografo nel riportare tutte le versioni conosciute di un mito, con pochi ed essenziali commenti, che lasciano a chi legge le interpretazioni possibili e le ulteriori riflessioni. Le altre fonti principali, peraltro sempre citate anche da Graves, sono indicate di volta in volta. I miei commenti e note redazionali sono in tondo.  

Da un’unione tra il Mare e i suoi Fiumi nacquero le Nereidi. Non esistevano però uomini mortali; finché Prometeo, figlio di Giapeto, con il consenso della dea Atena, non li formò a immagine e somiglianza degli dei impastando la creta con l’acqua del Panopeo, fiume della Focide; Atena soffiò in essi la vita. Prometeo, il creatore del genere umano, che taluni includono nel numero dei Titani, era figlio della Ninfa Climene e del Titano Eurimedonte, oppure di Climene e Giapeto; suoi fratelli erano Epimeteo, Atlante e Menezio. II Gigante Atlante, il maggiore dei fratelli conosceva tutto quanto si cela negli abissi del mare; il suo regno si estendeva lungo una zona costiera scoscesa, più vasta che l’Asia e l’Africa messe assieme. La terra di Atlante giace al di là delle Colonne di Eracle e una catena di isole feraci la separa da un continente più lontano, che non è unito ai nostri …

Prometeo non agisce senza il consenso Atena anche se l’idea di creare il genere umano è sua, secondo questa versione; il particolare è assai interessante, come vedremo meglio nel prosieguo. Il racconto che segue, cioè la leggenda di Atlante, peraltro ben nota perché riferita anche da Erodoto, riguarda marginalmente i temi qui trattati, se non per un particolare che viene evidenziato alla fine, cioè quando si compie la sconfitta dei Titani ribelli. Così prosegue Graves:   

Prometeo, che era più saggio di Atlante, previde come sarebbe finita la rivolta dei Titani e preferì dunque schierarsi dalla parte di Zeus, inducendo Epimeteo a imitare il suo esempio. Prometeo era, in verità, il più intelligente della sua razza; aveva assistito alla nascita di Atena dalla testa di Zeus e la dea stessa gli insegnò l’architettura, l’astronomia, la matematica, la medicina, l’arte di lavorare i metalli, l’arte della navigazione e altre utilissime, che egli poi a sua volta insegnò ai mortali.

 Da questo passaggio si può capire come la capacità politica sia in Prometeo particolarmente acuta, in ogni momento della sua vicenda e sufficiente per dire che il pensare prima di agire sia effettivamente una costante del suo carattere, anche nei momenti in cui sembrerà il contrario. Non è un rivoluzionario astratto, sa destreggiarsi e anche creare il necessario consenso intorno a sé, riconosce l’importanza dei rapporti di forza, ma questo non gli impedisce di giocare le sue carte, a volte anche con ironia, come quando inganna Zeus, usando un trucco persino banale. Da questo momento in poi la narrazione diviene però meno lineare a causa delle interpolazioni che Graves spiegherà più avanti.

Ma Zeus, che aveva deciso di distruggere l’intero genere umano ed era stato distolto da tale proposito soltanto dall’intervento di Prometeo, s’irritò nel vedere gli uomini divenire sempre più esperti e potenti.

Anche in questo caso, egli esercita l’arte della mediazione piuttosto che quella del rovesciamento rivoluzionario.

Un giorno, nella piazza di Sicione, si accese una discussione a proposito delle parti di un toro sacrificato che si dovevano offrire agli dei, e delle parti che gli uomini potevano riservare per sé. Prometeo fu invitato a fare da arbitro. Egli allora scucì e smembrò il toro e ricucì la sua pelle in modo da formarne due grandi sacche, che riempì con le varie parti dell’animale. Una sacca conteneva tutta la carne, ma ben nascosta sotto lo stomaco, che è il boccone meno appetitoso, e l’altra conteneva le ossa, nascoste sotto un bello strato di grasso. Quando le presentò a Zeus perché scegliesse l’una o l’altra. Zeus si lasciò trarre in inganno e scelse la sacca con il grasso e le ossa (che da quel giorno rimasero la porzione degli dei) ma punì Prometeo, che rideva di soppiatto, privando gli uomini del fuoco. «Che mangino la loro carne cruda!» gridò. Prometeo si recò subito da Atena e ottenne che essa lo facesse entrare di nascosto nell’Olimpo. Appena giunto, accese una torcia al divampante carro del Sole e ne staccò una brace ardente, che pose poi entro il cavo di un gigantesco gambo di finocchio. Spenta la torcia, sgattaiolò via senza che alcuno lo vedesse e ridonò il fuoco al genere umano .

Questo passaggio è molto importante e la burla va sottratta alla sua apparente banalità, anche perché altre versioni presentano qualche contraddizione rispetto a questa e sembra che ci sia in questa ricostruzione la sovrapposizione di vicende diverse, come Graves peraltro avverte. L’intento di Prometeo è di dimostrare che gli dei, a cominciare da Zeus, sono in realtà le paure degli esseri umani e questo è l’aspetto di Prometeo che suscitava l’entusiasmo di Marx. Tuttavia, un altro particolare importanza è l’alleanza di fatto che nei momenti più decisivi, Prometeo trova in Atena. Principio femminile che si contrappone a Zeus? Per niente poiché Atena è nata dalla testa del padre e se mai rappresenta l’ambivalenza del maschile di cui Prometo è abile a servirsi ogni volta che lo deve fare. A questo punto, però, la storia s’ingarbuglia ancora di più:

Zeus giurò di vendicarsi. Ordinò a Efesto di fabbricare una donna di creta, ai quattro venti di soffiare in essa la vita, e a tutte le dee dell’Olimpo di adornarla. Codesta donna, Pandora, fu la più bella del mondo e Zeus la mandò in dono a Epimeteo, scortata da Ermes. Ma Epimeteo, che era stato ammonito da suo fratello di non accettare doni da Zeus, cortesemente rifiutò. Sempre più infuriato. Zeus fece incatenare Prometeo, nudo, a una vetta del Caucaso, dove un avido avvoltoio gli divorava il fegato tutto il giorno, un anno dopo l’altro; e il suo tormento non aveva fine, poiché ogni notte (mentre soffriva crudelmente per i morsi del freddo) il fegato gli ricresceva.

Zeus non affronta Prometeo direttamente e questo significa che lo teme. Il tentativo di sconfiggerlo tramite Epimeteo, però fallisce e questo particolare è più importante di quella parte della narrazione che riguarda Pandora, anche perché la connessione fra i due miti appare forzata e lo vedremo meglio subito dopo. Non è per nulla evidente perché proprio Pandora avrebbe dovuto ingannare i due fratelli. Il mito di quest’ultima andrà preso in considerazione in sé per quello che significa da un punto di vista della codificazione patriarcale, ma rispetto al nostro argomento sia l’atteggiamento prudente di Zeus, sia l’ammonizione di Prometeo a Epimeteo, sono ben più decisive. Così prosegue Graves:

Zeus, non volendo ammettere di aver dato sfogo al suo desiderio di vendetta, cercò di giustificare la propria crudeltà facendo circolare una falsa voce: e cioè che Atena aveva invitato Prometeo sull’Olimpo per un segreto convegno amoroso. Epimeteo, angosciato per la sorte di suo fratello, si affrettò a sposare Pandora, che per volontà di Zeus era stupida, malvagia e pigra quanto bella. Subito essa aprì il vaso che Prometeo aveva affidato a Epimeteo raccomandandogli di tenerlo chiuso, e nel quale si trovavano tutte le Pene che possono affliggere l’umanità: la Vecchiaia, la Fatica, la Malattia, la Pazzia, il Vizio e la Passione. Subito esse volarono via a stormo e attaccarono i mortali.

Ancor più di prima la connessione fra i due miti non appare affatto necessaria: che nesso c’è fra la punizione inflitta a Prometeo e la decisione di Epimeteo di sposare Pandora? D’accordo, Epimeteo è un avventato e infatti il suo nome significa colui che pensa dopo avere agito,  ma ci sono troppe contraddizioni e persino sull’apertura del vaso esistono due versioni. In una è proprio lui – Epimeteo – ad aprirlo e non Pandora. Insomma, un guazzabuglio, rispetto al quale tuttavia, ancora una volta Prometeo ne esce bene: è lui ad avvisare il fratello di custodire il vaso senza aprirlo. Le incongruenze nascondono sempre qualcosa di grosso che c’è eccome ed è proprio Graves ad affermarlo nella sua nota numero 8. La leggenda Prometeo, Epimeteo e Pandora, narrata da Esiodo, non è il mito originale ma una favola antifemminista inventata da Esiodo stesso, benché si ispiri alla leggenda di Demofoonte e Fillide. Il vaso di Pandora, in origine, conteneva anime alate. La rivolta dei giganti, di cui il mito di Prometeo è la parte successiva, è narrata essenzialmente da Apollodoro, Pausania e Diodoro Siculo. Euripide scrisse una tragedia dal titolo i Ciclopi. Altre fonti si ritrovano nell’Odissea, Eschilo scrisse una tragedia sul tema ma è andata perduta.

Fra le fonti autentiche citate Esiodo non c’è proprio e, in effetti, egli è poi il primo di una lunga tradizione misogina. Probabilmente il mito di Pandora andrà visto nella sua autonomia rispetto a quello di Prometeo, cercando se mai successivamente intrecci possibili. Il finale di questa parte della narrazione, tuttavia, merita attenzione perché in realtà i finali sono due e la differenza non è da poco. Vediamoli entrambi di seguito.

Ma la fallace Speranza, che Prometeo aveva pure chiuso nel vaso, li ingannò con le sue bugie ed evitò così che tutti commettessero suicidio. (tutti si riferisce al genere umano ndr.)

Solo la speranza, rimasta nel vaso tardivamente rinchiuso, da quel giorno sostenne gli uomini anche nei momenti di maggior scoraggiamento.

La prima delle due versioni attribuisce a una scelta di Prometeo l’avere inserito anche la speranza nel vaso, ma subito dopo ecco la diffamazione nei suoi confronti: seppure in modo obliquo. La speranza sarebbe solo un inganno per il genere umano, ma è lui Prometeo ad averla messa nel vaso e quindi ad averli ingannati. Ora che sappiamo che tutta la vicenda di Pandora va rivista in altro modo e contesto, rimane il tentativo di usarla nel finale per minimizzare l’opera di Prometeo. La seconda versione più neutra, rivaluta la speranza assegnandole un valore positivo. Con la chiusura di questa parte assai accidentata, torniamo alla narrazione principale. Avevamo lasciato Prometeo nel momento in cui, grazie alla complicità di Atena, ridona il fuoco all’umanità e sempre grazie a lei aveva acquisito anche altre abilità, dall’architettura alla lavorazione dei metalli, che aveva di nuovo donate agli umani. Così prosegue la narrazione principale:

Alla fine, non vi erano più qualità da assegnare al genere umano, ma Prometeo rimediò subito rubando ad Atena uno scrigno in cui erano riposte l’intelligenza e la memoria  che donò agli umani. Zeus in quel momento aveva deciso di distruggerli e non approvava la gentilezza di Prometeo per le sue creature; inoltre considerava i doni del titano troppo pericolosi perché gli uomini in questo modo sarebbero diventati sempre più potenti e capaci.

Questo finale appare più realistico nell’indicare le ragioni per cui Zeus decide di punire Prometeo: gli umani sono diventati troppo potenti, grazie a lui, mentre l’ordine degli dei o del solo Zeus era diverso, lasciare gli umani in una sorta di perenne minorità. La parte finale del mito, Graves la lascia ad altri autori, prima di tutto a Eschilo che racconta nel Prometeo liberato che fu Eracle a trafiggere con una freccia l’aquila che tormentava Prometeo e lo liberò spezzando le catene. Secondo il racconto contenuto nella Biblioteca dello Pseudo Apollodoro, durante un incontro tra Chirone  ed Eracle, alcuni centauri  attaccarono l’eroe che per difendersi usò frecce avvelenate da cui non si poteva guarire. Chirone venne inavvertitamente graffiato da una delle frecce. Non potendo morire perché immortale, cominciò per lui una sofferenza atroce. Zeus quindi accettò la vita di Chirone che poté finalmente morire in cambio dell’immortalità di Prometeo.

3 La tesi di laurea di Marx è facilmente reperibile in rete, la citazione in oggetto è riportata su diversi siti.

4 La tesi di laurea di Marx è del ’41 e si inserisce in un contesto in cui il dibattito su Prometeo è assai intenso. Tendenzialmente i romantici lo avevano rifiutato, tranne Shelley, la cui interpretazione è vicina a quella di Marx. Leopardi lo considera uno sconfitto, dal momento che si era fidato di una imperfezione: l’uomo stesso. Tuttavia è con la generazione successiva ai romantici che Prometeo comincia ad essere apprezzato come costruttore di civiltà, cui si oppone invece la reazione religiosa che lo vede come Satana, l’Angelo ribelle. Prevale sempre di più la prima ipotesi, anche perché il positivismo ne fa facilmente un proprio eroe. Il ‘900 non apporterà grandi modifiche a questa declinazione del mito se non nel caso della scrittore svizzero Carl Splitter che accentua i caratteri roussoviani del mito, rappresentando Prometeo come il ribelle che risponde soltanto alla propria coscienza e si batte contro le ipocrisie della morale comune. Infine Gide che lo attualizza e lo vede tormentato dalla propria coscienza piuttosto che dall’aquila che gli rode il fegato.

4 Johann Wolfgang Goethe – Prometeo (poema: Prometheus) (trad. it. di Giuliano Baioni, in Goethe, Inni, Einaudi, 1967)

GRAND TOUR: DA SCILLA A REGGIO CALABRIA

Reggio calabria

L’autobus arriva prima del previsto, addirittura con un’ora e mezza di anticipo e io mi sono svegliato da poco. Scilla è alle nostre spalle, abbiamo appena superato Villa San Giovanni, ma la strada che ricordo era assai più impervia di questa. Nel dormiveglia prima e ora con il brusco risveglio registro solo lentamente che non siamo più sulla vecchia provinciale, perché il tratto autostradale Salerno Reggio Calabria è stato finalmente completato e il pullman corre velocemente. Entriamo in città dal lungomare, non c’è anima viva, poi al centro di una piccola pineta: vedo le bancarelle di un mercatino domenicale e molti volti magrebini e africani. A sinistra e perpendicolari al viale alberato, le strade vanno bruscamente in salita, ma qui e là compaiono anche ampie scalinate che portano alle vie di mezza collina: poi, addirittura, un lungo tapis roulant. Un’immagine di molti anni fa mi torna alla memoria; anzi più di una e sono tutte televisive, in bianco e nero. Rivedo in rapida sequenza i blindati schierati in fondo alle strade che dalla collina scendono verso il mare; poi le barricate, gli scontri. La rivolta di Reggio Calabria del 1975 mi sembra giungere da un tempo remotissimo alla memoria, ma le strade sono ancora quelle e insieme alle lontane immagini torna il ricordo di una canzone – i treni per Reggio Calabria – di Giovanna Marini. Infine l’attentato in prossimità di Gioia Tauro, la determinazione di chi ci andò a Reggio: non io quella volta e non ricordo più neppure il perché. Alla stazione mi attende Eva in auto: ci dirigiamo verso la città alta. Sono stanco ma il viaggio verso casa è breve. Come avevo pensato l’auto sale perpendicolarmente e a ogni crocevia un viale corre parallelo al lungomare, le scalinate sono ancora più numerose di quelle che mi era sembrato di vedere … ma sono a Reggio Calabria o a Trieste? La sovrapposizione fra le due urbanistiche è impressionante e si conferma a ogni crocevia. Il senso di momentaneo straniamento viene superato di slancio quando Eva mi conferma che non sono il primo a osservarlo, anche se – aggiunge sorridendo – secondo D’Annunzio il chilometro e mezzo del lungomare reggino è il più bello d’Italia. In attesa di andarci a passeggio sorrido celando il mio scetticismo. Il pomeriggio stesso però lo dedichiamo proprio a quello e in effetti bisogna convenire con il Vate e – caso non frequente – il lungomare è stato preservato in modo assai intelligente da scempi urbanistici e altri mostri, nonostante le modifiche introdotte. L’idea d’interrare la ferrovia in un lungo tunnel che tuttavia bene si armonizza all’architettura monumentale precedente, è un esempio di equilibrio riuscito fra esigenze di modernizzazione e paesaggio urbano. Il tunnel del resto è dotato di sistemi di insonorizzazione e dall’esterno non ci si rende quasi conto del passaggio dei treni. 

La visita al castello aragonese si porta via una buona parte del mattino successivo e alla fine metto la mia firma sul registro dei visitatori, constatando che sono davvero troppo pochi per quello che offre.  Risalgo verso i viali più alti e periferici e penso che Reggio è una città architettonicamente fascista. Ne parlo con Paolo Rabissi, che mi conferma lo strano rapporto fra queste due entità urbane agli antipodi dello stivale italico. Anche Trieste lo era, “forse la più fascista d’Italia” aggiunge Paolo ricordando una frase detta da Mussolini, il cui significato era più o meno quello. La città, come tutte quelle di frontiera, era quella in cui la rivendicazione di italianità si sposava perfettamente con l’ideologia del regime. A Reggio la questione è prima di tutto un’altra, lascio per il momento sullo sfondo il tema direttamente e strettamente politico. Quello che mi colpisce girando per le strade è l’architettura delle case, delle palazzine, dei palazzi del potere amministrativo e giudiziario, a parte il mastodontico e modernissimo tribunale: è in questo tratto che trovo lo stile tipicamente fascista, così vistoso perché accompagna il visitatore a ogni strada. Il razionalismo, il gusto per un neoclassicismo fatto di linee sobriamente tracciate si riflette nella costruzione di palazzine basse che raramente arrivano ai cinque piani, monotone ma edificate secondo uno stile nel quale si riflette l’idea corporativa. Man mano che si va verso l’alto o verso i quartieri più popolari, le case e le palazzine sono più spoglie rispetto all’eleganza, comunque non vistosa, del centro o delle vie a ridosso del lungomare, ma il pattern rimane il medesimo, per trasmettere il senso di una appartenenza alla medesima comunità, divisa in classi ma segnata da un tratto comune. Peraltro la non eccessiva altezza degli edifici ha una sua logica antisismica e questo mette in luce un aspetto non troppo conosciuto. Si parla sempre del terremoto di Messina, ma si dimentica spesso di dire che esso coinvolse entrambe le città sullo stretto e che Reggio pagò un prezzo addirittura superiore, una distruzione totale degli edifici storici, ben diversi da quelli che si vedono oggi. Rimangono solo due tracce evidenti dell’architettura urbana reggina precedente l’evento catastrofico del 1908: due palazzetti purtroppo lasciati in un desolante degrado. I loro tratti sono inconfondibilmente arabeggianti, con piccole vetrate che sembrano quelle di una  moschea, colonne di capitelli che riflettono un’eleganza del tutto diversa, un po’ barocca, sfiorati dall’arte della miniatura tipicamente bizantina. La Reggio orientale e urbana scomparve con il terremoto, così come scomparvero i suoi abitanti, sostituiti da genti che provenivano dalle montagne e dalle colline intorno alla città. Si ruppe così la storia millenaria di un insediamento urbano che contende a Damasco e ad altre città del Medio Oriente, il primato dell’antichità delle origini. Facendo un rapido conto degli anni e ricordando le lentezze della burocrazia italiana e l’atteggiamento sostanzialmente coloniale dei suoi governi e la complicità delle classi dirigenti locali meridionali, si può comprendere come il grosso dello sforzo ricostruttivo della città dovette durare assai a lungo, finendo di completarsi proprio negli anni venti e trenta e dunque in pieno regime fascista. Da questo trova la sua origine la compattezza dell’architettura urbana di Reggio. Solo nel corso centrale, quello per intenderci dello struscio serale e domenicale, la mescolanza di stili porta il marchio di una modernità cresciuta dopo, nel secondo dopoguerra e ancor più si vede nella zone urbane più periferiche che hanno tratti di degrado simili a quelle di città più grandi. Infine la grande Reggio, dove la modernità senza alcuno stile è il tratto distintivo, comune ad altre città. Solo l’altezza degli edifici non cambia, tanto che in modo semplice Reggio è forse una città dai criteri antisismici meglio curati che altrove.       

DAVANTI ALLA SICILIA

Passeggio di nuovo sul lungomare assolato con la Sicilia lì a portata di mano, il pensiero corre a Goethe, ma anche a un libro recente scritto a quattro mani da un autore tedesco e da uno italiano: Mario Fortunato, un germanista che vive e lavora a Berlino e  Jan Koneffke, scrittore e traduttore dall’italiano e dal rumeno. Il loro libro mi è molto caro sia perché mi riporta alle atmosfere del Gran Tour di Goethe, sia perché mi riporta a Berlino da cui ormai manco da troppo tempo e all’amicizia con Franco Sepe. Fu proprio lui a suggerirmi la lettura di questo testo del 2016 dedicato proprio all’incontro fra Roma e Berlino. Cosa c’è di meglio che rileggerne alcune parti proprio qui sul bar di una spiaggia assolata, proprio davanti alla Sicilia e all’Etna in lontananza. Il libro è la ricostruzione di percorso personale, una sorta di iniziazione che ha come protagonisti il poeta tedesco e un giovane nordico contemporaneo che arriva nella Calabria di alcuni anni fa: fra il viaggio di Goethe e quello del ragazzo nordico ci sono di mezzo i secoli, ma certe descrizioni sembrano potersi scambiare il tempo, seppure con qualche differenza non da poco. Il poeta tedesco aveva vinto strada facendo i suoi pregiudizi da protestante tedesco nei confronti del mondo mediterraneo e aveva pure incontrato Faustina. La storia d’amore fra il norvegese contemporaneo e il ragazzo calabrese è una storia omosessuale, felice come l’altra.

Il tempo scorre, la lettura piacevole mi accompagna, ma intanto i canadair continuano a volare e a raccogliere acqua, ogni cinque minuti: il rumore è assordante e tutti gli sguardi sono rivolti alle colline circostanti e alla Sicilia. Smetto di leggere e osservo: non riesco a provare una vera apprensione, però la frequenza dei voli suscita un certo allarme. Fumo ovunque, incendi ovunque che nascono in continuazione. Non sono il solo a levare lo sguardo al cielo, del resto è un evento – questo degli incendi – che accade puntualmente ogni anno, ma la sensazione è che l’anno 2017 sia del tutto particolare. Abbandono il libro e sfoglio alcuni quotidiani sui tavoli del bar. La statistica è impietosa, il fenomeno è troppo abnorme per essere associato alle consuetudini tristi dell’estate italiana. C’è qualcosa d’altro? E che cosa? I giornali locali insistono a loro volta sull’abnormità del fenomeno, le ipotesi si susseguono e sono le solite cui si pensa: constato, che a parte alcuni casi, nessuno crede davvero ai piromani. La mia attenzione però si concentra su un articolo in particolare, che mette in relazione gli incendi con l’aumento degli sbarchi di migranti, superiore anch’esso agli anni precedenti. Un uomo seduto al tavolo di fianco al mio mi osserva, ci sorridiamo e salutiamo.

“Lei non è di qui e si sta domandando cosa stia succedendo …”

“Sì, stavo cercando di capire questo articolo, il solo che metta in relazione incendi e sbarchi …”

“Chi controlla gli sbarchi è lo stesso che causa gli incendi …”

Decido di non dire nulla.

“Fra un paio di giorni sarà tutto finito, vedrà.”

Saluta e se ne va.

La sera stessa al telegiornale arriva la notizia che il ministro degli interni Minniti è corso in Libia per raggiungere un accordo sugli sbarchi. Ora sappiamo molto bene cosa stava scritto in quel patto scellerato: i centri di detenzione, la Libia dei torturatori considerata porto sicuro e tutto il resto, ma allora non si capiva bene. Due giorni dopo però, Minniti arrivò in Calabria a magnificare l’accordo appena raggiunto: il giorno dopo cessarono gli incendi. Tornai a quel bar, ma lo sconosciuto con cui avevo parlato non  lo rividi più.     

  

Scilla.

GRAND TOUR: CIVITA DI BAGNOREGIO

Civita di Bagnoregio

Il viaggio verso Civita di Bagnoregio è una piccola odissea ed è proprio nel raggiungerla che è nata l’idea che io medesimo stessi facendo un viaggio nell’Italia del Grand Tour. Spostarsi nella campagna laziale se non si possiede un’automobile (la carrozza con cui Goethe si muoveva lungo la penisola), è impresa assai ardua e se si vuole farlo di domenica quasi impossibile: persino un viaggio Roma Viterbo in un giorno di festa è soggetto a molte limitazioni, mentre se si vuole raggiungere un piccolo paese da un altro bisogna andare a piedi o affidarsi all’autostop, un modo di muovermi che per età è finito fuori tempo massimo. Già, andare a piedi… quando ne parlai a Berlino con Franco Sepe, di questa mia avventura, fu lui ad esortarmi a lasciar perdere il grande Goethe e rivolgermi piuttosto a un altro viaggiatore meno noto del poeta, che – appunto – affermava già allora che per capire l’Italia era meglio affidarsi alle gambe che ad altri mezzi di trasposto: il suo nome è  J.G. Seume, il titolo in tedesco del suo libro Spaziergang nach Syrakus, un titolo intrigante e che sembrerebbe corrispondere a un certo modo di viaggiare. Passeggiata verso Siracusa suona infatti nella nostra lingua, con un intento probabilmente anche ironico. Non so se l’idea di viaggiare a piedi o con mezzi rudimentali gli venne solo per felice intuizione e vezzo, oppure perché si era convinto che quello fosse il solo modo di entrare in contatto con il paese reale. Fatto sta che mentre mi avvio con largo anticipo (forse un felice presentimento) alla fermata dell’autobus che mi è stata indicata niente meno che dall’ufficio del turismo, scopro che da lì non raggiungerò mai Civita di Bagnoregio. Mi aggiro con una certa ansia, chiedo ma ricevo risposte stranite, come se stessi domandando come si raggiunge New York e invece Civita è a meno di trenta chilometri. Alla fine mi ricordo che la signora che gestisce il bed and breakfast dove alloggerò mi aveva detto di lavorare a Viterbo e allora la chiamo e mi faccio guidare da lei alla fermata giusta. Tiro un respiro di sollievo e mentre attendo come tutti che il mezzo si materializzi finalmente dalla curva, arriva una signora e chiede un’informazione ai presenti. Le risponde sollecitamente un extracomunitario: preciso e calmo le dà tutte le indicazioni con chiarezza e dovizia di particolari. Che sciocco sono stato! penso fra me. Era a loro che avrei dovuto chiedere e non a occasionali passanti italiani. Abituati ad arrangiarsi, a correre da un luogo all’altro a tutte le ore, giostrandosi fra un lavoro e un altro, non possono di certo permettersi sbavature e ritardi perché potrebbero costare loro molto cari. E poi come tutti i popoli giovani e fuggiti da terre invase dalle nostre truppe o da noi predate, hanno voglia di vivere e capacità d’iniziativa; altro che lo sguardo spento del giovane cui avevo chiesto informazione, tanto spento da farmi pensare che stessi parlando a uno straniero che avesse difficoltà con la lingua. Invece no, ma era come se lo fosse, straniero a casa sua, non perché qualcuno gli stava rubando qualcosa, ma perché si era perso da solo, nella sua rassegnazione e ignavia. Arrivo finalmente a Civita e l’accoglienza della signora fa dimenticare tutto, come doveva avvenire anche nei secoli passati: affabilità e gentilezza, calore umano semplice e diretto. È lei a dirmi che di domenica sarà impossibile spostarmi da lì. Mi rassegno anch’io, lo avevano fatto anche Goethe e Seume.

Una delle scoperte più belle fatte nella città storica di Civita è il Museo delle frane, che a prima vista non sembra contenere qualcosa di così prezioso: ricostruisce le vicissitudini della città nei secoli, la lotta incessante per preservarne l’esistenza in mezzo a terremoti, catastrofi atmosferiche e altre catastrofi. L’alternanza di fotografie in alta definizione e sobrie spiegazioni tecniche accessibili a tutti catturano sempre più l’attenzione, diventano una lezione sulla nostra terra, ma anche una testimonianza dell’amore con cui questa comunità sa essere attenta alla propria storia geologica, che viene pur sempre prima di ogni altra e determina ancora oggi i comportamenti umani come migliaia di anni fa; tanto più in una terra in cui gli insediamenti risalgono a epoche remotissime. Alla fine, un’ampia cartina mappamondo illustra le evoluzioni del globo. Si parte dalle prime fratture nella Pangea (100 milioni di anni fa), si risale pian piano fino a noi, dalla carta emergono lentamente le linee che conosciamo, scandite sempre dal tempo: 50 milioni, 10, ecc. È come assistere a una lunga nascita e arriviamo finalmente a noi, poi l’occhio mi corre più a destra, la simulazione non è finita, la didascalia recita: la terra fra 100 milioni di anni. L’inaspettata prosecuzione del percorso mi lascia senza fiato: guardo quella mappa, si fa fatica a riconoscere cosa sia accaduto. L’Italia non esiste più, rimangono solo due moncherini (forse la catena delle Alpi), che sembrano essersi mangiati non solo l’intera penisola ma anche una parte della Francia, che al tempo stesso è finita sulla Spagna dando vita a una informe e violenta sovrapposizione forzata.  Il ventre dell’Africa non è più gravido di terra ma di acqua, l’Oceano ha ridotto tutto il centro del continente a un striscia sottile, non ricordo nulla delle Americhe, perché l’immagine di quell’Europa strana e sinistra ha assorbito tutta la mia attenzione. Non ci saremo più e il pensiero corre a quell’invettiva di Pasolini, dove il poeta augura all’Italia di sprofondare nel Mediterraneo e di farla finita con la sua storia e la sua antropologia devastata. Andrà proprio così secondo la simulazione: esco con un senso di smarrimento che la ragione non riesce ad attenuare. 

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